Incontri di discernimento e solidarietà
 
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6 marzo 2001

Il Libro di Giobbe

Ritorniamo alla lettura del Libro di Giobbe. Stiamo avanzando di mese in mese. Abbiamo letto ormai 21 capitoli. Un buon tratto di strada eppure siamo ancora in alto mare. Si tratta questa sera di fare un passo in avanti, con una certa accelerazione. Dovremmo riuscire a sfogliare le pagine leggendo, attraversando i capitoli da 22 a 28.

Ricordate la situazione in cui si trova Giobbe con i suoi guai, inspiegabili: un uomo di fede che è coinvolto in una situazione dolorosa, anzi si può dire di più, una situazione scandalosa che non può trovare una spiegazione convincente. Non c’è modo per riportare il dramma che travolge la vita di Giobbe al di dentro di quell’insegnamento tradizionale che fa capo al principio della retribuzione: Dio premia i buoni, Dio punisce i colpevoli.

Giobbe è in grave difficoltà. Giobbe è un uomo di fede. E’ un vero credente, ma è in difficoltà per quanto riguarda l’interpretazione di quello che gli succede. E quello che succede a lui, in realtà, succede poi a tanti altri uomini, succede in un luogo e in tanti altri luoghi, succede in un momento della storia, ma succede poi lungo tutto lo svolgimento della storia, ieri e ancora oggi.

Come si spiega questo svolgersi così catastrofico degli eventi che, per quanto Giobbe riesce onestamente a verificare, non può essere determinato da una colpa più o meno identificata, denunciabile nella sua oggettività. "Come si può mai spiegare il male che mi strazia, la disgrazia che travolge la mia vita, il dolore che mi si è inciso dentro in modo così inconsolabile senza che – afferma Giobbe – io riesca a ricondurre tutto questo a una qualche colpa". Giobbe sa bene di essere un peccatore anche lui come tutti gli uomini sono (siamo) peccatori. Ma è la connessione tra la sua colpa e la situazione dolorosa che lo affligge in modo così travolgente che per Giobbe non è affatto chiara. Giobbe dice "io non comprendo proprio come sia possibile che per le mie colpe, quali che siano e sono tutte da dimostrare, i fatti della mia vita debbano andare in modo così tragico. Questo non me lo spiego".

Intervengono i suoi amici, ricordate. Siamo ancora alle prese con questa situazione. Gli amici sono tre, si avvicinano a Giobbe e cercando di aiutarlo spiegano dal loro punto di vista come si debbano interpretare gli avvenimenti.

Abbiamo letto già due cicli di discorsi. Dobbiamo affrontare questa sera il terzo ciclo. Gli amici, uno dopo l’altro, dicono la loro e Giobbe risponde, risponde e anche divaga a seconda dei casi. In qualche momento Giobbe è più serrato e determinato nel reagire alle considerazioni dei suoi amici, in altri momenti Giobbe sembra quasi prescindere da loro e dedicarsi a riflessioni tutte sue. I tre amici incalzano uno dopo l’altro, li abbiamo caratterizzati: Elifaz, l’uomo pio e devoto, l’uomo della pastorale, Bildad il giurista, Zofar il teologo. Così io li definivo e siamo riusciti a definire in qualche modo i loro connotati umani, culturali, il loro modo di esprimersi, il loro atteggiamento, la loro sintesi che è nell’animo così come nei comportamenti. La loro sintesi di vita ha sfaccettature variabili, ma in ogni caso sempre tutti e tre gli amici fanno capo al principio della retribuzione che Giobbe non riesce a far suo, per quanto anche lui – Giobbe – sia stato presente e operante nella scuola sapienziale. Ma non riesce più a riferirsi a quel principio per trovare un criterio veramente valido, opportuno, sapiente per interpretare quel che succede nel mondo, quel che succede nella esperienza sua che poi in realtà è l’esperienza di tanti e tanti uomini di ieri e di oggi.

Terzo ciclo. Diamo uno sguardo rapidamente a queste pagine. Cap. 22. Interviene di nuovo Elifaz, l’uomo dedito alla pastorale che, adesso, benchè sia un personaggio molto pio e benevolo, come abbiamo constatato, assume degli atteggiamenti piuttosto aggressivi. Può succedere anche questo, che un personaggio animato da buoni sentimenti come Elifaz, al momento opportuno, proprio perché preso dal desiderio di redimere, di convertire Giobbe, lo affronti con espressioni piuttosto energiche, brusche, addirittura violente. Sono espressioni verbali, ma sotto sotto percepiamo un risentimento. Elifaz non riesce a comprendere come mai Giobbe non si converta. Dal suo punto di vista Giobbe è un peccatore incallito, impenitente. "Giobbe, possibile che tu non ti convinca delle cose che sono così evidenti? Vuol dire che tu veramente sei contrario non solo all’insegnamento tradizionale, non solo a una verità così luminosa, ma tu sei corrotto moralmente, sei cattivo dentro". Elifaz dice questo o comunque lo fa capire a Giobbe in modo sfacciato. Povero Giobbe, adesso c’è anche Elifaz che gli dice "guarda: se le cose vanno così e tu non ti convinci, vuol dire che sei veramente perverso nel cuore".

