Incontri di discernimento e solidarietà
 
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2 gennaio 2001

Il Libro di Giobbe

Ci ritroviamo per la lettura del libro di Giobbe nel pieno di questo tempo natalizio. Sembra una proposta poco adeguata a questo tempo liturgico, al clima di questi giorni di festa. Eppure il tempo liturgico fondamentale che stiamo vivendo è il tempo della Incarnazione e certamente il Libro di Giobbe è testimonianza di una meditazione intensa, profondissima sul mistero di Dio che viene a visitarci nella nostra condizione umana così come è effettivamente, con il peso della carne e con il dramma del dolore che ci sconvolge, che mette in disparte tutte le semplificazioni un po’ sdolcinate e inconcludenti. Poco tempo fa cantavate "Tu scendi dalle stelle" e S. Alfonso certamente, mentre ci invita a contemplare il Bambino nella mangiatoia, si rivolge a noi con l’invito a considerare quanto sia drammatica la carne, la carne umana, la storia umana, la condizione umana: il Mistero del Bambino presente in mezzo a noi è il mistero della pazienza, della serietà, del coraggio con cui Dio ha preso posizione a nostro favore condividendo il dramma della carne umana.

Il libro di Giobbe ci aiuta, ci orienta, ci fornisce già spunti di considerazione che sono quanto mai eloquenti e stimolanti benchè ancora abbiamo a che fare con il linguaggio dell’Antico Testamento, ma ci stiamo rendendo conto del fatto che questo linguaggio è già mirato con molta precisione verso la pienezza della rivelazione biblica che è la pienezza cristiana, è l’incarnazione della Parola. Il Figlio di Dio che a noi si è avvicinato per aprire la strada della salvezza attraverso la Sua morte e la Sua Resurrezione.

Proseguiamo nella nostra lettura passo passo. Abbiamo letto sette capitoli e riprendiamo dal capitolo otto. Dovremo fare una certa corsa questa sera perché occorre che ci snelliamo un poco nelle nostre procedure. Poi voi avrete modo di ritornare su queste pagine, di scavare, pregare con un tempo più adatto alla vostra personale e comunitaria ricerca.

Dal capitolo otto stasera dobbiamo arrivare al capitolo 14.

Ricordate i tre amici di Giobbe. Si sono fatti avanti e hanno dimostrato di volere, da parte loro e a modo loro, soccorrere Giobbe nel momento del suo dolore, nella sua situazione di terribile sconfitta. E ricordate che i tre amici di Giobbe fanno capo a un grande principio che è scontato nella tradizionale scuola dei sapienti: il principio della retribuzione per cui Dio premia i buoni e punisce i cattivi e se le cose vanno così male a Giobbe, da qualche parte ci deve essere una colpa che Dio sta punendo. Giobbe non è minimamente disposto ad ascoltare i buoni consigli e le considerazioni dei suoi amici perché i cosiddetti amici in realtà dimostrano di non comprendere il dramma della sua vita e della sua storia. Giobbe non è disposto a ridurre il disagio così terribile che ha sconvolto la sua esistenza all’interno di quello schema che gli amici vogliono ribadire invece con tanta precisione. Giobbe si lamenta, strepita, protesta. Abbiamo già avuto modo di percepire la gravità della sua intensa, appassionata testimonianza. Abbiamo letto fino al cap. 7. Il primo dei suoi amici è intervenuto, si chiama Elifaz. E’ un personaggio che possiamo identificare come l’uomo della "pastorale" (mettendo il termine tra virgolette in un senso un po’ negativo), l’uomo che cerca di aggiustare le cose con una buona "omelia" (anche qui tra virgolette in un senso un po’ negativo). E’ l’atteggiamento di Elifaz, è il suo modo di porsi, di intervenire in rapporto a Giobbe. E Giobbe ha protestato: "guarda che nei tuoi discorsi non ci sto, tu puoi fare omelie come vuoi, puoi impostare la tua pastorale con grande abilità di eloquenza e di operosità, ma non mi tocchi, non prendi contatto con il mio dramma, parli al vento".

Adesso intervengono gli altri amici. Il secondo amico con la risposta di Giobbe e il terzo amico con la risposta di Giobbe. Ciascuno dei tre amici ha una sua caratteristica particolare. Elifaz, vi ricordavo, per esemplificare, è l’addetto alla "pastorale", con quelle particolari forme, con quelle particolari attenzioni, con quella particolare preoccupazione dell’uomo di buon senso che vuole porgere il messaggio educativo e che in realtà invece fraintende l’essenziale purtroppo.

