"Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e
ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte
spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero
avete già gustato come è buono il Signore.
Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta
e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre
vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un
sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio,
per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella scrittura:
Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi
crede in essa non resterà confuso" (1 Pietro 2,1-6)
"Nel linguaggio corrente la confessione per lo più evoca
soltanto il sacramento della penitenza e il confessionale. Ma
questo senso abituale non è esso stesso che un senso
derivato e particolarissimo. La confessione sia nel vecchio
testamento che nel nuovo testamento e nella tradizione cristiana
dei santi che confessano la loro fede, è in primo luogo la
proclamazione della grandezza di Dio e dei suoi atti salvifici, una
professione pubblica e ufficiale di fede in Dio, in Lui e nella sua
azione; e la confessione del peccatore non è vera se non
è proclamazione della santità di Dio.
La confessione di fede è un atteggiamento essenziale
dell'uomo religioso." (dalla voce Confessione nel Dizionario di Teologia
Biblica di Leon Xavier Dufour).
Tento ora di proclamare la santità di Dio confessando il
mio peccato.
Penso che i miei innumerevoli peccati si innestino sulla mia
vocazione. Non sono stato attratto dalle ricchezze, dal potere, dal
piacere, ma dalla prospettiva di una realizzazione di me stesso nel
servizio del prossimo, della società e della Chiesa.
Così ho pensato di essere chiamato al sacerdozio e alla vita
religiosa nella Compagnia di Gesù. All'interno di questa
vocazione, per innumerevoli fattori fra cui una destinazione dei
superiori religiosi all'apostolato sociale, si è andata
delineando una chiamata ad aiutare la Chiesa a vivere l'impegno nel
mondo, in particolare nella politica, a partire dal Vangelo e
quindi dal Mistero Pasquale.
Il mio primo peccato è quello di sentirmi protagonista della
mia vocazione, il che è grande contraddizione. Se c'è
vocazione il protagonista è Dio che mi chiama e non io che
sono chiamato. Se penso che il mio impegno parta da me non si
tratta di vocazione e se con le labbra parlo di vocazione e con il
cuore penso di esserne io lo scopritore e l'artefice, sono in
contraddizione, mettendomi al posto di Dio e, quel che è
più grave, usando il nome di Dio invano. "Non voi avete
scelto me, ma io ho scelto voi" (Giov 15,16).
Un altro peccato che riconosco in me è quello che chiamerei
gestione proprietaria della mia vocazione. La qualifica "mia"
può significare semplicemente "di me" oppure indicare un mio
possesso, una mia proprietà. In questo secondo caso non
sarebbe più una chiamata da parte di Dio ma una mia
invenzione, in cui mi servirei del nome di Dio. Invece di
riconoscere un dono di Dio che mi responsabilizza verso di Lui e
verso i fratelli, cerco di impossessarmi del dono per gestirlo a
mio vantaggio. La dipendenza da Dio è capovolta e
stravolta.
Accettare la vocazione significa aderire liberamente al disegno di
Dio su di me, essere tutto proteso a fare la sua volontà,
vivere non più per me stesso ma per lui. "Perché chi
vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi
perderà la propria vita per causa mia la salverà" (Mt
16,25).
L'animo proprietario nei confronti della mia vocazione mi porta
necessariamente a trascurare la vocazione degli altri o a
considerarla prevalentemente in funzione della mia vocazione. E
quindi a difendere me stesso e la mia vocazione. La difesa poi
porta all'offesa.
La difesa. In tutta la mia non breve vita ho sperimentato
l'amarezza di non essere compreso e, non di rado, di essere
catalogato, qualificato e giudicato, soprattutto da molti che
professano la mia stessa fede. L'esperienza si è andata
acutizzando. Con la maturità e l'anzianità mi sono
reso conto che l'incomprensione nei confronti di quanto andavo
proponendo non dipendeva solo dai miei molti difetti, ma comportava
anche una chiusura al Vangelo e soprattutto alla coerenza
evangelica nel rapporto con i poteri di questo mondo.
La chiusura degli altri al Vangelo da un lato mi conforta pensando
che mi è dato di soffrire qualche cosa per il Signore, ma
prevale l'amarezza per il fatto che tanti siano privati della buona
notizia, della grande speranza. Il mio peccato è stato ed
è quello di pensare di dover difendere me stesso, invece di
raccogliere tutte le energie per la difesa, o meglio per l'annuncio
e la testimonianza, del Vangelo.
"Gli apostoli se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati
oltraggiati per amore del nome di Gesù. E ogni giorno nel
tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto
annunzio che Gesù è il Cristo" (At 5, 41-42).
