dicembre 2000
Abbiamo avviato insieme una ricerca sul Libro di Giobbe un mese fa. Abbiamo letto in quella occasione i primi tre capitoli del Libro di Giobbe. Proseguiremo, di mese in mese, con l’aiuto del Signore, confidando anche nella pazienza di tutti; dovremo affrontare passo passo la lettura di queste pagine. Si tratta di prendere contatto direttamente con il testo biblico, con tutte le incertezze che un’impresa del genere comporta, ma anche con la incrollabile fiducia che quando siamo in ascolto della parola di Dio è il mistero della incarnazione che già ci viene incontro, visitandoci con tutta la sua forza repentina.
Abbiamo lasciato Giobbe nell’atto di lamentarsi, nel capitolo 3. Le espressioni di un lamento estremamente drammatico. Giobbe si interroga: "perché vivere? Dal momento che la vita è così insopportabile". Ricordate, Giobbe, uomo che vive inserito in una tradizione sapienziale per cui vige un grande principio: l’innocente è premiato, il colpevole è punito. Giobbe si rende conto, in base alle esperienze della vita, che le cose non vanno esattamente in questo modo. Ci sono dei disguidi, delle disfunzioni, degli scompensi che nel caso suo personale raggiungono livelli estremi, paradossali. Giobbe ammalato, isolato, incompreso, fisicamente e moralmente travolto da una vita insopportabile. Giobbe si lamenta. Giobbe è un credente e nel corso del Libro, Giobbe rimane, per quanto riguarda la fede, sempre coerente, non ha dubbi di fede, ma sta sperimentando come sia problematica la relazione con Dio, proprio perché una relazione gratuita che non dipende da certi riferimenti oggettivi che garantiscono la determinazione del benessere o della disgrazia a seconda della qualità morale delle persone. Appunto il principio di retribuzione: i buoni sono premiati, i cattivi sono puniti. Una formula estremamente banale che però nella sua sintesi dice l’essenziale. Ebbene, il principio della retribuzione non regge e Giobbe avverte tutto il dramma di una relazione con Dio che non si inquadra all’interno di una logica che sia corrispondente a quel certo principio: le cose non vanno così. Il vero problema di Giobbe sta proprio in quella sua scoperta circa la gratuità della relazione con il Dio vivente. Non c’è regola in base alla quale possiamo inquadrare questa relazione, non c’è un quadro oggettivo che ci consenta di prevedere come si comporterà Dio. Giobbe è sconcertato, scandalizzato. Non viene mai meno la fede. Fede di un uomo sconcertato e scandalizzato, che dialoga con Dio, disputa con Dio, chiede, protesta, si lamenta. Non riesce ad inquadrare questa relazione di vita con Dio che è evidente, all’interno di una logica convincente.
Intanto Giobbe è immerso in una situazione dolorosissima. Il suo problema non è un problema teorico, è un problema che fa tutt’uno con il dramma del suo vissuto. Giobbe non è un pensatore che si interroga su questioni ideologiche. Giobbe sta patendo nella sua carne, nella sua psiche, nello squilibrio della sua vita intera, pene indicibili. Dal di dentro di questo suo dolore, si lamenta.
Intervengono i cosiddetti amici di Giobbe. Li abbiamo intravisti il mese scorso, all’inizio del capitolo 2. Si danno da fare intorno a Giobbe, poi tacciono. In realtà perché non hanno niente da dire, anche se adesso parleranno e parleranno tanto a lungo constateremo che per quanto riguarda il vero dramma in cui Giobbe è immerso, quegli amici non hanno niente da dire, semmai accentuano i problemi, i drammi, gli interrogativi di Giobbe, esasperano Giobbe, i cosiddetti amici. Giobbe, adesso, ascolta quello che i suoi amici vogliono dirgli e riprenderà la parola rispondendo e rilanciando le sue questioni. E così per diversi capitoli, affrontando questa ricerca piuttosto ansimante, affannata, nel dibattito tra gli amici che intervengono, convinti di avere da parte loro la sapienza tradizionale e di avere anche il dovere di spiegare a Giobbe come mai le cose della sua vita vanno in modo tanto doloroso e Giobbe che reagisce, rifiuta le parole dei suoi amici e rilancia la sua protesta dicendo: io sto veramente male e con i vostri discorsi non mi aiutate. Anzi, mi addolorate sempre più.
