5 giugno 2001
Ritorniamo alla lettura del Libro di Giobbe che, di mese in mese, ci ha impegnati nel corso di quest'anno. Si tratta questa sera di arrivare in fondo. Dobbiamo leggere i cap. da 38 a 42. Questo è il nostro programma e dovremmo così portare a compimento un itinerario certo di grande impegno che abbiamo affrontato con qualche trepidazione tanti mesi fa e adesso siamo giunti allo sviluppo finale.
Ricordate che Giobbe ha chiesto più volte con tutte le forme e le manifestazioni del suo lamento di poter dialogare direttamente con Dio e di ricevere direttamente da Lui una risposta al suo problema perché è veramente in difficoltà e le risposte dell'insegnamento tradizionale non lo soddisfano. Dio premia i buoni e punisce i cattivi: non è così. Giobbe non si dà pace, Giobbe incalza, strepita, chiede conto a Dio di quello che sta succedendo nel mondo, di quello che succede agli uomini in modo molto diverso. Lui è un caso particolare, ma è un caso esemplare.
Ci sono stati gli amici che hanno voluto aiutarlo e in realtà lo hanno disturbato. Era intervenuto poi quell'altro personaggio di nome Eliu che ha sviluppato un suo lungo discorso ma ha determinato soltanto una interferenza. Eliu non ha aiutato in nessun modo Giobbe, semmai ha dimostrato in modo ancora più violento e più aspro di non poterlo aiutare nella sua ricerca e nel suo dramma. Eliu per diversi capitoli ha occupato lo spazio che doveva essere dedicato all'incontro diretto tra Giobbe e Dio. Adesso anche Eliu esce di scena e siamo al cap. 38.
"Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine" , adesso è proprio Lui che si fa avanti, adesso in questi capitoli finali del Libro di Giobbe c'è l'incontro a tu per tu con Dio. Nessuno è stato in grado di parlare con Giobbe in modo persuasivo e di fornirgli dei consigli validi che lo aiutassero nella sua ricerca, nel discernimento del suo dramma che poi è il problema del male. Adesso è il Signore che direttamente si presenta e, notate, si presenta con il suo nome perché qui il testo dice "il Signore è il nome di Dio". Precedentemente quando si parlava di Lui sempre venivano usate delle espressioni di altro tipo: l'Onnipotente, Dio, il Creatore e così via. Adesso è Lui che si fa avanti in modo dichiarato e scoperto.
"Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine" . Notate la scena che è sconquassata da questo fenomeno tempestoso ed ecco le parole che Giobbe deve adesso ascoltare.
"Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io ti interrogherò e tu mi istruirai". E' il Signore che ha preso la parola e che affronta Giobbe in modo piuttosto brusco e molto energico. Abbiamo l'impressione che il Signore lo stia strapazzando. Forse ci aspettavamo un intervento impostato diversamente: qualche carezza, qualche sorriso, qualche stretta di mano ed invece il Signore di mezzo al turbine chiede conto a Giobbe e lo interroga: "chi sei tu?". Giobbe in tanti modi ha interrogato, ha posto tante questioni, ha formulato con toni drammatici tutta una gravosa problematica, adesso è il Signore che si fa avanti e lo interroga e gli chiede di render conto di quel che egli è: "chi sei tu?".
Notate che nello stesso tempo il Signore si fa avanti dichiarando di esser pronto a qualunque dialogo, anche se c'è una nota di pacata ironia, vedete il v. 3 "cingiti i fianchi come un prode" . "Adesso sono qui davanti a te, preparati alla battaglia". E' come se fosse ormai da ingaggiare uno scontro diretto. "Tutto quello che tra me e te deve essere chiarito, adesso potrai, anzi dovrai mtterlo in chiaro".
Nello stesso tempo notate che è il Signore che dichiara la sua intenzione di interrogare Giobbe. "Io ti interrogherò e tu mi istruirai", e interrogare Giobbe significa metterlo in cattedra. "Vediamo cosa tu hai da insegnare a me. Io ti interrogo, ti pongo delle domande". Sono interrogazioni che hanno qua e là caratteristica di esami, ma non si capisce bene se il Signore vuole presentarsi in qualità di docente che interroga il suo alunno, che lo esamina, ma è proprio Lui, il Signore che, forse per rispetto di Giobbe, gli pone delle domande come l'alunno fa al docente. "Tu mi istruirai". Comunque, vedete, la conversazione è aperta e non ci sono più remore, convenevoli da rispettare: il confronto è diretto. Da questo momento in poi, negli ultimi capitoli del Libro di Giobbe, noi ascoltiamo due discorsi che il Signore gli rivolge. C'è un intervento di Giobbe alla fine del primo discorso ce ne sarà un altro alla fine del secondo e poi la conclusione di tutto.
