Incontri di discernimento e solidarietà
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3 febbraio 2015

Lettera di Giacomo

La testimonianza della vita cristiana: magistero nei confronti del mondo

Terzo incontro del ciclo 2014-2015



Abbiamo preso contatto con le Lettere Cattoliche in modo panoramico; stasera riprendiamo la lettura della Lettera di Giacomo che, come ogni testo neo testamentario, è dotato di una sua personalità inconfondibile. Secondo il mio programma a questa Lettera dovrebbe fare seguito la lettura della Lettera di Giuda; se ci sarà ancora un poco di spazio proseguiremo con la seconda Lettera di Pietro.

Abbiamo a che fare con la Chiesa madre di Gerusalemme perché è da quella prima sorgente dell’evangelizzazione che provengono le Lettere Cattoliche; da un ambiente giudeo-cristiano, maturato nella tradizione ricevuta da tutta la storia del popolo di Dio, fino alla pienezza, al compimento delle promesse, all’incontro con il Signore Gesù Cristo. Dalla prima Chiesa di Gerusalemme ecco Giacomo, Giuda, Pietro, Giovanni: nomi che ci rimandano al primo nucleo dei discepoli del Signore, al primo incontro con Lui vivente; da quella prima Chiesa, composta esclusivamente da giudei, ha avuto inizio il cammino che si è poi sviluppato lungo le strade del mondo, passando attraverso l’incontro con situazioni sempre più diverse e, in particolare, con il mondo dei pagani. Le chiese etnico-cristiane ormai sono prevalenti verso la fine del 1° secolo d. C. e un maestro giudeo-cristiano, che si rifà alla volontà del grande Giacomo il fratello del Signore, morto nel 62 d. C., rivolge il suo messaggio a chiese che ormai sono composte quasi esclusivamente da pagani che hanno accolto l’Evangelo e intrapreso il cammino della vita nuova. Ma il nostro maestro avverte la necessità di aiutare coloro che stanno scoprendo la novità che Dio ha realizzato nella storia degli uomini mediante l’incarnazione di suo Figlio, la Pasqua redentiva, e stanno affrontando svolte che potrebbero essere devianti, pericolosamente esposte a fenomeni regressivi. Dal grembo della Chiesa madre, dunque, proviene questo messaggio che, con grande sapienza teologica, si rivolge a coloro che, provenendo dal paganesimo, hanno accolto l’Evangelo, ma sono alle prese con quelle incertezze a cui accennavo: la testimonianza di un autentico e sincero senso di responsabilità; senza atteggiamenti presuntuosi, tanto è vero che Giacomo, come gli altri autori che leggeremo, parlano un ottimo greco che è la lingua dei pagani, anzi un greco molto raffinato, forbito. Si rivolgono ai pagani ben sapendo che non possono prescindere da quella presenza che porta con sé una ricchezza di valori culturali che sono globalmente ricapitolati nella civiltà ellenistica. Sono affermazioni grezze e approssimative tanto per ritrovarci in sintonia con il testo che già abbiamo affrontato in due dei nostri incontri.

Una prima parte della Lettera che, come sappiamo, non è uno scritto epistolare, ma una raccolta di spunti da utilizzare per catechesi, omelie, itinerari di ricerca e di riflessione; il testo ci appare qua e là molto frammentario, ma è una metodologia espositiva che è propria del mondo giudaico; e più ci si inoltra nella lettura – passo passo e in maniera attenta e dettagliata di queste pagine – più ci si accorge che in realtà il testo è pervaso da una sapienza teologica che raccoglie frammenti all’interno di un grande movimento che tende a configurarsi come un percorso a spirale dove non è la logica di ordine deduttivo quella che si impone in modo dominante. E’, invece, la logica della vita che ha bisogno di essere proposta nella sua interezza; d’altra parte è sempre bisognosa di approfondimenti, di riprese, di rilanci. E’ già detto tutto nella prima battuta, che poi viene man mano riproposto con l’inesauribile varietà delle sfaccettature. Le ripetizioni sono all’ordine del giorno, ma sono metodologicamente coerenti con quel certo modo di proporre quel messaggio che non segue rigorosamente la logica delle premesse per arrivare a delle conseguenze attraverso adeguate argomentazioni, come è esperienza tipica delle nostre procedure didattiche. E noi ci lasciamo portare dal testo che stiamo leggendo che ormai abbiamo preso in mano con una certa fatica, ma anche con soddisfazione.

