Carissimi,
mentre con gli anni diminuisce la mia attività cresce
l’attenzione contemplativa alla Chiesa che si misura con il
mondo della globalizzazione.
Mi sembra che alcune caratteristiche della vitalità della
Chiesa lascino oggi in ombra la sua essenza: la comunicazione
spirituale nella fede, nella speranza e nella carità.
Ci sono tante iniziative ecclesiali a favore di chi ha più
bisogno e per questo c’è una continua ricerca dei
mezzi che si ritengono necessari per sostenerle.
L’unità della Chiesa, nelle sue grandi e piccole
componenti o articolazioni, è un bene ricercato in larga
misura dall’alto con norme e direttive.
Al tempo stesso c’è una forte tendenza ad accentuare
la propria individualità, personale e di gruppo. Ai Corinti
che dicevano “io sono di Paolo, io sono di Apollo”
Paolo scriveva: “Nessuno ponga la sua gloria negli uomini,
perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo,
la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro!
Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor. 3,
21).
La preoccupazione del successo, in tutte le sue versioni mondane,
vecchie e nuove, è presente e ingombrante in tante
iniziative ecclesiali.
Si scoprono e si propongono nuovi metodi e cammini per la
diffusione della fede.
In tutto questo si palesa una crescente fiducia nella
razionalità e nella possibilità di essere gestori
della salvezza mentre si riduce lo spazio per una autentica
comunicazione spirituale nella fede, nella speranza e nella
carità.
**************
In questi ultimi tempi sto intensificando
un’esperienza particolare che mi spinge a fare una proposta
generale.
Si tratta del rapporto con l’Associazione S. Pancrazio che
dal 1989 opera nel disagio di Cosenza Vecchia. Ho trovato in essa
amici impegnati con spirito evangelico e, dopo un recente incontro
estivo, ho scritto loro suggerendo di approfondire i doni dello
Spirito con una riflessione sulla loro esperienza.
Sentendomi in gran sintonia spirituale ho provato ad avviare questa
riflessione consapevole che essa avrà valore quando
sarà approfondita e sviluppata coralmente da loro. Il mio
vuole essere solo uno stimolo e un motorino di avviamento. Lo
comunico anche a voi in vista di una proposta generale.
DEPOSITUM CHARITATIS
DELL’ ASS.SAN PANCRAZIO 21 AGOSTO 2002
Nella nostra
esperienza dell’ associazione S.Pancrazio abbiamo fatto delle
scelte che riteniamo conformi al Vangelo di Gesù
Cristo.
Pensiamo sia utile ricordarle non per una compiacenza di noi stessi
che ne sminuirebbe il significato, ma per una presa di coscienza
più chiara che ci aiuti a proseguire e ci consenta di
comunicare ad altri qualcosa che consideriamo un dono
ricevuto.
Si tratta di facilitare una piccola tradizione, non per rimanere
legati a forme del nostro passato, ma per essere meglio preparati a
rispondere ai nuovi bisogni che ci si presenteranno in futuro. La
tradizione bene intesa dispone all’ incontro con altre
tradizioni vicine o lontane, incontro sempre positivo, anche quando
mette in luce eventuali opposizioni, purché sia vissuto in
umiltà e carità.
Ogni impegno per dar vita a una tradizione ci inserisce nella
grande “tradizione di origine apostolica che progredisce
nella Chiesa con l’ assistenza dello Spirito Santo” (
DV,8 ). La tradizione è l’ anima della Chiesa.
Si tratta di portare un contributo alla comunicazione profonda che
è oggi particolarmente in difficoltà, anche fra
quanti si professano credenti, nella società in cui stiamo
vivendo.
Cerchiamo di creare un fondo, un deposito di carità. Nelle
lettere pastorali ( I Tim., 6,20 e II Tim. 1,14 ) si raccomanda di
“custodire il buon deposito”. Il termine
“depositum fidei” ha avuto grande importanza nella vita
della Chiesa ( v. L. Boujer, Dictionnaire théologique,
Desclée, 1963, voce Dépôt de la foi).
Sempre a partire dalla nostra esperienza di vita, noi possiamo
parlare di un nostro “depositum charitatis” pensando
che ne possa nascere un non piccolo contributo alla crescita della
tradizione di origine apostolica.
Una carta in cui formulare alcune esperienze di scelte fatte per
amore del prossimo può essere di qualche utilità.
