5 maggio 2015
Sesto incontro del ciclo 2014-2015
Stasera affrontiamo la lettura della Seconda Lettera di Pietro. E’ un piccolo scritto; prevedo che non riusciremo a portare a termine la lettura di questi tre capitoli nel tempo che abbiamo a disposizione. Dove arriveremo ci fermeremo e ci daremo appuntamento per il prossimo autunno.
La Lettera di Pietro ancora una volta non è una lettera: è un documento dottrinario, di carattere parenetico, esortativo che assume una caratteristica singolare, ma non eccezionale, come possiamo constatare nel complesso della rivelazione biblica: la forma di un testamento spirituale. Già negli scritti dell’Antico Testamento grandi personaggi lasciano come ultima testimonianza un testamento che assume configurazioni diverse a seconda dei casi, ma comunque viene preso in considerazione con molto impegno da parte degli autori dei testi sacri. Pensate a Giacobbe, alla fine del libro del Genesi; tutto il Libro del Deutoronomio è come il testamento di Mosè; pensate a Giosuè alla fine del Libro che porta il suo nome. Pensate allo stesso Gesù. Nel Vangelo secondo Giovanni dal cap. 13 al cap. 17; cinque capitoli dedicati a quelle poche ore trascorse da Gesù insieme con i suoi discepoli durante l’ultima cena. E’ il suo testamento. Nel Nuovo Testamento, poi, la Seconda Lettera a Timoteo può essere inserita in questa serie di testamenti lasciati a noi da personaggi illustri. In questa lettera abbiamo a che fare con Paolo in vista del suo martirio a Roma. Adesso è il caso di Pietro, anche se, come potete prevedere, l’autore dello scritto non è proprio lui, Pietro, il discepolo del Signore. E’ un maestro giudeo-cristiano che si inserisce in quella tradizione pastorale con cui abbiamo avuto a che fare leggendo la Lettera di Giacomo e la Letterina di Giuda. Vi proponevo, a suo tempo, di approfittare di questa sequenza perché i testi sono disposti lungo un itinerario che si va man mano sviluppando da una pagina all’altra.
Siamo probabilmente all’inizio del II secolo a. C.. Secondo gli studiosi è il testo più recente del Nuovo Testamento. La Prima lettera ai Tessalonicesi è il testo più antico. Questo maestro si inserisce in quella tradizione pastorale che proviene dalla Chiesa madre di Gerusalemme laddove lo stesso Paolo dice nella Lettera ai Galati: le colonne della Chiesa sono Giacomo, Cefa e Pietro. Le sette lettere cattoliche – come vi dicevo alcuni mesi addietro – sono l’eco autorevole della Chiesa madre di Gerusalemme e gli autori con cui abbiamo a che fare portano quei nomi che vengono identificati come relativi alle grandi figure che hanno fatto di quella Chiesa il fulcro della prima evangelizzazione e il nucleo originario in tutta la missione che si sviluppa, poi, lungo le strade del mondo, fino agli estremi confini. Da un certo momento in poi gli interlocutori sempre più numerosi, fino a diventare quasi la componente prevalente nell’ambito delle chiese, sono i pagani che accolgono l’Evangelo. Ed è proprio dalla Chiesa madre di Gerusalemme che viene inviato un messaggio che interpella coloro che sono gli ultimi arrivati, accolti con grande entusiasmo anche se non mancano i problemi su cui il Nuovo Testamento si sofferma ampiamente. Abbiamo individuato la preoccupazione dominante di questi scritti a partire dalla Lettera di Giacomo: si tratta di conservare e valorizzare appieno la novità originalissima dell’Evangelo, in modo tale che sia trasmesso in tutta la sua potenza senza ripiegamenti, regressioni, deviazioni. Poi Giuda che è un personaggio che si inserisce, come sappiamo in base ad altre notizie che leggiamo nel Nuovo Testamento, in un alone che contorna la figura di Giacomo (si parla di un Giuda di Giacomo altrove, nel Nuovo Testamento), le tre lettere di Giovanni che appartengono ad una fase ancora più avanzata dell’evangelizzazione, quando, a partire dalla Chiesa madre di Gerusalemme – verso la quale è sempre rivolto con devozione e gratitudine l’animo di questi primi evangelizzatori – passano attraverso la Chiesa di Efeso.