La prima parte di questa lettera è coincidente con il capitolo primo che intitolavo “La vita nuova nel discepolato di Gesù”. La seconda parte, di cui ci occupavamo prima di Natale, nel cap. 2 fino al v. 13 del cap. 3, contiene tre interventi critici riguardanti il modo di accogliere e intendere l’insegnamento che proviene dalla figura magistrale per eccellenza che è stata, nella storia della prima evangelizzazione, quella di Paolo, il grande teologo, il maestro per antonomasia, l’evangelizzatore esemplare. Giacomo afferma – delicatamente, senza assumere atteggiamenti intransigenti e polemici – che la teologia paolina, così come è stata poi rielaborata nel contesto delle chiese, è stata sintetizzata spesso in maniera molto grossolana: ricordate tutte le questioni riguardanti il rapporto tra la fede e le opere della legge su cui ha riflettuto precisando, esplicitando senza polemica nei confronti di Paolo, ma piuttosto con un atteggiamento correttivo in rapporto a quello che è stato il modo di recepire e sintetizzare il suo insegnamento riducendolo a formule scialbe e devianti. Questo è un rischio sempre presente nella catechesi di cui pure le nostre chiese hanno bisogno: ridurre l’elaborazione teologica a sintesi che diventano meschine e, addirittura, se non opportunamente sostenute e interpretate, contraddittorie, rispetto al messaggio che si vuole trasmettere, rispetto nientemeno che all’Evangelo. Ricordate il terzo dei tre svolgimenti tra quelli messi a fuoco nella seconda parte della Lettera (cap. 3, fino al v. 13): una riflessione sul modo di insegnare, sul magistero. Lo stesso Giacomo si è inserito nel contesto dei maestri; anche lui, a suo modo è dotato di prerogative dottorali (parla in prima persona plurale) ed è una responsabilità carismatica quella che spetta all’insegnamento mediante il quale l’Evangelo viene commentato, illustrato, trasmesso e reso adeguato alla varietà delle situazioni che man mano si presentano nel corso dell’evangelizzazione. Siamo giunti a constatare come Giacomo avverte la necessità di riportare l’insegnamento dottorale sempre all’animo, all’intimo, al cuore, all’atteggiamento interiore dell’insegnante. Questo insegnamento ha bisogno di essere radicato nella totale coerenza del cuore che si manifesta, poi, nella coerenza dei comportamenti: non c’è insegnamento che non sia incastonato nel vissuto, a partire dalla purezza del cuore, in prospettiva tale da coinvolgere la totalità dei comportamenti. Giacomo ha dimostrato di essere piuttosto preoccupato per quanto riguarda l’uso della lingua, le parole, le chiacchiere, le frasi fatte, le sentenze, gli slogans, anche in sede teologica o catechetica, nella omiletica corrente, nell’insegnamento che rischia di diventare asfittico, pericoloso, corrosivo: una vera e propria corruzione di cui ci parla con delicatezza, ma anche con precisione molto matura. E dimostra di essere maestro lui stesso, consapevole della responsabilità che gli spetta.

Eravamo arrivati al v. 13: “Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza”. La sapienza è prerogativa della nostra vocazione alla vita che si realizza in quanto siamo aperti alla relazione con il mistero di Dio che si rivela a noi. Giacomo ci tiene a ribadire il fatto che il magistero autentico suppone una radicale apertura dell’animo umano alla relazione con il Mistero e tutto questo si traduce nella dolcezza dei comportamenti che assumono così la loro autentica misura operativa: “Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza”. La traduzione è alquanto imperfetta: c’è di mezzo questa nota di mansuetudine e di delicatezza che costituisce per Giacomo il segno inconfondibile di un magistero che passa dal cuore.