Evidentemente è un sussidio che presuppone le esperienze
vissute e già comunicate, soprattutto con
testimonianze.
E’ una carta sempre aperta a ulteriori contributi da parte di
tutti, senza ombra di segretezza né timore di
critiche.
Non si tratta di uno statuto o di una regola. La cura di un
“depositum charitatis” potrebbe essere una indicazione
preziosa per quanti, comunità religiose e associazioni di
laici, di accorgono di star smarrendo il carisma fondativo.
Ecco qualche spunto per avviare una ricerca sull’
Associazione San Pancrazio
a) I PICCOLI.
Molti cercano i grandi per aiutare i piccoli: noi cerchiamo i piccoli con la convinzione che sono loro che possono salvare anche i grandi.
b) GRATUITA’
Non farsi pagare
dalle persone che si cerca di aiutare e non farsi pagare da altri a
motivo di ciò che si fa per aiutare.
La gratuità va bene al di là della rinuncia a un
contraccambio economico; riguarda ogni forma di compenso sul piano
dell’ immagine, su quello affettivo, ecc. E’ come una
discesa senza fondo, un distacco progressivo da tante cose che il
nostro cuore desidera. E’ possibile solo nell’ amore
che si fonda sulla contemplazione del mistero della persona e di
Dio.
Ci sono tuttavia dei limiti nella gratuità che derivano da
noi stessi ( quel che io posso fare ) e dal bene di coloro a cui ci
rivolgiamo. Non possiamo, per esempio, non desiderare che il nostro
affetto sia ricambiato: la gratitudine, infatti, è un bene
fondamentale per tutti.
Non farsi pagare per quello che si fa cercando di aiutare gli
altri: è il problema dei finanziamenti. Si tratta di andare
contro una corrente, impetuosa e travolgente: tanti cercano in ogni
modo dei finanziamenti per fare del bene senza accorgersi di quanto
si rimane legati. Si coltivano innumerevoli compromessi senza
accorgersi che si diventa tossico dipendenti.
c) IL COINVOLGIMENTO
Il coinvolgimento
nei problemi degli altri è richiesto ed è la via alla
pace tra i singoli e tra i popoli. Mantenere le distanze è
un’ offesa in tante direzioni.
Essendo in più persone a cercare di aiutare gli altri ci si
accorge ben presto:
che i loro bisogni sono molteplici e strettamente legati l’uno all’altro;
che per questo è necessaria una stretta collaborazione fra quanti si propongono di aiutare;
che in tal modo si inizia una v era comunità;
che l’ aiuto comunitario a chi è in difficoltà porta a vivere una comunità composta da quelli che aiutano e da quelli che vengono aiutati;
questa comunità integrata è il germe di una sana convivenza umana;
il punto di partenza è il bisogno dei più piccoli e il riconoscimento pienamente gratuito del loro valore, con l’ azzeramento di ogni senso di superiorità.
Questo coinvolgimento è sempre più necessario nella società attuale così frammentata nella globalizzazione.
d) L’ INCOMPRENSIONE E IL SUCCESSO
Non scegliamo
l’ incomprensione, che è un fatto negativo, ma
facciamo scelte pur sapendo che non saranno comprese. Sappiamo che
saremo presi per matti ma non per questo ci tiriamo indietro.
Particolarmente dolorosa è l’ incomprensione di
quanti, si dichiarino o meno cristiani, approvano le nostre opere
ma suggeriscono moderazione e strane mediazioni nell’ amore
del prossimo, a partire dai piccoli, con gratuità e
coinvolgimento.
Cerchiamo il successo in tutto quello che facciamo, predisponendo
mezzi adatti al fine, itinerari che conducano alla meta. Ma
cerchiamo con attenzione che ogni mezzo sia adatto al fine.
Così sperimentiamo una serie continua di insuccessi, che
tali sono considerati dai più, ma che non ci fanno cambiare
rotta quando sappiamo di aver fatto quello che era possibile per
andare incontro a ciò di cui c’è bisogno.
e) LA COSCIENZA POLITICA
Mentre cerchiamo di
aiutare i più piccoli ci sforziamo di comprendere le cause
della loro condizione e scopriamo di giorno in giorno le
ingiustizie che ci sono nel mondo.
Prendiamo in tal modo coscienza delle responsabilità nostre
e di tanti altri che sembrano non esserne consapevoli.