C’è una prima Lettera di Pietro che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria epistola, di un’enciclica destinata a circolare fra i cristiani dell’Oriente che potrebbe provenire proprio dalla mano, dall’animo pastorale, di Pietro che scrive da Roma (egli dice da Babilonia). E questo supporrebbe allora di collocare la Prima Lettera di Pietro all’epoca immediatamente antecedente al suo martirio. La Seconda Lettera che, come vi dicevo, non è una lettera vera e propria, ma il prodotto letterario di epoca molto posteriore (sono passati circa cinquant’anni se non di più) di un maestro che appartiene a quella tradizione con cui già abbiamo fatto conoscenza e ci propone un’immagine per così dire “ideale” di Pietro, nel momento in cui è giunto al termine della sua attività missionaria, affronta il martirio e trasmette a noi quell’eredità preziosissima che è il suo testamento spirituale e, allo stesso tempo, teologico e pastorale. L’autore di questo scritto usa un greco molto raffinato; parla la lingua dei pagani magnificamente. E questo lo abbiamo già notato sia leggendo la Lettera di Giacomo che la letterina di Giuda. A maggior ragione nella Seconda Lettera di Pietro dove compaiono, per un complesso di una sessantina di versetti, 56 hápax legómena, cioè un termine che compare una volta sola in tutto il Nuovo Testamento. Praticamente ogni versetto contiene in sé una parola che non compare altrove: un linguaggio che è espressione di una competenza linguistica e letteraria molto sofisticata. E’ la lingua dei pagani e viene usata con molta maestria e disinvoltura, ma è radicata in quella tradizione.
Ormai abbiamo a che fare con Pietro – colonna della Chiesa madre di tutte le chiese – che da Roma invia il suo ultimo segnale che è equivalente al testamento di chi si appresta al martirio. Da Gerusalemme a Roma: la Roma di Pietro che porta in sé l’eredità preziosissima che è stata trasmessa fin dall’inizio dalla Chiesa madre di Gerusalemme in modo tale da affrontare e superare una crisi di ordine pastorale per cui coloro che, provenienti quasi esclusivamente dal paganesimo, ormai hanno accolto l’Evangelo, ma hanno assunto un atteggiamento di sicurezza spavalda, disinvolta per cui è come se non ci fosse più bisogno di proseguire in un cammino di conversione. In realtà, quella che è la novità urgente, incandescente, esplosiva dell’Evangelo si è venuta depositando in certe forme ormai acquisite di comportamento, in formule teologiche più o meno artefatte che servono per la pratica catechetica, ma che non interpretano più la potenza straordinaria del messaggio originario. C’è di mezzo anche una prassi nei comportamenti che sembra essersi ripiegata su posizioni di presuntuoso auto-compiacimento in un contesto nel quale sembra proprio che, invece, l’autenticità strepitosa e dirompente dell’Evangelo sia vanificata o corra il rischio di essere vanificata. E’ una crisi pastorale che è di ieri, di oggi, sempre attualissima, lo sappiamo bene: il rischio di ridurre la novità cristiana a una definizione, a un registro anagrafico, a un’osservanza di consuetudini liturgiche o di ritualità domestiche praticamente inconcludenti.
Ed ecco il testamento di Pietro così come lo ha rielaborato un maestro che appartiene a quella certa tradizione che, all’inizio ormai del secondo secolo dopo Cristo, riprende, in continuità con le pagine che leggevamo nella Lettera di Giacomo, quelle considerazioni e le elabora ulteriormente con nuovi approfondimenti, ma dominante è la figura del discepolo del Signore che è giunto alla maturità della testimonianza, alla pienezza del cammino, affronta il martirio e lascia la sua eredità. E’ il martirio di Pietro? E’ l’estrema testimonianza della Chiesa di Gerusalemme che parla a noi attraverso Pietro che è martire a Roma. Sono passaggi un po’ acrobatici quelli che sto suggerendo; man mano verificheremo meglio il valore delle affermazioni che vi ho rivolto.
Il testo della Lettera presenta all’inizio un saluto che, approssimativamente, equivale a quello che introduce uno scritto epistolare ma, ripeto, lo scritto che leggiamo non è una lettera, ma un messaggio di esortazione; è un testamento spirituale laddove il vero patrimonio viene illustrato e consegnato come il dato essenziale che ricapitola in sé il valore di una vita che è giunta alla sua ultima e più che mai determinante testimonianza.
Solenne saluto a chi condivide la fede in Cristo Gesù
Cap. 1, vv. 1-2. I primi due versetti contengono il saluto poi la lettera si sviluppa in tre sezioni. La prima sezione arriva fino alla fine del capitolo primo, v. 21.
“Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro”. Il linguaggio è piuttosto solenne; questo dimostra che chi scrive apprezza i destinatari del messaggio e, per questo, imposta le cose in maniera così impegnativa. Essi sono pagani evangelizzati; Pietro da parte sua, facendo appello anche al suo nome “Simone”, si qualifica in virtù del servizio e della missione che gli è stata affidata, cioè la sua appartenenza a quell’impresa che il Signore Gesù ha affidato anche a lui in qualità di servo e apostolo. Un modo di presentarsi che rinvia tutto alla sorgente originaria della prima evangelizzazione: la relazione con Gesù che è il Cristo, il Messia di Israele, il Vivente e che è Colui che ha affidato ai suoi primi discepoli, a quella prima comunità, alla prima Chiesa di Gerusalemme, l’impegno missionario nella sua forma più autentica e pregnante. Pietro si rivolge adesso “a coloro che hanno ricevuto in sorte la stessa preziosa fede”, coloro che condividono questa sorte felice che è una stessa fede, una comunione nella fede; sono pagani evangelizzati e Pietro si rivolge a loro affermando che condividono tutti insieme “la stessa preziosa fede”, che è messa in riferimento alla “giustizia di Dio” (questione che ritorna abbondantemente nell’Antico e Nuovo Testamento; pensate a tutta la teologia paolina, tutto il disegno e l’opera della salvezza, la modalità efficace mediante la quale Dio è intervenuto, tramite Suo Figlio, Gesù Cristo, nella carne umana, fino alla sua Pasqua redentiva per realizzare quell’intenzione d’amore che apre per gli uomini la strada del ritorno alla sorgente della vita). La “giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo”. Noi siamo accomunati nella medesima fede perché apparteniamo a uno stesso disegno di salvezza che si è compiuto secondo la volontà di Dio in quanto Gesù Cristo è il Salvatore. Dopo l’auto-presentazione e l’indicazione dei destinatari, il saluto vero e proprio di Pietro: “grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza”. E’ usata una forma verbale, il modo ottativo, che in greco esprime un desiderio: “fosse concessa a voi in abbondanza grazia e pace”; è un modo (compare anche altrove) che serve a indicare una prospettiva di crescita. Non è semplicemente un augurio: c’è un desiderio, uno slancio, un fervore, un’aspettativa, una prospettiva di crescita lungo la quale sono impegnati coloro a cui Pietro si rivolge e Pietro sa bene che questo itinerario ancora deve essere percorso in tappe che probabilmente sono fondamentali, per quanto ci sia da tener conto delle tappe già percorse. “Che questa grazia e pace fosse finalmente concessa a voi” in quella pienezza che corrisponde alla “conoscenza” di Dio e di Gesù, nostro Signore. E’ molto importante il termine “conoscenza”. La prospettiva di crescita a cui adesso accennavo riguarda quella che in greco si chiama “epignosis”. Ne abbiamo parlato tante volte; la conoscenza è un elemento vitale, è un impegno affettivo, è un’immersione totale del vissuto nella relazione con il mistero di Dio che si è rivelato. Se Pietro usa un’espressione del genere ci lascia intendere che, per questi pagani o ex pagani a cui si rivolge, il rischio di una ricaduta è sempre incombente; e non solo per loro, ma per tutti quanti noi. E, quindi, il rischio di non crescere più; se non si cresce vuol dire che si slitta, si scivola, si precipita, si sta arretrando; vuol dire che l’autenticità dell’Evangelo non è più valorizzata come merita. Poche righe che ci consentono, ancora una volta di individuare quella preoccupazione pastorale di cui già ci siamo resi conto: la presunzione di aver compiuto ormai un salto di qualità, di aver ormai acquisito risultati che possono essere vantati come un patrimonio inalienabile, diventa, per il maestro che si rivolge a noi in queste pagine, il segno di una decadenza incombente se non già drammaticamente in atto. Quella situazione paradossale su cui rifletteva Giuda nel suo scritto che sembra definire la presunzione di coloro che ritengono di essere ormai depositari dell’Evangelo, come esseri che vivono in rapporto a un mistero che, nella sua assolutezza, rimane astratto e lontano; vivono sulla scena del mondo, ma in un atteggiamento sprezzante che mantiene rigorosamente le distanze rispetto alla realtà creata che pure è pienamente coinvolta nell’opera redentiva: così Dio si è rivelato a noi. Il rischio che questi cristiani si identifichino come entità costruite artificialmente in modo tale da tenere a bada Dio, mediato dall’assolutezza della sua trascendenza, e guardare il mondo a distanza con atteggiamento molto severo perché ormai esso merita una condanna. C’è qualcosa che non funziona.