Affrontiamo la terza parte della Lettera che arriva fino alla fine e che non riesco ad identificare con un titolo. La seconda parte ci ha consentito di ritornare all’insegnamento paolino con quelle annotazioni chiarificatrici su cui Giacomo ha insistito; questa terza parte piuttosto ampia (da 3, 14 a 5, 20) possiamo intitolarla, un po’ banalmente, ma tanto per intenderci: “Insegnamenti vari”. Poi constateremo, inoltrandoci man mano nella lettura, che non abbiamo a che fare con dei coriandoli di sentenze dottrinarie messi qui insieme alla rinfusa, ma con una serie di istruzioni che sono collegate tra di loro secondo la modalità che richiamavo precedentemente: un movimento a spirale. L’apparente disordine di queste pagine rientra nella metodologia didattica che è propria della tradizione giudaica, rabbinica.


Sapienza che viene dall'alto e testimonianza cristiana

Cap. 3, vv. 14, 18. Si parte da una ripresa circa quel richiamo alla sapienza (che abbiamo incontrato nel v. 13) come prerogativa della vocazione cristiana laddove c’è di mezzo la vocazione alla vita che si realizza nell’apertura in rapporto al Mistero; questa apertura radicale del cuore umano che, attraverso l’incontro con il Mistero, diventa motivo portante di tutto un nuovo cammino nel corso della vita. Non è più in questione il carisma dottorale nel senso della competenza specifica o il magistero, nelle sue forme più prestigiose; è in gioco quel magistero che, in forma più modesta, ma sempre comunque più che mai significativa, riguarda la vita cristiana di tutti e di ciascuno, quale che sia la particolare competenza specifica, il grado di impegno comunitario di situazioni diverse per quanto concerne il sesso, l’età, le situazioni di vita: c’è una nota magistrale che è prerogativa della vita cristiana sempre; c’è una responsabilità magistrale, didattica che noi forse chiameremmo (per intenderci subito) testimonianza. C’è una testimonianza nella vita cristiana che è modalità di magistero nei confronti del mondo, sempre, per tutti e Giacomo riflette su questa competenza magistrale che, nel senso ampio cui accennavo, coinvolge la vocazione cristiana di tutti quanti noi.

V. 14. “Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall'alto”. Il maestro avverte la necessità di soffermarsi su quelle affermazioni che ha rivolto a noi nelle righe precedenti fino a quel richiamo, fino alla sapienza del maestro. Di quale sapienza parliamo? Di quale magistero parliamo nel momento in cui la vita cristiana, aperta alla relazione con il Mistero, assume sempre per tutti la responsabilità di una testimonianza verso il mondo? Tutto sempre parte dalla radicale disposizione del cuore. Giacomo imposta una distinzione tra una sapienza che viene dall’alto e una che non viene dall’alto. C’è una sapienza che non viene dall’alto ed è una sapienza, come ne parla Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, che viene intesa come una certa strumentazione tecnica che utilizza le relazioni in maniera invadente; è una strumentalizzazione di quelle relazioni che, in un modo o nell’altro, danno forma alla vita, anche alla vita cristiana. Giacomo afferma che c’è una sapienza – che non è dall’alto – che si afferma sulla lunghezza d’onda della gelosia amara, dell’invidia e della litigiosità intrigante: lo spirito di contesa, la gelosia amara, l’invidia, la litigiosità, il gusto di litigare, di intrigare. Altrove si parla di gelosia, qui è proprio invidia: un modo di impostare le relazioni per raggiungere uno scopo che è abusivo, mirato a invadere, occupare, inglobare la presenza altrui all’interno di un’iniziativa che vuole imporsi autonomamente. Insieme all’invidia troviamo la litigiosità di chi intriga, di chi utilizza le relazioni per mantenersi a distanza, strumentalizzandole in modo tale che le componenti del quadro all’interno del quale ci si muove, si elidano vicendevolmente, si sgretolino tra di loro; un atteggiamento equivalente, senza essere troppo precisi nelle corrispondenze, al “divide et impera”; il termine che Giacomo usa qui è un termine che in greco classico serve ad indicare spesso l’attività dell’intrigante politico che riesce a sfruttare le situazioni in modo tale da emergere vincente dopo aver costretto gli avversari a disintegrarsi ed elidersi fra di loro. C’è una sapienza, dice il maestro, che non viene dall’alto, e che funziona su questa lunghezza d’onda: “Non è questa la sapienza che viene dall'alto: è terrena, carnale, diabolica (usa tre aggettivi: terrena, carnale – meglio “istintiva” – diabolica, demoniaca. Tre attributi piuttosto pesanti che il maestro inserisce qui nel suo messaggio, in maniera molto sobria, senza risvolti di ordine patetico, molto serenamente): poiché dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni”. Non solo lo dice, ma lo espande, lo diffonde: è una sapienza che produce disordine come una specie di cortina fumogena che dilaga in tutte le direzioni del mondo visibile e invisibile. Sta parlando di un possibile fraintendimento; e, se ne parla, vuol dire che è stato già constatato. Si verificano fenomeni del genere: la cosiddetta “sapienza”, l’impegno di testimonianza didattico-magistrale in rapporto al mondo, nella vita cristiana, in realtà può essere determinata da questa relatività che diventa motivo di inquinamento.