Per questo ho iniziato questa comunicazione con la citazione di 1
Pietro 2,1-6.
L'offesa. Che la difesa porti spesso all'offesa è un
criterio di lettura di tante storie personali e di tanta parte
della storia. E' anche un capitolo fondamentale del mio esame di
coscienza e della mia confessione della santità di Dio,
rivelatasi con pienezza nel Mistero Pasquale, e dei miei
peccati.
L'offesa nasce in me dalla reazione istintiva e immediata al torto
subito o, più in genere, dalla constatazione del male voluto
dagli uomini; non sono mai stato tentato di bestemmiare. Purtroppo
devo riconoscere la presenza dell'offesa anche nei miei piani
pastorali, non sempre privi di tattiche e di strategie.
L'offesa maggiore che pratico nei confronti di tante persone
è quella di ignorarle pur sapendo che il Signore è
morto ed è risorto per tutti e che il suo Spirito è
presente e operante in tutti.
In conclusione di questa mia confessione devo riconoscere che sono
ancora "armato" e per questo non sono "operatore di pace, figlio di
Dio" (Mt 5,9).
Meditando con un gruppo di amici uno scritto di J.B. Metz ci
siamo soffermati su due affermazioni: "Il primo sguardo di
Gesù non si rivolgeva al peccato degli altri, ma alla
sofferenza degli altri. Il peccato per lui era anzitutto rifiuto
della partecipazione al dolore degli altri, era rinuncia a pensare
oltre l'oscuro orizzonte della propria storia di sofferenza, era,
come l'ha definito Agostino 'il ripiegamento del cuore su se
stesso', una consegna al narcisismo latente della creatura". "La
dottrina della salvezza cristiana ha troppo drammatizzato il
problema del peccato, mentre ha relativizzato il problema del
patire" (Johann Baptist Metz, Memoriam passionis nel pluralismo
delle religioni e delle culture, in "Il Regno", 15 dicembre 2000,
pp. 770-771).
Ricordando un'ottima meditazione di J.- MR. Tillard su "il peccato,
radicale povertà dell'uomo (in "La salvezza mistero di
povertà", Queriniana, 1964, pp. 11 ss.), mi è
sembrato che il termine "comunione" aiutasse a capire il rapporto
fra sofferenza e peccato: chiamati alla comunione con Dio e con
tutta l'umanità, pecchiamo e soffriamo per la negazione di
tale comunione.
Ciò ci aiuta a discernere ai nostri giorni il dilagare del
peccato e della sofferenza a causa delle immense forze che
distruggono la comunione, e al tempo stesso a riconoscere il
bisogno e la speranza di comunione presenti nel più intimo
di ogni donna e di ogni uomo come capacità di resistenza e,
in Cristo, certezza di vittoria su tutte le forze avverse.
L'errore della Chiesa non sta quindi nell'aver drammatizzato il
peccato, ma nell'averlo considerato come trasgressione della legge
più che come mancanza di comunione e di carità.
Alla luce della vocazione alla comunione prendiamo coscienza del
peccato e della sofferenza del mondo, dell'opera dello Spirito
Santo nei cuori con l'aspirazione alla comunione.
Le creature sono fatte per la comunione con il Creatore e fra di
loro. Il figlio di Dio si è fatto uomo, è morto,
risorto e asceso al cielo per la comunione di tutti con il Padre e
fra di loro.
In questa luce prendiamo coscienza: più con il silenzio che
con le analisi, cercando i dati ma evitando che tale ricerca
soffochi la capacità di compatire chi è vittima e chi
è responsabile della sofferenza altrui; tutti siamo da
compatire.
Prendiamo coscienza del peccato e della sofferenza di un mondo in
via di profonde trasformazioni: mondializzazione, globalizzazione,
riduzione di tutto a mercato, convinzione di ineluttabilità,
venir meno delle resistenze, eccetera.
Lo Spirito Santo opera in tutti i cuori: la rivelazione trinitaria.
Lo Spirito di Dio, inviato dal Padre e dal Figlio, riempie
l'universo.
L'aspirazione alla comunione è presente in ognuno, la sua
negazione è la sofferenza e il peccato dell'umanità.
Il padre Sobrino in una riflessione sul terremoto nel Salvador (in
"Aggiornamenti Sociali", 3/2001, pp. 233-240) riconosce una
"santità primordiale" nel desiderio di vivere e di aiutare a
vivere: uno stimolo per noi ad adorare lo Spirito di Dio presente
nell'aspirazione universale alla comunione. Adorazione con cui
entriamo, anche mediante l'azione, nelle dinamiche del Regno.
