Incontri di discernimento e solidarietà
 
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6 febbraio 2001

Il Libro di Giobbe

Ci ritroviamo a distanza di un mese per proseguire, in un clima di preghiera favorevolmente espresso nella celebrazione eucaristica stasera, la lettura del Libro di Giobbe.

Abbiamo letto di mese in mese fino al capitolo 14. Stasera è mia intenzione fare insieme con voi una certa galoppata, in modo da passare in rassegna i capitoli da 15 a 21.

La lettura del Libro di Giobbe ci trova ormai sintonizzati. Già abbiamo preso contatto, inquadrato la questione, abbiamo fatto la conoscenza con Giobbe, con i suoi amici, abbiamo ascoltato la voce degli amici, il loro intervento, il loro modo di porgersi a Giobbe, la loro diversa intenzione di confortare Giobbe anche se poi concordano tutti e tre nel ribadire puntualmente il valore del principio di retribuzione: Dio punisce i colpevoli, Dio premia i buoni.

Sono personaggi diversificati, li abbiamo caratterizzati, ora di nuovo li incontriamo in un secondo ciclo di discorsi sempre accompagnati dalle risposte di Giobbe. Risposte che spesso danno spazio a considerazioni di ampio, profondo respiro. Giobbe non si limita a dialogare con i suoi amici, a rintuzzare le loro considerazioni, a ribadire il suo modo di interpretare le cose o anche il suo modo di non comprendere quello che sta succedendo. Giobbe aggiunge di suo e noi diamo ancora ascolto alla parola di Dio che attraverso il Libro di Giobbe continua a guidarci, ad orientarci, ad alimentarci nella nostra ricerca. Una ricerca che ha aspetti drammatici: d’altra parte è il dramma della nostra condizione umana ed è un aiuto che non ci mette in difficoltà, anzi ci viene incontro in quelle che sono le difficoltà di tutti noi, così come sono state le difficoltà di Giobbe.

Gli amici vorrebbero aiutarlo e non sono in grado di realizzare questo loro intento, ma è la stessa impostazione dei loro interventi che viene progressivamente smontata. Rimane Giobbe con il suo dolore, con il suo dramma, con la sua incapacità di spiegare come mai gli siano capitate così tante disgrazie, ma forse basta anche una sola disgrazia che colpisce, affligge, travolge la vita degli uomini, la vita di un solo uomo e tutto sfugge da quella situazione ordinata, coerente che gli amici vorrebbero prospettare: quella situazione garantita dal principio di retribuzione che invece va in pezzi, crolla miseramente. E Giobbe con la sua esperienza personale è testimone di uno sconvolgimento che riguarda il senso della storia umana, della vita umana, il senso del mondo.

Leggiamo. Gli amici uno dopo l’altro riprendono la parola e Giobbe dice la sua.

Capitolo 15. Torna in scena l’amico Elifaz, il primo della terna. E’ l’amico pio, delicato, devoto, l’uomo spirituale; ha l’apparenza, l’immagine di un catechista che vuole incoraggiare i propri discepoli. E’ come se Elifaz fosse preoccupato di sviluppare una propria omelia mirata a incoraggiare, a stimolare, a guidare sulle vie del bene i fedeli del popolo di Dio. Sta il fatto che Elifaz reagisce adesso scandalizzato per come Giobbe si comporta e si esprime poi nel corso del capitolo 15. dal v. 17 a seguire, ritrovando il tono della omelia, una lezioncina con la quale vorrebbe ricapitolare ogni cosa e metter tutto a posto, tutto in ordine, eliminando le questioni che Giobbe ha sollevato con tanti lamenti, quelle questioni che Giobbe ha testimoniato con la esperienza drammatica della sua vita. Giobbe non sta ragionando su questioni teoriche, Giobbe sta testimoniando quanto sia dolorosamente insopportabile la sua vita.