Scegliamo per questo di aver sempre presente l’ obiettivo di
una coscienza politica che si traduca nel modo di vivere e di
operare.
Inseriti in un sistema, non ci si può dichiarare neutrali,
tirarsi fuori a qualsiasi titolo. L’ attuale mancanza di
coscienza politica, che da quelli che stanno bene nella
società sembra spesso che si trasmetta anche a chi è
meno favorito, è un male gravissimo, la cui cura sta
certamente fra le cose di cui c’è più bisogno,
e noi pensiamo di poter fare qualcosa.
Alla radice di questo male c’è anche un fatto
culturale: il sequestro del termine politica da parte del potere e
di chi lo gestisce. Politica uguale ricerca e gestione del potere.
Fra le conseguenze, c’è l’assurda qualificazione
della gestione del potere con la carità cristiana.
Tuttavia, pensiamo che la politica popolare, anche se negata,
è quella che salva il mondo, come la gratuità nei
confronti dell’ economia.
f) LA PRECARIETA’
Non è in
sé desiderabile, ma l’ accettiamo come condizione di
verità e di disponibilità a scegliere di fare
ciò di cui c’è più bisogno.
La coscienza della precarietà è fondamento della
verità sulla condizione umana e naturale. Si scoprono
livelli sempre più profondi di precarietà fino
all’ affidarsi pienamente a un Altro, al Padre.
g) UN AFFANNO CONTROLLATO
Il nostro cuore
è inquieto finché non riposa nel Signore.
Inquietudine e affanno sono inevitabili quando ci si apre al grido
dell’ umanità.
Riconoscendo tuttavia i nostri limiti, dobbiamo controllare
l’ affanno in modo che sia sostenibile.
Questo vale per l’ affanno personale e per quello della
Associazione e di qualunque momento di impegno comunitario.
h) L’ ECCLESIALITA’
Sentendo parlare di
ecclesialità, molti, che pur sono attratti da Gesù
Cristo, provano un forte disagio. La Chiesa per loro non lascia
trasparire Gesù Cristo.
Noi cerchiamo di essere Chiesa trasparente, liberandoci da quanto
offusca la luce di Cristo, soprattutto dalla seduzione delle
innumerevoli forme del potere, “tenendo fisso lo sguardo su
Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebr.
12,2).
Non rinunciamo alla qualifica “ecclesiale”, pur sapendo
la reazione negativa che questa produce, perché sentiamo
tutta l’ urgenza di contribuire alla riforma della
Chiesa.
i) IL RAPPORTO CON LA PAROLA
E’ all’origine dell’Associazione San Pancrazio e continua ad alimentarla.
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Rivolta a quanti vivono esperienze
comunitarie di vita cristiana nelle parrocchie, nelle associazioni,
nei movimenti, nei gruppi, anche tra quelli più piccoli e
nascosti, nei quali non c’è mai la sola esecuzione di
direttive date da altri, ma c’è sempre una qualche
novità evangelica, frutto dello Spirito presente e operante
in tutti.
La proposta è di trovare del tempo, di impegnare
delle energie interiori e con un interesse vivo mettere meglio a
fuoco le scelte di fondo che si
fanno per vivere la carità di Cristo.
Il fine di questa ricerca spirituale è quello di acquisire
una maggior consapevolezza di quello che si sta vivendo e dei doni
ricevuti per continuare a crescere nel cammino intrapreso, per
comunicare ad altri offrendo la propria esperienza ed accogliendo
la loro, cosa che risulta spesso molto difficile.
L’autoreferenzialità, infatti, spinge talvolta a
ritenersi l’unica esperienza viva di Chiesa.
Capire bene la nostra accoglienza e la nostra resistenza ai doni
fatti dallo Spirito a noi e ad altri è particolarmente
necessario per inserirsi nella tradizione apostolica.
“Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella
Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti
la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse,
sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le
meditano in cuor loro (cfr. Lc. 3, 19 e 51), sia con
l’esperienza data da una più profonda intelligenza
delle cose spirituali, sia per la presenza di coloro i quali con la
successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di
verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende
incessantemente alla pienezza della verità divina,
finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”
(dal N. 8 della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione (DV
8) del Concilio Ecumenico Vaticano II).
Mi ha molto confortato nel ritenere questo passo una grande
speranza per il futuro della Chiesa, il Padre Benedetto Calati.
Mons. Luigi Della Torre mi rinviava spesso al “sensus
fidei” e alla “gratia verbi” del popolo di
Dio.