Leggiamo. Vv. da 2 a 5.

"Può forse l’uomo giovare a Dio, se il saggio giova solo a se stesso?" E’ una battuta di avvio nel discorso di Elifaz molto interessante. "Vedi, Giobbe, a Dio non importa niente di te. Cosa vuoi che se ne faccia Dio di te. Questo è il punto di partenza, dopo di che tu devi essere impegnato moralmente, coerente, coraggioso, generoso, devi essere aperto a una realizzazione positiva della vita tua perché Dio da parte sua è al di sopra di tutto ed è, per così dire, impassibile". Vedete che concezione. "I problemi non sono di Dio, i problemi sono tuoi, Giobbe. E se le cose vanno così, vedi che non è Dio che deve scomodarsi per venire incontro a te. Sei tu che devi convertirti perché tu sei cattivo.E non la vuoi capire." "Quale interesse ne viene all’Onnipotente che tu sia giusto o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra? Forse per la tua pietà ti punisce e ti convoca in giudizio? O non piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue iniquità senza limite?" "Se tu sei cattivo peggio per te, perché te la prendi con Dio? Cosa vuoi che gliene importi a Dio se le cose a te vanno così male perché sei cattivo?"

Che strana concezione, ma vedete, neanche tanto strana, qualche volta affiora anche nell’animo nostro. Eppure è proprio questa una maniera di intendere le cose, di descrivere la relazione con Dio, di predicare anche il messaggio della fede, è un modo di dedicarsi a queste cose che Giobbe non sopporta più. Come? Giobbe poi risponderà. Adesso è ancora il discorso di Elifaz. "Come? A Dio non importa niente del fatto che io stia così male? Come fai a dire una cosa del genere, caro Elifaz. Tu che sei l’uomo della pastorale. Come fai a venire a dire a me che io sono cattivo. E’ tutto da discutere; bisognerà che qualcuno mi spieghi dove sta la mia cattiveria. Questo lo potrò anche scoprire in qualche angolo del mio cuore, non ho difficoltà a impegnarmi in questa ricerca, ma che a Dio non importi nulla del mio male non me lo puoi dire. E se io sono un peccatore e sto così male, a Dio deve importare qualche cosa. Non è che Dio è al di sopra di tutto e se a un peccatore capita una disgrazia come quella capitata a me, peggio per lui, se l’è meritata. Non può essere così" dice Giobbe.

Elifaz prosegue nel suo discorso: vedi Giobbe "senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli". Adesso Elifaz tira fuori tutte le imputazioni o i titoli di possibili imputazioni che potrebbero essere attribuite a Giobbe. Tutto poi fa capo, come è comprensibile in un ragionamento ispirato dalla teologia morale, a peccati riguardanti la carità. "Tu non hai amato, Giobbe". E’ sempre colpire nel segno perché comunque gli uomini non hanno amato come dovrebbero. Noi sempre nella nostra vita non abbiamo amato in modo pieno, coerente, soddisfacente. Certamente. Ed Elifaz, che parla in veste di teologo moralista, colpisce certamente nel segno "senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. Non hai dato da bere all’assetato, all’affamato hai rifiutato il pane, la terra l’ha il prepotente, vi abita il tuo favorito". Tutti richiami a situazioni che manifestano la corruzione di cui danno prova gli uomini e di cui dà prova anche Giobbe. Elifaz non ha dubbi. "Le vedove tu hai rimandato a mani vuote e le braccia degli orfani hai rotto". "Le opere di misericordia non sono il tuo modo di esprimerti, non sei dedito a queste cose". "Ecco perché" – prosegue – "intorno a te ci sono lacci e un improvviso spavento ti sorprende". "Certo che le cose nella vita ti vanno male, certo che tu sei preso da tanta inquietudine". "Tenebra è la tua luce e più non vedi e la piena delle acque ti sommerge". "Tu sei travolto da questo cumulo di sventure, "ma Dio non è nell’alto dei cieli?"

Elifaz qui ormai accusa Giobbe di essere un ateo. "Le cose vanno così perché tu, cattivo come sei, non credi in Dio".

"Ma come non credo in Dio?"

"Perché tu te la prendi con Dio".

