Incontri di discernimento e solidarietà
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2 dicembre 2014

Lettera di Giacomo

Fede ed opere

Secondo incontro del ciclo 2014-2015



Riprendiamo la lettura della Lettera di Giacomo secondo il programma di quest’anno, almeno nella sua prima parte. Proseguiremo dedicando il nostro impegno di lettura ad altre tra le “Lettere cattoliche”. Un richiamo dal nostro primo incontro: dalla Chiesa madre di Gerusalemme, che è una Chiesa composta esclusivamente da giudei che hanno accolto il Vangelo, tutto proviene, a partire dalla Pasqua del Signore fino ai discepoli. L’evangelizzazione si è andata sviluppando e il maestro di tradizione giudeo-cristiana si presenta a noi sotto le spoglie di Giacomo il Minore, il fratello del Signore che ha svolto un ruolo di presidenza nella Chiesa di Gerusalemme per alcuni decenni: una figura di riferimento che è oggetto di una stima particolarmente significativa anche nell’ambiente propriamente giudaico e di cui si parla nei testi provenienti dalle scuole rabbiniche contemporanee. Giacomo il Minore (che non attribuisce all’aggettivo un valore qualitativo rispetto all’altro Giacomo, il Maggiore, fratello di Giovanni, primo martire tra i dodici) è una figura di riferimento. Alcuni decenni dopo, verso l’anno 80 d. C., un maestro perfettamente integrato nella tradizione giudeo-cristiana, mette insieme queste testimonianze, questi insegnamenti, questi appunti carichi di teologia come stiamo constatando, rivolgendosi a interlocutori che sono ormai prevalentemente discepoli, che hanno avviato il cammino della vita nuova e che hanno accolto l’Evangelo, ma provenienti dal paganesimo etnico-cristiano. E’ la situazione nella quale si trova la storia delle prime chiese in questa fase di transizione: tutte le chiese che man mano stanno sorgendo, dove l’Evangelo continua a fruttificare, sono chiese eminentemente, se non esclusivamente, formate da discepoli che provengono dal paganesimo, come capita ancora a noi oggi.

Dalla Chiesa madre di Gerusalemme proviene un complesso di segnali che richiamano l’attenzione su ciò che è veramente essenziale nella prospettiva di un’evangelizzazione che deve crescere perché l’Evangelo è sempre esposto a rischi di involuzione, deviazione, corruzione. E proprio da coloro che sono rappresentanti della prima esperienza di incontro con il Signore risorto, coloro che sono stati depositari della prima responsabilità dedicata al servizio dell’Evangelo, proviene questo messaggio, in sé e per sé, molto modesto. Queste Lettere cattoliche sono testi nascosti in qualche angolo del Nuovo Testamento, che qualche volta facciamo fatica anche a rintracciare fisicamente, ma sono scritte con molta coerenza, usando un linguaggio che tiene conto della situazione culturale caratteristica del mondo pagano da alcuni secoli, per cui si parla greco, la lingua dei pagani. Ed è un greco molto raffinato, come facevo notare la volta scorsa, benché il suo metodo di esposizione, di commento e la sua didattica corrispondono ad una tradizione che è propria del mondo giudaico dove si procede per sentenze, grappoli di insegnamenti in forma proverbiale che, concatenati fra di loro, danno forma non tanto a un pensiero logico deduttivo, ma a una testimonianza che coinvolge la vita dell’interlocutore.

Abbiamo letto il primo capitolo della Lettera: più che una lettera è un complesso di appunti, un involto di carte che dà modo di elaborare, alla maniera di tanti canovacci, elaborazioni di ordine omiletico, catechetico; sono strumenti predisposti per la predicazione, in forma molto dimessa che non pretende alcuna celebrazione di carattere letterario, ma che conserva l’intensità appassionata di un radicamento nell’Evangelo originario di cui ancora noi abbiamo bisogno.

Per questo vi ho imposto quest’anno di subire la lettura della Lettera di Giacomo e di quello che verrà.