Dopo aver tentato di proclamare la grandezza di Dio confessando
i miei peccati, provo a riflettere e a comunicare sulle carenze che
vedo nella Chiesa, sempre al fine di riconoscere la grandezza di
Dio.
Che dice oggi la Chiesa al mondo? Quale messaggio il Mondo riceve
dalla Chiesa?
Interrogativi che sembrano assurdi data la complessità della
Chiesa, del Mondo e dei rapporti fra la Chiesa e il Mondo. Eppure
penso che si debba porre questa questione globale per verificare se
nella Chiesa l'esortazione al bene non ha preso in qualche modo il
sopravvento sull'annuncio della bontà di Dio.
Provo ad impostare la domanda e la risposta.
Quale Chiesa?
Nonostante il Concilio Vaticano II è invalsa di nuovo la
tristissima abitudine di ridurre il significato di Chiesa alla
gerarchia e a pochi altri laici considerati rappresentanti
qualificati del pensiero e del sentire della Chiesa.
Io penso ovviamente alla Chiesa come la intende la Costituzione
conciliare Lumen Gentium:
popolo di Dio con i suoi pastori, senza ovviamente escludere quelli
che contano di più secondo una valutazione mondana. Io sono
nella Chiesa come uno che conta e al tempo stesso come uno, per
molti versi, scartato.
Provando a riflettere sulle carenze della Chiesa trovo gli stessi
peccati che riconosco in me stesso. Non mi meraviglio perché
sono un figlio della Chiesa e perché ognuno è
sensibile a ciò che sperimenta in se stesso. Cerco di aver
ben presente che il mio sguardo è parziale e forse
distorto.
Mi vengono alla mente delle bellissime considerazioni di S.
Gregorio Magno:
"Tacere non posso, e tuttavia ho un gran timore parlando di ferire me stesso. Parlerò, parlerò in modo che la spada della parola di Dio arrivi al cuore di altri anche per mezzo mio. Parlerò, parlerò, affinché la parola di Dio risuoni per mezzo mio anche contro di me. Non nego di essere gravemente colpevole, riconosco il mio torpore e la mia negligenza. Forse per il pio giudice il riconoscimento della colpa varrà come richiesta di perdono!".
La Chiesa in quanto è animata dallo Spirito Santo, la cui
azione si estende ben al di là delle nostre limitatissime
capacità di riconoscerla – lo Spirito di Dio riempie
l'universo, dice l'antifona della Messa di Pentecoste- certamente
annuncia in primo luogo la bontà di Dio. Il Signore ha
detto: "Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre
manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e
vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Giov
14,26).
Ma la Chiesa è anche opera nostra con tutti i limiti e le
distorsioni proprie delle realizzazioni umane. C'è anche
ovviamente un modo solamente umano di ricevere il messaggio della
Chiesa.
A un primo sguardo globale, ma quanto è possibile sereno,
penetrante e soprattutto amante, la Chiesa nel mondo si presenta
come una grande predicazione, una permanente esortazione, un
progettare educativo, culturale, sociale e politico, una grande
forza spirituale cui non mancano mezzi materiali. E in tutto questo
la Chiesa cerca di dire al Mondo quello che tutte le donne e tutti
gli uomini devono fare, quale è la volontà di Dio nei
loro confronti.
Il Vangelo, però, che è in primo luogo l'annuncio di
quello che Dio fa per noi, rischia di rimanere in secondo
piano.
Così la Chiesa si realizza come proposta di osservanza di
leggi civili, ecclesiastiche e morali, come invito ad essere bravi
e buoni, a tendere alla santità e all'eroismo. La Chiesa
cresce come organizzazione e, non di rado, fa dell'organizzazione
il suo obiettivo principale il che comporta disciplina,
rafforzamento ed accentramento del potere. Ma per affermarsi come
forza nel Mondo occorre difendersi e la difesa porta normalmente
all'offesa. La Chiesa diventa così una "forza armata" se per
arma s'intende ogni oggetto materiale o spirituale di cui ci si
serve per difendersi e per offendere.
E la pace?
Qualche considerazione più puntuale
L'osservanza delle leggi
"Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù
Cristo" (Giov 1,16-17)
In quello che la Chiesa dice al mondo il riferimento al Vangelo molto spesso avviene in termini di principi, di valori, di norme lasciando in secondo piano il Kerigma che è il vero fondamento dell'etica cristiana.