Giobbe non se la prende con Dio perché è ateo. Proprio l’opposto. Elifaz non ha capito l’essenziale della questione. Giobbe da parte sua sta dichiarando che il rapporto con Dio per lui è drammatico e che lui tante cose non se le spiega proprio nel rapporto con Dio. Non perché è ateo, ma proprio perché è credente non se le spiega.

Ed Elifaz invece da parte sua: "vedi che tu sei un bestemmiatore, tu offendi Dio, te la prendi con lui perché sei non credente".

"Quando mai?"

"Dio non è forse nell’alto dei cieli? V. 12. "Guarda il vertice delle stelle: quanto sono alte! E tu dici: cosa sa Dio? Può giudicare attraverso la caligine? Le nubi gli fanno velo e non vede e sulla volta del cielo passeggia". Tu offendi Dio (Elifaz dice questo – notate – quando proprio lui ha aperto il suo discorso dicendo "a Dio non interessa niente di come stai tu, perché Dio è al di sopra. E’ problema tuo essere giusto e non perverso, essere un uomo misericordioso e non iniquo. E’ problema tuo"). E adesso accusa Giobbe di essere un bestemmiatore perché accusa Dio per le cose che non vanno.

Giobbe è un credente e proprio perché è un credente ha il problema.

E insiste Elifaz, v. 15: "vuoi tu seguire il sentiero d’un tempo, già battuto da uomini empi, che prima del tempo furono portati via, quando un fiume si era riversato sulle loro fondamenta? Dicevano a Dio: "Allontanati da noi! Che cosa ci può fare l’Onnipotente? Eppure gli aveva riempito le loro case di beni, anche se i propositi degli empi erano lontani da lui. I giusti ora vedono e ne godono e l’innocente si beffa di loro: "Sì, certo è stata annientata la loro fortuna e il fuoco ne ha divorato gli avanzi!". "Vedi che tu sei empio in continuità con tutti quegli empi che già hanno assunto la loro posizione di avversari di Dio nella storia passata e sono stati sgominati. E’ quello che sta capitando anche a te, Giobbe". Vedete Elifaz, pio e devoto predicatore, come spiega le cose. E insiste, v. 21: "Su, riconciliati con lui e tornerai felice". E’ un invito che ha anche una sua sincerità perché il buon Elifaz non riesce a capacitarsi. "Riconciliati con lui, rivolgiti a Dio con animo devoto, fiducioso, abbandonati a lui". Sembra quasi che Giobbe abbia bisogno di Elifaz per essere incoraggiato nella relazione con Dio quando la relazione con Dio è il dramma della vita di Giobbe, è la pienezza della sua vita. "Riconciliati con lui e tornerai felice, ne riceverai un gran vantaggio. Accoglie la legge dalla sua bocca e pone le sue parole nel tuo cuore. Se ti rivolgerai all’Onnipotente con umiltà - già perché tu non sei umile, Giobbe – se allontanerai l’iniquità dalla tua tenda, se stimerai come polvere l’oro e come ciottoli dei fiumi l’oro di Ofir, allora sarà l’Onnipotente il tuo oro e sarà per te argento a mucchi. Allora sì dell’Onnipotente ti delizierai". "Allora sarai felice".

Ma che felicità è questa? Una felicità a misura dei desideri umani. Una felicità corrispondente alle nostre aspettative. Ma è felicità questa?

"Allora sì, sarai felice perché vedrai soddisfatte le tue aspirazioni". E’ felicità questa?

"Nell’Onnipotente ti delizierai, e alzerai a Dio la tua faccia. Lo supplicherai ed egli t’esaudirà e tu scioglierai i tuoi voti. Deciderai una cosa e ti riuscirà e sul tuo cammino splenderà la luce. Egli umilia l’alterigia del superbo, ma soccorre chi ha gli occhi bassi. Egli libera l’innocente; tu sarai liberato per la purezza delle tue mani".

Vedete come tutto diventa ambiguo qui. Di quale felicità parliamo? A quale Dio Elifaz si riferisce? A quale cammino di fede vuole incoraggiare Giobbe Elifaz?. Tutto diventa ambiguo, pericolosamente ambiguo, tant’è vero che adesso Giobbe risponde (siamo al cap. 23) dimostrando che ha rinunciato a prender sul serio le considerazioni di Elifaz, non interviene più interloquendo con lui perché non ha più niente da dire. In realtà è come se Giobbe parlasse tra sé e sé. Elifaz in realtà sta parlando a vanvera. Sta parlando a Giobbe dal suo punto di vista, ma non sta parlando a Giobbe, sta parlando a se stesso, sta parlando così, nel vuoto delle sue fantasie, per così dire, pastorali. Per così dire, perché la pastorale è un’altra cosa.