Primo discorso, dal cap. 38, v. 4 si arriva alla fine del cap. 39, che si sviluppa in quattro interrogazioni, quattro domande. Leggiamo rapidamente il testo. Vi posso dire fin d'ora che le domande che il Signore rivolge a Giobbe senza difendersi, senza collocarsi in una posizione di autorità schiacciante, senza garantirsi dei vantaggi o dei privilegi sono mirate a un chiarimento di cui ci renderemo conto tra breve, ossia "Giobbe, tu sei una creatura e dire creatura non vuol dire semplicemente che sei sottoposto, che sei dipendente all'interno di una realtà che ti sovrasta; dire creatura vuol dire che tu appartieni al Creatore, tu non sei tuo, Giobbe, tu non appartieni a te, ma sei creatura di Dio".
Questo è l'orientamento che adesso prendono le interrogazioni che il Signore rivolge direttamente a Giobbe.
Prima interrogazione, cap. 38, vv 4, 21. Quattro strofe nel testo biblico. Il Signore interroga Giobbe circa il suo rapporto con la creazione, con l'immensità, l'originalità, la varietà della creazione di Dio. Leggiamo fino al v. 7.
"Dove eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?"
Ecco, "cosa ne sai tu, Giobbe, circa la solidità della terra che è posta su fondamenta ben compaginate? In rapporto alla creazione di Dio, nella sua complessità, spazi e misure, per te superiori a qualunque capacità di verifica, di controllo e di dominio, tu che sei, Giobbe?".
Seconda strofa, v. 8, 11. "Chi ha chiuso tra due porte il mare?" Precedentemente la creazione era considerata in rapporto alla solidità della terra, invece adesso è la liquidità del mare, l'elemento liquido che viene descritto come una potenza straordinaria. Il mare che sempre vuole soverchiare la terra è una potenza straordinaria addomesticata perchè il Signore ha domato le acque del mare e il mare è contenuto in quegli spazi che sono riservati alle sostanze liquide. Questa immagine del mare, domato e trattenuto entro precisi confini, viene sviluppata come se si trattasse di un neonato che viene fasciato. Il mare con la sua potenza così travolgente, il mare che vuole irrompere è in realtà una creaturina delicata e bisognosa di tutto che viene avvolto nelle fasce. E' appena nato e tutta l'organizzazione dell'universo viene così equiparata alla cura con cui un ostetrico, in questo caso è proprio Lui, il Creatore, il grande ostetrico della creazione, che sta curando lo svolgimento di un parto.
"Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta? Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto: "fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l'orgoglio delle tue onde".
Il mare, avvolto dalle nebbie è in realtà il bambino appena nato che è accolto nelle fasce di cui ha bisogno dopo essere uscito dal grembo della madre. Vedete, è un criterio in base al quale tutta la creazione è stata organizzata fin dall'inizio da Dio ed è il criterio che dà una misura di dolcezza a quelle che sono le forze straordinarie che si manifestano in tanti modi diversi nell'ambito della creazione.
Terza strofa, vv. 12, 15. E' sempre il Signore che sta chiedendo a Giobbe "ma tu chi sei in rapporto al creato?" "Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all'aurora?" "Cosa ne sai tu, Giobbe, dell'aurora, dell'aurora non solo come momento nel quale sorge il sole, ma con tutto quello che poi sperimenta l'animo umano quando noi siamo spettatori di un'aurora. L'aurora con tutto quello che porta con sé, non solo per la luce che irrompe, ma per tutte quelle vibrazioni misteriose, indecifrabili che si manifestano nell'animo umano. "Cosa ne sai tu dell'aurora?" dice il Signore a Giobbe "hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all'aurora, perché essa afferri i lembi della terra e ne scuota i malvagi?" L'aurora è qui rappresentata come la comparsa di un braccio che scuote la terra, come si scuote al mattino la stuoia su cui si è rimasti adagiati nel corso della notte. I malvagi sono gli insetti che si sono andati ad annidare nella stuoia e allora bisogna scuoterla al mattino per eliminarli.
V. 14 "Si trasforma come creta da sigillo e si colora come un vestito". E' la superficie della terra che prende le sue forme, i colori. "E' sottratta ai malvagi la loro luce ed è spezzato il braccio che si alza a colpire" . Sono ancora una volta i malvagi che di notte sono perfettamente a loro agio. La notte è la loro luce, sono zanzare e affini che punzecchiano durante la notte, ma adesso sono spazzati via.