Il secondo amico di Giobbe, capitolo 8, si chiama Bildad. Questo Bildad è un giurista, è l’uomo del diritto e fa un discorso che è impostato proprio in base a questa sua particolare competenza di tipo giuridico. Il punto di riferimento fondamentale è sempre il principio di retribuzione, ma il modo di argomentare di Bildad è caratterizzato da questa sua specifica attenzione alla interpretazione giuridica dei fatti. Bildad non è un chiacchierone, è un tecnico del diritto, procede in modo molto serrato, puntuale, con il rigore proprio dei giuristi che non si dedicano ad elaborazioni poetiche e letterarie. In modo molto essenziale enuncia una tesi, la dimostra e arriva ad una sentenza finale. La tesi è questa (vv. da 1 a 7): "Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca?" Vedete che sgrida Giobbe "tu stai blaterando, stai buttando parole nel vento, basta, smettila!". "Può forse Dio deviare il diritto e l’Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha messi in balia della loro iniquità". Questo è il punto, perché Dio non può deviare il diritto, l’Onnipotente non può sovvertire la giustizia, Dio è il primo osservante del diritto. Tra Dio e noi vige la norma della osservanza nei confronti di un regolamento a cui anche Dio deve sottostare. Questa è l’impostazione di fondo. Non stiamo a perderci sulle questioni più particolari circa il senso di termini come "diritto", "giustizia" nel linguaggio biblico. Un senso che non sempre è lo stesso di quello che noi attribuiamo a questi termini nel nostro linguaggio corrente, ma non disperdiamoci in queste considerazioni.

L’impostazione generale della questione è chiaro. Per Bildad Dio è fedele alla osservanza di questo impianto giuridico che determina l’equilibrio di tutto l’universo, di tutta la storia umana. Tutto è organizzato in base ad un regolamento che è – Bildad non lo dice, ma noi riusciamo, aiutati da Giobbe, a rendercene conto – superiore anche a Dio. Anche Dio deve sottostare a queste norme e quindi se le cose vanno così, dice, è perché Dio, osservante del diritto, porta ad esecuzione le conseguenze di quelle evidenti mancanze commesse dai suoi figli o da se stesso perché il diritto è stato infranto, il regolamento è stato tradito, l’osservanza è stata trascurata e dunque Dio interviene in quanto è Lui il garante del diritto, l’osservante del diritto, il custode del diritto. Ma dicendo questo, Bildad esprime una sua concezione di Dio per cui anche Dio è sottoposto a un regolamento che è superiore a Lui. Fate attenzione perché questo modo di concepire Dio è spesso soggiacente anche in certi nostri modi di impostare le cose che riguardano l’interpretazione della vita cristiana, della nostra relazione con Dio. Anche Dio è sottoposto a un regolamento che è più grande di Lui, un regolamento che riguarda lo svolgimento del rapporto tra Lui e noi. Chiamiamolo diritto questo grande regolamento e secondo Bildad, che è un giurista, Dio è il primo, principale, vero osservante del diritto, è il vero osservante della regola.

Per questo le cose vanno in questo modo. E insiste: "Se tu cercherai Dio e implorerai l’Onnipotente, se puro e integro tu sei, fin d’ora veglierà su di te e ristabilirà la dimora della tua giustizia; piccola cosa sarà la tua condizione di prima, di fronte alla grandezza che avrà la futura.". "Si tratta, per te, Giobbe – dice Bildad - di rientrare nella osservanza delle norme e se tu rientri nel regime delle osservanze vedrai che tutto si sistemerà perché tu, per attirare verso di te i benefici di Dio, devi adeguarti al regolamento, come Dio da parte Sua è sempre perfettamente corrispondente alle norme del regolamento. Devi adeguarti anche tu e in questo modo riuscirai ad attirare verso di te, a meritare per te, a conquistare per te il compiacimento di Dio. Perché ti lamenti? La colpa è tua. Dio da parte Sua è onestissimo, è coerente, è puntuale. Lui è osservante del regolamento. Devi adeguarti anche tu e vedrai che così riuscirai a governare le cose, usando lo strumento del diritto, lo strumento giuridico, a tuo vantaggio".

Ora vedete bene che Bildad insiste adesso, dal v. 8, dando l’immagine di una vita che è chiamata a svolgersi nel rapporto con Dio nel senso che c’è una grande ideologia che sta sullo sfondo, una grande impostazione teorica, appunto un regolamento, a cui anche Dio è sottoposto. Ebbene, bisogna inserirsi dentro a questo grande schema organizzativo. In base a questa concezione la vita ideale, la vita perfetta, la vita realizzata positivamente per Bildad è la vita di qualcuno che si inserisce nel proprio ambiente e che nel proprio ambiente si adegua minuziosamente, meticolosamente, puntualmente a tutte le osservanze perché il grande regolamento si ripercuote in tutte le forme organizzative della realtà e della vita, famiglia, comunità, relazioni sociali. "Sei dentro a un meccanismo che funziona con tanti ingranaggi, bisogna che tu stia ben oliato, come quel piccolo ingranaggio che contribuisce al funzionamento del grande meccanismo. Devi starci dentro."