Nel v. 17 precisa: “La sapienza che viene dall'alto invece (questa è la qualità positiva della vita umana, cristiana, della testimonianza magistrale a cui comunque la vita cristiana è chiamata, sempre, nel vissuto di tutti quanti noi) è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia (questa capacità di dialogo con il Mistero che struttura dall’interno tutte le relazioni, l’impatto con il mondo, gli impegni anche nelle forme più spicciole della quotidianità della nostra esistenza, fino alle forme più serie ed esplicite di testimonianza didattica nei confronti del mondo che ci circonda, viene descritta mediante sette attributi che sono come strutture portanti che positivizzano la vita umana e cristiana; la vita di coloro che, per il fatto stessi di aver accolto l’Evangelo, sono sollecitati a svolgere un compito di testimonianza. Non li mettiamo a fuoco uno per uno, ma cogliamo immediatamente un richiamo ad un atteggiamento di disponibilità, di accoglienza, di trasparenza, di gratuità; quanto è essenziale per restare in sintonia con il messaggio che riceviamo dal maestro). V. 18: “Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace”. Questo magistero o questa testimonianza, sostenuta dalla sapienza come ce l’ha descritta, ottiene frutti di giustizia, seminando atti di pace: sono due fondamentali criteri di riconoscimento per quanto riguarda la positività di questo magistero, l’autenticità di questa testimonianza e quindi la qualità della sapienza che così si esprime. Il primo criterio ha a che fare con la giustizia, non nel senso giudiziario del termine, ma nel senso di quella qualità delle relazioni per cui il soggetto implicato è impegnato a sostenere la debolezza altrui, la promozione altrui: Dio è giusto non perché fa il magistrato ma perché si rivela in quanto è preoccupato di restituire dignità a chi l’ha perduta, ridare solidità a chi è frantumato, rimettere in piedi coloro che sono caduti, restituire una possibilità relazionale e dialogica alla pari a coloro che sono stati squalificati. La giustizia è un termine biblico di fondamentale importanza, dotato di una teologia potentissima e fecondissima (ricordate tutta la teologia di Paolo sul tema della giustizia e della giustificazione): la giustizia non è in competizione con la misericordia, ma è il modo operativo mediante il quale la misericordia di Dio realizza lo scopo della salvezza; è un modo redentivo di amare, una preoccupazione costante orientata alla promozione degli interlocutori. Il secondo criterio di riconoscimento ha a che fare con il sostantivo “pace” e operare la pace. E’ una delle beatitudini nel Vangelo secondo Matteo, cap. 5, v. 9: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Dire “pace” significa indicare quella prontezza, quella disponibilità nel prendere posizione in modo tale da mediare situazioni che sono problematiche, spesso conflittuali, contraddittorie: questa attenzione alla diversità altrui. E questa è prerogativa che qualifica intrinsecamente – dice il maestro – la testimonianza a cui la nostra vita cristiana è chiamata; per un verso l’attenzione costantemente mirata a promuovere la presenza altrui, per altro verso a riconoscere, interpretare la diversità altrui in modo tale che sia raggiunto quel livello di comunicazione che consenta di parlare lingue se non identiche, almeno omogenee.