Vi dicevo, la volta scorsa, che la Lettera che stiamo leggendo si può utilmente suddividere in tre sezioni. La prima coincide con il primo capitolo che abbiamo letto; sezione che avevo indicato con il titolo “La vita nuova nel discepolato di Gesù”. Ricordate come tutto ha preso avvio con il richiamo alla “perfetta letizia”, che si sperimenta man mano che ci si esercita nel confronto con le prove, le tribolazioni, le tentazioni che inevitabilmente accompagnano lo svolgimento della nostra vita cristiana. Ed è proprio nel confronto con tutte quelle vicende che stanno lì a dimostrare come siamo limitati, condizionati da contraddizioni di ogni tipo – come se fossimo bisognosi di essere filtrati, trasformati, convertiti, rieducati – che, afferma il nostro maestro, noi stiamo maturando nella perfetta letizia, nella gioia piena, totale, che invade il nostro vissuto e ci trasmette una fecondità che potrà essere riversata lungo le strade di quella che sarà l’evangelizzazione futura, come già l’evangelizzazione in corso. Giacomo non sta a fare programmi di impegno pastorale, non elabora trattati di teologia, ma ci aiuta a cogliere l’essenziale di quel dinamismo nuovo che rende autentica la vita cristiana di coloro che hanno accolto l’Evangelo e che ormai sono in grado di trasmetterlo nell’inesauribile fecondità dei beni ricevuti; di prova in prova, nelle contraddizioni, nella conflittualità inevitabile, nel discernimento di tutte quelle oscurità, iniquità, ambiguità che complicano il cammino della conversione a partire dall’intimo del cuore. Il nostro maestro, d’altra parte, è già sembrato a noi molto preoccupato del fatto che quella conversione di cui si parla comunemente nelle chiese sia semplicemente un rivestimento esteriore, sia di fatto un’etichetta che ormai si può applicare al bavero della giacca, un vezzo letterario; si dà tutto per scontato, come se quella conversione che fa della vita umana una novità corrispondente all’intenzione di Dio rivelatasi in Gesù Cristo una manifestazione scenografica che ha una certa visibilità pubblica, sempre più imponente col passare del tempo. Ma è proprio il chiarimento interiore che è venuto meno, che si perde per la strada, che rischia di sfumare in una serie di divagazioni senza costrutto vitale. Questa è la preoccupazione di fondo che oggi potremmo definire una crisi pastorale, sempre attuale del resto, per cui si usa un linguaggio; c’è tutta una messa in scena, una serie di definizioni teoriche; ma in tutto quel che resta nell’astrazione di pensieri, progetti, propositi, dichiarazioni ufficiali, documenti abbondantissimi, il vissuto non matura in corrispondenza alla novità evangelica. E Giacomo non è partito da qualche acrobazia ascetico-mistica, è partito dalla pazienza con cui si sta nelle prove: la “perfetta letizia”.