Nella predicazione e nella catechesi si insiste su quello che un cristiano deve fare, dicendo "andiamo al concreto". L'annuncio del Mistero Pasquale è spesso considerato un discorso astratto su cui non si deve indugiare, per lasciare spazio a quel che più conta, quello che dobbiamo fare noi come singoli e come cristiani.
L'esortazione ad essere bravi e buoni
S. Filippo Neri diceva: "siate buoni se potete". Era una saggezza profondamente evangelica.
Il Signore dice: "nessuno è buono, se non uno solo, Dio" (Lc 18,19).
L'esortazione ad essere bravi e buoni sembra essere il tema dominante in quello che la Chiesa ha da dire al mondo, a partire dai primi ammonimenti ai bambini fino ai messaggi politici, quelli che partono dall'alto e quelli che vengono dal basso.
Buoni e bravi secondo i modelli prevalenti nelle società in cui uno vive, interpretati da chi conta di più in questa società.
Bravi e buoni, tranquilli e ben inseriti nell'ordine vigente, funzionali alle logiche economiche, oggi globalizzanti.
L'esortazione ad essere buoni e bravi, specialmente quando si fa ripetitiva e insistente e quando rimane nel generico – siate buoni e bravi in tutto - comporta grandi rischi: lo scoraggiamento di chi non ci riesce, la vanagloria e la superbia di quelli che vengono riconosciuti come i migliori. L'esortazione all' emulazione, ad essere i primi può essere massimamente antievangelica, eppure è praticata molto spesso nelle scuole e in altre realtà educative cristiane. In genere poi si tende a creare delle élites e si mortifica il popolo che pure è amato da Dio.
I personaggi
Recentemente mi hanno presentato come un personaggio ed ho provato un vivo disappunto. Non solo perché sono cosciente della mia miseria ma perché vedo nella Chiesa una tendenza ad esaltare la grandezza umana a prescindere dal mistero infinito di Dio. C'è in questo una tendenza idolatrica e la paura di incontrarsi con la santità di Dio. Non basta per correggere certe esaltazioni mondane la clausola finale: " e tutto questo è un dono di Dio".
Bisognerebbe forse meditare il salmo 63: "un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso" e poi "chi si gloria si glori nel Signore" (1 Cor 1,31).
Cerchiamo Dio in tutti e tutti in Dio.
Il moralismo inteso e vissuto come primato dell'etica sulla fede attraversa tutta la vita della Chiesa: dall'intimità del confessionale dove si va molto spesso per regolare i conti con l'osservanza della legge morale e dei precetti della Chiesa, lasciando in secondo piano il Mistero Pasquale, nonostante la bella formula dell'assoluzione, fino all'esortazione all'impegno nel Mondo. La preoccupazione per il moralismo non è astratta e spiritualistica; basta riflettere sulla perdita di attenzione e di amore per la povertà e l'umiltà, virtù essenziali della vita cristiana e alla incapacità a resistere alla seduzione delle ricchezze, del potere e dell'immagine.
L'ascetismo, come ricerca di dominio su se stessi, come impresa umana di altissimo livello, lasciando in secondo piano l'azione di Dio, è un peccato che oggi sembra meno presente nella Chiesa, ma forse dipende più da un generale indebolimento che da un risveglio della fede.
L’invito alla santità
La Chiesa risuona dell’esortazione alla santità.
E’ una cosa molto bella e fondata sulla parola di Dio.
C’è tuttavia un rischio ed è quello di proporre
la santità come un’impresa nostra, dimenticando che
è azione dello Spirito in noi.
All’inizio della mia vita religiosa veniva ripetuto in modo
ossessionante “fatevi santi”, con poche spiegazioni di
come lo Spirito operi in noi la santità nella continua
conversione dei cuori.
Ho letto recentemente con gioia i nn. 30 e 31 della lettera
apostolica “Novo millennio ineunte" con un richiamo del Papa
alla radicalità cristiana. Mi ha lasciato però
perplesso l’invito a una pedagogia della santità che
fa pensare ad un nostro protagonismo.
L’eroismo
Mi ha sempre stupito il discorso della Chiesa sull’eroismo – la prova delle virtù esercitate in grado eroico nelle cause di beatificazione – perché non mi sembra che l’eroe sia una figura biblica. Non penso che venga in mente di definire Gesù come un eroe. Di conseguenza non vedo perché dovremmo esortarci ad essere tali nella sequela del Signore.