E Giobbe si raccoglie in se stesso, nell’esprimere la sua ricerca.

Cap. 23. Giobbe è alla ricerca di Dio, è la sua vera ricerca, ma il contenuto di tutta la sua vita è il filo conduttore del suo cammino.

"Ancora oggi il mio lamento è amaro". Ecco Giobbe. E’ il terzo giorno. Ogni giorno un ciclo.

"Ancora oggi il mio lamento è amaro e la sua mano grava sopra i miei gemiti. Oh, potessi sapere dove trovarlo". Di chi sta parlando Giobbe? Di Dio. Vedete, Elifaz ha fatto tutto il suo discorsino moralistico, mentre Giobbe cerca Dio, cerca il contatto diretto e vivo con Dio. "Potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa". Vedete Giobbe con coraggio, ma con semplicità e con la sincerità del credente dice "vorrei finalmente raggiungerlo per litigare con lui".

Sembra un linguaggio offensivo ed invece è una testimonianza purissima di amicizia, di appartenenza a Dio, di intimità con il Dio vivente. "Vorrei finalmente incontrarlo per litigare e per scoprire che in realtà, lui, irragiungibile nella sua santità, lui è passato dalla parte opposta". Giobbe dice: esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. Verrei a sapere le parole che mi risponde, capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di potenza discuterebbe con me? Se almeno mi ascoltasse!"

Giobbe è convinto che se riesce a litigare con Dio certamente Dio gli darà ragione. "Certamente passa dalla mia parte", perché per Giobbe Dio non è quel personaggio che sta seduto su uno scranno come un magistrato e poi decide chi è buono e chi è cattivo. Non è così. "Se riesco a presentarmi a lui con tutti i miei guai, con tutto il mio dramma, con tutta la mia amarezza, certamente passa dalla parte mia, perché è Dio". Vedete come si esprime Giobbe. "Allora sì che un giusto discuterebbe con lui ed io per sempre sarei assolto dal mio giudice. Ma se vado in avanti egli non c’è." Il guaio drammatico della vita di Giobbe è proprio questo: lo sta cercando, lo sta inseguendo, ma non lo trova. "Non riesco ad afferrarlo, non riesco a stringerlo, non riesco a raggiungerlo". "Se vado in avanti egli non c’è, se vado indietro, non lo sento. A sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo. Poiché egli conosce la mia condotta, se mi prova al crogiuolo, come oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede. Al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato, dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, nel cuore ho risposto i detti della sua bocca".

Vedete, Giobbe è così sincero nel presentarsi e fiducioso nel trovare accoglienza presso Dio. D’altra parte Giobbe ha bisogno di Dio. Dio non è un’entità superiore ed astratta. Sì, sovrano, Onnipotente, ma al di sopra. Giobbe ha bisogno di Dio e ha bisogno di un contatto vivo, urgente, diretto con lui.

E insiste: "Se egli scegli chi lo farà cambiare?" E’ il lamento di Giobbe che prosegue. "Io non riesco a trovare la strada per presentarmi a lui. "Ciò che egli vuole, lo fa. Compie certo il mio destino e di simili piani ne ha molti. Per questo davanti a lui sono atterrito, ci penso e ho paura di lui." Giobbe è in difficoltà. "Dio ha fiaccato il mio cuore, l’Onnipotente mi ha atterrito" e così via.

Nei versetti che seguono – e siamo al cap. 24 – Giobbe parla ancora di se stesso, ma parla della sua condizione umana dal momento che non riesce a prendere contatto con il Signore onnipotente. Non riesce a litigare con lui. "Vorrei litigare con lui. Finchè non riuscirò a trattare con lui direttamente io mi trovo impelagato in un vortice di miserie. E’ la mia condizione umana".

Per Giobbe la soluzione del problema non sta nel trovare un giudice che potrà intervenire come il magistrato che dirime le questioni ed emana una sentenza. "Io sono nel guado della mia condizione umana, un vortice di complicazioni insopportabili ed inspiegabili. Io non vado in cerca di un Dio magistrato, vado in cerca di un Dio che passi dalla mia parte. Ma non solo vado in cerca, io so che Dio è così. Io so che Dio è quella presenza misteriosa con la quale posso litigare, a cui finalmente potrò buttare addosso tutti i guai che io non riesco a spiegarmi".