“Cristo, il grande Profeta …. adempie il suo ufficio
profetico … non solo per mezzo della Gerarchia, la quale
insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo
dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e li
provvede del senso della fede e della Grazia della parola (cfr.
Atti 2, 17-18; Ap. 19, 10), perché la forza del Vangelo
risplenda nella vita cristiana, familiare e sociale”. (N. 35
della Costituzione dogmatica sulla Chiesa (LG) del Concilio
Ecumenico Vaticano II).
In adorazione silenziosa accogliamo la tradizione apostolica, il
Mistero Infinito di Dio rivelato in Gesù Cristo, nella sua
morte e risurrezione, testimoniato dagli apostoli:
“Notte, tenebre e nebbia
fuggite: entra la luce,
viene Cristo Signore.
Il sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa…”
(Inno di lode)
E questa tradizione apostolica progredisce per gli innumerevoli contributi
della nostra fede evangelica e
gioiosa;
della nostra fede tormentata e inquieta;
della nostra ricerca affannata che talora ci fa pensare di avere
smarrito la fede;
della nostra critica sincera che spesso nasce dalla tormentosa
domanda:
come è possibile Dio Padre quando il mondo va per i fatti
suoi e va tanto male?
Tutto concorre alla crescita della
comprensione del Mistero Infinito, verso la pienezza della
verità divina a cui tutti avremo contribuito.
Non spaventiamoci quindi di quelli che, pensando di possedere tutta
la verità, disprezzano gli altri, di quelli che sembrano
volerci esaminare continuamente sul programma intero, pronti a
respingere noi e tutti gli altri.
Cerchiamo ed amiamo i pastori che ci guidano con un carisma sicuro
di verità e non lasciamoci inquietare da quelli che appaiono
distratti da seduzioni mondane, dimenticando di essere
“ministri di Cristo e amministratori dei misteri di
Dio” (1 Cor. 4,1).
Un suggerimento è
quello di raccogliere in ogni realtà ecclesiale le
esperienze che si vanno facendo delle scelte di fondo con cui si
cerca di vivere la carità di Cristo. Raccogliere su carta,
non lunghi racconti edificanti, ma gli snodi fondamentali in cui ci
sentiamo interpellati per la sequela di Gesù Cristo, per
realizzare un piccolo “depositum charitatis” in cui
trovare il senso più profondo della nostra vita in
comune.
Una più intensa comunicazione spirituale di una fede libera
e purificata nella carità e nell’umiltà,
può essere di grande aiuto per la presenza della Chiesa nel
mondo contemporaneo, sulla scia del Concilio. Una comunicazione di
“deposita charitatis” per un arricchimento
dell’unico “depositum fidei”.
Religiose e religiosi sono spesso
onestamente impegnati nella riscoperta del carisma fondativo.
Sembra debba essere questo, in primo luogo, un ritorno al passato.
In realtà è un’operazione che comincia dal
presente, anche se poi porta al passato e di nuovo al presente.
E’ necessario infatti mettere a fuoco quello che si sta
vivendo alla luce della Parola con vero discernimento evangelico.
Nell’analisi delle situazioni interne ed esterne alla propria
realtà ecclesiale, spesso si è presi da valutazioni
mondane, con un discernimento che non si affida alla Parola e con
orientamenti conseguenti, dall’alto e dal basso. La
condizione per ritrovare le grazie del carisma fondativo è
di porsi in stato di discernimento evangelico a partire da quello
che stiamo vivendo, aperti a tutti gli appelli conseguenti alla
conversione.
L’itinerario dal presente al passato e poi di nuovo al
presente, è necessario per la vitalità spirituale di
ogni impegno comunitario che abbia una sua storia, breve o
lunga.
Ci incoraggia Paolo nella lettera ai cristiani di Filippi:
“Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi,
pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo
della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo
giorno fino al presente, e sono persuaso che colui che ha iniziato
in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino
al giorno di Cristo Gesù” (Filippesi 1, 3-6).
In molte realtà ecclesiali, per esempio
nell’Associazione San Pancrazio con cui mi sono incontrato,
c’è un vero carisma fondativo anche se non è
identificabile con i doni ricevuti da un fondatore in un tempo
determinato. C’è una vera fondazione che si pone nel
tempo, attraverso le esperienze individuali e convergenti di varie
persone.