L’organizzazione
La Chiesa è forse la più grande organizzazione che
esista al mondo. l’organizzazione fa pensare a mille cose
positive: dalla razionalità nell’agire, alla ricerca
dei mezzi adatti al fine che si vuol raggiungere, alla divisione
dei compiti… fino al corpo mistico di Cristo. E
l’organizzazione della Chiesa è presente a tutti i
livelli: dal Vaticano al gruppo dei chierichetti della parrocchia
di campagna.
Ma l’organizzazione può con facilità sottrarre
l’attenzione a quello che lo Spirito opera in noi e negli
altri. La razionalità può mortificare la
spiritualità. Proviamo a verificare la nostra sapienza
organizzativa con la sapienza di Dio, magari rileggendo il secondo
capitolo della prima lettera di Paolo ai Corinzi.
L’accentramento
E’ una logica conseguenza del primato
dell’organizzazione nella vita dello Spirito.
Una forza di questo mondo.
Più nella prassi che nella teoria, spaventati dalle forze
mondane si è portati facilmente a entrare in competizione
con esse, oscurando la luminosa novità del Vangelo: la forza
di Dio che entra nel mondo attraverso la debolezza.
Armi di difesa
In un mondo chiuso e spesso nemico del Vangelo occorre difendersi e per questo ricorrere alle armi, per lo più non materiali, che possono essere ancor più distruttive.
Dalla difesa all’offesa
Non è così una follia scorgere nella Chiesa alcune caratteristiche di una “forza armata” che non si schiera forse nei campi di Marte ma si annida nel cuore di cristiani trasformati in bunker. E la pace?
La salvezza non si lascia gestire in alcun modo
C’è un testo bellissimo del P. Saverio Corradino
s.j. 1 di
cui non posso non raccomandare la “meditazione”. Ben
sapendo che molti avranno difficoltà a leggerlo come si
deve, provo a riportarne qualche passaggio.
Si tratta di una riflessione teologica spirituale che parte dalla
lettera di Paolo ai Romani con un’attualizzazione che tiene
ben presenti i problemi dei cristiani e della Chiesa ai nostri
tempi, in modo che siano questi ad essere attualizzati dalla parola
di Dio.
In questo scritto P. Corradino comunica in modo evidente la sua
esperienza e così stimola ognuno di noi a confrontarsi
personalmente con l’Evangelo, ed a far questo nella Chiesa
che è il soggetto continuamente chiamato alla
conversione.
In particolare penso che dovremmo approfondire il tema della
salvezza che non si lascia in alcun modo gestire considerando la
Chiesa nei grandi processi di globalizzazione.
Ecco alcuni passi del testo di Corradino: La salvezza non si lascia
gestire in alcun modo
“Propriamente una simile tesi è centrale nella teologia di s. Paolo. Viene svolta per esteso e con un forte coinvolgimento personale, nella Lettera ai Galati, e ha poi nella Lettera ai Romani la sistemazione definitiva, più ampia e più libera, ma sempre venata di toni drammatici.
Il primo aspetto, più ovvio ma meno pregnante, della salvezza è quello della liberazione dal peccato, o equivalentemente, nel linguaggio biblico, della “giustificazione”.
Già dall’Antico Testamento è chiaro che nessuno può pretendere da Dio di essere dichiarato giusto. Perfino un uomo irreprensibile come Giobbe, di cui Dio stesso ha testimoniato la perfetta innocenza (Gb 1, 8; 2,3) se sotto il peso di una prova interminabile vuole entrare in processo con Dio perché non si sente colpevole, non viene fondamentalmente smentito, ma deve riconoscere che quanto ha osato fare era un gesto di insensata leggerezza (Gb 38, 2; 40, 4).
Per il Nuovo Testamento è giusto colui che è una cosa sola col Signore perché il Signore lo ha identificato a sé rendendolo partecipe della sua morte e resurrezione, donandogli lo Spirito, e quindi la sua condizione divina, benchè nella miseria e fragilità e mortalità della carne umana.
Si tratta di una giustizia che non dipende dal contesto culturale in cui si è stati educati: nasce solo dall’iniziativa dello Spirito di Dio, che guida l’uomo a riconoscersi – ad accettare via via di riconoscersi – in un volto misteriosamente familiare, che diviene il suo volto: il volto di qualcuno che è umiliato e sconfitto e messo gratuitamente a morte, e sa perdonare ed è perdonato e ha vinto, perché Dio ha vinto con lui e per lui.