Leggiamo, dal v. 2 al v. 16: "Potrebbe il saggio rispondere con ragioni campate in aria e riempirsi il ventre di vento d’oriente? Si difende egli con parole senza costrutto e con discorsi inutili?" Vedete che Elifaz si sta mettendo le mani sulla testa: "come fai, tu che sei un sapiente a dire cose del genere?" E’ costernato Elifaz, è anche sincero in questo suo disagio. "Tu anzi distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio." Tu neghi l’esperienza religiosa, tu vuoi contestare ("l’effondersi innanzi a Dio" è la preghiera sapete), contraddire il valore della preghiera. Questa è la preoccupazione di Elifaz: la devozione religiosa, la necessità di riportare tutto alla preghiera e tutto tranquillizzare con la preghiera. Dice a Giobbe "tu metti in discussione i riferimenti fondamentali per noi tutti". Elifaz è veramente un uomo pio. Non ritiene ammissibile che Giobbe sia prigioniero di una malizia tale da far sul serio quando dice quelle cose, quando si esprime in quel modo, dal suo punto di vista, così blasfemo. Non è possibile, probabilmente, anzi certamente, Giobbe sta fingendo. Dice "Si, la tua malizia suggerisce alla tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti". "Ma tu stai scherzando, stai imbrogliando, non è possibile che tu dica sul serio queste cose". "Non io ma la tua bocca ti condanna e le tue labbra attestano contro di te." Così fino al v. 6. Adesso Elifaz prosegue con un rimprovero nei confronti di Giobbe e gli dice "guarda che se tu ti comporti così anche per un motivo incomprensibile dal mio punto di vista e in questo modo vuoi fingere sostenendo posizioni teologiche, pastorali, affermando problematiche che sono così sconclusionate, tu sei un presuntuoso". "Sei tu il primo uomo che è nato o, prima dei monti, sei venuto al mondo? Hai tu avuto accesso ai segreti consigli di Dio e ti sei appropriata tu solo la sapienza? Che cosa sai tu che noi non sappiamo? Che cosa capisci che da noi non si comprenda? Anche tra di noi c’è il vecchio ed il canuto più di tuo padre, carico d’anni." Il buon Elifaz fa un po’ di moralismo. "In fondo tu sei orgoglioso, ti sei esposto ben più del giusto, non è ammissibile che tu faccia il gradasso in questo modo". Resta inteso che Elifaz non sa veramente come prendere posizione dinanzi al problema, al dramma di Giobbe. E allora cerca di risistemare le cose in termini devozionali e moralistici. E prosegue, v. 11: Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio e una parola moderata a te rivolta?" "Tu sprechi la grazia di Dio": questo è il vero motivo della preoccupazione per Elifaz che, ripeto, è un uomo buono e dice "se tu ti comporti così sperperi il dono prezioso della consolazione divina" "Perché il tuo cuore ti trasporta, perché fanno cenni i tuoi occhi, quando volgi contro Dio il tuo animo e fai uscire tali parole dalla tua bocca?" "Perché fai delle smorfie, tu sprechi la grazia di Dio". E insiste, vv. da 14 a 16 "Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro?" Dice Elifaz "non dimenticare che sei soltanto un uomo", come aveva già precedentemente affermato. "Come fa a dirsi giusto uno che è nato da donna? Ecco, neppure dei suoi santi egli ha fiducia". "Dio non ha fiducia nemmeno dei suoi angeli". "I cieli non sono puri ai suoi occhi; quanto meno un essere abominevole e corrotto, l’uomo che beve l’iniquità come acqua." Dunque Giobbe "come fai a protestare in questo modo, a gridare, strepitare, lamentarti in termini così audaci, così violenti, così strazianti che offendono Dio. Sei soltanto un uomo. Devi stare buono e pacificarti nella tua devota gratitudine a Dio". Da questo punto il discorso di Elifaz riprende l’andatura della omelia. Elifaz vuole proporre un messaggio. Si esprime in questo modo: "Voglio spiegartelo, ascoltami, ti racconterò quello che ho visto." Elifaz parla di quanto egli stesso ha sperimentato, vissuto nella sua ricerca interiore, con la sua meditazione, con la sua contemplazione. "ti racconterò quel che ho visto, quel che i saggi riferiscono, non celato ad essi dai loro padri; ad essi soli fu concessa questa terra, né straniero alcuno era passato in mezzo a loro". Il mio insegnamento, dice Elifaz, si inserisce nella tradizione pura, che viene dagli anziani. E prosegue, dal v. 20 al v. 22 viene ribadito, ancora una volta, il principio di retribuzione. "Per tutti i giorno della vita il malvagio si tormenta; sono contati gli anni riservati al violento." L’empio è condannato. Per Elifaz questa affermazione è ovvia, è scontato per lui che le cose vadano in questo modo. E anzi insiste "vedi cosa succede all’empio?". V. 20. Ci spiega come sia stretto, limitato il tempo dell’empio e come l’empio patisca per i limiti di tempo che stringono la sua vita. E aggiunge "Voci di spavento gli risuonano agli orecchi e in piena pace si vede assalito dal predone". L’empio è sempre pieno di rimorsi. E ancora. V. 22. "Non crede di potersi sottrarre alle tenebre, egli si sente destinato alla spada". L’empio vive nell’angoscia costante di chi deve affrontare il giudizio. L’empio vive male, vive malissimo. L’empio porta in sé già le conseguenze della sua negatività, l’empio è condannato. E su questo tono, su questo tema, prosegue il discorso di Elifaz. V. 23: "destinato in pasto agli avvoltoi, sa che gli è preparata la rovina. Un giorno tenebroso lo spaventa, la misera e l’angoscia l’assalgono". Elifaz parla sempre dell’empio. L’empio affamato vive in modo miserabile, è prigioniero del suo peccato "perché ha steso contro Dio la sua mano, ha osato farsi forte contro l’Onnipotente". E ancora i versetti 25, 26 nella descrizione di Elifaz ci danno l’immagine di un uomo peccatore che appare come un personaggio veramente ridicolo, grottesco, un uomo che si è dato tanto da fare pensando di poter compiere le sue imprese con disinvoltura e con successo invece è un miserabile travolto dagli eventi della vita. "correva contro di lui a testa alta, al riparo del curvo spessore del suo scudo; poiché aveva la faccia coperta di grasso e pinguedine intorno ai suoi fianchi. Avrà dimora in città diroccate, in case dove non si abita più, destinate a diventare macerie". Per Elifaz questa è una realtà garantita. L’empio precipita, va in rovina. E insiste "non arricchirà la sua fortuna, non metterà radici sulla terra. Alle tenebre non sfuggirà, la vampa seccherà i suoi germogli e dal vento sarà involato il suo frutto. Non confidi in una vanità fallace, perché sarà una rovina. La sua fronda sarà tagliata prima del tempo e i suoi rami non rinverdiranno più. Sarà spogliato come viglia della sua uva ancora acerba e getterà via come ulivo i suoi fiori, poiché la stirpe dell’empio è sterile e il fuoco divora le tende dell’uomo venale. Concepisce malizia e genera sventura e nel suo seno alleva delusione". L’empio è un uomo travagliato, dice Elifaz, che se genera qualche cosa, genera sempre e soltanto sventura e delusione. Per Elifaz le cose stanno così. Nel suo discorsetto ecco le sue raccomandazioni rivolte a Giobbe perché la smetta di dire stupidaggini e rientri in se stesso, eviti quei toni da presuntuoso di giudice del mondo e giudice di Dio. "Giobbe, chi ti ha dato il permesso di dire queste cose, comportarti in questo modo, rientra nei ranghi, ridimensionati, renditi conto che le cose stanno così: l’empio finisce male".