Leggiamo ora un po’ di corsa, sfogliando le pagine, i capitoli da 4 a 7. Leggiamo il discorso del primo dei tre amici, un certo Elifaz che è un sapiente, secondo la concezione tradizionale delle cose ed è un uomo che usa toni molto discreti, che sa modulare il suo linguaggio in maniera persuasiva. Si vede che Elifaz ha anche delle competenze (diremmo oggi) di ordine "pastorale", nell’ambiente del popolo di Dio, per cui vuole spiegarsi, vuole convincere e in qualche modo Elifaz è abituato ad esprimersi con il tono delle omelie. Capitolo 4 e capitolo 5, nei capitoli 6 e 7 la risposta di Giobbe.
Leggiamo. Il discorso di Elifaz si articola in quattro fasi, quattro argomentazioni. In modo molto ordinato procede nella sua esposizione.
I° svolgimento, dal versetto 1, al versetto 11 del capitolo 4: "Elifaz prese la parola e disse: Se si tenta di parlarti, ti sarà forse gravoso?" Si rivolge a Giobbe. Non te la prendere se io oggi mi rivolgo a te perché sono mosso da buone intenzioni "ma chi può trattenere il discorso", sono costretto ad intervenire in questo modo. "Ecco, tu hai istruito molti e a mani fiacche hai ridato vigore". Elifaz dice a Giobbe: anche tu sei stato maestro nella scuola sapienziale come noi, le cose le sai bene, tu stesso hai spiegato questa dottrina ad altri, "le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato". Ma ora questo accade a te e ti abbatti, capita a te e ne sei sconvolto, la tua pietà, la tua fiducia e la tua condotta integra non era forse la tua speranza?. Il tono di Elifaz è suadente: in fondo Giobbe, tu queste cose le hai insegnate ad altri, adesso capita a te di trovarti nei guai, sei alle prese con una disgrazia, la tua vita ha manifestato svolte dolorose come quelle per cui stai patendo, ma non dimenticare che tu hai insegnato in modo coerente con la tradizionale dottrina sapienziale e sempre il riferimento va al principio di retribuzione. Su questo insiste il nostro amico. Perché questo vuole arrivare a sostenere e a dimostrare a Giobbe: se le cose vanno così nella tua vita, se sei così travolto dal dolore inconsolabile, questo vuol dire che nella tua vita c’è una colpa, perché secondo quel principio i colpevoli sono puniti e se a te è capitato tutto questo vuol dire che da qualche parte c’è una colpa, magari nascosta, non dichiarata, non traducibile in forme molto esplicite, ma certamente c’è una colpa. E’ qui che vuole arrivare il nostro amico. Ed è proprio qui che Giobbe protesterà: a me non risulta. A me non risulta che i guai nella mia vita siano dovuti al fatto che io sia un peccatore, in un modo o nell’altro, colpevole di certe malefatte perchè mi sono tirato addosso conseguenze così dolorose. Questa logica a me non risulta, dirà Giobbe.
Prosegue Elifaz: "Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai furono distrutti gli uomini retti?" Vedete che il nostro amico non affronta sfacciatamente, spudoratamente Giobbe. Non gli dice: tu sei un peccatore!, ma tu queste cose le hai insegnate, vedi che un uomo innocente non è mai perito… questo è l’insegnamento che abbiamo ricevuto dagli antichi e che trasmettiamo. Dunque se le cose nella tua vita vanno in modo diverso vuol dire che innocente non sei.