La fede è coinvolgimento affettivo con Gesù
Vv. 3-4. Nella prima sezione della Lettera in questo capitolo 1° fino al v. 21 possiamo individuare due paragrafi. Il primo paragrafo fino al v. 11 e il secondo nei versetti seguenti. Dal v. 3 al v. 11 Pietro, che è ormai in procinto di affrontare il martirio a Roma (in base alla ricostruzione dell’autore di queste pagine), ci parla di quella vocazione – la sua, la nostra – alla vita cristiana che è donata dalla potenza di Dio, la dynamis. Il nostro maestro è incantato dinanzi a questa generosa manifestazione della potenza di Dio che ci riguarda proprio là dove stiamo registrando il valore della nostra vocazione che poi, in realtà, è il contenuto in prospettiva di tutto quello che Pietro, nel momento in cui affronta la morte, vuole lasciare in eredità ai cristiani che verranno dopo di lui, attraverso quelli che sono i suoi contemporanei.
“La sua potenza (la dynamis) divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste (gloria e potenza) ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza”. Noi abbiamo ricevuto un dono, dice Pietro; un dono che non viene definito, non viene circoscritto, ma è un dono che è più di un singolo segno, di un singolo beneficio. Ormai è una modalità di vivere, di stare al mondo, in quanto è dono “di ogni bene”: è un dono totale dove tutto diventa dono. Quella potenza di Dio che opera in noi ci ha fatto dono “di ogni bene”; ci ha conferito quella capacità di vivere per cui tutto è dono. “…dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà”: quella capacità di vivere, quel modo di affrontare la vita, di stare nella vita che poi subito corrisponde alla pietà di Dio, alla gratuità della sua iniziativa e all’inesauribile fecondità della sua misericordia. Ed ecco che tutto è diventato dono. E insiste: “mediante la conoscenza” e qui ritorna quel termine (epignosis1) che abbiamo incontrato nel saluto introduttivo e che comparirà ancora nella Lettera. Questa potenza di Dio fa della nostra vita un insieme di relazioni che sono costantemente aperte e, in prospettiva, sempre più ampie, larghe, capienti, disponibili all’accoglienza di tutto come un dono perché c’è di mezzo la pietà di Dio, la sua misericordia. Tutto questo ci riguarda in quanto siamo coinvolti affettivamente nella relazione con Colui che ci ha chiamati (ecco la nostra vocazione), con la sua gloria, il suo vigore e la sua potenza (dice il testo). E aggiunge ancora: questo coinvolgimento affettivo, per cui la sua gloria e il suo vigore sostengono, promuovono, hanno configurato la nostra vocazione alla vita come capacità di aprirci all’inesauribile molteplicità dei doni, fa in modo che si compiano le promesse (v. 4). “…Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi”: tutte le promesse, tutta la storia della salvezza viene ricapitolata in questa riga; tutte le promesse si sono compiute nell’incarnazione della Parola, del Figlio fatto uomo, nella sua Pasqua redentiva. Tutte le promesse si compiono per noi nel momento in cui siamo inseriti in un rapporto di comunione con la sua natura divina: “…ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza”. E’ la potenza di Dio che si esprime in maniera inconfondibile, travolgente, in maniera commovente e affascinante. Lo stato di corruzione in cui versa il mondo è rimosso ormai nel momento in cui siamo inseriti in un rapporto di comunione con il Dio vivente.
La fede è operosa
V. 5-8. “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede…”. Notate “per questo”: c’è un’urgenza; Pietro si rivolge a noi come quel moribondo che vuole in tutti i modi trasmetterci quello che è il patrimonio decisivo, essenziale, ricapitolativo di tutto, più prezioso che mai. Ed ecco “per questo mettete ogni impegno”. Si tratta di prendere sul serio questa potenza che è l’energia che sollecita e promuove dall’interno la nostra vocazione, la nostra capacità di vivere, come già leggevamo. Ma qui non si tratta soltanto di “prendere sul serio”; si tratta di mettere in gioco la vita. E’ un prendere sul serio che raggiunge il livello estremo, più maturo e decisivo che mai, quello che giunge a impegnare la vita fino alla morte. “…mettete ogni impegno”: questo verbo serve, in greco, ad illustrare l’attività di coloro che si impegnano per organizzare una festa, uno spettacolo, come capita ancora nei nostri paesi dove c’è il comitato della festa che raccoglie soldi oppure c’è chi spende ed è il padrone della festa. Si spende, ma è uno spendersi totale; qui “lo spettacolo” è la vita di un cristiano che giunge alla testimonianza estrema. E ora Pietro usa una serie di otto segnali di qualità che servono ad illustrare quell’impegno urgente relativo ad una spendita totale del nostro vissuto che costituisce il motivo per impostare la “vera festa”, quella che raccoglie la partecipazione aperta alla moltitudine umana: “per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità”. Una sequenza di otto termini che qui sono concatenati fra loro: dalla fede (il primo segnale) alla carità, il termine che conclude e in questo modo viene fuori tutto un percorso che, nelle sue diverse sfaccettature, serve ad identificare l’immagine di una vita che è operosa nella totalità delle sue espressioni; è operosa in modo capillare, addirittura assillante. Quel coinvolgimento affettivo è, in maniera sintetica ma efficace, illustrato in modo tale che non c’è più alcun angolino, alcuna componente o sfumatura di quelli che sono gli aspetti, le vicende, le tensioni, i pensieri e i desideri del nostro vissuto; tutto ricade dentro a questa prospettiva di spendita totale. “Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo”. E’ questa operosità continua, metodica, sistematica, puntuale che ci coinvolge nell’animo e nei comportamenti, nei pensieri e nei desideri, nelle intenzioni e nelle relazioni, in tutti i momenti e in tutti gli ambienti che vengono attraversati da chi affronta il cammino della vita; è in questo modo, senza restare oziosi, ma fruttuosi, che noi rispondiamo a quella vocazione che ci chiama alla conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo; ci chiama a quella relazione con Lui che è coinvolgente nella totalità delle nostre relazioni vitali.