Quarta strofa, v. 13, 21. "Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato?" "Giobbe, cosa ne sai tu della profondità, di quello che è il confine dell'universo creato da Dio, intendendo qui la dimensione del profondo in senso fisico, psichico ed etico, il profondo non solo di ciò che sta sotto di noi, ma di ciò che sta dentro, fino alla soglia che ci separa dalla morte. "Cosa ne sai tu di questa profondità, Giobbe?". "Nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato? Ti sono state indicate le porte della morte e hai visto le porte dell'ombra funerea? Hai tu considerato le distese della terra?" Adesso, vedete le dimensioni della superficie terrestre, considerando l'orizzonte, anche qui non semplicemente per il fatto che possiamo misurare con tante approssimazioni le distanze, ma quel particolare rapporto che si manifesta nel vissuto di ogni persona umana che è inserita nel suo ambiente, nel suo mondo, che vive all'interno di un orizzonte. "Cosa ne sai tu di queste cose?" "Hai considerato le distese della terra? Dillo, se sai tutto questo! Per quale via si va dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre". Vedete, le vie che vanno dall'alba al tramonto è l'orizzonte di un'esistenza umana. "Cosa ne sai di come si misura l'esistenza di un uomo e di come l'esistenza umana si affermi in rapporto ad un'alba e ad un tramonto e come l'esperienza dell'alba, poco prima ci parlava dell'aurora, mette in movimento la coscienza di essere persone umana e viceversa, come la coscienza del tramonto diventa riferimento insormontabile per ogni persona umana. Cosa ne sai tu di questo?" Fino al v. 21. "Certo tu lo sai (qui c'è un po’ di ironia) perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande!"
Seconda interrogazione, dal v. 22 al v. 38. Questa seconda interpretazione si sviluppa ancora in quattro strofe e qui il Signore interroga Giobbe circa l'organizzazione e il governo del mondo, il mondo così come è, così come gli uomini fanno esperienza del rapporto che inserisce nella creazione e il mondo per come è governato. Il Signore dice "cosa ne sai tu Giobbe di questo?"
Prima strofa, fino al v. 24. "Sei mai giunto ai serbatoi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine che io riservo per il tempo della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia?" Vedete come vengono amministrati i tesori, i serbatoi e qui è in questione il freddo e poi subito dopo, v. 24, "per quali vie si espande la luce, - non la luce, ma si espande il calore, il freddo e il caldo - si diffonde il vento d'oriente" , vento afoso che si espande e brucia tutto. "Giobbe, cosa ne sai tu di come vengono amministrati questi beni, queste ricchezze che sono il caldo e il freddo?"
Seconda strofa, v. 25, 30. "Chi ha scavato canali agli acquazzoni" . Qui adesso l'attenzione si concentra su quell'elemento che nell'equilibrio dell'universo è così importante e determinante per la vita che è l'acqua, pioggia nelle sue varie forme. "Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una strada alla nube tonante, per far piovere sopra una terra senza uomini, su un deserto dove non c'è nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far germogliare erbe nella steppa?"
Vedete che gratuità fantasiosa nel governo delle piogge! Piove là dove non abita nessuno. Che stranezza! Sembrerebbe una stupidaggine, abbiamo tanto bisogno noi di acqua qua e gli uomini della Libia sono sempre alle prese con problemi di rifornimento idrico. E perché piove qua? Dovrebbe piovere là. "E cosa ne sai tu di questa amministrazione così libera e diversa rispetto alle tue programmazioni, per cui piove nel deserto? Vedi che tutto fa parte di una impostazione delle cose nel governo del mondo che è determinata da una sapientissima pietà". La pietà di Dio, del Creatore verso le regioni desolate e inabitate. Anche là piove e tanta bellezza che sembra sprecata perché non c'è nessuno che stia lì a guardare e a osservare, eppure così sono disposte le cose, così è governato il mondo, con questa economia dello spreco di acqua, di bellezza. E poi insiste, v. 28. "Ha forse un padre la pioggia? O chi mette al mondo le gocce della rugiada". Qui c'è una polemica nei confronti di una certa religiosità pagana che impostava le cose secondo uno schema mitico, per cui c'è un dio padre, una paternità idolatrica che fa piovere dal cielo e c'è una dea madre che germoglia dalla terra, ed è dal connubio tra il cielo e la terra, tra il padre e la madre che si determinano quelle situazioni da cui dipende il benessere della vita umana. Bisogna entrare dentro a questo schema e qui il Signore dice "guarda che qui non c'è schema che conti, non c'è un'impostazione mitica corrispondente alla religiosità dei pagani che possa spiegare queste cose".
V. 29. "Dal seno di chi è uscito il ghiaccio e la brina del cielo chi l'ha generata? Come pietra le acque induriscono e la faccia dell'abisso si raggela". C'è una generosità straordinaria, una fecondità gratuita che si manifesta nell'universo in base a un governo di ogni cosa che dipende da Dio, solo da Lui, in modo da superare tutte le aspettative, tutte le programmazioni, gli schematismi che gli uomini vorrebbero imporre a loro modo e in realtà sono soltanto espressioni di paganesimo.