Questa è la tradizione sapienziale, ma Elifaz ci mette da parte sua l’esperienza personale: io posso ribadire, confermare che ho verificato la validità di quel principio. Infatti dice: "per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie. A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati. Il ruggito del leone e l’urlo del leopardo e i denti dei leoncelli sono frantumati. Il leone è perito per mancanza di preda e i figli della leonessa sono stati dispersi". Elifaz ribadisce il principio di retribuzione (Dio premia gli innocenti, Dio punisce i colpevoli) e non c’è colpevole che possa sfuggire alla punizione che si merita. Questo modo di impostare le cose suppone una certa concezione di Dio. Dio qui – noi riusciamo a intravedere – viene identificato come una specie di sovrintendente a un meccanismo che deve funzionare secondo degli ingranaggi che già sono stati programmati. Dio è il tachimetro che controlla il funzionamento di questo grande meccanismo, una specie di grande ragioniere nella storia umana (con tutto il rispetto per i ragionieri). Una certa concezione di Dio e vedete che il problema di Giobbe riguarda proprio questo modo di considerare, concepire Dio, vederlo, come ci rivolgiamo a Dio. Ma chi è veramente Dio? E Giobbe il problema se lo pone dal di dentro di una sua situazione vissuta nella quale quel certo principio che dovrebbe regolamentare ogni cosa, per quello che lui sperimenta, per quello che riesce onestamente a decifrare, non funziona. Ma chi è veramente Dio? Elifaz prosegue. Dal versetto 12 al versetto 21 nel cap. 4 Elifaz fa un passo in avanti. Dice qualcosa di più. "A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro". Attenzione perché adesso Elifaz fa riferimento a una rivelazione che gli è stata comunicata in modo più interiore, con una partecipazione sua più spirituale, diremmo noi, per quello che egli sta testimoniando. Dove vuole arrivare? Vuole arrivare a dichiarare che in realtà lui, Elifaz, in base alla dottrina che ha studiato e in base a questa sua particolare rivelazione ricevuta in modo carismatico da Dio, è arrivato alla conclusione che in realtà nessun uomo è innocente. E’ una affermazione seria e piuttosto drammatica. Lui dice "Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, terrore mi prese e spavento e tutte le ossa mi fece tremare; un vento mi passò sulla faccia, e il pelo si drizzò sulla mia carne…" Fa riferimento, in modo un po’ barocco ad una sua esperienza quasi misticheggiante. "Stava là ritto uno, di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi… Un sussurro e una voce mi si fece sentire". Una rivelazione specialissima che lui ha ricevuto da Dio per strade così misteriose. "Può il mortale essere giusto davanti a Dio e innocente l’uomo davanti al suo creatore?" Una domanda retorica. E’ evidente che Elifaz aspetta una risposta negativa: l’uomo non è innocente, non è mai giusto davanti a Dio. Notate bene che Elifaz, nel corso delle sue argomentazioni, dice delle cose vere, prese una per una. Bisogna però considerare qual è la concatenazione fra l’una e l’altra e qual è lo svolgimento complessivo del suo discorso. Se le cose vanno così male nella vita di Giobbe vuol dire che è un peccatore, responsabile di una colpa e ha meritato così.
E adesso aggiunge che nessun uomo è giusto, nessun uomo è innocente e questo lo porterà poi a delle conclusioni davvero sconvolgenti. Perché se le cose stanno così, allora non c’è niente da fare, gli uomini sono tutti colpevoli e non c’è altra prospettiva per la vita umana che la pena schiacciante, mortificante di una sconfitta, un dolore punitivo che non può essere evitato in nessun modo.
Elifaz dice che l’uomo evidentemente non è innocente e lo spiega ricorrendo a due immagini simboliche: "Ecco, dei suoi servi non si fida e ai suoi angeli imputa difetti; quanto più chi abita case di fango". Gli uomini sono poltiglia fangosa, come volete che gli uomini possano pretendere di essere giusti davanti a Dio. L’uomo nella polvere è stato plasmato e la casa di fango è il corpo di cui l’uomo è dotato è come marciume che viene spazzato via. Gli uomini sono annientati "tra il mattino e la sera", altra immagine simbolica. Fino a questo momento ci parlava del corpo umano. Adesso usa l’immagine del tempo, che fugge rapidissimo, per cui la vita umana si conclude come un lampo: "periscono per sempre, la funicella della loro tenda non viene forse strappata? Muoiono senza saggezza!"
L’uomo, davanti a Dio, non è mai innocente e come potrebbe essere diversamente, l’uomo è fatto di fango, è creatura limitata dentro a una finitezza mortificante, l’uomo è sempre e comunque davanti a Dio, uno sconfitto, meritevole di consumarsi come il fango e come capita a tutti i viventi che vengono meno. Questo modo di intendere le cose esprime la interiore convinzione che la vita umana comunque sia infetta, porti in se e per se, nella sua struttura più intima, un elemento di corruzione. E’ un modo di intendere le cose che mette tutto in discussione: mette in discussione il motivo per cui Dio ha creato, l’intenzione di Dio, la bontà della creazione. Elifaz di queste cose non vuole ora discutere, vuole semplicemente affrontare il problema di Giobbe, vuole spiegargli che le cose gli vanno così male perchè è colpevole e in fondo chi non è colpevole? E a questo punto aggiunge (terzo svolgimento del suo discorso): bisogna rassegnarsi. Le argomentazioni di Elifaz sono quelle che ricorrono spesso anche, ahimè, nel nostro linguaggio cosiddetto pastorale. Bisogna rassegnarsi, non può andare diversamente, rassegnarsi al male che è inevitabile. E invece Giobbe non si rassegna affatto, non soltanto perché lui sta male, ma perché Giobbe è convinto che la concezione di Dio che sta sotto il discorso di Elifaz è una concezione menzognera, che offende Dio. Non è così. Il male è inevitabile, come se il male fosse già stato programmato dall’inizio, come se il male in qualche modo fosse già dentro al disegno determinato da Dio stesso. E non è così. Ma Elifaz prosegue nel suo discorso, con un tono molto disinvolto, pacato, molto paterno. In fondo vuole tranquillizzare Giobbe.