L’alternativa è la cecità
V. 9: “Chi invece non ha queste cose è cieco e miope”. Sta riprendendo quello che leggevamo nella Lettera di Giacomo, cioè una situazione nella quale la vita dei cristiani, che pure si vanta di essere espressione matura della novità piena e definitiva, è piatta, è una vita sciatta, spenta, vuota, contraddittoria, evanescente e inconcludente. Rispetto a quell’operosità che totalizza tutte le competenze del nostro vissuto nella conoscenza del Signore Gesù Cristo l’alternativa è la cecità di chi va a tentoni avendo dimenticato il frutto del proprio battesimo (“dimentico di essere stato purificato dai suoi antichi peccati”). E’ la vita battesimale che viene così banalizzata, svuotata e, in un certo modo, tradita. E’ interessante questa immagine molto plastica di cristiani che vanno alla cieca, a tentoni perché hanno dimenticato. La vera cecità non è tanto la privazione dell’uso fisiologico della vista, ma è lo svuotamento dei criteri in base ai quali avviene il discernimento dell’animo circa le scelte, gli itinerari, le responsabilità della vita. E’ così che viene meno il frutto del battesimo.
Raccomandazione di Pietro: entrate nel regno del Signore
V. 10-11. “Quindi, fratelli, cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai. Così infatti vi sarà ampiamente aperto l'ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo”. Ecco la raccomandazione di Pietro. E’ una raccomandazione affettuosa; Pietro non assume un atteggiamento di riprovazione o di severa condanna. E’ invece una prospettiva di incoraggiamento; “affrettatevi…”: è un’urgenza escatologica quella che viene considerata nel Nuovo Testamento quando compare questo verbo e i vocaboli che fanno riferimento ad esso. C’è un’urgenza, “non perdete tempo per render sempre più sicura la vostra vocazione”. Questo bisogno di essere solleciti nel rispondere alla vocazione ricevuta, quella vocazione che ci ha consacrati nel battesimo, che ci ha coinvolti in una relazione che totalizza tutte le nostre capacità vitali nell’appartenenza al Signore Gesù Cristo che morendo e risorgendo con Lui e attraverso di Lui, aderendo nientemeno che alla natura divina. Questa è, dal suo punto di vista, la premessa per non inciampare; “Se farete questo non inciamperete mai”, perché chi va a tentoni prima o poi inciampa, non c’è dubbio. Quanti scandali, quanti motivi per rimettere tutto in discussione e come si fa presto! Pietro riparlerà successivamente di tante suggestioni che mettono alla prova i cristiani che, ciechi come sono, sono imbarazzatissimi in rapporto a interrogativi che poi invece si spianano dinanzi al cammino di coloro che sono in grado di ascoltare tutte le possibili e reali contraddizioni, ma in quel rapporto di coinvolgimento vitale per cui non si inciampa. “Non inciamperete mai”, dice Pietro; anzi “troverete (v. 11) aperta la strada per entrare nel Regno eterno. “Così infatti vi sarà ampiamente aperto l'ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo”. In questo modo vi sarà aperta la strada; “non inciamperete, potrete procedere e scoprirete che vi troverete (procedendo in quella prospettiva di crescita che Pietro sta illustrando) alle prese con il Regno già instaurato, dove tutto fa capo alla signoria di Gesù per la salvezza, cioè per la vita ritrovata a vantaggio di tutti gli uomini”. Entrare nel Regno? Questa è una domanda che viene rivolta al Signore in certe pagine dei Vangeli: “che cosa debbo fare per entrare nel Regno, nella Vita, per ereditare la Vita?”. Nel v. 11 quel “Così infatti vi sarà ampiamente aperto” c’è la traduzione di una forma verbale che adesso riutilizza al passivo quel verbo che vi segnalavo quando leggevamo il v. 5: si tratta di pagare le spese per lo spettacolo della festa, la spendita totale per cui insistevo a modo mio. V. 5: “Mettete ogni impegno”. Adesso lo stesso verbo, usato al passivo, indica che il soggetto è proprio il Dio vivente; c’è qualcuno che ha pagato le spese per lo spettacolo. “Così infatti vi sarà ampiamente aperto l'ingresso”. C’è qualcuno che ha già pagato, la festa già è pagata e l’ingresso è lì, anzi siete invitati, incoraggiati. Si tratta di corrispondere a colui che ha pagato le spese per lo spettacolo, quello spettacolo che ci consente di stare al mondo e di scoprire che il Regno è instaurato perché la Signoria di Gesù Cristo è passata attraverso la morte e ha trasformato tutte le vicissitudini, anche le più incresciose, della nostra vicenda umana all’interno di un disegno di misericordia per la salvezza, per il ritorno alla Vita: “il regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo”.