Giobbe non sa che farsene di un discorso del genere perché è un discorso, dal punto di vista di Giobbe, campato per aria. Vediamo come risponde Giobbe, adesso. Capitolo 16 e 17. Una risposta appassionata, sapete, che si articola in tre sezioni. Nei primi sei versetti Giobbe sbotta "ma come sono noiosi questi amici miei!"

Allora Giobbe risposte: ne ho udite già molte di simili cose! Siete tutti consolatori molesti". "Volete consolarmi e invece di consolarmi mi date fastidio, siete consolatori fastidiosi". "Non avranno termine le parole campate in aria?" "Questo è un discorso che svolazza nella stratosfera, io sto sulla terra, sto dentro al sangue e alla carne di una vita, la mia, piagata". "O che cosa ti spinge a rispondere così?" "Forse perché tu di mestiere fai l’addetto alla pastorale", come dicevamo qualche tempo fa usando questi termine in senso negativo. "Ti comporti così perché comunque fa parte del ruolo? "Anche io, dice Giobbe, sarei capace di parlare come voi se foste al mio posto: vi affogherei con parole e scuoterei il mio capo sopra di voi." Ricordate che anche sotto la croce di Gesù ci sono coloro che scuotono il capo. "Vi conforterei con la bocca e il tremito delle mie labbra cesserebbe". Perché si fa presto a parlare addosso agli altri, mentre "non riesco a tenere a posto le labbra perché sto tremando, sono febbricitante, però poi quando parlo addosso agli altri la bocca funziona benissimo". "Ma se parlo non viene impedito il mio dolore e se taccio che cosa lo allontana da me?" "In ogni caso, che io parli o che io stia zitto, il dolore rimane." Dice Giobbe ad Elifaz ed anche agli altri suoi amici "vedete che io sto dalla parte di chi si trova nei guai, in difficoltà, nell’amarezza, nel dolore. Io non sto dalla parte di chi ha in mano microfono, amplificatore e fa un bel discorso. Io sto dalla parte di chi sta male. Dall’altra parte". E prosegue. Seconda sezione del suo discorso, dal v. 7 al v. 22. Giobbe dichiara che il suo vero interlocutore è Dio. "Voi mi dite tante belle cose, ma io di queste cose vorrei parlare, voglio parlare con Dio. La questione è tra Lui e me, tra me e Lui. Voi volete interferire, ma non riuscite ad aiutarmi, anzi mi disturbate assai. Io vorrei dire queste cose a Lui, direttamente a Lui". I versetti che adesso leggiamo, da 7 a 22, nel capitolo 16, compongono un testo veramente molto audace e a prima lettura un testo che può apparirci anche preoccupante perché Giobbe si esprime con un linguaggio così disinvolto, così sciolto e anche così provocatorio che, lì per lì, anche noi dovremmo dire "guarda Giobbe che ti sbagli, smettila di parlare in questo modo perché offendi Dio." Però Giobbe se lo permette e se lo permette perché sa a chi si rivolge e noi vorremmo reprimerlo come gli amici. Ecco, non reprimiamo Giobbe, lasciamo che si sfoghi con tutta la sua passione, con tutto il suo coraggio nell’affrontare direttamente Dio, nel contestare Dio, come riesce lui, come si sente lui, perché questa contestazione nei confronti di Dio esprime confidenza, intimità, una relazione diretta, vitale tra Giobbe e Dio. E’ all’interno di questa situazione che Giobbe si permette di esprimersi in modo così audace, così violento.