E in realtà Giobbe, quando si esprime così, con il suo linguaggio un po’ focoso, un po’ appassionato, anche un po’ strafottente – non c’è dubbio – coglie proprio nel segno perché tutta la rivelazione va esattamente in questa direzione. Dio si è fatto conoscere proprio in quella direzione che Giobbe sta perseguendo. Dio è con lui come si è manifestato a noi, come presenza che vuole far sua tutta la miseria della nostra condizione umana. Dio si è rivelato così. Non conosciamo un altro Dio. Tutta la rivelazione biblica sta a dimostrare questo fino alla pienezza dei tempi. Giobbe intravede giusto. "Io so che Dio mi viene incontro perché il mio male gli sarà inchiodato addosso". E’ così, è proprio così.

E intanto, vedete, l’amico gli diceva "vedi che tu devi rabbonirti, devi tranquillizzarti, devi riconciliarti, devi frequentare di più la chiesa, vedi che …" e cose del genere. Consigli buoni ma che non vanno al fondo del problema. Perché? "Perché Dio dall’alto vedrà le tue buone azioni, le tue buone intenzioni, i tuoi pii desideri, vedrà il tuo impegno di riconciliazione e Dio ti premierà".

Ed invece non è così per Giobbe. "Non ho bisogno di un Dio magistrato. Dio non è così. O di un Dio bonaccione che alla fine poi vedrà che io una qualche genuflessione una volta l’ho fatta, allora mi manderà un sorriso. Non è Dio. E la mia disgrazia a chi la consegno? Ho bisogno di litigare con lui e di aggrapparmi a lui e finalmente potrò scoprire che la mia storia, la mia pena, la mia fatica, la mia miseria è inchiodata proprio così". Siamo in Quaresima proprio per questo.

Prendete il cap. 25. Solo uno sguardo. Prende la parola il secondo degli amici, Bildad, il giurista, e sviluppa un discorso breve, ma molto teso, molto elaborato dal punto di vista letterario, un esempio di estetica del diritto. "Vedi come l’ordinamento dell’universo, vedi come la struttura giuridica che Dio creando il mondo ha determinato per tenere insieme tutta la realtà, vedi come questa struttura è mirabilmente congegnata, è così affascinante, dotata di una bellezza sconvolgente". Bildad, da giurista autentico si lascia prendere da questo trasporto emotivo nel contemplare l’ordine delle cose, questa compagine così ben calibrata nel governo della creazione.

Leggo, cap. 25: "Vi è forse dominio e paura presso Colui che mantiene la pace nell’alto dei cieli? Si possono forse contare le sue schiere? E sopra chi non sorge la sua luce? E come può giustificarsi un uomo davanti a Dio e apparire puro un nato di donna? Ecco, la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: quanto meno l’uomo, questo verme, l’essere umano, questo bruco!"

Vedete, Dio nella sua luminosità celeste e la miseria degli uomini come vermi di terra. Eppure la nostra miseria di uomini che serpeggiano sulla terra o addirittura sprofondano sotto terra, la nostra miseria fa parte di questo mirabile disegno che Dio ha determinato fin dall’inizio, nella sua luminosa, splendida sapienza di cui egli è l’origine, il custode. E’ Dio che governa per manifestare la sua bellezza superiore e tutto questo passa attraverso le miserie del mondo. "Cosa vuoi che sia? Un po’ di vermi. Ma vermi che fanno parte di questa immensa costruzione che splende nella luce gloriosa dell’onnipotente".

Prendete il cap. 26, perché il discorso di Bildad qui è spezzettato, il testo nei capitoli che stiamo leggendo è un po’ scombinato in seguito a certe vicissitudini patite proprio materialmente dal testo biblico nei secoli antichi.

Cap. 26, v. 5. E’ sempre Bildad che parla: "I morti tremano sotto terra, come pure le acque e i suoi abitanti. Nuda è la tomba davanti a lui e senza velo è l’abisso. Egli stende il settentrione sopra il vuoto, tiene sospesa la terra sopra il nulla.". Lui è al di sopra e Bildad prende in considerazione il sottoterra. E lui nell’altezza che è al di sopra del cielo "rinchiude le acque dentro le nubi, e le nubi non si squarciano sotto tutto il loro peso. Copre la vista del suo trono stendendovi sopra la sua nube". Vedete come tutto nell’universo è compreso dentro una organizzazione delle cose che è abbracciata da questa presenza che sta al di sopra, che sta al di sotto, che contiene tutto e tutti nella logica di una sistemazione rigorosa. C’è una misura giuridica che è inappellabile. Badate bene che, stando così le cose, anche Dio alla fine dei conti diventa semplicemente l’esecutore di un programma. Questa visione giuridica della realtà si impone, in base al sentimento e alla cultura di Bildad, anche a Dio. Dio è semplicemente l’esecutore di un piano che già è predisposto e che è antecedente e superiore a Dio stesso. Mentre Bildad vuole mettere in risalto la grandezza, la bellezza, lo splendore, la sovranità di Dio, in realtà Dio è l’esecutore di un piano, di un progetto che è superiore anche a lui. Ci vuole un giurista come Bildad perché glielo spieghi a Dio.