La seconda sezione della Lettera va dall’inizio del cap. 2 al cap. 3, v. 13. Questa sezione prende un’andatura un po’ particolare rispetto a quel modo di procedere che abbiamo riscontrato nella prima sezione, perché qui il nostro maestro ha raccolto tre interventi critici riguardanti la ricezione, nelle chiese etnico-cristiane, composte prevalentemente da pagani che ormai stanno crescendo in giro per il mondo, della teologia paolina perché Paolo ha lasciato ormai in eredità alle chiese un patrimonio di sapienza teologica dotato di un’indiscutibile e inesauribile fecondità: le lettere di Paolo sono già un corpus letterario acquisito; la teologia paolina è un riferimento dotato di un’autorevolezza che nessuno può mettere in dubbio. Soltanto che, un conto è l’insegnamento di Paolo (l’apostolo, il missionario, l’evangelizzatore, colui che si è dedicato, come egli stesso dichiara in certi testi provenienti dalla sua dettatura, alla teologia), altro è la recezione dell’insegnamento paolino che si deposita, nella continuità delle generazioni, in formule, definizioni che restano come palloncini in aria in maniera inconcludente e inefficace per quanto concerne la preoccupazione pastorale di Giacomo, che è la preoccupazione pastorale di chiunque abbia a cuore l’autenticità dell’Evangelo. Che cosa veramente significa quell’insegnamento di Paolo per quanto riguarda la conversione che fa nuova la nostra vita in corrispondenza al dono d’amore ricevuto da Dio? Più esattamente viene affrontata una questione che, nell’insegnamento di Paolo, può essere sintetizzata facendo appello all’alternativa tra la fede e le opere della legge. Noi siamo stati coinvolti nella novità di Cristo che è passato in mezzo a noi e ha sconfitto la morte in virtù della fede che ci sradica da quelle premesse che sono condizionate dalla nostra pesantezza umana e ci introduce nella novità di cui lui è protagonista e non attraverso le opere e l’osservanza della legge. Ricordate tutte le polemiche relative al fatto che alcuni chiedevano che i pagani che accolgono l’Evangelo dovessero circoncidersi e prendere su di sé l’osservanza della legge perché la legge viene da Dio, la legge è buona, è santa. Paolo dice “assolutamente no!” e non lo dice solo Paolo, ma il Nuovo Testamento e la chiesa neo-testamentaria: no, non è attraverso la circoncisione e tutte le osservanze che ne conseguono che la vita cristiana corrisponde alla novità evangelica; entriamo in quella prospettiva di vita nuova in virtù della fede e non delle opere della legge. Soltanto che una cosa del genere che, nell’insegnamento paolino, è documentata con pagine e pagine di sapienza teologica superlativa, ad un certo momento rischia di diventare una specie di formula magica che non incide più sulla realtà del vissuto, ma rimane come pura definizione teorica: “noi siamo quelli della fede e non delle opere della legge”. E Giacomo sente urgente il dovere di intervenire e, in maniera molto sintetica, elaborare delle precisazioni perché, senza mettere minimamente in dubbio il prestigio del grande maestro (Paolo), bisogna stare attenti a come il suo insegnamento venga banalizzato dal linguaggio catechetico corrente e diventa un formulario di affermazioni che rimangono oggettivamente inconcludenti. Però quelle affermazioni, con tutta l’intensità e la passione di coloro che le fanno proprie, diventano motivi di discriminazione anche conflittuale; conflitto che diventa addirittura pregiudizio che contesta e rifiuta testimonianze originali che immediatamente non si riconoscono in quella sintesi teorica come fenomeni regressivi da rifiutare. E questo, come poi è avvenuto tante volte nella storia della Chiesa, fa sì che si scatenino le tensioni e vere e proprie guerre dove la religione non c’entra più niente e dove, in rapporto a una definizione che non intercetta più la realtà, ci si scanna con generosa disinvoltura.

E Giacomo interviene col suo linguaggio e le sue procedure didattiche con tre interventi. Il primo intervento è nel cap. 2, vv. 1, 13. La questione impostata da Giacomo si concentra sul significato di fede.


La fede esclude la faziosità che discrimina

Cap. 2, vv. 1-4: “Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria. Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?”. Sta parlando della fede? Che cosa c’entra un povero che entra in un’assemblea? Sta parlando della fede, non c’entrano i poveri. Giacomo imposta la questione in un altro modo perché afferma, all’inizio di tutto, che non si può confondere la fede con la faziosità (i favoritismi personali). Si ha proprio l’impressione che questa confusione sia assai diffusa ed è il motivo per cui interviene; quella che viene dichiarata come fede, in realtà è un modo di argomentare che serve ad esaltare, fino ad esasperare, il valore del proprio protagonismo soggettivo. Notate che viene menzionato il nome del Signore Gesù (“la fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria”), colui che ha portato a compimento la sua missione fino alla Pasqua di morte e di resurrezione, intronizzato nella gloria; è Lui il referente della fede. La fede non è un sistema ideologico, un’appartenenza sociologica, una definizione di ambiente: la fede sta tutta nel riferimento a Lui, il Signore nostro Gesù Cristo. Giacomo non usa il nome di Gesù con abbondanza, lo usa con cautela come proprio di un ebreo: il nome si pronuncia con molta attenzione, circospezione, senza abusi di alcun genere. Eppure qui Giacomo precisa che è in questione la fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, che non è e non può essere una maschera della faziosità umana; la fede è un’altra cosa. E fa subito un esempio (il suo linguaggio è sempre molto concreto, corposo, aderente al vissuto che è proprio della tradizione giudaica): in un’assemblea, nella comunità, si presentano un ricco e un povero; l’eventuale preferenza per il ricco, che Giacomo dà per scontata, sarebbe un caso di faziosità e la fede diventerebbe una prerogativa discriminante, un criterio per discriminare in modo tale da favorire qualcuno e ridimensionare qualcun altro: “non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?”. “Assumete la fede come criterio per discriminare”. È questa la fede? È una discriminazione che tende ad arroccarsi su ideologie molto elaborate, ma estranee alla realtà del vissuto umano; ed afferma che una discriminazione del genere sarebbe del tutto perversa, maligna. Questa discriminazione è una perversione della fede non già l’attuazione di essa.