Come nel passato grandi fondatori hanno dato vita a correnti di
spirito e di opere, così nel presente sembra si possa molto
sperare nei doni che lo Spirito fa a chi è impegnato insieme
nella ricerca e nell’azione. Forse ciò fa parte del
progresso nella tradizione apostolica (DV 8) in tempo di
globalizzazione e frantumazione.
Accenno nel modo più breve possibile ad alcune linee di
ricerca in cui sono profondamente coinvolto, sperando di essere in
ciò docile allo Spirito. Ho maturato non pochi pensieri che,
per essere corretto e confortato, comunicherei volentieri a chi me
lo chiedesse. Spero di fare un servizio utile da servo inutile.
E’ vero che per lo più non serve dire e
che bisogna fare, per non cedere al verbalismo imperante e
desertificante.
Ma c’è un fare che si realizza anche nel dire: la
comunicazione spirituale.
Per questo, pur nella consapevolezza di valere meno di tutti quelli
a cui mi rivolgo provo ancora a dire, a comunicare.
Nella Chiesa che conta nel mondo scarseggia la comunicazione spirituale, che pure ne è l’anima.
Si parla molto dall’alto e si ascolta, non sempre molto, dal basso, ignorando per lo più la cattedra dei piccoli e dei poveri. Si parla e non mancano le attività, non di rado manageriali, ma scarseggia il silenzio adorante, senza del quale non ci può essere comunicazione spirituale.
Ho suggerito ai membri di un’associazione, in cui riconosco grandi doni dello Spirito, di riflettere sulle scelte evangeliche che hanno fatto e fanno nel loro operare; non per compiacersi ma per ringraziare il Signore e per prendere meglio coscienza di quanto ancora loro manca. Senza raccontarsi e senza cercare norme e metodi nuovi per la vita spirituale, dovrebbero cercare di raccogliere il loro “depositum charitatis”, per non perdere per via lo spirito e per comunicare ad altri.
Se esperienze diverse di gruppi, associazioni e parrocchie mettessero a fuoco i loro “deposita charitatis” e li comunicassero fra di loro si aiuterebbe la crescita della circolazione spirituale che è l’anima della Chiesa. Lo scambio reciproco dei doni ricevuti dallo Spirito è la comunione più grande possibile fra gli uomini.
Ho scritto a un Vescovo, di cui ho grande stima, suggerendogli di concentrarsi totalmente nel suo compito pastorale di ascolto, di guida e di conforto di tutti coloro che gli sono affidati, a cominciare da quelli che più soffrono, in modo da non avere più tempo per altri servizi che gli vengono richiesti sul piano culturale e politico, al di fuori della sua diocesi.
Penso sia sempre più urgente il servizio di
pastori che aiutino ascoltando, ridando così spazio alla
comunicazione di esperienze spirituali dal basso. Nate dalla fatica
di vivere, con gioie e dolori, della stragrande maggioranza
dell’umanità che non gode di privilegi e che non fa
notizia.
Aiutare i pastori ad essere ministri dell’amore di Dio
è compito di tutti i cristiani.
Ciò di cui la cultura e la politica hanno più urgente
bisogno sono la sapienza e il “senso” che viene dal
basso, non il “consenso” stimolato e raccolto
dall’alto.
Sto riflettendo con amici sulla vita consacrata.
Siamo all’inizio e ci sembra di intravedere prospettive luminose. Fra queste una scelta radicale di sequela del Signore, finalizzata a soccorrere le difficoltà estreme della convivenza umana (direi della politica se questo termine non fosse catturato dal potere). Per un impegno comunitario di questo genere più che delle norme sembra necessaria una profonda amicizia spirituale. E la consacrazione di base è quella del Battesimo.
Ho proposto ad alcuni parroci, con cui mi incontro mensilmente da anni, di riflettere sull’orizzonte in cui cerchiamo di annunciare il Vangelo, specialmente nella catechesi e nella Messa. La difficoltà di tanti cristiani oggi si evidenzia nel rapporto con i musulmani, a riconoscere chi cerca il senso della vita e della morte in altre religioni, filosofie e prassi di vita, sembra dipendere anche da un orizzonte limitato in cui la Chiesa annuncia il Vangelo. Può confortarci l’impostazione conciliare della Dichiarazione “Nostra aetate” sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane.