Leggo (v 1, cap. 5): "Chiama dunque! Ti risponderà forse qualcuno? E a chi fra i santi ti rivolgerai?. Poiché allo stolto dà morte lo sdegno e la collera fa morire lo sciocco. Io ho visto lo stolto mettere radici, ma imputridire la sua dimora all’istante. I suoi figli sono lungi dal prosperare, sono oppressi alla porta, senza difensore; l’affamato ne divora la messe e gente assetata ne succhia gli averi". Per Elifaz è inutile protestare, le conseguenze del male sono inarrestabili e quando gli uomini si esprimono nella loro negatività vanno incontro a degli effetti che in modo rigoroso li travolgono nelle conseguenze della loro iniquità. Questo suo modo di ragionare suppone davvero che Dio sia una specie di autorità suprema che tutto governa in modo deterministico, ma tutto funziona nel negativo. E tutto funziona in modo da dimostrare che le sue sanzioni rigorose e implacabili sono inappellabili e definitive. Ma sanzioni così dure e irrevocabili nei confronti di una organizzazione del mondo che dipende da lui. Il mondo lo ha fatto così e lo ha fatto così perché deve essere così. L’ha fatto nel male perché deve rimanere nel male. E noi dobbiamo sottostare a questo regime. Elifaz queste cose le sta dicendo non in modo sfacciato, le dice in modo delicato, sfumato e convincente perché la sua preoccupazione immediata è quella di star vicino a Giobbe che si trova in difficoltà. Ma il suo discorso suppone una visione delle cose così sfacciata e spietata, come cerco di esplicarla io a mio modo.
Qui Elifaz insiste (vv da 6 a 9). E’ inutile protestare: "Non esce certo dalla polvere la sventura né germoglia dalla terra il dolore, ma è l’uomo che genera pene, come le scintille volano in alto". Il male viene da dentro l’uomo, cosa pensi che il male ti sia capitato come un macigno che ti è caduto sulla testa? No, il male viene da dentro, il male viene dal fondo del cuore. Con chi te la vuoi prendere? Prenditela con te stesso. Tu sei prigioniero di un meccanismo inquinato per cui il male di cui sei colpevole ti ricade addosso con inevitabile precisione. E’ una severità intransigente quella che Elifaz ci lascia intravedere. Questa visione deterministica delle cose diventa, ad un certo punto (vv 8 e 9), quasi un automatico scagionamento, perché se è vero che le cose vanno così e non possono andare diversamente, allora vuol dire che non è neanche il caso di prendersela tanto, di drammatizzare tanto le cose; bisognerà resistere un pochino, per quel che ci riesce, e poi il mondo va come deve andare. "Io qui mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia causa: a lui, che fa cose grandi e incomprensibili, meraviglie senza numero". Per un verso il discorso di Elifaz è così tagliente come abbiamo potuto cogliere, per un altro verso alla fine dei conti Elifaz dice: guarda, visto che non c’è niente da fare, lasciamo fare a Dio che ha predisposto ogni cosa, è inutile stare tanto ad interrogarsi su come sono colpevole, dove ho sbagliato, dov’è che ho provocato con il mio comportamento, con le mie scelte, con la durezza del mio cuore queste conseguenze così negative. Perché tanto va così e non può andare diversamente. Stacci dentro. E adesso dice (v. 10 fino al v. 27): questi sono i prodigi di Dio, fa tutto lui in modo provvidenziale e bisogna che tu ti lasci portare da questa corrente. E’ una corrente che ti travolge. Notate bene che sembra una visione consolante ed è invece una visione orribile. Sembra un messaggio tranquillizzante ed invece è la suprema esasperazione del negativo. L’importante è adeguarsi a questa malattia che corrompe tutto, stacci dentro senza protestare e vedrai che ti barcamenerai fino alla fine.