La ricchezza dei poveri

Vv. 5-7. “Ascoltate, fratelli miei carissimi (è un linguaggio molto affettuoso, ma intanto le sta dicendo grosse): Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi?”. Sta dicendo che la fede è la ricchezza dei poveri e questa è stata la scelta di Dio: Dio ha scelto i poveri, è entrato così nella storia umana; ha aperto Lui questo varco passando attraverso la condizione di debolezza, di precarietà, di solitudine, di sconfitta, che è condizione propria di coloro che sono privati di ogni presunzione di protagonismo. Dio ha scelto così. È un richiamo alle beatitudini evangeliche in vista del Regno; in questo modo, scegliendo i poveri, li ha fatti ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a coloro che lo amano, dove il cammino della fede si svolge sempre a partire dalla povertà che matura e fruttifica nell’amore; povertà per portare frutti della gratuità dell’amore. Questo è l’itinerario che ci consente di riconoscere quella nuova modalità di presenza nel mondo che noi attribuiamo alla fede. Giacomo non parla di povertà in un senso moralistico (bisogna prendersi cura dei poveri), ma in un senso propriamente teologico, anche se il suo linguaggio non si immerge nelle altezze teoretiche, ma si radica nella concretezza anche molto pesante, amara, inquinata che è la concretezza del vissuto umano. La fede non è più quella prerogativa discriminante a cui accennava prima che diventa faziosità, ma è la beatitudine dei poveri che maturano nell’amore nel senso che portano frutti d’amore. È un modo di intendere le cose che bisogna prendere in seria considerazione. La fede non sta dalla parte della ricchezza, sta dalla parte dei poveri e semmai è vero che la fede rende ricchi i poveri, è la ricchezza dei poveri. Non è un criterio per discriminare qualcun altro, ma è la rivelazione, nella povertà umana, dello spazio che si allarga come amore che accoglie l’altro, chiunque egli sia. In poche righe Giacomo smonta tutto un sistema a cui forse si rifà l’insegnamento catechetico corrente. Giacomo, qui, ci rimanda ancora una volta all’esperienza comune, quell’esperienza per cui, senza giudizi di carattere definitivo, normalmente la ricchezza è ingiusta. Senza stare a pronunciare sentenze perentorie e assolute che diventerebbero anch’esse formulazioni ideologiche inconcludenti, Giacomo dice: “Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali?”; non è forse la ricchezza che è, nella testimonianza comune, per come vanno le cose in questo mondo, un titolo che viene tradotto quasi naturalmente nel diritto di esercitare la propria spietata prepotenza? E’ la ricchezza la fede? Questa è bestemmia, dice Giacomo: “sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi” dove “il bel nome” non è Gesù. E’ una vera e propria bestemmia nei confronti del battesimo ricevuto perché “il bel nome invocato sopra di voi” costituisce un richiamo inconfondibile alla celebrazione del battesimo. Questo modo di intendere la fede come ricchezza discriminante che diventa ricchezza che esclude, tiranneggia, approfitta, vanta il diritto di operare spietatamente in questo mondo è il tradimento della vocazione cristiana originaria, il tradimento del battesimo.