Questa concezione delle cose è tipica di un giurista nel senso ampio del termine. "Tu, Giobbe, devi accettare l’impegno, il dovere e anche la gioia – devi accettare la gioia – di stare al tuo posto come quel piccolo ingranaggio che è, ben oliato, funzionale grande meccanismo.

Sapete, l’ideale per Bildad è una vita in cui il regime delle osservanze sia così puntualmente realizzato che si può finalmente godere un senso di straordinaria sicurezza. La sicurezza di quel tale che è perfettamente integrato nel suo ambiente, si identifica con quell’ambiente per come veste, per come mangia, per come ragiona, per come sente. E’ dentro il suo ambiente e vi è così inserito, così radicato che ormai è la sua vita. Così è per Bildad. E usa delle immagini, usa l’immagine del papiro "cresce forse il papiro fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz’acqua? E’ ancora verde, non buono per tagliarlo, e inaridisce prima di ogni altra erba. Tale è il destino di chi dimentica Dio, così svanisce la speranza dell’empio". Vedete, se il papiro vien tolto da quel certo ambiente, da quella palude, da quel terreno acquitrinoso non può sopravvivere. Così "tu devi stare nel tuo ambiente, devi stare dov’è il terreno adatto a te, devi stare inserito in quel certo contesto di vita, devi respirare quell’aria, masticare quelle parole, ripetere quei gesti, devi inserirti fino in fondo e sempre di più nel tuo ambiente. Non protestare Giobbe, se no capita a te come al papiro che se viene tirato fuori dal suo terreno, muore".

Oppure usa l’immagina della tela di ragno. "Vedi, il ragno ha costruito una tela. Che cosa meravigliosa è una tela di ragno, però quella tela è fragilissima, basta un soffio di vento, basta che la tocchi con un dito e la tela di ragno salta per aria. Però è una meraviglia. L’importante è che il ragno stia dentro alla sua tela". Immagine affascinante ma anche disgustosa per un certo verso. E’ l’immagine con cui Bildad cerca di descrivere l’ideale della vita dal suo punto di vista, dal punto di vista di un giurista. "Stai dentro al meccanismo, rispetta le regole, adatta la vita tua a tutto l’insieme dei riferimenti che sono così puntuali, così precisi che riguardano la vita esterna, la vita interna, la vita pubblica, la vita domestica, la vita civile, la vita privata e vedrai che ti troverai bene, perché Dio è il vero osservante di tutte le regole che governano l’immenso meccanismo dell’universo. Dio è il primo, il perfetto osservante del diritto.

Così si conclude il discorso di Bildad, cap. 8, v. 20: "Dunque Dio non rigetta l’uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori". "Come può Dio favorire te se tu sei venuto meno al rispetto delle regole? Perché Dio dovrebbe venirti incontro? Convertiti tu, piuttosto, Giobbe e sai come devi fare. Il rispetto delle regole ti è stato insegnato a suo tempo e tu ne sei consapevole, dipende da te, datti da fare. Lo strumento per ristabilire la tua sorte è a tua disposizione". E allora "Dio colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia. I tuoi nemici saran coperti di vergogna e la tenda degli empi più non sarà". Qui Bildad sta citando il salmo 126 "quando siamo tornati ci sembrava di sognare, la nostra bocca si aprì al sorriso, il nostro volto si illuminò di gioia" ma lo sta citando dentro ad un discorso che ha tutta un’altra impostazione, un’impostazione così pesantemente, così negativamente giuridica, una negatività di tipo un po’ clericale, un clericalismo nel senso negativo del termine. "L’importante è che tu stia al tuo posto, nel tuo ambiente".

Ma questo discorso per Giobbe non funziona perché la sua situazione non è interpretata da Bildad e perché – e questo è il punto su cui Giobbe insisterà a più riprese – Bildad è il vero bestemmiatore. "Tu mi proponi una immagine di Dio come se Dio fosse sottoposto al diritto. Ma che Dio è? Se Dio deve essere l’osservante del regolamento che da parte sua governa il mondo e la storia umana che Dio è? Di che Dio mi parli tu?"