Leggiamo. Sono quattro strofe. Prima strofa, dal v, 7 al v. 11: "Ora però egli m’ha spossato, fiaccato, tutto il mio vicinato mi è addosso; si è costituito testimone ed è insorto contro di me: il mio calunniatore mi accusa in faccia. La sua collera mi dilania e mi perseguita; digrigna i denti contro di me, il mio nemico su di me aguzza gli occhi". Giobbe parla della sua situazione così stritolata dentro una morsa di cattiverie, ma notate che Giobbe attribuisce la responsabilità di questo proprio a Dio. E’ come se dicesse "è colpa sua se mi trovo così, se sono torturato in questo modo, se sono perseguitato in maniera tanto spietata". Anzi notate che nel versetto 9 "la sua collera mi dilania e mi perseguita", questo verbo "satam" in ebraico ha a che fare con quel personaggio "satan" che noi chiamiamo satana. E il "satan" in ebraico è, prima di diventare il nome dell’angelo ribelle, il nome della potenza demoniaca, in ebraico significa "l’accusatore pubblico", quello che noi chiameremmo in un procedimento giudiziario il pubblico ministero, l’accusatore. Il satan è l’accusatore. Abbiamo già incontrato questo personaggio nel racconto in prosa all’inizio di questo libro. Qui Giobbe dice "io sono ingiustamente accusato, sono perseguitato, sono aggredito con la violenza autorevole, la violenza istituzionale del satana, del pubblico ministero, ma tutto questo Giobbe lo dice parlando di Dio. Giobbe sta esprimendo, nel colmo del suo disagio interiore, questa sua difficoltà a parlare di Dio perché, per come stanno andando le cose nella sua vita e per come vanno nel mondo, ha l’impressione che Dio si presenti con un volto demonizzato. Notate bene che Giobbe non sta dicendo "è così". Giobbe è spaventato e sgomento per questo fatto. "Dio mi consegna come preda all’empio, e mi getta nelle mani dei malvagi". E’ un’affermazione terribile.

"Perché Dio deve far così?"

Seconda strofa, dal v. 12 al v. 14. "Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio". "Dio mi ha strapazzato in modo veramente disgustoso, mi ha preso per il bavero e mi ha buttato all’aria, mi ha fracassato fino all’inverosimile, mi ha messo sulla parete a far da bersaglio. Si è divertito a far questo, ma perché ha fatto questo di me? E adesso tutti gli altri si comportano come gli arcieri che mirano al bersaglio e ne fanno quello che dal loro punto di vista è uno sport, ma dal mio punto di vista è una trafittura continua che mi distrugge la vita.

Perché Dio ha fatto questo?"

"I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero." Il soggetto è Dio. Ma perché fa così? "Mi si avventa contro come un guerriero". "Perché è mio nemico?" Giobbe sta contestando, è bestemmiatore? No, Giobbe sta proprio testimoniando il dramma di un credente che non capisce come mai le cose vadano in questo modo "Perché fa così? Lo vorrei diverso Dio. Dovrebbe fare altro, perché non interviene?" Anche noi spesso ragioniamo così.

E insiste. Terza strofa, v. da 15 a 17: "Ho cucito un sacco sulla mie pelle e ho prostrato la fronte nella polvere." Giobbe è un penitente, Giobbe ha accettato di impegnare la sua vita sul fronte delle devozioni penitenziali, perché Giobbe è pronto a dichiarare di essere un peccatore. Non pretende di essere indenne. Però Giobbe sostiene "non vedo per quale motivo sia stato punito con tutte quelle calamità. Non c’è proporzione, questo sì". Giobbe rivendica la sua innocenza, ma non innocenza assoluta, perché anche Giobbe sa bene di essere un peccatore e di dover fare penitenza e fa penitenza. "La mia faccia è rossa per il pianto e sulle mie palpebre v’è una fitta oscurità. Non c’è violenza nelle mie mani e pura è stata la mia preghiera". "Non ho nulla da perderci a fare penitenza, dice Giobbe, ma non serve a niente, non cambia niente, non si ripara niente, non ne traggo nessun beneficio."

Quarta strofa, ultima in questa sezione, dal v.18 al v. 22. Una impennata improvvisa. Succede spesso. Quando parla Giobbe ci sono dei sobbalzi, degli slanci. "O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido!" Conviene cambiare un pochino: "O tomba, non celare il mio grido". Giobbe sta già guardando verso la sua morte, ma guardando verso la sua morte, ancora fa appello a un dialogo con Dio che deve continuare oltre la morte. E‘ uno slancio davvero interessante in questa preghiera così aspra, così tribolata, in questo dialogo con Dio così coraggioso e così sconvolgente da molti punti di vista. Giobbe guarda verso la morte e ancora fa appello a una conversazione tra Dio e lui che andrà oltre la morte. "O tomba non celare il mio grido!"