A me che sono pigramente convinto di essere più o meno in regola con Dio (per la solita illusione che viene dal confronto con gli altri) si fa evidente che al di là di ogni scrupolo la vita cristiana per me è ancora tutta da cominciare: un’impresa per cui mi manca il fiato e forse perfino il tempo. A questo punto la fede si esprime soprattutto come certezza – e come umiltà da accettare – che Dio e Dio solo è in grado di fare l’impossibile e colmare in me la lacuna grave, ed è pronto a farlo, se insisto a rimettermi a lui. Non è che mi sia dato di seguire passo passo il cambiamento e misurarne i progressi, tenendo la mia crescita spirituale sotto controllo: sarebbe di nuovo l’atto di gestire la mia salvezza. Il risanamento sarà graduale, ma non destinato ad appagare il mio amor proprio, o il sentimento di essere l’eroe di una grande avventura interiore.
Tutto rimane dentro l’iniziativa di Dio, e non ne esce mai: il credente è qualcuno che sta in ascolto, e veglia in attesa, e risponde prontamente a quell’iniziativa; e a cui pure tocca prendere iniziative, per cercare di fare la volontà di Dio, o almeno per esplorarla, nei molti tempi del silenzio di Dio. Le sue iniziative verranno poi quasi sempre smentite: cioè risulterà che nonostante la buona volontà l’uomo non ha scelto il meglio; e che deve lasciarsi smentire, perché la via giusta gliela insegna Dio solo, ma a prezzo di errori e travisamenti che diverranno, per chi è umile, un tesoro di esperienza spirituale, a utilità sua e di altri.
Ma occorre una riflessione ulteriore, innanzitutto sulla persona di Gesù: che è la vera novità teologica del discorso di Paolo. L’uomo non opera la propria salvezza: essa viene da Dio Padre, e per arrivare all’uomo attraversa tutta l’esistenza del Signore, la sua divinità e umanità, la vita e la morte e la nuova vita, il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Ma quell’itinerario onnicomprensivo ha un momento centrale che dà ragione del resto, ed è anche il punto dove si inserisce la salvezza: non propriamente l’incarnazione bensì il mistero pasquale. Il mysterium fidei: un evento a cui ho accesso diretto attraverso i segni della celebrazione eucaristica; e in cui l’esistenza umana del Signore mi si fa immediatamente disponibile, si apre a me, mi si spalanca come un corpo spaccato dalle ferite e dalla morte, mi chiude in sé nell’atto di risaldarsi su di sé con la resurrezione, mi tiene abbracciato e unito a sé in una comunione che vuol essere definitiva.
C’è poi anche la mia parte, in tutto questo: che è di aprire il cuore alla speranza e alla gratitudine, e stendere le braccia per accogliere e per essere accolto e farmi salvare: la fede appunto. Non è davvero la parte di chi amministra in modo autonomo e con incontestabile dignità la propria salvezza.
La mia salvezza la gestisce lo Spirito del Padre e del Figlio: ecco la ragione ultima, e insormontabile, perché non mi è dato di gestirla in alcun modo.
Di fatto la Lettera ai Romani non ha il posto che le spetta nella pratica corrente della vita cristiana: rimane un testo marginale e quasi ignorato.
La conversione – la giustificazione – è
l’inizio della salvezza: e la salvezza non si lascia gestire
in alcun modo.
Ho trattato il dono di Dio come cosa mia, con animo proprietario:
l’atto di gestire dice appunto questo, lo ius utendi e abutendi che definisce la
proprietà. Non c’è uomo che non sia tentato di
appropriarsi del dono di Dio: le doti naturali, i momenti di
maggiore verità di fronte a Dio, l’esperienza
spirituale del mistero, la testimonianza di fede resa in condizioni
difficili, il bene fatto agli altri, i “meriti”
accumulati durante la vita. Ho lavorato per il Signore e non mi
accorgo che per amor proprio i frutti li sto regalando
all’avversario; e che un poco alla volta, in misura via via
sempre più radicale, gli regalo tutto quello che Dio mi
dà per il suo Regno. Non c’è da meravigliarsi
se la gioia profonda del tempo della mia conversione si va
trasformando in disgusto inafferrabile, in inquietudine, in perdita
di equilibrio interiore, in continua insoddisfazione. E ormai
conosco (ci sono chiuso dentro) l’ottusità,
l’opacità della coscienza che non sa più
pregare.