Leggiamo qualche frammento del discorso di Giobbe nei cap. 9 e 10. Il discorso di Giobbe si sviluppa in tre fasi. La prima fase, nel cap. 9, dal v. 2 al v. 24, è una protesta. Poi c’è un lamento, poi un’aggiunta successiva su cui ritorneremo.

Prima fase della risposta di Giobbe. Una protesta: "In verità io so che è così: e come può un uomo aver ragione innanzi a Dio?" "Queste cose le so anch’io, io non pretendo di aver ragione nei confronti di Dio", però Giobbe dice di non essere affatto disposto a cercare, come Bildad suggerisce, lo strumento giuridico per mettere in scacco Dio. Perché "tu mi stai suggerendo che c’è il modo di inchiodare Dio alle Sue responsabilità e ottenere da Lui i benefici". Il modo è quello di osservare le regole.

E Giobbe dice: "io non ci sto. So che non posso avere ragione davanti a Dio. "Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille. Saggio di mente, potente per la forza, chi s’è opposto a lui ed è rimasto salvo?" Giobbe dice: Dio è più forte, Dio è al di sopra di tutte le misure, di tutti i regolamenti, di tutte le osservanze. Il linguaggio di Giobbe è molto pungente, un linguaggio sferzante, un linguaggio che a noi farebbe dire "Giobbe è il vero bestemmiatore, perché Giobbe offende Dio, insulta Dio, tratta Dio come se Dio fosse un violento, un sopraffattore". Attenti però perché Giobbe, che sembra il bestemmiatore, sta protestando in questo modo perché vuole dimostrare a Bildad che la vera bestemmia non è quella che Giobbe sta pronunciando con un linguaggio un po’ focoso. La vera bestemmia sta proprio in quella impostazione giuridica del problema, per cui "tu hai ridotto Dio semplicemente ad una rotellina del meccanismo, tu sei il vero bestemmiatore". Intanto, però, il linguaggio di Giobbe è così: irruento, vulcanico.

E prosegue "Dio fa quello che vuole. Allora Dio è un prepotente?" Giobbe dice a Bildad che Dio non è quella rotellina nel meccanismo che lui vuole esaltare con tanto trasporto.

Dio è immensamente superiore nella Sua forza.

E prosegue (v. 11): "Ecco, mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non m’accorgo. Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi gli può dire "Che fai?". Chi può contestare Lui? Chi può opporsi a Lui, Chi può far valere dei diritti nei confronti di Dio? Dio è al di sopra. "Dio non ritira la Sua collera, sotto di lui sono fiaccati i sostenitori di Raab. Tanto meno io potrei rispondergli, trovare parole da dirgli! Se avessi anche ragione, non risponderei, al mio giudice dovrei domandare pietà. Se io lo invocassi e mi rispondesse, non crederei che voglia ascoltare la mia voce."

"Come puoi mai pretendere che io faccia valere il mio diritto nei confronti di Dio. Ma perché? Qualunque ragione volessi vantare nei confronti di Dio non varrebbe niente." "Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere fiato, anzi mi sazia di amarezze". Vedete che Giobbe dice "allora la colpa è di Dio, un Dio severo, intransigente, un Dio feroce, un Dio violento, distruttivo". Giobbe usa questo linguaggio così forte proprio perché vuole contestare l’impostazione giuridica data al problema da Bildad. "Vedi che Dio non è così" dice. "E’ inutile appellarsi al diritto nei confronti di Dio perché quel Dio che è il primo e perfetto osservante del diritto come dici tu, quel Dio te lo sei inventato tu. Non è così."

"Se si tratta di forza è lui che dà vigore; se di giustizia, chi potrà citarlo? (v. 19) Se avessi ragione il mio parlare mi condannerebbe, se fossi innocente, egli proverebbe che io sono reo". "Come vuoi mai che faccia valere i titoli della mia innocenza, della mia ragione? "Sono innocente, non lo so neppure io, detesto la mia vita!" Giobbe non capisce più niente, tutto si fa confuso. In ogni caso Giobbe vuole entrare in rapporto con Dio direttamente, non vuole passare attraverso quello schema giuridico che gli ha prospettato con tanta prosopopea, con tanta sicurezza e a suo modo con tanta disponibilità Bildad.

"Vedi che tra Dio e me il rapporto è diretto. Io con il dramma della mia vita e Lui con la Sua immensità, con la Sua assolutezza, con la Sua trascendenza, con la Sua infinita superiorità. E tra me e Lui non c’è di mezzo quello schema giuridico a cui tu conferisci invece l’importanza decisiva".