Il servizio principale in cui concentro ancora le mie energie, sperimentando solitudine e profonde amicizie, è la riflessione alla luce della Parola, in particolare dell’Apocalisse, sul rapporto tra fede e politica per aiutare la Chiesa a liberarsi dalla seduzione del potere.
Con amicizia
P. Pio Parisi s.j.
Vi allego uno scritto di Giorgio Marcello sulle esperienze di collaborazione dell’Associazione San Pancrazio con alcune comunità religiose residenti in Calabria.
Abbiamo collaborato in particolare con due congregazioni di religiose che stanno sul territorio secondo modalità profondamente diverse. La prima (suore minime della passione) gestisce istituti di accoglienza per bambini e ragazze provenienti da contesti familiari e sociali difficili. La seconda (suore di maria bambina), presente in alcune regioni del sud Italia da poco più di venticinque anni, cerca di esprimere una presenza slegata dalla gestione diretta di opere proprie.
1. La congregazione delle suore minime
è nata a Cosenza negli anni venti del secolo scorso. Sin
dall’inizio, le suore di questa famiglia religiosa si sono
occupate dell’infanzia abbandonata. Venivano accolti bambini
e ragazzi che vivevano per strada, appartenenti a famiglie
devastate dalla guerra e dalla miseria. Le prime case di
accoglienza vivevano di sola provvidenza.
A partire dagli anni 50-60 in poi, le cose cambiano. Per effetto
della erogazione di sussidi pubblici, prima, e delle rette, poi, le
modalità di accoglienza si trasformano. Le case diventano
istituti. L’impegno missionario sul territorio si muta in
opera. Oggi l’istituzionalizzazione di centinaia di bambini
nella nostra regione rappresenta un problema sociale ed
ecclesiale.
Nel corso dei decenni. L’istituzionalizzazione progressiva
del servizio dì accoglienza ha prodotto alcune conseguenze
nella vita interna della congregazione, probabilmente legate
all'aspetto più visibile della sua crisi, cioè il
calo di vocazioni e l’innalzamento dell’età
media:
la gestione del servizio ha assunto un carattere preminente su tutto il resto
ed ha comportato, tra l'altro, una perdita di radicamento nel territorio (con conseguente riduzione della capacità di lettura e interpretazione dei bisogni della gente più povera),
alla separazione dalla vita della gente, si accompagna anche la rottura dei legami interni; l’interazione tra le singole comunità che gestiscono servizi (peraltro simili) è quasi inesistente.
I fermenti più vitali di questo
istituto religioso, destinato come tale a scomparire, si possono
rintracciare in alcune interessanti esperienze missionarie, avviate
da una decina di anni America latina.
In questi anni l'associazione ha collaborato con alcune di queste
suore, cercando di ripensare insieme l’accoglienza di bambini
e ragazzi nella nostra città, ipotizzando prima e provando a
realizzare poi piccole esperienze di affido familiare e di
de-istituzionalizzazione.
2. Quello delle suore di maria bambina è un istituto
religioso nato nell’800 in Lombardia, caratterizzato sin
dall’inizio da un forte impulso missionario. E’
presente, in alcune regioni del sud dalla metà degli anni
70, su esplicito invito di Paolo VI. Abbastanza decisivo è
stato il ruolo di suor Eugenia Lorenzi, la prima responsabile della
provincia meridionale. Essa ha infatti promosso la nascita di
piccole comunità inserite, rinunciando alla gestione diretta
di opere e servizi propri, disponibili a lavorare insieme a
realtà già presenti sul territorio, scegliendo quindi
la via del radicamento in mezzo alla gente, soprattutto in mezzo ai
più piccoli e poveri. Nel corso degli anni queste religiose
hanno portato avanti insieme a tanti altri (persone, famiglie,
gruppi. associazioni) esperienze piccole, espressione però
di un forte radicamento in mezzo alla gente, nonché di
contenuti innovativi anche dal punto di vista del lavoro
sociale.
La storia della nostra associazione si intreccia al percorso di
questo pezzo di congregazione. Proprio suor Eugenia e stata una
delle promotrici della sua nascita, tredici anni fa. Ed oggi
un'altra suora lavora a tempo pieno con noi.
3. I percorsi di queste due
congregazioni mi pare mostrino con chiarezza quali sono oggi i
limiti e, nello stesso tempo, le potenzialità della presenza
dei religiosi e delle religiose al sud, in un periodo dì
evidente crisi della vita religiosa stessa.