Conflittualità bellicosa tra di noi e dentro di noi

Cap. 4, vv. 1-5. Ora Giacomo ribadisce la sua preoccupazione per il fatto che in molti casi le cose non vanno così e concentra l’attenzione su quello che avviene all’interno delle nostre comunità constatando che ci sono difficoltà per attuare questo magistero, questa testimonianza laddove c’è di mezzo l’alternativa tra la sapienza che non è dall’alto e quella che è invece dall’alto. “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?”. Una conflittualità bellicosa è presente in mezzo a voi, in voi ed è un’immagine che può essere intesa in due modi che sono esattamente complementari e si sovrappongono benissimo tra di loro: “in voi” nel senso di “tra di voi” e nel senso di una tensione conflittuale che è sensibilmente operante nell’intimo, nel segreto degli animi, nella profondità del cuore. “Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?”. Il termine “passioni” si può tradurre con “piaceri”. Non usa la forma assertiva, ma interrogativa e lo fa in modo molto discreto per aiutarci a riflettere su come mai succedono queste cose. “Forse – asserisce – c’è una ricerca di gratificazioni da parte nostra che ci rende prigionieri dei nostri piaceri”. Il combattimento, in modo sempre più esplicito, viene colto nell’impianto interiore del nostro vissuto, anche se poi, spesso e volentieri, questa conflittualità comunitaria è registrata nei dati empirici, più visibili, anche più vistosi delle nostre storie di comunità. Giacomo spiega adesso questa ricerca di una gratificazione che ci intrappola dentro a un ingranaggio di ricerca per carpire quelle soddisfazioni che chiama “piaceri”; ed è in questa ricerca che Giacomo coglie il motivo determinante di quella conflittualità che sta fra di noi e che è dentro di noi.

V. 2, 3: “Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri”. Descrive, in maniera sobria, ma efficace, quel fenomeno tipico delle categorie umane che sono chiamate a forme di responsabilità nelle relazioni interpersonali, comunitarie, nelle forme di magistero, di insegnamento, di responsabilità in senso ufficiale (ma vale anche per la nostra condizione umana indipendentemente dal carisma professorale o dall’impegno accademico o dall’insegnamento teologico, catechetico, pastorale o omiletico) che mi sembra di poter esprimere con l’immagine della spirale della delusione. Come mai? Mai contenti. E’ un fenomeno tipico di chi è addetto ai lavori: il maestro è un incompreso, il prete non è stato capito; ciascuno poi queste cose le ripete nel proprio ambito. C’è un’aspettativa della corrispondenza che non è ottenuta o non è avvenuta come la si aspettava e si entra dentro un marchingegno micidiale che ha tutte le caratteristiche di un vittimismo auto giustificativo. La spirale della delusione; quello che si vede in maniera macroscopica nei casi classici di coloro che svolgono funzioni didattiche in funzione ufficiale, si ripropone pari pari nel vissuto più modesto di tutti, quale che sia la competenza, le circostanze della vita, gli ambienti frequentati. “Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!”. Può avvenire anche in famiglia; come no? “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri”. Questa spirale della delusione è determinata da quell’imbroglio radicale che Giacomo ci ha indicato precedentemente nella ricerca della propria gratificazione e che diventa una vera e propria trappola, come un imbuto micidiale nel quale siamo risucchiati; un vortice che tutto riduce a una strozzatura autoreferenziale. “Non mi hanno capito”: delusioni che diventano quasi il suggerimento commosso, patetico, carezzevole ad assumere l’atteggiamento di vittime che subiscono un danno assolutamente ingiusto. E si chiede: come mai succede questo? V. 4: “Gente infedele!” (un’esclamazione sferzante per un verso e scherzosa per un altro perché il termine greco è lo stesso: adulteri e adultere! Questa è la logica – la spirale della delusione – che conduce all’adulterio: “mia moglie non mi ha capito”, per non dire “mio marito” o la famiglia; “non mi hanno accettato”. E Giacomo lo chiama adulterio che è un riferimento che ha innumerevoli connessioni con la rivelazione biblica antico e neo-testamentaria. C’è di mezzo il tradimento di una storia d’amore) Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? (questa è una storia d’amore) Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che la Scrittura dichiari invano: fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi?”. Bisogna che cogliamo accuratamente il valore di questo sviluppo nella riflessione del maestro. Quella spirale della delusione dipende dal fatto che noi cerchiamo altri amici, altri interlocutori per quanto riguarda la nostra posizione nel mondo in alternativa alla gratuità dell’amore fra Dio e noi. “Gente adultera, non sapete che amare il mondo è odiare Dio?”; vantando per di più il diritto dell’incompreso: “cerco un altro amico, un’altra amica, cerco altri amici, cerco un altro amore”. Giacomo va alla radice del problema: questa è la pretesa del desiderio che nel momento opportuno si scatena in noi fino all’invidia in modo da depravare lo Spirito infuso da Dio, dice il nostro maestro. Nel v. 5 che ho già letto: “forse pensate che la Scrittura dichiari invano…”: la Scrittura non scherza. La storia della salvezza è una storia d’amore. Tutta la rivelazione di cui siamo a conoscenza attraverso i libri che leggiamo, studiamo, assimiliamo, insegniamo non parla invano. Prosegue il v. 5: “fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi?”. “Spirito” è scritto con la maiuscola ma si potrebbe anche intendere: “fino alla gelosia, all’invidia desidera lo spirito (“s” minuscola) che egli ha fatto abitare in noi”. In noi si scatena questo desiderio che ci chiude dentro l’orizzonte dell’invidia in esatta contraddizione con l’iniziativa di Dio che si è gratuitamente manifestata a noi con la potenza del Suo Spirito. Comunque lo si voglia tradurre il senso dell’insegnamento che stiamo leggendo non ci sfugge.