E adesso Giobbe si lamenta. Dal v. 25 fino al v. 35: "I miei giorni passano più veloci di un corriere, fuggono senza godere alcun bene, volano come barche di giunchi, come aquila che piomba sulla preda. Se dico: "Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto ed essere lieto" mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai innocente." Tutto passa, restano solo i miei dolori. "Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti." "Anche se io cercassi di fare penitenza, dice Giobbe, tutto sarebbe inutile perché poi al momento opportuno tu mi rigetteresti nel pantano delle mie miserie, la mia miseria mi riassorbirebbe in maniera irreparabile. Cosa vuoi mai che possa realizzare io anche con l’impegno penitenziale di una vita che dovrebbe rientrare nei ranghi del regolamento?"

E insiste (v. 32): "Poiché non è un uomo come me, che io possa rispondergli: "presentiamoci alla pari in giudizio". Vedete, qui Giobbe dice "magari se tra lui e me le cose fossero impostate come dici tu, magari potessi rivolgermi a Dio facendo appello a un giudice fra me e lui". Perché quella certa organizzazione giuridica di cui parla Bildad è una specie di intermediario fra Dio e noi. Fra Dio e noi c’è un riferimento, un principio, un giudizio. "Magari se nel rapporto con Dio potessi fare appello ad un intermediario. Soltanto che questo diritto di cui parli tu, Bildad, non c’è ed è inutile insistere in quella direzione. Il rapporto è diretto tra me e Lui ed io sono sgomento perché non ce la faccio a presentarmi a Lui in modo degno di Lui ma è anche vero che non capisco proprio perché le cose della mia vita devono andare in questo modo così deplorevole, così doloroso".

E nel cap. 10 il lamento di Giobbe esplode in tutta la sua gravità. Dice Giobbe "altrochè! Se le cose vanno in questo modo vuol dire che Tu non sei quell’altro che sta di fronte a me all’interno di una specie di grande tribunale in cui facciamo riferimento a un principio regolativo per cui ci siamo impegnati: Tu che sei il perfetto osservante, io che sono in difficoltà. Non è così. Non è così. Lo scontro è diretto e Tu sei il mio avversario" dice Giobbe. Un linguaggio furente questo. "Tu sei il mio avversario". Ma notate - non mi stancherò di ripetere - quando Giobbe usa un linguaggio così provocatorio e parla di Dio in modo così violento perché in realtà sta riscattando Dio da quell’immagine avvilente, disgustosa che Bildad aveva voluto attribuirGli facendo di Dio quella famosa rotellina di quel meccanismo.

E alla fine del cap. 10 Giobbe ritorna ancora una volta ad un lamento che già avevamo udito. Perché non sono morto? Meglio per me morire: "Perché tu mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio mi avesse mai visto! Sarei come se non fossi mai esistito; dal ventre sarei stato portato alla tomba. E non sono poca cosa i giorni della mia vita? Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre".

Ricordate come si conclude il Benedictus "coloro che dimoravano nella terra tenebrosa una luce, una luce è spuntata. Verrà a visitarci come il sole che sorge". Giobbe dice qui "io sono ancora nel buio della notte". Ma questo suo atteggiamento è di gran lunga più rispettoso di Dio, è un atteggiamento adorante, l’atteggiamento di un uomo che non accetta quella soluzione giuridica che lì per lì sembra risolvere le questioni, in realtà riduce Dio a un pupazzo, a un burattino, riduce Dio ad un giocattolo, e nelle mani di chi vuole approfittarsene, della organizzazione, dei piani, della tradizione, dell’ambiente, dei regolamenti nella loro varia articolazione. Quel burattino non è.

Interviene l’altro amico che si chiama Zofar. Zofar è un teologo. Abbiamo caratterizzato sommariamente Elifaz come un uomo della pastorale, Bildad un uomo del diritto e Zofar è un uomo della teologia nel senso della riflessione teologica anche più raffinata, più sofisticata. E’ l’uomo delle grandi conoscenze. I tre amici hanno ognuno la sua caratteristica, ma tutto fa capo sempre al principio della retribuzione che è la chiave interpretativa di tutto dal loro punto di vista.

Nel cap. 11 del Libro di Giobbe il discorso di Zofar: "A tante parole non si darà risposta? O il loquace dovrà aver ragione?" Vedete che Zofar è piuttosto infuriato nei confronti di Giobbe. Zofar dice "basta, devi smetterla". Ha un piglio piuttosto imperioso, è abituato a battere i pugni sul tavolo e a dire "io so chi ha ragione", Zofar è abituato a dirimere le questioni. "I tuoi sproloqui faranno tacere la gente?"