Prosegue nel v. 10 del cap. 26: "Ha tracciato un cerchio sulle acque, sino al confine tra la luce e le tenebre." Una visione geometrica della realtà, dove tutto quadra alla perfezione, dal punto di vista di Bildad, e Dio è il tecnico, il geometra dell’universo. "Le colonne del cielo si scuotono, sono prese da stupore alla sua minaccia. Con forza agita il mare e con intelligenza doma Raab. Al suo soffio si rasserenano i cieli, la sua mano trafigge il serpente tortuoso. Ecco, questi non sono che i margini delle sue opere; quanto lieve è il sussurro che noi ne percepiamo! Ma il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?"

E Giobbe risponde, cap. 26, v. 2: "Quanto aiuto hai dato al debole e come hai soccorso il braccio senza forza!". Vedete, Giobbe dice "ma quanti sproloqui a vuoto! Io sono così schiacciato in questa situazione di miseria, così sprovveduto che mi cascano le braccia e tu mi vieni a descrivere questa realtà così geometricamente e puntualmente organizzata dell’universo, con questa tecnologia così splendida che è affidata alla gestione di Dio per il funzionamento della storia umana. Tu mi vieni a raccontare queste cose quando io non riesco a tenere un braccio alzato. Quanti buoni consigli hai dato a un povero ignorante come me, perché io sono un povero ignorante, ma che me ne faccio della tua visione estetica della realtà? E cosa me ne faccio di un Dio geometra, di un Dio esperto della tecnologia che dovrebbe garantire il perfetto funzionamento dell’universo quando in realtà mi cascano le braccia!" "Quanti buoni consigli hai dato all’ignorante, con quanta abbondanza hai manifestato la saggezza! A chi hai tu rivolto la parola e qual è lo spirito che da te è uscito?" "Con chi credi di aver parlato. Con me, no. A me non hai detto niente. "Qual è lo spirito da te uscito?" "Che intenzione avevi?" E’ qui Giobbe prosegue, passando al cap. 27, nel descrivere ancora una volta la sua situazione e il dramma di questa esistenza umana che si trascina in mezzo a tanti dolori che Giobbe non riesce a spiegare.

E alla fine di tutto il suo discorso, cap. 27, vv. 11 e 12 Giobbe dichiara: "Io vi mostrerò la mano di Dio, non vi celerò i discorsi dell’Onnipotente. Ecco, voi tutti lo vedete; perchè dunque vi perdete in cose vane?"

Giobbe dice "Guardate, adesso io vi parlerò di Dio e non in nome di questa visione così raffinata dell’universo che dovrebbe funzionare secondo la logica di un meccanismo perfetto. Io vi parlerò di Dio nei termini urgenti, nei termini drammatici, vivi, vitali di una esperienza diretta di incontro con Lui, di relazione con Lui, una relazione d’amore? Una relazione straziante come sempre ma un’autentica relazione d’amore, una relazione di fede. "Voi vi perdete in cose vane". Finisce per ora il discorso di Giobbe.

C’è l’intervento del terzo amico, Zofar, il teologo. Uno sguardo rapidamente a questo discorso e poi Giobbe dirà la sua chiudendo il ciclo delle conversazioni con i suoi amici. Dopo quello che adesso dice Zofar gli amici si ritirano, non hanno più niente da aggiungere. Basta così.

Cap. 27, v. 13. E’ Zofar che parla. Se avete pazienza di andare a rivedere quanto leggevamo nel cap. 20, v. 29, scoprirete che quel versetto è lo stesso che adesso incontriamo qui. E’ lo stesso. Perché? Si concludeva il discorso di Zofar e adesso si apre con lo stesso versetto. "Questa è la sorte che Dio riserva al malvagio e la porzione che i violenti ricevono dall’Onnipotente". Cosa vuol dire questo’ Vuol dire che Zofar è abituato ad andare avanti con le sue considerazioni. Non si è neanche accorto che intanto Giobbe ha risposto, che gli altri amici hanno detto la loro, che la conversazione si è sviluppata. Continua a dire le sue cose. E’ tipico degli intellettuali, anche dei teologi. Può succedere. Continuano a dire le loro cose, al loro livello come se niente fosse e riprendono la lezione esattamente dove l’hanno interrotta.