E prosegue: "Ma ecco, il mio testimone è nei cieli". Già. Giobbe sta dicendo "se Dio è il vero avversario è anche vero che l’unico difensore per me può essere Lui. Solo Dio può difendermi da Dio". "Il mio mallevadore è lassù; miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti, mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio, perché difende l’uomo davanti a Dio, come un mortale fa con un suo amico". Vedete, "chi può difendermi davanti a Dio. Solo Dio, Se Dio è il mio avversario, solo Dio è il mio rifugio".

Questa situazione, di cui Giobbe ci sta descrivendo in maniera così plastica la stranezza, si è presentata in altri momenti decisivi della storia della salvezza. Giacobbe, il patriarca, lotta con Dio. Genesi, cap. 32. Giacobbe, un grande peccatore, lotta con Dio e nel corso di questa lotta furibonda Giacobbe si aggrappa e non vuole staccarsi. E in quel contesto Giacobbe rimane zoppo, ma benedetto. Anzi il Signore, il suo avversario, benedicendolo gli conferisce un nome nuovo "zoppo e benedetto". Così vien fuori Giacobbe da quella lotta. Resterà zoppo per tutta la vita, ma benedetto. Si è aggrappato al suo avversario. L’unico interlocutore di cui si può fidare è proprio quell’avversario che gli è venuto incontro per dimostrare la menzogna della sua vita. "Solo di lui posso fidarmi, mi aggrappo al mio nemico, l’unico mio difensore davanti a Dio è Dio. Posso fidarmi solo di lui".

Notate bene che queste parole di Giobbe sono ancora così dense, così piene che noi riusciamo a sciogliere e interpretare con qualche fatica, ma queste parole di Giobbe sono sempre protese verso la pienezza della rivelazione nel Nuovo Testamento, perché è proprio Dio stesso che diventa nostro difensore davanti a Dio. L’unico difensore che si prende cura di noi e sostiene la nostra realtà di creature ribelli e fuggite lontano da Dio, è Dio stesso. Dio si è rivelato così: come colui che ha preso cura di noi e ha svolto la funzione del difensore a vantaggio di coloro che, abbandonati a se stessi, uomini peccatori, sono perduti.

E questa è l’invocazione di Giobbe. Non si accontenta delle chiacchiere dei suoi amici, dei buoni consigli, suggerimenti che vorrebbero essere devoti e invece per lui sono violenze insopportabili.

Dice Giobbe "io vado incontro alla morte, ma c’è una conversazione tra Dio e me che supera la morte e che rilancia tutto il problema della mia vita oltre la morte. Io ancora faccio appello alla difesa che Dio stesso intraprenderà, realizzerà a mio vantaggio oltre la morte. Da quello sconfitto che sono io, l’unico difensore è Dio". Giobbe è un bestemmiatore, ma Giobbe è e rimane un credente allo stato puro. "L’unico difensore per me è Dio di cui mi fido, a cui mi consegno. Morirò? Oltre la morte la mia confidenza in lui". "Apre strade che io non conosco, ma da cui non posso prescindere".

E Giobbe prosegue nel cap. 17, rievocando la realtà della miseria umana. E’ la terza sezione del suo discorso. "Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba! Non sono io in balia di beffardi? Tra i loro insulti veglia il mio occhio. Sii tu la mia garanzia presso di te! Qual altro vorrebbe stringermi la destra?" Vedete: "Sii tu la mia garanzia presso di te!" "Presso di te che sei il mio avversario, solo tu sei il mio difensore". Che strano discorso, paradossale e ambiguo, ma Giobbe coglie la verità più profonda del dramma, il dramma della nostra condizione umana che porta in sé la realtà del peccato, il mistero di Dio che rifiuta il peccato e vuole la salvezza dei peccatori. "Poiché tu hai privato di senno la loro mente, per questo non li lascerai trionfare. Come chi invita gli amici a parte del suo pranzo, mentre gli occhi dei suoi figli languiscono, così son diventato ludibrio dei popoli". Giobbe parla della sua miseria, è diventato una favola davanti al mondo, "sono oggetto di scherno davanti a loro. Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra" e così via. Prendete il v. 11 "I miei giorni sono passati, svaniti i miei progetti, i voti del mio cuore". Sentiamo che Giobbe qui è più ansimante, gli manca il fiato. "Cambiano la notte in giorno, la luce – dicono – è più vicina delle tenebre. Se posso sperare qualche cosa, la tomba è la mia casa". "Non mi resta che sperare questo: di morire e di morire presto" dice Giobbe. "nelle tenebre distendo il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: ""Padre mio sei tu!" Che linguaggio. "E ai vermi io grido "Madre mia, sorelle mie voi siete!" Un linguaggio lugubre, eppure, vedete, più che mai coerente, espressivo, pertinente. Giobbe non parla a vanvera. "Vado incontro alla morte, ma vado incontro a una svolta della mia vita che non appartiene a me. Quella morte che chiude così drammaticamente il percorso di una storia sconvolgente come la mia, quella morte io la affronto in una atto di obbedienza a un mistero più grande di me, più grande di questa mia vita e più grande della morte".