In ogni crisi, o decadimento graduale della vita cristiana il
rimedio c’è, è dato di trovarlo nella persona
di Gesù, nella sua autorità di Signore. Tale rapporto
con lui ha nella Lettera
il nome di “fede”, pistis. Tuttavia tale termine somiglia
poco all’immagine che se ne ha correntemente, di un abbandono
al gioco dei sentimenti, o di un’emozione collettiva, o quasi
di un sacrificio della ragione; di un bisogno di dipendere
dall’autorità altrui o dal conforto materno di un
grembo di chiesa. Stati di coscienza reali e non immaginari perfino
tra clericali di parte cristiana; ma soprattutto comuni nelle
religioni borghesi, dove stanno a casa propria perché ne
sono originari. Nell’un caso e nell’altro la presenza
di Gesù si fa evanescente, o è sostituita da un
succedaneo.
Sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo Testamento la fede
invece è l’atto con cui l’uomo, posto di fronte
alla propria impotenza si rimette a Dio come unica fonte di
salvezza: sa che c’è ed è Dio, e che si
può contare incondizionatamente su di lui. Essa si fonda
sulla veracità di Dio, e sulla fedeltà alle promesse
con cui ha dato avvio alla Storia della salvezza. Ma pure sulla
consapevolezza dell’uomo della necessità di essere
salvato.
Un equivalente empirico ed effettivo della fede è la preghiera, purché non si intervenga a organizzarla senza discrezione e a dosarla con la pretesa, ancora una volta, di gestire la propria salvezza. La preghiera, quando c’è davvero, è presenza attiva dello Spirito di Dio nel nostro spirito, parola che lo Spirito di Dio rivolge in noi e per noi a Dio come Padre, comunione in atto con la vita di Dio. Anche questi sono dati trascendenti che fanno parte dell’atto di fede. La preghiera comporta, in profondo, l’esperienza della santità di Dio e quella di sapere di chi sono io in realtà: l’uomo non si conosce mai sul serio per quel che è, se non quando si incontra con Dio. Il santo ha la grazia di vedersi, di guardare da vicino la propria insignificanza e peccaminosità; ma anche di accorgersi che Dio è Dio. Il confronto lo libera e lo esalta: la pienezza di Dio riesce meglio percepibile quando non ha più il peso del proprio nulla: la preghiera, quando è vera (cioè rivolta alla santità di Dio, e non a un’immagine informe in cui io proietto me stesso), equivalentemente è conversione".
Il possesso
“Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16,13; Mt 6,24).
Per aiutare chi è nel bisogno ci vogliono i mezzi
adeguati.
Per contare nel mondo serve il potere.
Per stare nel mondo dominato dall’economia occorre acquistare
capacità manageriali.
Per formare i giovani, e i meno giovani, ci vogliono le strutture
adatte.
Per dedicarsi alla ricerca sono necessari molti mezzi e una vita
confortevole.
E per annunciare e testimoniare il Vangelo?
E per essere uniti a Dio nella preghiera?
Ricchezze, potere e immagine non si lasciano possedere e tendono ad
asservire chi li ricerca.
Adattandosi al mondo si perde la capacità di discernere,
cioè di capirlo alla luce della Parola, così si
respinge il Vangelo o almeno si cerca stoltamente di tenerlo
separato dal proprio impegno nel mondo.
Accusiamo il pensiero laico che vorrebbe che la fede rimanesse un
fatto privato; ma non è questa la nostra prassi quando
affermiamo di rifarci ai principi del Vangelo, quasi fosse un
codice di morale sociale, e mettiamo da parte la morte, la
resurrezione e l’ascensione al Cielo del Signore, che sono il
fondamento dell’etica cristiana?
Ci sono nella Chiesa testimonianze luminose di servizio dei poveri
con mezzi poveri. Ma questo non autorizza altri a servire i poveri
e i ricchi con mezzi ricchi. Tutta la Chiesa è chiamata a
seguire il Signore per la salvezza del mondo, grande mistero di
povertà.
La Chiesa possiede la verità?
Ad alcuni amici delle Acli, perplessi perché un loro
dirigente molto bravo si dichiarava non credente, dissi che anche
io, pur non avendo dubbi, non ero credente in quanto gran parte
della mia vita non era ordinata alla gloria di Dio ma ripiegata su
me stesso. E per quella piccola parte che mi sembra sia vissuta
nella fede, nella speranza e nella carità non mi sembra di
poter dire in alcun modo di essere possessore: è lo Spirito
di Dio che mi possiede.
Se la verità è il Vangelo non siamo noi a possederlo
ma è chiaramente lui che ci possiede. Noi siamo stati
conquistati al Regno, non siamo i conquistatori nemmeno della
minima parte di questo.
Tutta la Chiesa, intesa come la intende il Vaticano II, non
possiede la verità e non è pienamente credente: per
questo si è sempre riconosciuta peccatrice.