Unitarietà della legge

Vv. 8-13. Nella formula tradizionale la fede sta in contrapposizione alla legge. La fede e non la legge; questa è stata l’alternativa ripresa e riproposta con tante illustrazioni nel corso della storia della teologia, passando attraverso S. Agostino e l’Impero. Tra l’altro l’Impero era molto insofferente nei confronti della Lettera di Giacomo, volevano emarginarla perché asserivano fosse “una lettera di paglia” e non valesse niente. La legge, la fede; la fede, la legge. Giacomo si chiede “che cosa è la legge?”. V. 8: “Certo, se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura (il comandamento più importante, “la legge regale”; tutta la scrittura e il complesso di precetti che nella tradizione antica è depositato nelle sacre scritture fanno capo alla “legge regale”):

amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene (è una rilettura dall’Antico Testamento a partire dalla novità di Cristo, la novità evangelica, ma Giacomo rilegge tutto: Levitico, cap.18. Tutta la normativa antico-testamentaria deve essere interpretata in base alle intenzioni del legislatore che, in tutta la complessità di precetti, decreti, insegnamenti, fa capo alla “legge regale”, alla legge fondamentale: “amerai il prossimo tuo come te stesso”); ma se fate distinzione di persone, commettete un peccato e siete accusati dalla legge come trasgressori”. E’ come dire: “se voi, in nome della fede, impostate le relazioni con altre persone in maniera tale da escluderle, espellerle e condannarle, siete trasgressori della legge” perché la legge dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. E succede che in virtù della fede si sarebbe autorizzati a tradire il “precetto regale”. In questo senso tutta la normativa antico-testamentaria è radicalmente, strutturalmente, intrinsecamente evangelica, mentre con questa interpretazione i nuovi maestri che pongono in contraddizione la fede con la legge, in realtà, sono responsabili di una ricaduta all’interno di una logica antico-testamentaria senza la novità di Cristo. “Poiché chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto; infatti colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche: Non uccidere”. La legge è un complesso unitario dove non sono i singoli precetti che possono essere estrapolati da quel complesso, ma ogni insegnamento, indicazione, ogni segnale che noi abbiamo ricevuto attraverso la rivelazione antico-testamentaria sono da interpretare in rapporto alla legge fondamentale. E’ sempre una legge d’amore, è sempre un insegnamento, un’indicazione, un segnale, una sollecitazione, un incoraggiamento a procedere lungo quella strada dove la gratuità dell’amore si prospetta come la risposta gradita a Dio. E adesso noi ci siamo, nella fede ci siamo; ci siamo in Cristo, in questa novità. La novità era già il contenuto essenziale di tutta la rivelazione antica. “Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della legge (ogni trasgressione è sempre una mancanza d’amore). “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà (legge di libertà è un’espressione che ancora serve a indicare quello che noi chiamiamo l’Evangelo; la legge per uomini liberi, la legge di liberazione che ha come finalità intrinseca la rieducazione degli uomini in una prospettiva di gratuità per portare frutti d’amore. Questa novità della legge fondamentale, quindi di tutto il sistema antico-testamentario, adesso è realizzata per i credenti che sono entrati in questa nuova e misteriosa relazione di intesa, di solidarietà, di comunione di vita con Cristo, morto e risorto. Quella contrapposizione che diventa quasi un gioco tra legge e fede, tra fede e legge, è un pericoloso abuso catechetico che contraddice l’autenticità radicale della vita nuova, cristiana), perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio”. La vita dei credenti è sempre da interpretare in rapporto alla fecondità e alla gratuità dell’amore e, da parte sua, la misericordia, come afferma il maestro è sempre vittoriosa sulla condanna.