Questa crisi spinge le congregazioni nel migliore dei casi, a
ripensare la propria presenza apostolica, alla luce del carisma di
fondazione, della storia dell’istituto o congregazione, e
soprattutto dei bisogni della gente, soprattutto dei più
poveri. E un esercizio fecondo. E potrà esserlo ancora di
più se sarà portato avanti in ascolto della Parola, e
sarà accompagnato dalla consapevolezza che il declinare
(probabilmente irreversibile.) di queste forme storicamente
determinate di vita religiosa non vorrà necessariamente
segnare la fine della vita religiosa tout court.
Su questo punto, aggiungo ancora qualche piccolissima nota.
Il riferimento all’identità, al carisma della
fondazione, può essere autentico o in autentico. E’
autentico quando permette di ritrovare la radice della vita
cristiana (e, quindi, della vita religiosa). E in autentico quando
distrae dall’essenziale, ed è sostanzialmente
espressione di uno spirito proprietario nei riguardi della storia
passata e dei doni ricevuti.
La parabola francescana della perfetta letizia, o della vera gioia
(riportare, in tutto o in parte, il testo). Essa ci dice che una
delle vie per ritrovare il senso della vita cristiana e della vita
religiosa sta proprio nell’esperienza
dell’identità disconosciuta, della fraternità
negata. Si tratta di un’esperienza dolorosa e feconda, che ci
radica nel mistero di Gesù, che è il mistero di un
amore rifiutato che diventa principio della salvezza del
mondo.
Dunque, la vera gioia non sta nella gloria dell’ordine, nella
grandezza delle realizzazioni storiche, nella santità del
fondatore, nello zelo missionario. La vera gioia sta nella scoperta
di ciò che è essenziale: il Mistero Pasquale.
4. La vita cristiana e “in radice” vita di appartenenza al Signore e di comunione con la storia. Parlando della vita monastica, Dossetti qualche anno fa scrisse qualcosa che vale per tutti i cristiani, quale sia lo stato di vita scelto: “la vita monastica è per eccellenza sempre comunione non solo con l’Eterno, ma con tutta la storia, quella vera, non curiosa, non frantumata nella pura quotidianità, non cronachistica, la storia della salvezza: di tutti gli uomini e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno “creatività” o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini) che sono dei ‘senza storia’. E quindi è anche comunione con quelli che non si vedono, che non si conoscono, che non si qualificano, ma veramente con tutti: gli ignoti, i morenti, i morti che sono al di là di ogni qualifica. E’ comunione che porta a cercare anche l’esilio in terre e popoli stranieri: non con la pretesa di portare qualche cosa (se non la silenziosa testimonianza di un amore gratuito) e tanto meno di ricavarne esperienze esotiche, ma con il desiderio soltanto della condivisione con lontani ed estranei, e quindi con quello che i Padri chiamavano il desiderio della xenitia, cioè appunto dell’essere straniero e ignorato, e comunque sempre in una condizione di inferiorità, in definitiva dell’essere privo di ogni valenza, di essere contato per nulla.”
5. Qual è il valore politico
della vita religiosa? Quale cioè la sua rilevanza possibile
per la polis?
Si può dire forse che la vita religiosa ha un significato
profondo per la vita della città nella misura in cui essa
ricopre le dimensioni che sono proprie della vita consacrata: i
consigli evangelici, l’obbedienza, la castità, la
povertà.
L’obbedienza, come vita spesa in ascolto della Parola, e come attenzione verso tutto e tutti, che si traduce nell’assunzione di concrete responsabilità, soprattutto nei confronti dei più piccoli e poveri. In questo senso, essa è il presupposto del radicamento.
La castità, vissuta non come fuga dal mondo o dalle relazioni, ma come radicale appartenenza al Signore e, nello stesso tempo, come tessitura di relazioni con la gente, vissute con la stessa intensità di un vincolo di parentela. In questo senso, la castità è esperienza viva di radicamento.
La povertà, intesa non solo come condizione socio-economica, ma come modo di guardare il mondo, e come modo di concepire e di vivere le relazioni. Nel primo caso, la povertà coincide con il “sentimento della piccolezza” di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi, quando ci invita a considerare tutti gli altri superiori a noi stessi. Nel secondo caso, la povertà è quella di parla Francesco nella Regola non bollata, quando rivolgendosi ai suoi compagni li esorta ad esser “lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i medicanti lungo la strada.
Giorgio Marcello