Terza strofa, vv. 21, 34. "Puoi tu annodare i legami delle Pleiadi o sciogliere i vincoli di Orione?" Adesso lo sguardo è rivolto al cielo notturno, stellato. Anche qui non è semplicemente il fatto fisico o astrofisico, "qui è in questione il rapporto tra me, nel mondo e la volta celeste che si spalanca sopra di me". V. 32: "Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino o puoi guidare l'Orsa insieme con i suoi figli? Conosci ancora le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? Puoi tu alzare la voce fino alle nubi e farti coprire da un rovescio di acqua?" Vedete, dal cielo sulla terra. "Tu cerchi di decifrare qualche cosa e resti con il naso per aria indagando quel che succede nel cielo perché vorresti imporre ai moti stellari certe tue intenzioni. E cosa ne ricavi? Ne ricavi di restare inzuppato di un improvviso acquazzone. Tu che vorresti dalla terra governare il cielo, poi riesci soltanto a farti coprire da un rovescio d'acqua".
Quarta strofa, v. 35, 38. "Scagli tu i fulmini e partono dicendoti: "Eccoci!" ? Chi ha largito all'ibis la sapienza o chi ha dato al gallo intelligenza? Chi può con sapienza calcolare le nubi e chi viceversa gli otri del cielo quando si fonde la polvere in una massa e le zolle si attaccano insieme?" Tutti fenomeni davvero sorprendenti. Il fatto che dalle nubi si è rovesciata l'acqua, che poi il terreno arido, screpolato, polveroso si rassodi, si plasmi, diventi fango e poi ritrovi compattezza gli animali che si accorgono di queste cose. E intanto, vedete, certe mutazioni nell'universo che sono imprevedibili per l'uomo, sono invece ben considerate e testimoniate dagli uomini; che stranezza!
Terza interrogazione. Dal v. 39 del cap. 38 al v. 12 del cap. 39. Qui ancora quattro strofe e qui vengono presi in considerazione gli animali, gli animali selvatici, creature di Dio. Anche qui: "Chi sei tu, Giobbe, in rapporto alla creazione e agli animali?" "Vai tu a caccia di preda per la leonessa e sazi la fame dei leoncini, quando sono accovacciati nelle tane o stanno in agguato nelle macchie? Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi nati gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo?" Due animali esemplari: i leoni e i corvi, i leoni che in silenzio dalle loro tane stanno in agguato in cerca di preda e i corvi che invece vanno gracchiando di qua e di là in cerca di cibo, e dunque chi è che si prende cura dei leoncini o dei piccoli nati dai corvi. C'è chi pensa alla sopravvivenza dei piccoli: "Ci pensi tu, Giobbe?".
Seconda strofa, v. 1, 4. "Sai tu quando figliano le camozze" , altri animali strani che abitano in luoghi impervi e animali dei quali non si possono seguire i cicli naturali. "Cosa ne sai tu del parto, nel caso delle camozze?" "Assisti al parto delle cerve? Conti tu i mesi della loro gravidanza e sai tu quando devono figliare?" "Eppure c'è una continuità biologica che è determinata da una provvidenza indipendentemente da tutte le tue questioni, caro Giobbe". "Si curvano e depongono i figli, metton fine alle loro doglie. Robusti sono i loro figli, crescono in campagna, partono e non tornano più da esse". Così vanno le cose. Notate che il Signore parla di questo a Giobbe non per porgli dei problemi ulteriori ma per aiutarlo a ritrovarsi come creatura di Dio all'interno di una creazione che ha misura immensa e che è determinata da una provvidenza puntuale, capillare che coinvolge tutte le creature e che conferma il valore di un disegno unico, anche se la partecipazione di ogni creatura è così originale e le situazioni sono così diverse.
Terza strofa, dal v. 5 a 8, cap. 39. "Chi lascia libero l'asino selvatico" una specie di zebra che compie pazze evoluzioni nella savana e poi cerca il pascolo verde. "Cosa ne sai tu di questa libertà?" chiede il Signore a Giobbe. "E chi scioglie i legami dell'onagro al quale ho dato la steppa per casa e per dimora la terra salmastra? Del fracasso delle città se ne ride e gli urli dei guardiani non ode. Gira per le montagne, sua pastura, e va in cerca di quanto è verde". "Vedi come si comporta quest'asino selvatico? Non si piega ai guardiani, non si adatta al terreno secco, non lo puoi trattenere".
Quarta strofa, dal v. 9 al v. 12. Qui un altro animale ancora. E' il caso del bufalo; una forza poderosa quella che il bufalo può esprimere eppure una forza improduttiva. Anche questo è un interrogativo interessante. Come mai il bufalo è così irruento, dotato di un energia così travolgente eppure non lo si può aggiogare. "Ma tu, Giobbe, cosa ne sai? Vedi che ci sono forze per l'uomo improduttive, ma sono forze che appartengono ad un disegno che equilibra l'universo in obbedienza a Dio e a Sue misure provvidenziali". "Il bufalo si lascerà piegare a servirti o a passar la notte presso la tua greppia?" "Tu pensi di riuscire ad addomesticare il bufalo e a giogarlo come un bue?" "Potrai legarlo con la corda per fare il solco o fargli erpicare le valli dietro a te? Ti fiderai di lui, perché la sua forza è grande e a lui affiderai le tue fatiche?" Ma neanche per idea! "Conterai su di lui che torni e raduni la tua messe sulla tua aia?" "Che ti aiuti per la mietitura, la trebbiatura, no". Vedete, una forza così straordinaria eppure improduttiva, perché? "Cosa ne sai tu, Giobbe?"