Senza le opere la fede è morta

Vv. 14-17. Giacomo riprende la questione di partenza: fede e non le opere della legge. Si è già soffermato nei versetti che abbiamo appena letto su come si intende la fede e poi la legge; che cosa intendiamo per legge. “Che cosa intendete voi per legge quando vi sentite fieri, disinvolti, sicuri di essere ormai testimoni autorevoli, magistrali nella novità cristiana per condannare la legge degli altri? In realtà state riducendo la novità della vita cristiana a una fede asfittica, faziosa, normativa che è allora rigorosamente autodistruttiva, contraddittoria rispetto alla novità battesimale”. Adesso chiede: “quando parlate di opere che cosa intendete?”. Si pone un chiarimento riguardo alla dottrina di S. Paolo, ma vedete che Paolo a questo riguardo non ha niente da obiettare. La polemica non è con Paolo, ma è nei confronti di quei maestri che ritengono di aver ormai acquisito un insegnamento che consente loro di emanare sentenze.

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?”. Adesso la questione si concentra sul significato teologico del termine implicato che fa parte del linguaggio dottrinario di Paolo, ma che si sviluppa attraverso tutta la rivelazione antica e neo-testamentaria. Che cosa vuol dire parlare di opere in contrapposizione alla fede, parlare di fede e non di opere? “Forse che quella fede (senza le opere) può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa”. Sono affermazioni molto serie, molto pesanti, perché per il maestro le opere non sono in contrapposizione alla fede, ma realizzano la fede e la realizzano autenticamente, nella concretezza del vissuto; altrimenti la fede sarebbe “morta in se stessa”; quel certo modo di intendere la fede necrotizza la vita: c’è un modo di professare la fede che uccide la vita. C’è un modo di provare la fede, di insegnare la fede che uccide. È una fede sterile, che si arrocca in un atteggiamento di solitudine mortale.


Fede e opere sono inscindibili

Vv. 18-20. “Al contrario uno potrebbe dire (adesso ribalta la prospettiva e fa riferimento all’obiezione massimalista. Il testo è molto sobrio; Giacomo non si perde negli intemezzi; procede in maniera molto lapidaria come è proprio del suo linguaggio): Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. In questo caso tanto vale ridurre tutto all’esercizio delle opere; tutto quello che riguarda la fede viene rimosso, considerato assolutamente inconcludente; quel che conta è esercitare le opere. Un’obiezione massimalista perché ribalta la prospettiva. La fede senza le opera è morta; allora “con le opere ho già fatto tutto”. Ma non sta dicendo questo Giacomo. “Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore?”. La fede non può sussistere senza le opere; se fosse per la fede anche i demoni sono credenti. Quando la fede volesse affermarsi senza le opere non la si potrebbe più nemmeno chiamare fede, ma la questione viene ribadita dal maestro non facendo leva sulla contrapposizione, ma dichiarando che, invece, fede e operosità sono componenti interconnesse e inseparabili della vita nuova. Giacomo non accetta questa obiezione massimalista perché le opere di cui stiamo parlando non sussistono indipendentemente dalla fede, da quella povertà di cui ci parlava prima. E’ la radicale povertà della nostra condizione umana che è coinvolta nel cammino di quella vita nuova che viene abilitata a portare frutti d’amore gratuito.


Gli esempi di Abramo e di Raab

Vv. 21-26. A Giacomo stanno molto a cuore gli esempi: sono esempi di credenti in quanto operanti, ma operanti in quanto credenti. Il primo esempio è Abramo, il secondo Raab. “Abramo, nostro padre (è una definizione del patriarca Abramo tipicamente ebraica: Abramo, nel mondo ebraico, è “nostro padre”) non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull'altare?”. Ricordate che di Abramo parla lungamente Paolo nelle sue lettere e cita Genesi, cap. 15, dove è scritto che Abramo fu giustificato per la fede: Abramo credette e per questo fu giustificato. Ma Giacomo mette insieme Genesi 15 con Genesi 22 dove è descritta l’opera per eccellenza che è l’offerta del figlio in sacrificio e quell’opera è il frutto della fede. “Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia (Genesi 15), e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede”. Gli preme molto mettere in evidenza quella che egli chiama cooperazione tra la fede e le opere. Abramo credette, Abramo compì l’opera; ed è in questa cooperazione che l’operosità di Abramo perfezionò e realizzò la fede; portò a compimento la fede. E così noi abbiamo riconosciuto in Abramo l’amico di Dio. E’ un’altra delle prerogative di Abramo che vengono riprese qui da tutta la tradizione antico-testamentaria. Abramo è l’amico di Dio: il credente operoso, fattivo, coerente, puntuale nella pazienza degli impegni che portano a compimento la fede nella concretezza del vissuto.