"Tu pensi che staremo qui ad ascoltare te, Giobbe, che vai bofonchiando in questo modo?" "Ti farai beffe, senza che alcuno ti svergogni?" "Per fortuna che ci sono qua io per svergognarti? "Tu dici: pura è la mia condotta" (bisogna dire "pura è la mia dottrina") "io sono irreprensibile agli occhi di lui". Vedete che proprio questa è la faccenda che Zofar sta reinquadrando a suo modo: è una questione di eresia. "Tu sei un eretico, ti stai adattando la dottrina a tuo piacimento. Sei fuori dell’insegnamento, sei fuori della teologia, sei fuori della conoscenza". Zofar ha un atteggiamento che qualche volta riscontriamo anche fra di noi. C’è qualcuno che magari si ritiene un po’ più apprezzato dal punto di vista teologico e allora al momento in cui si tratta di affrontare qualche argomento dice "tu non hai studiato la teologia, devi stare buono e zitto perché queste cose devi solo ascoltare e imparare da chi ha studiato la teologia". Zofar: "tu sei un insipiente, un ignorante, impara!" E prosegue: "Tuttavia volesse Dio parlare e aprire le labbra contro di te, per manifestarti i segreti della sapienza, che sono così difficili all’intelletto, allora sapresti che Dio ti condona parte della tua colpa". Già, "magari potessi avere conoscenza della sapienza divina, ma tu sei un ignorante, non hai studiato, perché allora sapresti che Dio perdona". Un atto di degnazione, vedete. Zofar dice "vedi che Dio è buono, così come sono disposto io a perdonarti, però devi accettare di riconoscere la tua ignoranza. Tu non conosci le cose come stanno perché i segreti della sapienza sono difficili all’intelletto. Queste sono le verità più elevate, le verità più complicate, le verità più grandiose. Tu pensi, con qualche schiamazzo, di venirne a capo. E insiste Zofar: "Credi tu di scrutare l’intimo di Dio o di penetrare la perfezione dell’Onnipotente? E’ più alta del cielo: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne sai? Più lunga della terra ne è la dimensione, più vasta del mare". I segreti divini sono imperscrutabili. "Se egli assale e imprigiona e chiama in giudizio, chi glielo può impedire? Egli conosce gli uomini fallaci, vede l’iniquità e l’osserva: l’uomo stolto mette giudizio e da onagro indomito diventa docile". E’ una questione di conoscenza. "Egli conosce gli uomini fallaci". Dio fa quello che vuole perché tutto è sotto il potere della Sua conoscenza. Nel caso di Bildad Dio è il perfetto osservante del diritto, nel caso di Zofar, Dio è il conoscitore perfetto della teologia e più noi ci adeguiamo, più noi ci incamminiamo in questa direzione, più noi impariamo a scrutare i segreti, a carpire la conoscenza, più noi siamo in contatto con Lui. Per Zofar, quello che decide, a riguardo della salvezza, è il sapere. "Tu devi sapere come stanno le cose e quando tu avrai accettato intellettualmente i fatti, allora tu sarai contento". E’ una questione di ignoranza. "Tu ti lamenti tanto perché non sai, bisogna che la tua mente sia illuminata, che i tuoi pensieri siano filtrati, bisogna che tutto l’impianto culturale della tua vita sia reimpostato. Bisogna che tu conosca come stanno le cose e in questo modo tu camminerai sulla strada della salvezza". Per Zofar tutto si semplifica, ma anche si complica. E’ un problema di sapere, è un problema di conoscere, è un problema di illuminazione ideologica. "Quando tu avrai compreso la vera causa dei tuoi guai allora sarai salvo, sarai in grado di convertirti, ti sentirai tranquillo, la tua vita si sarà ristabilita in modo sereno e disinvolto". Così imposta le cose Zofar, arrivando alla fine del suo discorso nel cap. 11. Per come le cose le dice Zofar, quella che è la prospettiva di una conversione in realtà è un equilibrio di egoismi intellettuali e pratici. "Tu devi sapere come stanno le cose e man mano che tu imparerai a conoscere, a interpretare, tu ti troverai al tuo posto e i problemi della tua vita saranno risolti e tutti i tuoi interrogativi saranno dispersi. "Devi informarti, devi educarti, devi crescere intellettualmente, devi dedicare la tua vita a questa obbedienza nei confronti di un’ideologia, di un grande sistema ideale che governa il mondo. Dio è il perfetto teologo, conoscitore. Ebbene, bisogna che anche tu, Giobbe, ti metta in questa prospettiva.

Zofar ha detto la sua. Adesso Giobbe risponde. Rapidamente proseguiamo (cap. 12, 13, 14) e arriviamo fino in fondo.

Anche nel caso di Zofar Giobbe protesta. In primo luogo Giobbe si rivolge ai suoi amici e dice loro "voi proprio non mi avete capito".