Quarta interrogazione, v. 13, 40. Ancora qui vengono prese in considerazione le stranezze degli animali. Anche qui quattro strofe. Fino al v. 18, lo struzzo. "L'ala dello struzzo batte festante, ma è forse penna e piuma di cicogna?" Certo che no, lo struzzo non è una cicogna tant'è vero che "abbandona infatti alla terra le uova e sulla polvere le lascia riscaldare". Che stupido lo struzzo! "Dimentica che un piede può schiacciarle, una bestia selvatica calpestarle. Tratta duramente i figli, come se non fossero suoi, della sua inutile fatica non si affanna, perché Dio gli ha negato la saggezza e non gli ha dato in sorte il discernimento". Lo struzzo, animale così sconcertante e per certi versi così disgustoso e riprovevole, ma poi è inutile prendersela con un animale che è stupido. Il fato è che poi lo struzzo al momento opportuno dimostra delle qualità strabilianti, per esempio, è più veloce di ogni inseguitore: "ma quando giunge il saettatore, fugge agitando le ali: si beffa del cavallo e del suo cavaliere".
Seconda strofa, dal v. 19 al v. 22. "Puoi tu dare la forza al cavallo e vestire di fremiti il suo collo? Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo? Il suo alto nitrito incute spavento. Scalpita nella valle giulivo e con impeto va incontro alle armi". Il cavallo è qui ammirato nel suo portamento nobilissimo, così imponente che caracolla nel maneggio e poi all'improvviso parte per una corsa forsennata; un animale così nobile eppure così temerario, che strano! "Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada".
Terza strofa. Ancora il cavallo, elegantissimo. Dal v. 23 al v. 25. "Su di lui risuona la faretra, il luccicar della lancia e del dardo". Ha una bardatura solenne, da circo quasi, eppure questo animale così elegante che balla il valzer al circo è in grado di buttarsi nella mischia in una battaglia con una irruenza focosa di cui non avevamo nessun sentore. Eppure è così. "Strepitando, fremendo, divora lo spazio e al suono della tromba più non si tiene. Al primo squillo grida: Aah!…." E da lontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi, il fragor della mischia". Sembrava un cavallone di quelli che giocano per il diletto dei bambini e invece si è andato ad infilare dove la battaglia è più furibonda.
Quarta strofa e siamo alla fine del primo discorso. Dal v. 26 al v. 30. "Forse per il tuo senno si alza in volo lo sparviero e spiega le ali verso il sud?"
Giobbe è sempre interrogato. "Cosa ne sai tu, Giobbe, dell'aquila che va a nidificare in zone così lontane, sui picchi più elevati?" Eppure l'aquila è dotata di uno sguardo penetrante per cui la distanza per lei è immediatamente superata.
"O al tuo comando l'aquila si innalza e pone il suo nido sulle alture? Abita le rocce e passa la notte sui denti di rupe o sui picchi. Di lassù spia la preda, lontano scrutano i suoi occhi. I suoi aquilotti succhiano il sangue e dove sono cadaveri, là essa si trova". Lontanissima, eppure ha già fatto preda di quell'obiettivo che ha adocchiato, malgrado le distanze.
E siamo alla fine del primo discorso.
"Il Signore riprese e disse a Giobbe: il censore (sarebbe Giobbe) vorrà ancora contendere con l'Onnipotente? L'accusatore di Dio risponda! Giobbe rivolto al Signore disse: ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò." Vedete, due soli versetti per la risposta di Giobbe. Io sono creatura. Notate bene che il problema di Giobbe non ha trovato soluzione logica: come mai le cose vanno così? Perché non funziona il meccanismo della retribuzione? Perché c'è il male nel mondo? Giobbe a questo problema non ha trovato risposta, anzi è stato lui interrogato e il Signore gli ha chiesto conto della sua posizione. C'è una sottomissione di Giobbe che sprofonda nel silenzio ma è un silenzio pieno non più imbarazzato, non più problematico o angosciato. E' il silenzio della creatura che si abbandona al flusso delle parole di Dio, delle Sue opere, alla corrente che viene da Dio che pervade tutto l'universo e che inserisce ogni creatura all'interno di un unico disegno. Per quanto Giobbe non riesca a decifrare tanti passaggi, comunque sta dichiarando proprio questo: "è vero! Io sono creatura".
Secondo discorso, dal v. 6 del cap. 40, nel quale il Signore imposta più esattamente la questione concernente il male. "Tu, Giobbe, cosa ne sai del male? Come ne vieni a capo?" Giobbe non ne viene a capo affatto tanto è vero che è dentro al problema e annaspa. E vedete che il Signore non sta rispondendo cercando delle giustificazioni, ma va all'attacco con Giobbe. "Cosa ne sai tu del male?" Prima lo ha interrogato dicendo "cosa ne sai tu della creazione? Tu sei creatura e sei creatura che riceve sguardo, attenzione, partecipazione, dono d'amore, provvidenza costante da parte di Dio creatore. "Ma tu Giobbe strepiti tanto e ti lamenti" . E il Signore non fa obiezione, non dice "fai male o sei troppo lamentoso e petulante", no, dice "tu di quel male che cosa ne sai?"