Leggo: "Dio dà la pioggia alla terra a manda le acque sulle campagne. Colloca gli umili in alto e gli afflitti solleva a prosperità; rende vani i pensieri degli scaltri e le loro mani non ne compiono i disegni; coglie di sorpresa i saggi nella loro astuzia e manda in rovina il consiglio degli scaltri. Di giorno incappano nel buio e brancolano in pieno sole come di notte, mentre egli salva dalla loro spada l’oppresso, e il meschino dalla mano del prepotente. C’è speranza per il misero e l’ingiustizia chiude la bocca".
Si tratta, per Elifaz, di adeguarsi a quel calcolo che Dio ha predisposto. E nei suoi calcoli Dio è puntualissimo. Bisogna abbandonarsi al flusso delle necessità. E quelle necessità che dominano la nostra vita umana, la storia degli uomini sono da intendere come provvidenze divine. Adeguati. E adesso dice addirittura (v. 17): "Felice l’uomo che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima non ti toccherà il male". Ad un certo momento ti abituerai. Qual è la prospettiva pastorale che Elifaz presenta a Giobbe. Vedi che la liberazione dal male, caro Giobbe, non consiste nella eliminazione del male. Il male è ineliminabile. Addirittura, secondo questo versetto, il male diventa necessario. La liberazione dal male consiste nell’adeguarsi al male. Più ti lasci portare da questo meccanismo, ci stai dentro senza protestare e più ti adeguerai alla necessità che domina te, la tua vita e il mondo intero e lì troverai il tuo spazio. Una concezione questa un po’ simile a quella di certe filosofie del mondo orientale, in modo un po’ generico, inutile stare a precisare ora. Non c’è vera guarigione, liberazione dal male, non c’è redenzione dal male, non c’è. L’importante e che tu accetti questa necessità. Beato l’uomo che accetta questa necessità e diventa un uomo, secondo quello che dice Elifaz, pacificato, consolato, un bel budda, impacchettato in una situazione che dovrebbe essere di indifferenza a tutto. Sei disgrazie, ti capiterà la settima e tu resterai impassibile ormai perché il male è una necessità e tu ti adegui. Non è liberazione dal male, è adeguamento. Questa è la proposta pastorale di Elifaz. E insiste, gli ultimi versetti (dal v. 22): " Della rovina e della fame ti riderai". Qualunque patimento nella tua vita diventerà una sciocchezza, è normale, inevitabile, rovina, fame, ci riderai sopra "né temerai le bestie selvatiche; con le pietre del campo avrai un patto e le bestie selvatiche saranno in pace con te. Conoscerai la prosperità della tua tenda, visiterai la tua proprietà e non sarai deluso. Vedrai, numerosa, la prole; i tuoi rampolli come l’erba dei prati. Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come si ammucchia il grano a suo tempo. Ecco questo abbiamo osservato: è così. Ascoltalo e sappilo per tuo bene". Non ci soffri più perché più stai male e più sei convinto che quel male è necessario e più accetti questa necessità e trovi, dice Elifaz, una accettabile, gradevole prospettiva della tua vita fino a quando dovrai morire anche tu. Ma anche la necessità di dover morire diventa un godimento: dovrò morire, devo morire. Ecco, beato te. Vedete come Elifaz vuole convincere Giobbe. Devi essere un po’ più disponibile a sopportare gli inconvenienti della vita, non c’è medicina che possa guarire, ma guarda che non c’è liberazione dal male. Guarda però che Dio ha già predisposto ogni cosa in modo tale che per gli uomini che sono necessariamente sproporzionati a lui, alla sua grandezza, alla sua innocenza, alla sua giustizia, non c’è alternativa a quello che succede nella nostra condizione di peccatori, mortali. Siamo prigionieri del male, se accettiamo questo stato di prigionia, che godimento, che soddisfazione! Un bel budda accovacciato nella soddisfazione di un mondo che rimane quello che è, prigioniero del male.
Questa concezione di Dio per il quale il male che facciamo noi uomini è semplicemente una necessità calcolata dentro un meccanismo, per Giobbe è un insulto, non lo sopporta e ora interviene. Leggiamo rapidamente il cap. 6 e il cap. 7.
Giobbe risponde e il suo discorso si sviluppa in quattro movimenti.