E aggiunge: "E la mia speranza dov’è? Il mio benessere chi lo vedrà? Scenderanno forse con me nella tomba o caleremo insieme nella polvere!"

"Per capir qualcosa di me bisogna che io vada dentro la morte, oltre la morte. Io non capisco niente di quello che mi sta succedendo, dice Giobbe, vedo davanti a me questa unica soluzione, la morte, che è un disastro, ma la mia morte non appartiene a me, io non sono in grado di interpretarla, c’è un mistero più grande che avvolge tutto, del passato e del presente e della morte nella quale sto comunque, irrevocabilmente precipitando."

E qui nel capitolo 18 riprende la parola il secondo amico che si chiama Bildad.

Bildad è il giurista e il suo discorso nel cap. 18 è un discorso molto freddo. La sua argomentazione è debolissima. Bildad dice ancora una volta quello che sappiamo. Il principio della retribuzione è un dogma che non può essere messo in discussione.

"Prese a dire:

Quando porrai fine alle tue chiacchiere? Rifletti bene e poi parleremo. Perché considerarci come bestie, ci fai passare per bruti ai tuoi occhi?" Bildad è un po’ risentito, è un giurista, ci tiene alla sua posizione di tecnico del diritto. "Tu che ti rodi l’anima nel tuo furore, forse per causa tua sarà abbandonata la terra e le rupi si staccheranno dal loro posto?"

"Sei infuriato, cosa credi di essere? Il centro del mondo? Comunque il mondo non cambia con tutta questa esplosione di sentimenti e di parole". E Bildad ribadisce il principio: l’empio è condannato. Usa qui un linguaggio molto schematico. Usa un linguaggio fatto di tante ripetizioni, come capita per i codici che sanno maneggiare i tecnici del diritto.

Allora lui dice, tanto per farvi un esempio: "Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare". Notate, vari tipi di luce. "La luce si offuscherà nella sua tenda, la lucerna si estinguerà sopra di lui. Il suo energico passo s’accorcerà e i suoi progetti lo faranno precipitare". Quale che sia la luce dell’empio, quella luce si spegnerà e sono considerate diverse forme, diverse manifestazioni della luce.

Adesso, dal v. 8 al v. 10: "Poiché incapperà in una rete con i suoi piedi". Gli empi sono uomini in trappola e fa sei esempi, ogni rigo un tipo di trappola. "sopra un tranello camminerà. Un laccio l’afferrerà per il calcagno, un nodo scorsoio lo stringerà. Gli è nascosta per terra una fune e gli è tesa una trappola sul sentiero". Sono i vari casi previsti dal codice. Comunque proceda l’empio sulla sua strada, qualunque sia il tipo di strada cadrà in trappola. E così via. Bildad prosegue in questo suo modo di intendere le cose: la sorte dell’empio è segnata, dice.

E Giobbe risponde ancora una volta con il suo lamento. "Per me questo discorso non funziona."

Capitolo 19. "Giobbe rispose: fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate senza pudore. E’ poi vero che io abbia mancato e persista nel mio errore? Non è forse vero che credete di vincere contro di me, rinfacciandomi la mia abiezione." "Siete voi che fate i gradassi con me. Voi volete vincere nei miei confronti. Io sono poi debolissimo in questo frangente terribile della mia vita". "Sappiate dunque che Dio mi ha piegato" – bisognerebbe tradurre "che Dio mi fa torto". Giobbe dice proprio espressamente così perché questa è la sua interpretazione della realtà. "Dio mi fa torto e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia! Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre".

Giobbe adesso qui descrive la sua situazione presente, dolorosissima, che dipende da Dio. Giobbe dice "con me si comporta così." E’ vero che già ha detto "con me si comporta così, ma solo di lui posso fidarmi, sono con lui posso parlare di queste cose, solo a lui posso rivolgermi, solo a lui posso aggrapparmi".

"Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, mi ha strappato come un albero, la speranza. Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico. Insieme sono accorse le sue schiere e si sono spianata la strada contro di me; hanno posto l’assedio intorno alla mia tenda." Vedete, v. 13 "I miei fratelli si sono allontanati da me". Le persone più care, le persone più vicine. "Persino gli amici mi si sono fatti stranieri. Scomparsi sono vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, un forestiero sono ai loro occhi. Chiamo il mio servo ed egli non risponde, devo supplicarlo con la mia bocca. Il mio fiato è ripugnante per mia moglie". Le persone amate, le persone di casa, quelli che sono parte di me, mi rifiutano. "faccio schifo ai figli di mia madre. Anche i monelli hanno ribrezzo di me: se tento di alzarmi mi danno la baia. Mi hanno in orrore tutti i miei confidenti, quelli che amavo si rivoltano contro di me. Alla pelle si attaccano le mie ossa e non è salva che la pelle dei miei denti. Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici, perché la mano di Dio mi ha percosso!" "Io vi chiedo pietà e non trovo questa accoglienza, questo riconoscimento". Giobbe continua a lamentarsi e continua a rivolgersi a Dio. "Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne? Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro". Già, è proprio un libro che stiamo leggendo. Vuol dire che Giobbe è convinto che, attraverso la sua esperienza passa un insegnamento che vale per quelli che verranno. Queste cose bisogna scriverle. Giobbe è convinto, se dice così, che attraverso quello che lui sta soffrendo appare, si manifesta la realtà di un disegno che certamente è più grande, più profondo, più vero di quello che egli riesce a comprendere per adesso. "Se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro sul piombo, per sempre si incidessero sulla roccia!" Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!" "Io so che già c’è un Redentore per me". E’ uno dei testi che viene letto qualche volta nella liturgia dei defunti. "C’è un Redentore per me, so che, ultimo, si ergerà sulla polvere. Anche con questa mia pelle che è in rovina, anche quando io sarò morto". "Senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno non da straniero. Le mie viscere si consumano dentro di me". Giobbe è convinto che questa situazione di adesso, così inspiegabile, fa parte di un disegno più lungimirante, un disegno che si delinea sullo sfondo di un mistero, mistero di Dio che ancora non si è rivelato in pienezza. In realtà Giobbe è lucidissimo, sapientissimo nella sua contemplazione teologica.

Nel capitolo 20, il terzo amico, Zofar, il teologo, prende la parola, fa un suo discorsetto. A dire il vero Zofar, in questo caso, fa un intervento piuttosto pacato, piuttosto benevolo e comunque ritorna sempre al punto: gli empi sono puniti.

E Zofar dice: "Per questo i miei pensieri mi spingono a rispondere e perciò v’è questa fretta dentro di me. Ho ascoltato un rimprovero per me offensivo, ma uno spirito dal suo interno, mi spinge a replicare. Non sai tu che da sempre, da quando l’uomo fu posto sulla terra, il trionfo degli empi è breve e la gioia del perverso un istante?" Gli empi sembra che abbiano la vita facile, prosperano, ecc, ecc., ma il loro successo è effimero, è del tutto superficiale, è apparente. E Zofar spiega: "vedi che agli empi poi succede questo e quest’altro, vedi che gli empi si trovano a mal partito, vedi che gli empi sono comunque dei malfattori, vedi che sono abituati a vivere di ruberie, a sopraffare il prossimo e ad approfittarne, vedi che il benessere che lì per lì hanno accumulato si consuma e non hanno neanche il tempo per godere i vantaggi che avrebbero ottenuto per se stessi. Vedi che il successo degli empi è apparente, poi la morte se li porta via". Così, più o meno, ragiona Zofar.

Risposta di Giobbe e poi ci fermiamo. Capitolo 21.

Ultimo tentativo di difesa: "Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date." "Almeno statemi ad ascoltare, datemi questa consolazione", dice Giobbe. "Tollerate che io parli e, dopo il mio parlare, deridetemi pure. Forse io mi lamento di un uomo?" "Io non mi sto lamentando di un uomo" dice Giobbe "io non ce l’ho con gli uomini, ce l’ho con Dio. Ho il coraggio di lamentarmi di lui. Non ce l’ho con voi. Ve la prendete come se fosse un fatto personale, ma io sto affrontando un problema che vale per tutti, per tutta l’umanità, di ieri, di oggi, di domani. Io queste cose le dico a Dio". Il coraggio di Giobbe. E dice: "Perché non dovrei perdere la pazienza? Statemi attenti e resterete stupiti, mettetevi la mano sulla bocca." E prosegue, v. 6: "Se io ci penso, ne sono turbato e la mia carne è presa da un brivido." Perché vivono i malvagi? Giobbe dice "quello che tu dici a proposito degli empi non è vero. Io sono imbarazzatissimo, anzi sono indispettito, ma debbo constatare che in realtà gli empi prosperano. "vivono i malvagi, invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi (loro, personalmente) la loro prole prospera insieme con essi, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro".

