Incontri di discernimento e solidarietà
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3 marzo 2015

Lettera di Giacomo

Dalla Chiesa madre di Gerusalemme l’Evangelo si espande nel mondo

Quarto incontro del ciclo 2014-2015



Stasera dovremmo riuscire a portare a compimento la lettura della Lettera di Giacomo. Nel prossimo appuntamento ci dedicheremo alla Lettera di Giuda. Siamo arrivati al cap. 4, v. 12. Giacomo è un maestro di tradizione giudeo-cristiana, ormai acculturato alla sapienza del mondo ellenistico, ma il riferimento alla Chiesa madre di Gerusalemme è determinante. Giacomo è il nome del fratello del Signore, uno dei dodici, quello che rimase poi come presidente, oggi diremmo vescovo, della Chiesa madre che è stata il grembo di quell’evangelizzazione che poi si è sviluppata nel corso dei decenni e continua a crescere fino a coinvolgere anche noi oggi. Tutto proviene da quella prima Chiesa dove la resurrezione del Signore è stata accolta come motivo di radicale ristrutturazione della vita dei discepoli; la prima comunità e, quindi, le chiese che si sono venute man mano formando nella crescente fecondità di quell’Evangelo che si è manifestato in tutta la sua forza, la sua capacità di piegare, di rieducare, di trasformare dalle radici il cuore umano: la Pasqua del Signore Gesù, morto e risorto, vittorioso, intronizzato. E’ la relazione con Lui che trasforma dall’interno la nostra condizione umana, sebbene ancora rimaniamo condizionati dalle misure di spazio e di tempo che ci rimandano costantemente alle conseguenze del nostro peccato. Ma tutto quello che è conseguenza del peccato umano ormai appartiene a una rivelazione d’amore che esercita una forza redentiva nella storia umana per cui tutto, fino alla morte, è reso creatura obbediente all’opera di salvezza che si è compiuta una volta per tutte.

Dalla Chiesa madre di Gerusalemme, composta esclusivamente da giudeo-cristiani (un’espressione inventata dagli studiosi che aiuta ad intenderci), l’evangelizzazione è cresciuta in modo da coinvolgere man mano coloro che appartengono agli altri popoli, i pagani della terra, l’umanità intera; è una crescita che dilaga in tutte le direzioni, su tutte le strade, nel contatto con tutte le culture in modo tale da coinvolgere la moltitudine delle genti. La Chiesa madre di Gerusalemme conserva una sua particolare responsabilità nei confronti dell’evangelizzazione che si è sviluppata già nel corso del primo secolo e continuerà a crescere fino a noi, oggi. Le Lettere Cattoliche nel loro complesso manifestano, per l’appunto, questa responsabilità materna che impegna la chiesa giudeo-cristiana del primo periodo a manifestare la propria accoglienza in rapporto a coloro che, provenendo dal paganesimo, accolgono l’Evangelo e avviano il cammino della vita nuova. Insieme a questa accoglienza c’è anche un’attenzione a custodirne l’autenticità senza compromessi, deviazioni, fraintendimenti; ipotesi che sono più che mai comprensibili. Che l’Evangelo vada incontro a fraintendimenti, deviazioni, fenomeni di corruzione e decadenza lo sappiamo bene anche noi, duemila anni dopo. In tono oggettivamente dimesso, ma con molta disponibilità al dialogo, all’interazione, alla ricerca di un contatto positivo, dalla Chiesa madre di Gerusalemme provengono le testimonianze di questi maestri: Giacomo, Pietro, Giovanni e poi si aggiunge Giuda.

Il nome di Giacomo serve ad identificare un maestro che rimane anonimo, che parla, tra l’altro, un ottimo greco come gli altri. Usano la lingua dei pagani con molta disinvoltura anche se il loro modo di esprimersi – e lo abbiamo già verificato – risente in maniera molto evidente, quasi massiccia, della tradizione didattica propria dell’ambiente rabbinico, giudaico; l’ambiente nel quale, per la prima volta, l’Evangelo ha attecchito. Dalla Chiesa madre di Gerusalemme stiamo ricevendo parole di incoraggiamento e anche, nello stesso tempo, parole volte a precisare la reale novità del dono che abbiamo ricevuto; e metto noi tutti nel contesto di quel mondo pagano a cui è rivolto l’Evangelo, a partire dalla prima Chiesa composta esclusivamente da giudei: anche noi siamo pagani evangelizzati.