Leggiamo fino al v. 14. "Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine e disse: Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai. Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Ornati pure di maestà e di sublimità, rivestiti di splendore e di gloria" "ecco, dimostra quello che sai fare. Parliamo francamente tra di noi, fa appello a tutte le tue capacità". E il Signore insiste: "Diffondi i furori della tua collera, mira ogni superbo e abbattilo" "già, cosa sai fare tu contro il male, il male nel mondo, nei suoi aspetti fisici, dinamici, nei suoi aspetti interiori, per cui è lo scompenso della coscienza umana, del cuore umano, l'indurimento dell'intimo che è causa di tutto lo sconquasso che ha buttato il disordine nel mondo". "mira ogni superbo e abbattilo" dice il Signore. "Vediamo cosa sei capace di fare" "mira ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino, nascondili nella polvere tutti insieme, rinchiudi le loro facce al buio; anche io ti loderò perché hai trionfato con la destra". "Ecco tu vuoi mettere in ordine il mondo perché il mondo purtroppo è stato rovinato dai malvagi? Tu adesso vuoi intervenire contro di loro per moralizzare la creazione, la storia umana? Fai pure, vedrai cosa sei capace di fare. Peggio di prima, certo. Questo è sicuro: tutte le volte che tu vorrai moralizzare il mondo perché inquinato dal male tu farai peggio di prima. Tutte le imprese umane che vorrebbero regolamentare la pulizia dell'universo lo inquinano un po’ di più. Cosa sai fare tu contro il male, Giobbe?" Vedete che la questione è ribaltata perché Giobbe da parte sua continuava a dire "ma perché il male?" e il Signore dice a Giobbe "ma tu cosa fai col male? Cosa ne sai tu del male?". Notate bene che impostando così le cose il Signore dimostra che il male è un problema Suo e il male nel mondo, il dramma per il quale Giobbe patisce tanto è totalmente assorbito nel mistero di Dio; è il Signore onnipotente che nel Suo cuore patisce tutte le miserie, le meschinità, gli orrori a cui vanno incontro le creature. Tutto dipende dal peccato degli uomini. "Ma tu sai bene, ti rendi veramente conto di quanto sia aberrante, infernale, diabolico il male nel mondo?" Tutto dipende dal peccato e tutto viene riportato ad una radice inquinata che ha veramente caratteristiche demoniache. "Cosa ne sai tu del male? Lo affronti tu il male, sai risolvere o aggiustare qualche problema? Niente di tutto questo, allora, vedi che te lo spiego io, te ne parlo io perché di questo male di cui gli uomini sono responsabili e attraverso le responsabilità degli uomini è una potenza demoniaca che vuole manifestarsi con il suo disegno perverso, ebbene di questo male me ne occupo io".
Qui il discorso prosegue descrivendo due personaggi che sono due figure simboliche, due animali. Il primo animale è il behemòt, una specie di ippopotamo, il secondo animale è il leviatan, una specie di coccodrillo. Essi rappresentano il male considerato proprio nella sua forma più compatta e strutturale, il male come volontà di contrastare il progetto, l'iniziativa, la creazione voluta da Dio. Sono anche due mondi e riferimenti ad ambienti culturali. L'ippopotamo, Babilonia. Il coccodrillo, l'Egitto e in tutta la rivelazione biblica sapete bene che quando si parla di Babilonia e di Egitto si ha a che fare con realtà che hanno una loro consistenza storica culturale. Sono momenti della civiltà umana. Babilonia e l'Egitto sono delle realtà simboliche che servono a ricapitolare tutta la storia umana in quanto è storia che gli uomini vogliono realizzare in nome proprio. E anche il cosiddetto bene che gli uomini vogliono realizzare ergendosi come protagonisti della loro storia diventa catastrofe sempre più pericolosa.
Prima immagine, dal v. 15 al v. 24: "Ecco, l'ippopotamo che io ho creato al pari di te". Dunque, notate bene, questa figura demoniaca è una creatura che "mangia l'erba come il bue" e ha delle caratteristiche molto dimesse, eppure è una creatura poderosa.