La cattedra dei piccoli; farsi piccoli e vivere coerentemente

Vv. 6, 12. Eppure “Ci dà anzi una grazia più grande”. L’iniziativa di Dio è sempre più grande. E cita il Libro dei Proverbi: “Dio resiste ai superbi;

agli umili invece dà la sua grazia”. Dio resiste ai superbi mentre il dono gratuito è per i piccoli; sono proprio loro, i piccoli che nella loro piccolezza, debolezza, povertà imparano a insegnare perché imparano ad amare. “La cattedra dei piccoli” diceva padre Pio (Parisi); e qui ci siamo in pieno, anche il linguaggio è perfettamente omogeneo a quello che ci risuona nelle orecchie.

Restiamo intrappolati dentro agli ingranaggi dei nostri desideri insoddisfatti, non gratificati, che non hanno ottenuto il piacere ricercato e cadiamo in quella che, nel Libro dei Proverbi, si chiama superbia. E’ il diritto della vittima incompresa, ma è un tradimento di una storia d’amore. Per questo, afferma il maestro, non funziona il magistero ai livelli più qualificati, ma non funziona la testimonianza cristiana. E’ il tradimento di una storia d’amore, di un debito d’amore: è un adulterio. “Dio resiste ai superbi;

agli umili (ai piccoli) invece dà la sua grazia”: la sua iniziativa che si manifesta attraverso la gratuità dei suoi doni in una relazione d’amore.