"Per i violenti la sorte è segnata, non c’è redenzione possibile, l’empio sarà colpito. Se ha molti figli saranno per la spada e i suoi discendenti non avranno pane da sfamarsi; i superstiti li seppellirà la peste e le loro vedove non faranno lamento. Se ammassa argento come la polvere e come fango si prepara vesti: egli le prepara ma il giusto le indosserà e l’argento lo spartirà l’innocente. Ha costruito la casa come fragile nido e come una capanna fatta da un guardiano". L’empio va incontro a una sorte certamente negativa. La spada, la fame, la peste, la morte senza neanche possibilità di lamentarsi, sarà colpito nelle sue ricchezze, nei suoi discendenti, nella sua carne. Così Zofar va avanti col suo discorso. Giobbe a suo tempo ha già risposto a Zofar: "guarda che le cose non stanno così. Tu puoi continuare ad insegnare, scrivere libri, trattati, a inventare tutti gli artifizi teorici per argomentare su queste affermazioni, su queste tesi, ma la realtà è diversa".

Zofar va avanti. E continua: "l’empio va incontro alla rovina, si corica ricco, ma per l’ultima volta. Quando apre gli occhi non avrà più nulla".

Non se ne può più di stare ad ascoltare queste considerazioni. Ritornate al cap. 24, abbiamo saltato qualche versetto. Nel cap. 24, i vv. 18- 25, fanno parte del discorso di Zofar. Il testo con cui abbiamo a che fare è un po’ scombinato. Anticamente si usavano dei rotoli e sui rotoli delle colonne. E allora, quando questi rotoli venivano copiati, poteva succedere che qualche scrivano spostasse da una colonna all’altra alcune righe e ci sono alcune incertezze. Gli studiosi che sono esperti di queste cose si rendono conto e si ricostruisce. In questo caso è evidente che c’è uno spostamento di brano.

Il discorso di Zofar si conclude qui, nel cap. 24, dal v. 18 al v. 25. E Zofar insiste nella sua lezione per ribadire che gli empi sono già uomini finiti, vanno incontro ad una tragedia irreparabile. Anche se il successo è apparente.

Giobbe non ne può più. Cap. 28 e ci fermiamo. Diamo uno sguardo a questo capitolo. Dovrebbe come di solito Giobbe rispondere? Già abbiamo constatato più di una volta il caso di risposte che sono più meditative, più lamentose, più testimonianze dirette della sua ricerca. In altri casi effettivamente Giobbe è rivolto agli amici e interloquisce con loro.

Adesso non c’è dubbio. Giobbe non ne può più. Giobbe va per la sua strada. E Giobbe, qui, cap. 28, sviluppa un discorso che esprime la sua interiore apertura di uomo educato nella tradizione sapienziale, perché così sono andate le cose nella vita di Giobbe. Ma è un uomo che ricerca e Giobbe è alla ricerca della sapienza. Gli amici non l’hanno aiutato. Giobbe è alla ricerca di Dio. Gli amici non hanno più niente da dire.

Questo intervento di Giobbe, nel cap. 28, si compone di tre strofe. Leggiamo questi versetti. La prima strofa, fino al v. 12. Giobbe qui descrive per sommi capi l’avventura, così come appare nella storia umana, di quella attività che gli uomini dedicano alla costruzione di un mondo a loro misura. E’ il lavoro dell’uomo, è l’esperienza che diventa capacità di intervenire, con metodologie sempre più raffinate, con tecnologie anche sempre più geniali. L’uomo che lavora, l’uomo che interviene, cambia il mondo e lo trasforma a propria misura. Giobbe dice "io sono andato alla ricerca e non ho trovato la sapienza".

"Certo, per l’argento vi sono miniere". Il caso esemplare è quello della miniera: gli uomini sono capaci di scavare sotto terra e di ricavare materiali che poi vengono usati per tante altre attività, riescono a compiere delle imprese che dal punto di vista degli antichi esprimono il massimo delle capacità operative. L’ingegneria, con tutto l’apparato delle tecnologie, un poco artigianali, ma già qualificate degli antichi consente questo: consente di scavare dei pozzi e di estrarre dal ventre della terra dei materiali speciali, preziosi. "L’uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all’estremo limite le rocce nel buio più fondo". Vedete, anche là dove non va la luce scendono gli uomini con luce artificiale. "Forano pozzi lungi dall’abitato coloro che perdono l’uso dei piedi". Perdono l’uso dei piedi perché scendono lungo questi pozzi con delle carrucole. "Una terra da cui si trae il pane, da sotto è sconvolta come dal fuoco". Sopra la terra è come siamo abituati a vederla, coltivata, i raccolti, ma sotto è sconvolta come dal fuoco quella terra. "Le sue pietre contengono zaffiri e oro la sua polvere. L’uccello rapace ne ignora il sentiero non lo scorge neppure l’occhio dell’aquila". E gli uomini vanno sottoterra. Massimo esempio di potenza tecnologica dell’uomo che lavora, che cambia il mondo, dice Giobbe.