E poi insiste Giobbe, dal v. 10 al v. 13: "Il loro toro feconda e non falla, la vacca partorisce e non abortisce. Mandano fuori, come un gregge, i loro ragazzi e i loro figli saltano in festa. Cantano al suono di timpani e cetre, si divertono al suono delle zampogne. Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi." Vedete, anche nella morte sono favoriti. Una morte istantanea, senza strascichi di agonie dolorose. E prosegue, v. 14. "Guardiamo in faccia le cose" dice Giobbe: "Eppure dicevano a Dio: "Allontanati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie". Oltretutto gli empi si sono permessi di prendere in giro Dio e di tenerlo lontano. Dicevano a Dio "Ma chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che ci giova pregarlo?" Non è affatto vero che la sventura piomba su di loro, dice Giobbe qui, v. 17, non è affatto vero che essi come paglia di fronte al vento sono dispersi, o come pula in preda all’uragano. Non è affatto vero. Versetto 19: "Dio serba per i loro figli il suo castigo….(qui ci sono le virgolette, perché Giobbe sta cogliendo l’eco di quello che altri dicono. Qualcuno potrebbe intenderla così: "E’ vero, gli empi hanno vita prospera, però i danni sono per i figli"). Giobbe: "ma lo faccia pagare piuttosto a lui stesso e lo senta!" "Perché se la deve prendere con i figli?" Anche noi spesso ragioniamo così. "Cosa c’entrano i figli?" "Ma lo faccia pagare a lui stesso e lo senta! Veda con i suoi occhi la sua rovina e beva dell’ira dell’Onnipotente. Che cosa gli importa infatti della sua casa dopo di sé, quando il numero dei suoi mesi è finito? Si insegna forse la scienza a Dio?" "Forse voi volete insegnare queste cose a Dio. Volete spiegare a Dio come deve fare a punire gli empi."

"Io sono convinto che Dio non ragiona così, che Dio questa teologia non l’ha mai studiata e non l’ha mai insegnata" dice Giobbe". E prosegue: "Uno muore in piena salute". Perché gli dicono che poi gli empi muoiono. Ma Giobbe "guardate che muoiono tutti, sapete, muoiono anche i giusti, i cosiddetti giusti e non è una stranezza che la gente muoia". "Uno muore in piena salute e prospero; i suoi fianchi sono coperti di grassi e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. Un altro muore con l’amarezza nel cuore, senza aver mai gustato il bene. Nella polvere giacciono insieme e i vermi li ricoprono." "Già, a uno va tutto bene poi muore, a un altro va tutto male, poi muore. E allora? Cosa vuoi dimostrare dicendo che l’empio poi muore? E’ morto anche l’altro. E’ morto malamente e dopo una vita piena di stenti". Attenzione, qui un’affermazione importantissima: "nella morte sono insieme". Vedete che qui c’è un nodo, su cui può occorrerebbe ritornare. Giusti ed empi nella morte sono insieme. Sapete che – adesso noi ci fermiamo – la storia della salvezza va proprio in questa direzione nel senso che di giusti ce n’è uno solo, ma il Giusto, l’unico veramente giusto è morto come gli empi e questa comunione di morti, dell’unico Giusto e di tutti gli uomini empi, è il motivo per cui si è aperta una strada di redenzione per gli uomini, tutti. E’ proprio vero. Il fatto che gli empi muoiano non dà soddisfazione a me che voglio insegnare a Dio come deve fare come il mestiere del giudice perché così sono puniti gli empi che muoiono. Giobbe ormai si sta orientando in un’altra direzione. Il fatto che gli empi muoiono e che muoiono come muoiono i giusti diventa motivo di speranza per la salvezza degli empi, non la soddisfazione di constatare che anche gli empi sono stati puniti. Che poi è una soddisfazione miserabile perché comunque moriamo tutti. Il punto è quell’altro: che muore il Giusto. E che la morte del Giusto diventa motivo di redenzione per gli empi. Giobbe queste cose le intravede.

Nella pienezza dei tempi proprio questo è l’evento che segna il ribaltamento generale di tutto. L’unico Giusto e tutti gli uomini empi. Una comunione nella morte, per cui la morte non è più il giudizio che condanna gli empi nella sconfitta, ma quella morte diventa il passaggio decisivo per un’opera redentiva che acquista una efficacia universale. Più universale di così non potrebbe essere perché tutti gli uomini muoiono. Che siano più bravi o un po’ più perversi, che muoiano un po’ prima o un po’ dopo, tutti gli uomini muoiono. Che cosa succede se proprio questa comunione nella morte tra il Giusto e gli empi non è il motivo di soddisfazione dietro il quale vogliono nascondersi gli amici per dimostrare che gli empi sono puniti, ma proprio quella comunione nella morte tra il Giusto e gli empi è il motivo della speranza per la salvezza del mondo.

Vedete come Giobbe, attraverso il dramma del suo dolore che non si spiega, sta maturando nella contemplazione del mistero di Dio e del mistero della salvezza così come Dio ha voluto realizzarla per gli uomini di oggi, di ieri, di domani, una volta per tutte, attraverso la morte del Giusto e la gloria che così si è accesa attraverso la morte di quel Giusto sulla scena del mondo.


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Il libro di Giobbe 2000-01