Il secondo esempio è quello di Raab di cui si parla all’inizio del Libro di Giosuè, cap. 2, quando gli esploratori vengono inviati da Giosuè per rendersi conto di quello che succede dall’altra parte del Giordano; Gerico, Rabb, la prostituta. “Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via?”. L’opera di ospitalità fece di Raab una creatura giusta, giustificata. Le pagine a cui Giacomo si sta riferendo ribadiscono che Raab è in ascolto, un ascolto di fede; Raab, meretrice, fu giustificata in base all’ospitalità concessa a quegli esploratori che poi sfuggono al controllo delle guardie e in questo modo si apre il percorso, si traccia l’itinerario che consentirà a Giosuè di entrare nella terra di Canaan. “Infatti (attenzione a questo versetto particolarmente istruttivo per noi) come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”. Quasi istintivamente se dovessimo usare una metafora come questa (corpo e spirito) tenderemmo a dire “la fede sta dalla parte dello spirito e le opere stanno dalla parte del corpo”. Qui è esattamente l’opposto: “come lo spirito è per il corpo così l’operare è per la fede”. E’ l’operare che realizza la spiritualità della fede, l’autenticità della fede che è inserita nella corrente della novità che viene da Dio; vita che ci investe tramite la comunione con la Pasqua redentiva di Cristo, morto e risorto nella sua carne. La spiritualità della fede sta nell’operare; è così che la fede diventa spirituale se no è una fede astratta, fantasiosa, scenografica, documentaria. Giacomo, in modo così sobrio ed essenziale, pone dei richiami che affida come accompagnamento necessario per una costante verifica in vista della futura evangelizzazione.