V. 7. Giacomo aggiunge una serie di raccomandazioni urgenti: “Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri cuori, o irresoluti”. Ora Giacomo si esprime con una sequenza di imperativi piuttosto energici anche se il suo tono è sempre molto discreto. Non è prepotente, non è irruente, ma gli imperativi corrispondono alla convinzione che abbiamo a che fare con un’alternativa radicale. Va sempre a fondo di situazioni che per noi tendono a rimanere molto superficiali: bisogna dare testimonianza; siamo tutti d’accordo, soltanto che poi non ci siamo. Come mai? Vuole andare a fondo della questione: diciamo tante belle cose, insegniamo in modo così splendido e così intelligente e non convinciamo nessuno, non si converte nessuno. Come mai? Pensate alla vita di un prete che passa tutte le giornate a dire tante belle cose che poi non si realizzano mai. Nel Vangelo di domenica scorsa, Gesù insegnava, a Cafarnao, nella sinagoga: che cosa ha detto di così interessante? Non c’è scritto. “Vorrei capire le immagini che ha usato, il linguaggio, vorrei sentire le parole, vorrei qualche spunto perché devo fare l’omelia; e non c’è scritto niente”. “Parlava con autorità”: parlava con la coerenza della vita. Per questo è autorevole: l’insegnamento si realizza nel suo vissuto. Insegnava ed erano tutti stupiti: insegnava nella concretezza del suo modo di essere presente, in cammino, rivolto ai suoi interlocutori; quella è l’autorità del suo insegnamento. Poi diceva anche belle cose che tutti sapevano già, possiamo ripeterle e più le ripetiamo e più ci sentiamo garantiti di poterle non mettere in pratica perché sono cose per eroi, per santi e l’abisso è incolmabile. Questa è l’impurità ed è un’impurità infernale. Siamo abituati a ripetere cose che non si realizzano mai e questa è la nostra testimonianza. Una testimonianza che si accompagna con “non mi hanno capito”. Non ne vogliono sapere. Sto un po’ scherzando. Anche Pio diceva “mi danno ragione, ma non mi danno retta”.

L’alternativa radicale a cui accennavo sta tra l’amore tra Dio e noi e i comodi della propria gratificazione. Invece l’esercizio del magistero implica una via di purificazione: “Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo (quel tale nella sinagoga di Cafarnao), ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri cuori, o irresoluti (un termine che avevamo già incontrato nel cap. 1, v. 8; sono coloro che hanno un animo doppio e questo fenomeno della doppiezza è già stato rilevato dal maestro ed è un fenomeno che, dal suo punto di vista, è come un segnale di paganesimo di ritorno. Questa doppiezza, ossia questa contraddizione tra il detto e il vissuto, è un fenomeno ricorrente nella nostra vita cristiana; bisogna che ce lo diciamo e che ce lo facciamo dire da Giacomo. Ce lo diceva il Vangelo secondo Marco domenica scorsa). Gemete sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. Giacomo usa un linguaggio compassionevole; sta commiserando anche se stesso, non si sta mettendo in una posizione di superiorità incontaminata; sta prendendo atto di quanto è misera la nostra vita cristiana che resta intrappolata dentro gli ingranaggi di quella doppiezza. E c’è un rammarico, un dispiacere, un bisogno di compassione: “Gemete, fate lutto, piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza”. E questo non per fare spettacolo: è la consapevolezza di come siamo effettivamente condizionati dalla nostra misura di umanità che ancora è paganeggiante, prigioniera di quella spirale della delusione di cui ci ha parlato. Prendere atto di questa situazione di miseria è un passaggio benefico, positivo; il cammino di conversione nella vita cristiana passa di qua, altrimenti continua a restare una prospettiva astratta, dichiarata a parole, forse anche con grandi disquisizioni accademiche, ma mai verificate nei fatti. “Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. “Umiliatevi”, qui, è usato in una forma verbale che è immediatamente riconducibile a quegli “umili” di cui si parlava nella citazione dei Proverbi (v. 6). I poveri, i piccoli, i deboli, gli umili sono i maestri: il magistero autentico appartiene ai piccoli. Quando dice “umiliatevi” non ci sta invitando a flagellarci per compiere qualche gesto ascetico (sarebbe un’ulteriore messa in scena che ci espone a contraddizioni nascoste o dichiarate, certamente non edificanti). Qui c’è di mezzo l’assunzione di una reale responsabilità di testimonianza e di magistero: una responsabilità di magistero che compete ai “piccoli”. Umiliarsi non per compiere un gesto penitenziale, ma per imparare a testimoniare, a insegnare, diventare maestri in nome della sapienza che viene dall’alto.


Guardarsi dalle diffamazioni vicendevoli nella vita comunitaria.