"Guarda la sua forza nei fianchi e il suo vigore nei muscoli del ventre. Rizza la coda come un cedro, i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi, le sue vertebre, tubi di bronzo, le sue ossa come spranghe di ferro. Esso è la prima delle opere di Dio. Il suo creatore lo ha fornito di difesa (gli sta sopra con la spada)". E' una creatura dotata di una energia straordinaria, eppure è una creatura. Notate bene, questo è importantissimo. La potenza demoniaca è una creatura dominata da Dio, sconfitta da Dio fin dall'inizio. E' proprio vero che questa creatura comunque cerca di ingannare, di accattivare la complicità degli uomini; per questo si presenta in modo molto delicato, sornione, sonnolento, dimesso: un ippopotamo che ogni tanto apre un occhio mentre sguazza in mezzo all'acqua che lo rende praticamente invisibile. Anzi, sembra così perfettamente inserito nell'ambiente ed essere così amante della buona convivenza che "i monti gli offrono i loro prodotti e là tutte le bestie della campagna si trastullano". (Sono uccelli o fenicotteri che vanno ad appollaiarsi sulla sua groppa) "sotto le piante di loto si sdraia" (c'è anche una nota estetica: in mezzo ai fiori) "nel folto del canneto e della palude". Lo ricoprono d'ombra i loti selvatici, lo circondano i salici del torrente, ecco, si gonfi pure il fiume: egli non trema, è calmo, anche se il Giordano gli salisse fino alla bocca". Questo è veramente preoccupante perché per quanto ci siano guai al mondo, a lui va sempre bene. Sembra così ben inserito nell'ambiente che non può far male a nessuno perché è un comportamento falso e infido. Come mai sguazza così vantaggiosamente nel disastro generale, quando tutti sono pericolo meno lui? "Chi potrà afferrarlo per gli occhi, prenderlo con lacci e forargli le narici?" Una natura perversa, vedete. "Prova ad affrontarlo e ti accorgerai di quanto la sua mitezza bovina sia infida".
Adesso il leviatan, il coccodrillo. Leggiamo, v. 25: "Puoi tu pescare il Leviatan con l'amo e tener ferma la sua lingua con una corda, ficcargli un giunco nelle narici e forargli la mascella con un uncino? Ti farà forse molte suppliche e ti rivolgerà molte parole". E' impossibile cacciarlo e addomesticarlo. "Stipulerà forse con te un'alleanza perché tu lo prenda come servo per sempre? Scherzerai con lui come un passero legandolo per le tue fanciulle?" Come i passerotti sono tenuti legati con un anello, con una catenella per beccare un fogliettino da consegnare alle fanciulle in cerca di notizie circa il loro avvenire. "Pensi di far così con lui, di dargli la caccia o di addomesticarlo? Sbagli!" "Lo metteranno in vendita le compagnie di pesca, se lo divideranno i commercianti?" "Pensi di poter trattare con lui in base agli interessi del commercio, ti sbagli! E non ti illudere di poter venire a patti con lui, di poterne trarre dei vantaggi con qualche accorgimento o aggiustamento o con qualche complicità. Non ti illudere!"
Seconda strofa, cap. 40, v. 31. "Crivellerai di dardi la sua pelle e con la fiocina la sua testa?" "Vedi che è impossibile il contatto." "Metti su di lui la mano: al ricordo della lotta non riproverai!" "Ritirati subito deluso ed umiliato". "Nessuno è tanto audace da osare eccitarlo e chi mai potrà star saldo di fronte a lui? Chi mai lo ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto tutto il cielo. Non tacerò le forza delle sue membra: in fatto di forza (di bellezza) non ha pari". Vedete, è impossibile prendere contatto. Se solo ci si prova si resta bruciati e nello stesso tempo si è attirati perché ha un suo fascino, a suo modo irresistibile.
Terza strofa, v. 5, 9. "Chi ha mai aperto sul davanti il manto di pelle e nella doppia corazza chi può penetrare? Le porte della sua bocca chi ha mai aperto? Intorno ai suoi denti è il terrore! Il suo dorso è a lamine di scudi, saldate con stretto suggello; l'una con l'altra si toccano, si chè aria tra di esse non passa: ognuna aderisce alla vicina, sono compatte e non possono separarsi". E' impenetrabile rispetto agli influssi esterni. "Tu pensi di addomesticarlo? Di poter penetrare o di trattare con lui? Non è così. E' impenetrabile."
Quarta strofa, v. 10, 15. "Il suo starnuto irradia luce e i suoi occhi sono come le palpebre dell'aurora". Qui non si capisce più bene se è un coccodrillo o se è un cetaceo che spunta dalla profondità del mare con uno zampillo d'acqua. E c'è una nota di valore estetico in questo suo modo di produrre fenomeni che ci lasciano incantati. "Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo come da caldaia, che bolle sul fuoco". Prima dall'esterno irradiava luce, ora dall'interno emana luce, fuoco, fumo. "Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme. Nel suo collo risiede la forza e innanzi a lui corre la paura. Le giogaie della sua carme sono ben compatte, sono ben salde su di lui, non si muovono". Vedete, quella luce che emanava e che lì per lì ci attraeva in realtà è un'ombra, e la sua pretesa incalzante e irriducibile di inglobarci, di bruciarci, di inghiottirci, una crudeltà spietata e sempre ostile a qualunque proposta di conversione.