L’importanza del linguaggio e la sua ambivalenza

Cap. 3, vv. 1-12. Terzo intervento, sempre nel contesto di quella problematica di ordine catechetico: il modo di esercitare il magistero, il modo di approfittare di una sentenza teologica come quella; la fede non le opere della legge, per impostare una predicazione che diventa anche educazione alla vita nuova in maniera tale da contraddire l’Evangelo. Nei versetti che adesso leggiamo Giacomo pone in questione la responsabilità di coloro che svolgono un ruolo magistrale e si mette lui stesso in gioco in prima persona: “Fratelli miei, non vi fate maestri in molti, sapendo che noi (anche lui si mette in gioco e c’è un carisma dottorale che riguarda l’impegno didattico, catechetico dalle forme più elevate e qualificate di ricerca teologica e di insegnamento accademico, alle forme più spicciole della predicazione corrente, la catechesi periferica. Noi. L’esercizio di questa responsabilità magistrale esige molta delicatezza, dice Giacomo, e vuole ridimensionare la disinvoltura con cui si usano le parole. Già nell’Antico Testamento, nei grandi libri della tradizione sapienziale, nei Proverbi, Siracide, Sapienza c’è una preoccupazione costante dedicata all’attenzione con cui bisogna usare la “parola”) riceveremo un giudizio più severo (attenzione alla posizione magistrale che è conferita a molti tra di noi. Giacomo dice “possibilmente non a molti” perché non è una posizione di per sé gratificante), poiché tutti quanti manchiamo in molte cose. Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo”. E’ un parlare per assurdo: magari ci fosse qualcuno che non è manchevole nel parlare, sarebbe un uomo perfetto perché è la parola che instaura tutte le relazioni con il mondo circostante, gli eventi, le situazioni, gli altri, le persone. La vita umana allora sarebbe realizzata in modo da corrispondere pienamente alla vocazione originaria ricevuta da Dio. In questo caso sarebbe “capace (quell’uomo) di tenere a freno anche tutto il corpo” perché la parola è il tramite che instaura la relazione tra l’intimo della persona umana e la complessità del mondo con cui si è in contatto tramite la corporeità. “Quando mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e vengano spinte da venti gagliardi, sono guidate da un piccolissimo timone dovunque vuole chi le manovra. Così anche la lingua (questa insistenza del maestro circa la necessità di moderare l’uso della parola adesso assume un aspetto più misurato, applicato alla concretezza del vissuto): è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco (tutti questi attributi della lingua consentono al maestro di riconoscere ad essa un’infernale capacità di inquinamento. D’altra parte non è che si può fare a meno della lingua, né si può fare a meno della parola, anzi), è il mondo dell'iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna”. C’è qualcosa di infernale in questa capacità di bruciare che è propria della lingua e provoca fenomeni che lui descrive come il degrado del corpo umano; ma il corpo umano è lo strumento della relazione con il mondo circostante e questa relazione è corrotta. È il corpo umano che è contaminato: è una specie di febbre provocata da quella scintilla che diventa il fuoco; la lingua che provoca una patologia che compromette il ciclo dell’esistenza; qualcosa di simile a quello che chiameremmo l’ambiente; è l’interazione con l’ambiente che assume le caratteristiche dell’infiammazione. C’è una patologia di mezzo, è infiammata la relazione nel senso che, a partire dall’uso e abuso della lingua, si provoca un dissesto e un inquinamento ambientale. È stata la lingua per Giacomo. Non è soltanto una curiosità, sta dicendo qualcosa che è estremamente attuale per noi: il vero inquinamento da dove deriva, dove sta? “Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare (è un’opera soprannaturale questa. Gli uomini sono capaci di domare gli animali, ma non la propria lingua): è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio”. Non sta dicendo che non bisogna usare la lingua: l’ambiguità riguarda la confusione di cui la lingua si fa responsabile perché con la stessa lingua con cui benediciamo, malediciamo. Sono contraddizioni strumentali a quel gioco con gli equivoci che ritornano sempre al presunto servizio della nostra abusiva prepotenza umana. “È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev'essere così, fratelli miei! Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara? (con tutto quell’insieme di espedienti, di accorgimenti verbali per ottenere l’effetto contrario) Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce”. Tutto questo ci rimanda a quella necessità radicale di discernere la sorgente del suo principio, lì dove è il cuore umano. Ogni insegnamento, dice Giacomo mettendo lui stesso in prima persona direttamente nella categoria, è da considerare non in base a giochi di parole che vengono elaborati come impalcature fatiscenti di messaggi che sorvolano nell’aria, occupano la scena del mondo e la invadono, la devastano, la inquinano: ecco il dissesto ambientale. L’insegnamento è da impostare a partire dal radicale discernimento del cuore umano. Questa è la didattica di Gesù. Non sta dicendo niente di nuovo e di imprevisto: è la didattica di Gesù. E lui l’ha presa sul serio e con molta delicatezza si rivolge a coloro che fanno di mestiere i maestri, dal livello accademico al livello delle sacrestie. E’ dal cuore che sgorga come dalla sorgente la parola. V. 13: “Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza”. E’ interessante qui, nella conclusione della seconda sezione, questo accenno alla dolcezza. Quello che conta è l’operosità che dà riscontro di quella sapienza di un cuore che è stato filtrato, liberato, purificato ed è al servizio di quella novità che viene da Dio e a Dio ritorna; la Parola che si è fatta Carne, che ci ha coinvolti in questo itinerario di conversione, di redenzione. In questo contesto l’operosità che è corrispondente all’esercizio di un magistero autorevole è dotata di una dolcezza inconfondibile, dice Giacomo. È il magistero ispirato a saggia mitezza.



Lectio divina


Incontri 2014-2015 - Lettere cattoliche


  • 2 dicembre 2014
    Lettera di Giacomo 2
    Fede ed opere
  • 3 febbraio 2015
    La testimonianza della vita cristiana: magistero nei confronti del mondo
  • 7 aprile 2015
    E’ in atto una crisi pastorale: non c’è più militanza