Questo è il primo paragrafo.
La testimonianza di un cristiano vicino alla morte
Secondo paragrafo dal v. 12. Dopo questi versetti che insistono sul valore di quella vocazione che ci è stata donata dalla potenza di Dio, adesso Pietro prosegue segnalando il fatto che questa vocazione è confermata nella continuità “della verità ormai acquisita”, ma in questo contesto il termine “verità” è sostanzialmente equivalente al nostro Evangelo; una vocazione che è confermata nella continuità dell’Evangelo e Pietro ha dinanzi a sé ormai la prospettiva dell’Evangelo che passa attraverso le generazioni. Ha già alle spalle circa un secolo di storia dell’evangelizzazione, poco meno. “Perciò penso di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e stiate saldi” (è una formula verbale che allude alla Confermazione). Nella verità che possiede l’Evangelo, ma se insiste in questo modo è perché ritiene necessario incoraggiarci e vuole lasciare a noi l’eredità, il suo testamento; il testamento di un cristiano che muore e che adesso si dichiara espressamente. Non sono io che elaboro scene un po’ fantasiose per contestualizzare lo scritto; è il v. 13 che leggiamo: “Io credo giusto, finché sono in questa tenda del corpo (sta per morire), di tenervi desti con le mie esortazioni (una sollecitudine che esprime, da parte sua, l’estrema preoccupazione di lasciare vigilanti coloro a cui trasmette la sintesi del suo vissuto di fronte alla morte), sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose”. E’ il motivo per cui questo documento è inserito nel Nuovo Testamento; è proprio la configurazione letteraria che costituisce la chiave interpretativa del testo che stiamo leggendo da cui non possiamo prescindere. Dice: “io sto per morire e la mia morte è una partenza”, un “exodos”, un termine che nel linguaggio biblico allude ad un itinerario di liberazione totale. Lo stesso termine è usato nel Vangelo secondo Luca a riguardo della partenza di cui parla Gesù con Mosè ed Elia nel corso della notte della Trasfigurazione. Ma è un passaggio che porta in sé il valore di una definitiva liberazione. Si tratta di custodire questa memoria circa il significato di una morte che è attuazione del dinamismo che opera nella vita di coloro che sono consacrati nella comunione con il Signore Nostro Gesù Cristo. “…dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo”: è un momento di sofferenza come possiamo ben comprendere; si avvicina una scadenza drammatica, uno strappo, una separazione, una partenza. E’ un momento che per Pietro è poderosamente occupato dalla piena efficacia di quel vincolo di comunione che lega la nostra esistenza umana alla signoria di Gesù Cristo. “E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose”. Tanto è vero che noi leggiamo le pagine di questo scritto perché vuole che sia custodita la memoria; e questa custodia della memoria circa il suo modo di morire ci consente di affrontare il futuro. E il suo modo di morire è il suo modo di essere così radicalmente inserito nella partecipazione al modo di morire di Gesù, Signore nostro, nella Sua carne umana.