Primo movimento, dal v.1 al v. 13: un lamento.
"Allora Giobbe rispose:
se ben si pesasse il mio cruccio, e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura… certo sarebbe più pesante della sabbia del mare! Per questo temerarie sono state le mie parole, perché saette dell’Onnipotente mi stanno infitte, sì che il mio spirito ne beve il veleno e terrori immani mi si schierano contro!"
Dice Giobbe: io non ce la faccio più. Tu fai dei bei discorsi che vogliono essere logici e persuasivi, ma intanto io sto male. E il mio dolore è incalcolabile, smisurato; sono come stretto nella morsa di un assedio spietato, il dolore mi stringe mi affligge, mi travolge. Dice ancora:
"Raglia forse il somaro con l’erba davanti o muggisce il bue sopra il suo foraggio?"
Il mio modo di reagire, spiega Giobbe, è come quello di un animale affamato, come un asino che raglia, come un bue che muggisce.
"Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c’è nell’acqua di malva?
Ciò che io ricusavo di toccare Questo è il ributtante mio cibo!"
Adesso dice: il mio dolore è per me causa di una reazione così irruente, travolgente, lamentosa perché io sono come un uomo che ha perso il gusto, il dolore mi ha disorientato internamente, ho perso i riferimenti in base ai quali ero abituato a impostare la mia vita, a discernere il cammino, a decidermi con matura coscienza di me e del mondo. Ho perso il gusto di vivere. E insiste, vv. dall’8 e 10:
"Oh mi accadesse quello che invoco, e Dio mi concedesse quello che spero!
L’unica possibile liberazione, stando le cose così come le sperimenta Giobbe nel suo dolore, è la morte.
"Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi!
Ciò sarebbe per me un qualche conforto e gioirei, pur nell’angoscia senza pietà, per non aver rinnegato i decreti del Santo…"
Giobbe ci tiene a dire che non gli risulta di essere colpevole in qualche modo. Se adesso finalmente morisse, in questo modo sarebbe sancita definitivamente la sua innocenza e non andrebbe incontro ad altre eventualità incresciose.
Il lamento di Giobbe prosegue. Vv. da 11 a 13:
"Qual la mia forza, perché io possa durare." Invoca la morte ma in realtà non muore. Gli tocca tirare avanti constatando che non ce la fa più. E’ spossato. "O qual la mia fine, perché prolunghi la vita? La mia forza è forza di macigni? La mia carne è forze di bronzo? Non v’è proprio aiuto per me? Ogni soccorso mi è precluso?" Ricordate che nel libro di Geremia il profeta dice di se stesso che è chiamato ad essere come un muro di bronzo. Nel libro di Isaia un altro profeta dice che ha ricevuto la faccia dura come pietra e qui Giobbe sta dicendo: queste non sono cose per me, io non ce la faccio più, io non ho la faccia dura come la pietra, io non sono un muro di bronzo. Io sono schiacciato, stritolato, spossato.
Dal v, 14 al v. 30 il secondo movimento. Adesso Giobbe si rivolge agli amici:
"A chi è sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio". Giobbe dice: io questo da voi non me l’aspettavo. Io mi aspettavo che voi aveste pietà, che vi rendeste conto di me e della mia situazione, non giudicandomi dall’alto, facendomi un’omelia, ma che vi avvicinaste a me disposti a condividere la mia sorte, dal di dentro di un dramma, anche se fossi un grande peccatore. "I miei fratelli mi hanno deluso come un torrente": che delusione questi amici. "Sono dileguati come i torrenti delle valli, i quali sono torbidi per lo sgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti." Come una fiumara che è gonfia d’acqua e poi inaridisce e quando vai a cercare l’acqua perché ne hai bisogno, una aridità desolante: così sono gli amici. Che delusione! Anzi, insiste e qui l’immagine è di una carovana che si muove nel deserto e vede un miraggio … svanisce.