E così, fino al v. 12, "ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?"

Giobbe ha così sincero, franco, affettuoso rispetto per la capacità tecnologica dell’uomo che fa queste cose meravigliose, che compie queste imprese straordinarie. "Ma la sapienza dov’è?. Sapienza nel senso di quel criterio interpretativo delle cose per cui la mia vita si realizza positivamente, per cui la mia vita consegue una qualità positiva. Dove la trovo?. Ho cercato ma non ho trovato". E adesso aggiunge, seconda strofa, dal v. 13 al v. 20: (e parla di un’altra capacità che è propria dell’umanità che cresce e si sviluppa, l’umanità che produce effetti sempre più qualificati nella crescita dei livelli di civiltà. Qui parla di economia. Gli uomini sono capaci di inventare delle soluzioni strabilianti per quanto riguarda gli scambi, i commerci, le relazioni, una scienza che oggi si chiama economia), v. 15, "Non si scambia con l’oro più scelto, né per comprarla si pesa l’argento." "Ho cercato la sapienza ma ho scoperto che, per quanto gli uomini si dedichino ai baratti, agli scambi, a contatti che prendono tante strade e comportano tutta una ricchezza di invenzioni, soluzioni creative, possibilità nuove, proprio nel contesto di questo immenso meccanismo calibrato per accumulare ricchezza in forza di questi scambi sempre più aperti a soluzioni avanzate, ho cercato la sapienza. L’oro, le pietre servono come moneta, la scienza dei prezzi, il dare e l’avere e così via. "Ma da dove viene la sapienza e l’intelligenza dov’è?" (v. 20). E siamo alla terza strofa – e siamo alla fine – Giobbe dice: "quella sapienza da cui dipende la qualità positiva della vita umana è solo di Dio. Gli uomini possono inventare le tecnologie più sofisticate, possono trovare le strade più geniali per lo sviluppo della economia, ma non trovano la sapienza. Io – dice Giobbe – non l’ho trovata".

Leggiamo: "E’ nascosta agli occhi di ogni vivente ed è ignota agli uccelli del cielo. L’abisso e la morte dicono: "Con gli orecchi ne udimmo la fama". "Ne udimmo la fama, ma la sapienza sta anche al di là di noi". "Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi". La sapienza non è un fatto che riguarda la testa e i pensieri. La sapienza riguarda la qualità positiva della vita, la possibilità i vivere in modo gratificante, soddisfacente, benefico, la possibilità di vivere bene. La sapienza dipende da Dio, solo Dio la conosce. Quella sapienza che è la qualità positiva della nostra, della mia vita umana. "Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi perché volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede quanto è sotto la volta del cielo. Quando diede un peso al vento e ordinò le acque entro una misura, quando impose una legge alla pioggia e una via al lampo dei tuoni; allora la vide (Lui, la sapienza) e la misurò, la comprese e la scrutò appieno e disse all’uomo: "Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza". Punto d’arrivo del discorso di Giobbe e questa è anche una svolta nel Libro (noi questa sera ci fermiamo qui). Vedete, chi teme Dio è sulla strada che conduce alla sapienza, ma temere Dio nel linguaggio di Giobbe è esattamente quel sentimento religioso che accende e apre il cuore umano in una relazione di vita, che non spiega il mistero, ma indica una strada da percorrere e Giobbe è incamminato su questa strada. E’ alla ricerca di Dio, come già sappiamo, perché è un credente e rimette tutto in discussione di sé in atteggiamento di interiore, profonda, sincera apertura del cuore. Solo procedendo in questo modo troverà la sapienza.

Gli amici hanno fatto di tutto per riportare il problema al principio di retribuzione. Ormai tutta quella dottrina è accantonata e Giobbe dice "è necessario che io me la veda a tu per tu con il Dio vivente, a lui mi presento nella realtà della mia vita umana con tutto il carico di drammi che porto con me, con tutta la grandezza che è propria dell’uomo che lavora, che fa, che trasforma il mondo, ma è proprio necessario che io mi presenti a lui con tutte le mie delusioni per quel che ho cercato e non ho trovato. Non c’è altra strada. La sapienza, la qualità positiva della mia vita umana dipende da questo aprirsi del cuore dentro a tutti i problemi ancora non risolti che io ho accumulato lungo il cammino, aprirsi del cuore alla relazione viva e diretta con lui. Perché certamente Dio cerca con me questa relazione. Dio non si presenta a me come magistrato o teologo. Dio si presenta a me come colui che vuole passare attraverso il dramma e la grandezza della mia vita, le delusioni e gli interrogativi ancora non risolti di tutta la mia avventura".

Lectio divina


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Il libro di Giobbe 2000-01