Il ricordo della Trasfigurazione
V. 16-18. Pietro fa riferimento al racconto che richiamavo poco fa e che siamo abituati a chiamare “Trasfigurazione” in tutti e tre i vangeli sinottici. L’autore di questo scritto evidentemente già conosce i Vangeli; si nota che ha già tra le mani quasi al completo il corpus letterario che costituisce il Nuovo Testamento; più avanti citerà S. Paolo; già da decenni, dunque, questi scritti circolano nelle chiese. “Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza (dynamis) e la venuta (parusia) del Signore nostro Gesù Cristo ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza”. “Quello che io ho ricevuto e che voglio trasmettere a voi nel momento in cui muoio”. Vedete come muore un cristiano; e come quel suo morire è il suo modo di trasmettere l’Evangelo e, in quel suo morire è annunciato l’Evangelo ed è trasferito da una generazione a un’altra; e così sarà da un cristiano che muore ad un altro che muore. Come l’Evangelo sarà trasmesso nella sua autenticità; quella autenticità che è il frutto della morte rendentiva del Signore Gesù Cristo. “Vi dico queste cose non per fare delle chiacchiere o perché ci ho ragionato sopra con particolare genialità o con furbizia; qui si tratta di conoscere la potenza e la parusia, la venuta; quella che è stata la venuta nella carne, quella che sarà la venuta gloriosa. Io sono stato testimone oculare della Sua grandezza”. E parla di quello che è avvenuto nella notte della Trasfigurazione sulla santa montagna: la Sua grandezza.
“Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte”. Che cosa è avvenuto nel corso di quella notte? E’ inutile preoccuparsi di ricostruire la scena nei suoi dettagli; Pietro dice “la gloria di Gesù come l’abbiamo potuta contemplare, ammirare, scrutare anche senza parole, anche se soltanto molti anni dopo ci siamo resi conto di quello che stava avvenendo; la gloria di Gesù nella carne umana, la gloria di quel Figlio di cui Dio si è compiaciuto; la gloria di quel Figlio che ha affrontato la morte in modo tale da rivelare la gloria di Dio, la sua obbedienza filiale fino alla morte. E come la paternità di Dio si sia manifestata attraverso il volto trasfigurato, il volto glorioso, luminoso, maestoso del Figlio che affrontava la morte in obbedienza, nella comunione con la realtà di tutti gli uomini peccatori che muoiono: “Noi abbiamo visto il volto glorioso, luminoso, trasfigurato del Signore”. Questa è la grandezza di cui Pietro sta parlando in queste righe. Quello splendore di cui siamo stati testimoni si riflette sul volto di un cristiano che muore. E adesso siamo giunti al momento in cui noi siamo coinvolti come testimoni di quella gloria. E’ il martirio non solo nel senso cruento del termine; è il martirio nel senso che nessuno di noi sfugge per il fatto stesso che ciascuno di noi muore; il morire nella vita cristiana è sempre comunque martirio, testimonianza gloriosa, luminosa. E’ il riflesso dello splendore che ha illuminato di bellezza incandescente il volto del Signore sulla santa montagna.
E’ l’eredità che Pietro vuole lasciare a noi, l’eredità di un cristiano che muore e che trasmette a noi la gloria che ha potuto contemplare nel volto del Signore trasfigurato nel momento in cui si è specchiato in quel volto; e adesso è un cristiano che lascia a noi in eredità il suo volto in cui specchiarsi, il volto di un uomo che muore. E’ il volto di un discepolo del Signore; è il volto in cui si ricapitola un’esistenza umana che si è consumata nella conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo.
La stella del mattino si leva nei nostri cuori
V. 19: “E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori”. Quando Pietro parla dei profeti – o meglio della “parola” dei profeti – intende ricapitolare tutto lo svolgimento della storia della salvezza, preso nelle sue grandi componenti, nelle sue linee complesse, con tutti i personaggi. La parola dei profeti, dice “era una lampada che brillava in un luogo oscuro”. Certo, è una bella cosa, “fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro” perché adesso abbiamo a che fare con la luce del sole. E non si accende una lampada per vedere se sorge il sole; la lampada è preziosissima nel tempo dell’oscurità. Certo! Quale aiuto abbiamo trovato nella ricerca, nell’orientamento, nel discernimento dei nostri itinerari, ma adesso abbiamo una conferma migliore; consiste nello spuntare della luce. E questa luce spunta sul volto dei martiri. Spunta la luce del giorno, del suo giorno, quello della sua Pasqua redentiva ed è la luce che spunta come giorno eterno e definitivo sul volto di un cristiano che muore. Pietro ci sta lasciando l’Evangelo, non qualche raccomandazione di carattere spicciolo e sbrigativo; qui si tratta di fare la spesa per lo spettacolo della festa. Il v. 19 che ho appena letto dice: “finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori”: è quella luce grandiosa, gloriosa che abbiamo contemplato sul volto di Gesù e, a partire da quel volto, di volto in volto, di specchio in specchio. E’ l’Evangelo che procede così, non semplicemente alla maniera di un insegnamento, un messaggio, una formula, una sentenza, ma passa attraverso la vita dei cristiani che muoiono e che trasmettono a partire da quel Volto. Adesso “c’è il mio volto”: Pietro sta per morire, ci sono altri volti, già qualcuno l’ha preceduto, altri seguiranno. Si rivolge a noi: e c’è una “stella del mattino che spunta nei vostri cuori”. E’ l’Evangelo che si manifesta come quella potenza, quella conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo che brucia dall’interno la nostra vita umana in modo tale che si spalanca il cuore. E il volto di un povero cristiano che muore rimane come eredità indelebile che porta in sé tutta la fecondità dell’Evangelo per la salvezza del mondo. Si spalanca il cuore a misura della venuta gloriosa del Signore, laddove quel volto del cristiano che muore è il volto che porta in sé la luminosità di quella luce che sta sorgendo dal fondo del cuore. E’ il cuore che si allarga; è l’incontro con il Signore glorioso; dal giorno dell’incarnazione fino al giorno finale. E’ l’unico giorno in questo nostro tempo. Di generazione in generazione noi stiamo trasmettendo l’Evangelo che abbiamo ricevuto nel riflesso di quella luce da un volto ad un altro, da una generazione ad un’altra nella continuità dell’evangelizzazione.