V. 16, 21. "Il suo cuore è duro come pietra, duro come la pietra inferiore della macina. Quando si alza si spaventano i forti e per il terrore restano smarriti. La spada che lo raggiunge non vi si infigge, né lancia né freccia né giavellotto; stima il ferro come paglia, il bronzo come legno tarlato. Non lo mette in fuga la freccia, in pula si cambian per lui le pietre della fionda. Come stoppia stima una mazza e si fa beffe del vibrare dell'asta". Qualunque arma diventa inservibile e si resta come paralizzati dinanzi a questa dimostrazione di crudeltà che non si converte. Nello stesso tempo non dimenticate mai che è creatura, e creatura dominata dal Creatore. "Ma chi sei tu, Giobbe, contro di lui?"
E dal v. 22 al v. 26. "Al disotto ha cocci (zampe) acuti e striscia come erpice sul molle terreno. Fa ribollire come pentola il gorgo, (adesso è entrato in acqua) fa del mare come un vaso da unguenti (muove la coda). Dietro a sé produce una bianca scia e l'abisso appare canuto. Nessuno sulla terra è pari a lui" (Nessuno "nella polvere" è temibile per tutte le creature fatte di polvere). Questo significa che anche lui, il leviatan, come l'ippopotamo è creatura e il male non sfugge mai alla iniziativa di Dio creatore e a quella volontà d'amore che fin dall'inizio ha impostato ogni cosa e che ancora si rivela a noi in modo da prender su di sé il dramma del male che Giobbe ha tanto patito e denunciato. Nessuna creatura fatta di polvere è pari a lui, fatto per non aver paura. "Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura, lo teme ogni essere più altero, egli è il re su tutte le fiere più superbe".
E siamo alla fine. Ecco la risposta di Giobbe. "Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono". "Ti vedono non nel senso empirico del termine, ma nel senso che c'è ormai una esperienza nella relazione tra te e me che mi libera dalla cecità interiore. Io ormai sono coinvolto in una comunicazione di vita con te". E tutta la storia di Giobbe, che è la storia di un uomo che ne ha patite tante e che ha sperimentato il dramma del dolore con tutto lo strazio che abbiamo constatato, ebbene tutta la testimonianza di Giobbe matura così. "Io ti ho conosciuto, ho incontrato te e le strade del mio dolore sono state occasioni per incrociare i tuoi passi e man mano che io precipitavo e protestavo, annaspavo e verificavo tutte le mie insufficienze e la mia incapacità di sfuggire ad aggressioni, tentazioni, ostilità di ogni genere. Io mi sono reso conto che ti cadevo nelle mani e che ero raccolto e accolto nel tuo cuore". "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere".
Ritroviamo Giobbe alla fine di tutto, così come lo avevamo incontrato inizialmente sopra polvere e cenere, ma immerso con tutto il suo problema e i suoi drammi, anche con la difficoltà a trovare risposte perché ci siamo resi conto che non ci sono formule, definizioni, chiarimenti in modo logico e persuasivo, ma lui, con tutto il suo vissuto e la storia degli uomini, con tutto il carico di dolore che porta con sé, è l'esperienza di ciascuno di noi nella comunicazione diretta, viva, intensissima, affettuosissima con Dio. "Ora i miei occhi ti vedono!"
Perché il male? E arriviamo al termine di tutta una fatica. Perché il male? Non c'è una risposta immediatamente precisa e convincente a riguardo di quel perché. E' certo che là dove gli uomini sono alle prese con il dramma del male che sconvolge la vita loro e gli equilibri del mondo e così tutta la storia è complicata in modo sempre più straziante, là gli uomini incontrano il Signore, si fa avanti Lui, prende su di Lui il male che è degli uomini, patisce Lui il dolore del mondo. E là dove l'effetto del peccato si incide nel cuore dell'Onnipotente, là tutto il dramma è consumato, ricapitolato e la storia dell'umanità che si è ribellata e che ha messo a soqquadro la creazione di Dio è storia nella quale Dio si è fatto avanti per dimostrare che la sua pazienza di amore, così come fin dall'inizio si è manifestata, così ci viene incontro per un'opera di redenzione, di salvezza, di riconciliazione per una nuova creazione.
Vedete, nessuno di noi risolve il suo problema privatamente, personalmente, singolarmente in un luogo o in un momento, ma siamo parte di un disegno unico che è immenso e che riguarda tutta la creazione ed è disegno che ha le caratteristiche di una nuova creazione. Il cuore di Dio si è spalancato, noi lo abbiamo visto, abbiamo visto il cuore squarciato del Figlio e lì abbiamo riconosciuto la sorgente di quella forza nuova che fa nuovo il mondo.
La storia di Giobbe ci ha portato fin qui. Giobbe è riconciliato non perché i problemi siano risolti, ce ne siamo resi conto, ma perché lo ha dichiarato egli stesso "io non ti conoscevo ma adesso i miei occhi hanno visto il tuo cuore squarciato".