Nei vv. 11, 12 accenna a quello che ritiene il rischio estremo di quel magistero contraddittorio, di quella testimonianza miserabile che è la diffamazione vicendevole. Possiamo anche concordare con lui e comunque certe opinioni sono sempre esposte a criteri interpretativi più o meno variabili, ma all’interno di una comunicazione che ci aiuta a crescere. Giacomo va sempre a pescare nel concreto delle vicende, non si accontenta di suggerire bei pensieri o prospettive ideali: sembra che anche Gesù abbia fatto così: “non so che cosa ha detto, però parlava con autorità”.

Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge”. Il magistero – uso ancora questo termine, ma ormai ci intendiamo – non è un servizio reso all’Evangelo, ma un’affermazione della superbia umana, della pretesa di strumentalizzare, di usare le relazioni all’interno di una logica di potere. Giudicare il fratello è come giudicare la legge, intendendo la “legge regale”, come lui l’ha chiamata, e cioè l’amore del prossimo come se stessi – citazione del Levitico – perché tutta la legge fa capo a quella legge regale; tutta la legge è da interpretare in rapporto a quel criterio; è stata donata da Dio al suo popolo e, attraverso Israele, giunge fino a noi in modo da illustrare il valore della legge che sintetizza mirabilmente ed efficacemente l’intenzione del legislatore. Giudicare la legge significa giudicare il legislatore in radicale contraddizione con la sua intenzione legislativa che è intenzione d’amore; l’offesa della legge è sempre una mancanza d’amore. Giacomo usa un linguaggio che è quello classico della tradizione giudaica, ma ormai totalmente reinterpretato nella novità della rivelazione neo-testamentaria, cristiana, di Cristo. Tutta la legge è una legge d’amore.

E se tu giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la giudica. Ora, uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e rovinare; ma chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?”. E’ il rischio più drammatico di un magistero, di una testimonianza che come tale viene proclamata, anche sbandierata nella vita cristiana e che invece è in contraddizione con la legge, con il Legislatore, con la Sua volontà d’amore. Il magistero, come il maestro qui lo sta descrivendo e anche denunciando, tradisce quell’ascolto che invece dovrebbe obbedire alla Parola della rivelazione di Dio e diventa un fenomeno idolatrico. Uno solo è il Legislatore! E’ Dio. Chi sei tu che ti fai giudice? Una presa di posizione assai drastica, ma resta sempre vero che il suo linguaggio, oltre ad essere costruito in maniera molto elegante, è sereno; vuole persuadere senza gli svolazzi dei predicatori o gli strepiti e i pugni sbattuti su un tavolo da parte di chi ritiene di essere, così, autorevole. La faziosità è un fenomeno che potrebbe anche apparirci banale, marginale, comunque secondario; per il maestro la faziosità, nella polemica intracomunitaria, è un segno che ha a che fare con una disfunzione “infernale”, perché c’è di mezzo l’idolatria della soggettività che si esprime nei beni intellettuali; chi ha ragione e chi ha torto ed è in questione la testimonianza della vita cristiana secondo l’Evangelo. E, a questo punto, Giacomo passa, in maniera che a noi sembra acrobatica, a considerare il rapporto con i beni materiali. Fino a questo momento “i beni intellettuali” (per intenderci) e ora beni materiali. E’ l’altro versante della medesima questione che riguarda l’idolatria della soggettività umana.

V. 13, 14: “E ora a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», mentre non sapete che cosa sarà domani!”. Ne parleremo la prossima volta. La smania di fare affari è un atteggiamento per lo più opposto a quello rilevato nei maestri. Normalmente i maestri sono dei depressi, mentre, altrettanto normalmente, gli uomini d’affari sono degli entusiasti, se no vuol dire che sono già preda del fallimento. Ma nella comunità cristiana ci sono gli uni e gli altri, ci siamo tutti perché c’è un impegno di testimonianza, ma c’è anche un impegno che riguarda l’operosità della vita.

Lectio divina


Incontri 2014-2015 - Lettere cattoliche


  • 3 febbraio 2015
    Lettera di Giacomo 3
    La testimonianza della vita cristiana: magistero nei confronti del mondo
  • 7 aprile 2015
    E’ in atto una crisi pastorale: non c’è più militanza