Un unico Spirito lega i profeti, Gesù e i martiri
Vv. 20-21: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio”. Avevamo bisogno di questa precisazione e Pietro non ce la fa mancare: ci vuole aiutare a respirare perché quella continuità dell’evangelizzazione che passa di generazione in generazione, da un cristiano che muore ad altri è quella luce gloriosa del volto del Signore che si riflette di volto in volto; ed è lo spalancamento dei cuori che diventa testimonianza inconfondibile in rapporto alla venuta gloriosa del Signore, del suo Regno; di morte in morte, di gloria in gloria. Ora ci dice che questa continuità è sostenuta, portata, strutturata dallo Spirito Santo. E’ lo Spirito Santo che muove (v. 21: “mossi dallo Spirito Santo); e ritorna a considerare le Scritture e la Parola di Dio che in esse è stata depositata, le generazioni del passato, i testimoni che ha individuato come “lampade che brillavano in luoghi oscuri”, i profeti, questi testimoni del passato, fino all’Incarnazione gloriosa, la Pasqua redentiva del Figlio e, dunque, noi, fino a noi. E c’è un unico Spirito, dice Pietro, che collega gli antichi scrittori, quelli che ci hanno lasciato l’eredità delle Scritture sacre; e poi Gesù in quanto interpreta tutta la Parola rivelata. “…nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione”: ogni Scrittura è interpretata da Lui e tutte le Scritture sono compiute in Lui; ma è lo stesso Spirito che ha mosso gli antichi, quello Spirito che si è manifestato attraverso la missione redentiva del Figlio nella sua carne; ed è quell’unico Spirito che sostiene ancora, di generazione in generazione, l’interpretazione delle Scritture nella continuità che va dai profeti di ieri ai martiri di Gesù, fino anche a noi oggi. E così l’Evangelo colma il nostro presente che è un presente così fatiscente, scarno, sobrio. E’ un presente mortale, il presente di una generazione che viene meno. Come è venuta meno l’azione di Gerusalemme, a parte considerazioni di cui potremmo discutere di ordine storico, teologico, pastorale, ma è una testimonianza che ci ha afferrati pienamente; è un dono che ci ha coinvolti nello spettacolo, in contesto tale per cui la gratuità è straordinaria; il dono che abbiamo ricevuto ci ha conquistati facendo di noi gli interpreti maturi di una storia profetica che continua adesso a trasmettere l’eredità ricevuta della gratuità; quella gratuità di cui è segno sacramentale la morte di un cristiano nello splendore dell’Evangelo. E quando Pietro dice queste cose si rivolge alla Chiesa madre di Gerusalemme; noi adesso siamo in grado di apprezzare adeguatamente il regalo ricevuto e ugualmente quella che è stata la vocazione e la missione di Israele. Questo non è il momento in cui ci riteniamo autorizzati a scrollare le spalle e buttare all’aria tutto quello che è stato; è proprio questo il momento in cui noi siamo in grado di valutare con devozione, ammirazione, commozione, gratitudine il valore di quello che abbiamo ricevuto attraverso la testimonianza fino al martirio delle generazioni che ci hanno preceduto. E noi esercitiamo la nostra piccola profezia fino a morire come martiri del futuro.
Tutta la Seconda Lettera di Pietro (ne abbiamo letto appena un capitolo; ce ne sono altri due) che, guarda caso, è l’ultimo scritto del Nuovo Testamento, è come se accendesse l’epifania di una luminosità che conserva l’Evangelo autentico nel corso della storia umana per come è bella la testimonianza di un cristiano che muore.
1 Una forma forte del termine gnosis [conoscenza] che è l’espressione di una conoscenza più profonda con un’influenza più potente.