Poi si rivolge verso Dio: adesso ho qualcosa da dire a Lui e poi di nuovo il lamento con cui raffigura la sua miserevole situazione umana.

Leggiamo dal v. 1 in poi del cap. 12: "E’ vero, sì, che voi siete la voce del popolo e la sapienza morirà con voi! Anch’io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi". "Voi siete dei professori, ma neanche io sono scemo. Poi, dice Giobbe, dentro questa pelle, cari amici, ci sono io; dentro a questa storia ci sono io, dentro a questo dramma ci sono io. Poi voi fate i professori".

E’ bellissimo Giobbe. Dice quello che tante volte vorremmo dire anche noi: "calma, perché questa è la storia mia!". Voi siete la voce del popolo, la sapienza morirà con voi, ma qui non è questione di ideologie, di sistemi teologici, qui è questione della mia carne (il tema dell’incarnazione).

"Ludibrio del suo amico è diventato chi grida a Dio perché gli risponda; ludibrio il giusto, l’integro!" "La mia carne è vergognosa, questo è il mio problema". "Per la sventura disprezzo" pensa la gente prosperosa "spinte a colui che ha il piede tremante". Le tende dei ladri sono tranquille, c’è sicurezza per chi provoca Dio, per chi vuole ridurre Dio in suo potere". Vedete, per chi tiene Dio in pugno. Ecco, dice Giobbe al suo amico Zofar: "tu, teologo, tu ti comporti come qualcuno che vuol tenere Dio in pugno. Tu stesso vuoi insegnare a Dio come deve comportarsi perché Dio è il grande teologo, ma a ben vedere tu ti comporti come se volessi ridurre Dio ad uno scolaretto che deve stare ad ascoltare te che in qualità di professore gli insegni come deve comportarsi."

E poi dice: "ma interroga pure le bestie, perché ti ammaestrino, gli uccelli del cielo, perché ti informino, i rettili della terra, perché ti istruiscano, o i pesci del mare perché te lo faccian sapere". "Chi non sa fra tutti questi esseri che la mano del Signore ha fatto questo? Vedi che è la mano del Signore che tiene in pugno noi, non siamo noi che teniamo in pugno Lui".

E Giobbe prosegue, cap. 13: "tutto questo ha visto il mio occhio, l’ha udito il mio orecchio e l’ha compreso. Quel che sapete voi, lo so anch’io, non sono da meno di voi." Giobbe dice "le cose che sai tu, Zofar, le so anch’io, per quanto non sia professore di teologia. Il fatto è che io queste cose vorrei dirle a Dio, vorrei parlare direttamente con Lui". "Ma io all’Onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare rimostranze". E poi dice "voi siete raffazzonatori di menzogne". Giobbe è proprio sfacciato nei confronti dei suoi amici. "Siete tutti medici da nulla. Magari taceste del tutto! sarebbe per voi un atto di sapienza!" "Finalmente dimostreresti di essere un vero teologo. Tacendo, tacendo."

"Ascoltate dunque la mia riprensione e alla difesa delle mie labbra fate attenzione. "Volete forse in difesa di Dio dire il falso e in suo favore "

"Già, voi avete la pretesa di difendere Dio, vi ergete come teologi che sono rappresentanti di Dio. Nel corso della storia, nelle difficoltà del mondo, nel dramma dell’esistenza umana volete difendere, voi. Ma chi volete difendere? Pensate di difendere Dio dicendo il falso? Che teologi siete? "Volete forse in difesa di Dio dire il falso e in suo favore parlare con inganno? Vorreste trattarlo con parzialità e farvi difensori di Dio? Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse? Come si inganna un uomo, credete di ingannarlo? Severamente ci redarguirà", ecc. (v. 10). "Voi non volete difendere Dio, volete difendere voi stessi. Dio non ha bisogno delle vostre difese teologiche. Io, invece, dice Giobbe, ho qualcosa da dire a Lui". Dal v. 13 al v. 28 del cap. 13 Giobbe sviluppa una sua specie di requisitoria su quello che vorrebbe dire direttamente a Dio. "Tacete, state lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti". "Sono pronto a tutto". "Voglio afferrare la mia carne con i denti e mettere sulle mie mani la mia vita". Vedete, il rischio totale. E’ preso in questo impegno col massimo delle energie, quelle che ancora gli rimangono. "Mi uccida pure, non me ne dolgo: voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta! Questo mi sarà pegno di vittoria, perché un empio non si presenterebbe davanti a lui. Ascoltate bene le mie parole e il mio esposto sia nei vostri orecchi. Ecco, tutto ho preparato per il giudizio, son convinto che sarò dichiarato innocente. Chi vuol muovere causa contro di me? Perché allora tacerò, pronto a morire. Solo, assicurami due cose." Vedete, dice, "io sono pronto a discutere con te però chiariamo due cose (v. 20) "e allora non mi sottrarrò alla tua presenza:" Prima cosa: "allontana da me la tua mano e il tuo terrore più non mi spaventi". "Tieni giù le mani perché tu sei più forte. A posto le mani. Che libertà ha Giobbe nei confronti del Signore! E poi dice: "puoi interrogarmi pure e io risponderò oppure parlerò io e tu mi risponderai". Seconda condizione: "parliamo uno alla volta. Comincia tu o comincio io, parli tu o parlo io, ma io voglio dire la mia fino in fondo. Tu dici la tua, ma io dico la mia". Due condizioni.