Ma forse la Gerarchia, “coloro i quali con la successione
episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”
(DV 8) possiedono la verità? Anche il loro carisma non
è un possesso di verità ma un essere posseduti dallo
Spirito per il bene di tutta la comunità.
Un amico buono e maturo mi disse che, avendo ricevuto
un’educazione cristiana in una scuola dei gesuiti, pensava di
essere a posto in quanto a vita cristiana, ma quando era venuto in
contatto con il suo parroco, di una grossa parrocchia popolare, si
era accorto di quanto fosse carente il suo “possesso della
verità”.
Mentre mi sento avvolto nella mia miseria, nella consapevolezza di quanto nella vita ho girato a vuoto, e nella ripugnanza verso la morte, quella mia come quella di tutti gli uomini, scarsamente illuminata dalla fede nella risurrezione, sento di dover ancora lanciare un appello, che più precisamente è un’invocazione di aiuto.
A nome di chi, rivolto a chi e per fare cosa?
A nome di tutti i piccoli, i poveri, i sofferenti: chi non lo
è? A nome di tutti i peccatori: chi non lo è? A nome
di quanti non si considerano in cammino verso la perfezione morale
e la santità, né si sentono forti, coraggiosi e
generosi, ma piuttosto deboli, fragili e timorosi.
L’appello, o meglio l’invocazione di aiuto è
rivolto alla Chiesa, popolo di Dio, e ai suoi pastori.
Quel che chiedo è che tutti siano aiutati a credere in Dio e
in colui che ha mandato, Gesù Cristo, morto, risorto e
asceso al cielo per la salvezza di tutti.
Per questo chiedo alla Chiesa che in primo luogo annunci e
testimoni il Vangelo, l’amore infinito di Dio, il Mistero
Pasquale: prima Dio poi l’uomo. Spesso l’attenzione, la
sensibilità e i discorsi della Chiesa sembrano rivolti in
primo luogo alle cose degli uomini e in particolare ai loro
peccati. Una bella frase del Papa: “l’uomo è la
via della Chiesa” è stata non di rado percepita come
alternativa o sostitutiva di quel che ha detto il Signore:
“io sono la via, la verità, la vita”.
Chiedo alla Chiesa di non proporre la conversione come un riordino della nostra vita in cui impegnarsi prima di rivolgersi a Dio e al prossimo con la fede, la speranza e la carità. E che non si dica che dobbiamo farci santi senza spiegare che è lo Spirito di Dio che ci santifica mentre siamo e ci sentiamo miseri peccatori. Si parli meno di eroismo e più di umiltà. La radicalità cristiana è in primo luogo quella di Gesù Cristo che ci amò “fino alla fine” (Giov. 13,1).
Chiedo al popolo di Dio di essere attento a tutte le infermità fisiche e psichiche per aiutare quanto si può, ma prima di tutto per rispettare e riconoscere un prolungamento della passione del Figlio, adorando il Mistero Pasquale.
Chiedo ai pastori che la testimonianza della misericordia di Dio con cui confortano i singoli penitenti animi sempre la loro predicazione a difesa della retta dottrina.
Chiedo che tutto il popolo di Dio sia coinvolto in un discernimento evangelico per capire quel che è bene che la Chiesa dica agli Stati e ai grandi di questo mondo in questo tempo di globalizzazione e di potere dell’economia.
Chiedo alla Chiesa, anche se può sembrare strano, di moderare l’esaltazione di chi è più dotato, più bravo e più santo, dichiarato tale dal supremo magistero o dalla “pubblica opinione” ecclesiale, Gesù ha detto: “perché mi chiami buono, uno solo è buono, Dio”.
Cerchiamo di non cadere nel tranello di quando esaltiamo un prete, un fedele laico o un uomo di buona volontà, negando, forse senza accorgercene, che tanti altri lo siano: “lui sì che è un bravo cristiano!”.
Chiedo a tutti i membri della Chiesa di non compiacersi di appartenere ad un’organizzazione potente che esalta i dotati, seleziona i superdotati e punta sui cristiani significativi. Dove va a finire l’annuncio delle beatitudini e del Mistero Pasquale?
A nome mio e di tutti i piccoli, i poveri e i peccatori invoco: aiutiamoci a credere in Gesù Cristo che “solo ha parole di vita eterna”, ed a seguirlo nel cammino verso Gerusalemme, amando la povertà, stringendoci a lui, pietra scartata.
Pasqua 2001
Pio Parisi
1 In Castelli, Corradino, Parisi, Stancari "La laicità difficile", pp17-39, Morcelliana, 91