"Deviano dalle loro piste le carovane, avanzano nel deserto e si perdono; le carovane di Tema guardano là". Là è il miraggio, là dovrebbero essere gli amici, cosiddetti di amici "i viandanti di Saba sperano in essi, ma rimangono delusi di avere sperato, giunti fino là ne restano confusi. Così ora voi siete per me, vedete che faccio orrore e vi prende paura." Voi mi trattate dall’alto in basso, fate dei bei discorsi, riproponete i vostri insegnamenti, mi date i buoni consigli, ma il motivo è che voi avete paura di prendere contatto con me, come sono veramente nel mio dolore. Io sono una presenza orribile nel mio dolore, voi non mi sopportate, vorreste cancellarmi. E io sono qua invece, con il mio dramma, i miei interrogativi e con la mia ricerca che riguarda il mistero di Dio e il mistero della relazione tra Dio e noi, e questo voi non lo sopportate. E insiste: v. 22: "Vi ho detto forse "datemi qualcosa" o "dei vostri beni fatemi un regalo". Giobbe non ha mai inteso l’amicizia come un senso commerciale, uno scambio di favori. No. "O vi ho detto "liberatemi dalle mani di un nemico o dalle mani dei violenti riscattatemi?" Istruitemi e allora io tacerò, fatemi conoscere in che cosa ho sbagliato. Che hanno di offensivo le giuste parole? Ma che cosa dimostra la prova che viene da voi? Non cerca Giobbe un contatto con gli amici di tipo clientelare. Non ha trovato ciò di cui aveva bisogno. Insiste ancora: dal v. 26 in poi:
"Forse voi pensate a confutare parole, e come sparsi al vento stimate i detti di un disperato! Anche sull’orfano gettereste la sorte e a un vostro amico scavereste la fossa…Ma ora degnatevi di volgervi verso di me: davanti a voi non mentirò." Guardatemi in faccia, guardatemi per quello che sono, guardate a me (questo versetto 28 è importantissimo). Ricredetevi, non siate ingiusti, la mia giustizia è ancora qui. "C’è forse iniquità sulla mia lingua o il mio palato non distingue più le sventure?" Non andate dietro ai vostri ragionamenti. Avvicinatevi a me così come sono. Questo Giobbe chiede ai suoi amici e non l’ottiene.
Terzo movimento nel suo discorso. Di nuovo il lamento. Cap. 7 dal v.1. al v.11.
"Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario? Che fatica, vivere! La giornata del lavoratore come è penosa. "I suoi giorni non sono come quelli di un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di dolore mi sono state assegnate". Ma non solo il giorno del lavoratore è faticoso, la notte diventa ancor più faticosa quando non c’è riposo, dice Giobbe. "Se mi corico dico: "quando mi alzerò?". Vado a dormire e aspetto solo il momento che venga giorno e il giorno è quel giorno penoso da cui vorrei fuggire e poi viene la notte e mi spaventa, non mi dà riposo. "Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba". Che fatica vivere! E poi, aggiunge adesso Giobbe nel suo lamento, alla resa dei conti si vive per andare incontro alla morte. "Ricoperta di vermi e croste è la mia carne, raggrinzita e la mia pelle e si disfà. I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita". Notate che Giobbe si rivolge a Dio…. "ricordati", perché Giobbe è sempre aperto verso Dio, è sempre in dialogo con il Signore. "Ricordati di me…" . Gli amici fanno i loro ragionamenti, Giobbe invece, con tutto lo strazio della sua disgrazia, Giobbe è sempre rivolto a Dio, magari con tono provocatorio, magari con parole che sembrano quasi blasfeme, ma è rivolto a Dio. "Ricordati…che sono un soffio, il mio occhio non rivedrà più il bene. Non mi scorgerà più l’occhio di chi mi vede: i tuoi occhi saranno su di me e io più non sarò". "Ricordati di me", che vado incontro alla morte, vengo meno, mi consumo, son già distrutto. E ancora il lamento prosegue nei vv. da 9 a 11: "Una nube svanisce e se ne va, ( questa è una immagine che serve a Giobbe per descrivere la vita umana che sembra veramente sprecata. "così chi scende agli inferi più non risale; non tornerà più nella sua casa, mai più lo rivedrà la sua dimora. Ma io non terrò chiusa la bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore! " Vedete come Giobbe insiste, sta accumulando amarezza e dice: io comunque non tacerò. Giobbe è scandalizzato: che fatica vivere, che spreco vivere! E queste cose le sta dicendo a Dio, ha il coraggio di presentarsi con questo suo dramma, questi suoi interrogativi, queste sue amarezze alla presenza di Dio.
Ed è l’ultimo movimento del suo discorso e concludiamo per questa sera, dal v. 12 al v. 21 del cap. 7.