E Giobbe prosegue: "perché ce l’hai con me?".

E qui, la fine del capitolo 13 e nel cap. 14 una pagina davvero straordinariamente patetica su cui ci fermiamo stasera. E’ il lamento di Giobbe che vuole dichiarare la sua fragilità, lo strazio della sua vita, anche gli aspetti incomprensibili e scandalosi della sua vicenda sociale. Ma, notate bene, queste cose Giobbe non vuole semplicemente sbandierarle al pubblico tanto per attirare a sé un qualche segno di solidarietà o di simpatia. Qualche volta potrebbe attirare a sé anche qualche insofferenza "non se ne può più, basta" (siamo al cap. 13, dobbiamo arrivare al cap. 42), è uno strazio così insopportabile "basta", oppure sì, una "lacrimuccia". Il fatto è che Giobbe queste cose non le vuole dire a noi, le vuole dire a Dio. Ha il coraggio di cercare come suo unico e vero interlocutore Dio. "io di queste cose, che sono le mie cose, posso parlare solo con Te" (seconda persona singolare). E’ il Tu di Giobbe. "Vedi io sono un pover uomo, "nato da donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e s’avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma. Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi occhi e lo chiami a giudizio presso di te?" Tu, tu. Cosa pretendi da me, tu? Tu. "Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno." "Vedi come sono io? Che miseria, che schifo?" Ma l’uomo ha minori speranze di una pianta, dice qui Giobbe. Una pianta tagliata poi rispunta. Io sono tagliato e non rispunto. Magari, un’altra vita. Qui c’è un sogno (v. 13): "Oh se tu volessi nascondermi nella tomba". Importantissimo in questa pagina che stiamo leggendo è il ripetersi della seconda persona singolare. Tu. Giobbe dà del tu a Dio. Non parla di Dio come un ente teologico, non parla di Dio come osservante del diritto, parla di Dio dandogli del tu. Tu. "Tu volessi nascondermi nella tomba, occultarmi, finchè sarà passata la tua ira". Un sogno. Un’altra vita per me. Se tu volessi "fissarmi un termine e poi ricordarti di me! Se l’uomo che muore potesse rivivere, aspetterei tutti i giorni della mia milizia finchè arrivi per me l’ora del cambio". Ma non è così. "Mentre ora tu conti i miei passi non spieresti più il mio peccato: in un sacchetto, chiuso, sarebbe il mio misfatto e tu cancelleresti la mia colpa". Mentre ora tu conti i miei passi. Invece tu mi vieni incontro, sei accanto a me, mi stringi e io non so come venirne a capo. "Ohimè!" E siamo arrivati alla fine del cap. 14, "come un monte finisce in una frana e come una rupe si stacca dal suo posto, e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la speranza dell’uomo". Notate che qui questo lamento che si aggiunge agli altri, che è così pervaso dal dolore, dolore di cui già ci siamo resi conto, che abbiamo già condiviso, che riemerge in tutta la sua gravità, questo lamento è caratterizzato da una straordinaria forza di fede, proprio nel momento in cui Giobbe continua a dire: Tu! Tu, Tu. "Tu annienti la speranza dell’uomo". Verrebbe di dire che Giobbe parla di Dio in un modo violento, così aspro, così feroce "tu annienti la speranza dell’uomo". Ma che Dio è questo? Attenzione, perché mentre Giobbe dice di Dio che "annienta la speranza dell’uomo", dice a Dio: Tu sei Tu per me. E io senza di Te non sono. E il mio dolore non è semplicemente una notizia per te. Tu conosci il mio dolore. Non è semplicemente un problema di come oliare il meccanismo per Te che sei il meccanico dell’universo. Il mio dolore per Te è qualcosa di Tuo come è vero che Tu sei il mio Dio.


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Il libro di Giobbe 2000-01