Adesso Giobbe che precedentemente si era rivolto agli amici (che delusione che siete voi amici miei) si rivolge direttamente a Dio. Tre strofe. Prima strofa fino al v. 15:
"Sono io forse il mare o un mostro marino perché tu mi metta accanto una guardia?". Sapete cosa sta dicendo a Dio? Perché ce l’hai con me, mi tratti come se fossi pericoloso, mi metti accanto una guardia, mi sorvegli come se io fossi un mostro. Perché? Lui sente così.
"Quando io dico: "il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio letto allieterà la mia sofferenza, tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi tu mi atterrisci. Preferirei essere soffocato, la morte piuttosto che questi miei dolori!". Perché mi tratti come un mostro marino? Già. Perché ce l’hai con me? Questo linguaggio di Giobbe a noi può sembrare un po’ aspro, sconveniente, inopportuno: non si dicono queste cose a Dio. Ma tenete conto del fatto che il ragionamento dell’amico Elifaz impostava le cose dicendo: "vedi, Dio è contento così". E Giobbe invece protesta perché rimane intimamente convinto che Dio non può essere contento di come vanno le cose al mondo. Poi stabiliamo di chi è la responsabilità, ma intanto nessuno può venirgli a dire che Dio è contento. E quando Giobbe protesta in questo modo non sta offendendo Dio, ma sta rivendicando il valore di una intenzione divina che certamente non è soddisfatta di come vanno le cose al mondo. Non è possibile. Dio non è così. E allora si permette anche di trattarlo in modo così brutale, diremmo noi. Perché? Perché sa già che Dio non è così.
Seconda strofa (vv. da 16 a 19):
Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo. Lasciami perché un soffio sono i miei giorni." Perché mi stringi? Lasciami. "Che è quest’uomo che tu ne fai conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva?" Cosa è mai l’uomo che tu lo stringi con tanto fervore, con tanta intensità.- Ricordate il Salmo 8 "Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra". Che cosa è l’uomo che di lui ti ricordi, lo hai fatto come gli angeli, al di sopra di tutte le altre creature. Che cosa è l’uomo che tu ti ricordi di lui. E qui vedete che il Salmo 8 è citato ma ribaltando la prospettiva. Che cosa è l’uomo? Perché non lo lasci in pace? Perché l’uomo è così importante per te che tu ti prendi cura di lui? Nel Salmo 8 era preso da ammirazione. Che meraviglia! E adesso Giobbe gli dice: perché ti prendi cura di lui? Lascialo in pace. Vedete che linguaggio provocatorio. Che cosa è l’uomo? E’ così importante per te? In realtà è proprio così, l’uomo è importante e il Salmo 8 dice bene. E >Giobbe ancora insiste e conclude, ultimi versetti, da 20 a 21, terza strofa: "Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché mi hai preso a bersaglio e ti sono diventato di peso?" Tu sei un Dio guardiano, un Dio bersagliere, o carabiniere. Mi hai preso a bersaglio, che ti ho fatto, perché vuoi vendicarti? Guardate che Giobbe non sta tanto discutendo, sostiene dialogando con gli amici di essere innocente, di non avere in nessun modo meritato i guai dolorosissimi in cui la sua vita adesso è sprofondata. Ma dialogando con Dio non sta dicendo "io ho ragione e tu hai torto". Sta dicendo: "vedi il mio dolore? E’ qui. E come ti comporti tu nei confronti del mio dolore. E questo suo modo di impostare la sua relazione con il Signore dipende dalla intima convinzione che per Dio onnipotente il dolore dell’uomo è oggetto di una attenzione minuziosa, devota, affettuosa. Non può essere che, quale che sia il motivo per cui l’uomo si trova nel dolore, il fatto che io sia nel dolore non può non interessarti. "Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità? Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò".
Non può essere questo. Non può essere che Tu sia il mio tormentatore, il mio aguzzino, non può essere. Vedi che il divertimento finisce presto perché tra poco io sparisco e dopo tu perdi la tua soddisfazione. Vedete che linguaggio provocatorio, violento. Queste cose Giobbe le dice a Dio con tanta chiarezza perché se sta così male, quale che sia il motivo, certamente è importante per Dio. Non riesco ancora a capire come vadano le cose, ma certamente c’è una Tua attenzione, c’è un Tuo affetto, c’è un Tuo impegno, c’è una Tua partecipazione. Ed è per questo che Giobbe si aggrappa a Dio. Gli amici non hanno nulla da dire. Resta lui con il suo dolore. E’ tutto buttato nel mistero di Dio.