Abbiamo letto una prima parte della Lettera nel primo capitolo: il maestro ci ha proposto una sequenza di sentenze circa la vita nuova nel discepolato di Gesù; una seconda parte (fino al cap. 3, v. 13) dove è intervenuto perché avverte la necessità di precisare come la teologia del grande Paolo, che per eccellenza rappresenta lo sforzo dell’evangelizzazione rivolta ai pagani, protagonista di un’impresa pastorale entusiasmante e che ha lasciato un’eredità preziosissima (l’epistolario paolino ormai è acquisito), è stata trasformata in una serie di sentenze che, usate comunemente nella catechesi necessaria per la vita delle chiese, corre il rischio di essere oggetto di fraintendimenti. Il maestro interviene con sobrietà, con pazienza, quasi con delicatezza; non è mai sferzante o severo nel senso del maestro che sta in cattedra e rimprovera: che cosa intende Paolo quando parla di fede e quando parla di opere? E la contrapposizione tra la fede e le opere come va interpretata? Ricordate che il nostro maestro ha sviluppato la sua riflessione in modo tale da mettere in discussione senz’altro il modo d’intendere l’impegno del magistero, dell’insegnamento e che cosa vuol dire insegnare nella Chiesa.

La terza parte della Lettera sembra un po’ disordinata, come se non potessimo darle un titolo, ma, in realtà, man mano che ci immergiamo nella lettura di questi versetti, ci accorgiamo che il nostro maestro è attento a seguire un filo conduttore; è funzionale, in modo molto intelligente, a quella finalità che richiamavo inizialmente, cioè la crescita dell’evangelizzazione nel momento in cui, dall’attimo primigenio, pregnante in cui l’Evangelo si è manifestato nella sua pienezza fecondissima, si è passati a quella missione che adesso, passando attraverso le generazioni, si sviluppa nello spazio e nel tempo in modo tale da coinvolgere nuovi interlocutori pagani. Leggevamo in questa terza parte della Lettera i versetti da 14 nel cap. 3 fino al v. 12 nel cap. 4. Ricordate che proprio in questi versetti il maestro ci aiuta a rielaborare tutta la concezione di un impianto pastorale che passa necessariamente attraverso l’esercizio di quel ministero particolare che compete ai maestri nella comunità dei discepoli del Signore. E si mette in gioco in prima persona, non si tira indietro; infatti da un certo momento in poi usa la prima persona plurale. Ricordate il rischio grave di coloro che sono pure chiamati ad esercitare questo servizio ecclesiale e, dunque, dotati di un particolare carisma: il rischio di cadere nella spirale della delusione. Il rapporto con beni intellettuali, che sono particolarmente prestigiosi e che pure possono essere ridotti a espressioni di quella faziosità umana che approfitta della polemica tipica all’interno degli ambienti accademici o, in maniera più banale, gli ambienti in cui ci si assume, anche a livelli modesti, una responsabilità di ordine didattico: è l’idolatria della soggettività in rapporto a beni di ordine intellettuale; un rischio che il nostro maestro ha saputo esplicitare con energia e con una capacità di comunicazione che non ci offende in alcun modo, anzi, ci aiuta ad assumere, in maniera sempre più matura, l’eredità di quanto ci è stato trasmesso cosicchè sia custodito; un dono che passa attraverso un linguaggio e formule catechetiche; un’elaborazione teologica, attraverso un insegnamento affinchè quel che abbiamo ricevuto sia trasmesso in maniera tale che l’Evangelo proceda, che l’evangelizzazione si prolunghi nel tempo e raggiunga interlocutori sempre più diversi e imprevisti, destinatari della Notizia della Pasqua del Signore nella sua pregnanza epifanica, nella comunità dei primi discepoli, a Gerusalemme.


Idolatria dell’io: gli aspiranti alla ricchezza; gli affaristi

Cap. 4, vv. 13, 17. Accennavo a tutto questo quando ci siamo salutati un mese fa. Il nostro maestro sviluppa una serie di considerazioni circa il rapporto con i beni materiali. Beni intellettuali e beni materiali; ma la questione di fondo è sempre quella che abbiamo intravisto e che richiamavo poco fa: l’idolatria della soggettività che si esprime in rapporto a beni intellettuali, come adesso siamo in grado di riscontrarla in rapporto ai beni materiali. Dal v. 13 sviluppa in due paragrafi la sua argomentazione. Il primo paragrafo fino al v. 17, il secondo nei primi sei versetti del cap. 5.

Fino al v. 17 si rivolge a coloro che oggi chiameremmo commercianti o uomini d’affari; siamo naturalmente alle prese con coloro che ormai sono inseriti nella comunità dei discepoli del Signore, la comunità cristiana. In realtà, per dirlo in maniera ancora più ampia e comprensiva, il maestro si rivolge a coloro che sono aspiranti alla ricchezza. Questo non vuol dire che poi siano tanto ricchi, però aspirano alla ricchezza; è un modo per impostare la vita che magari non ha immediati riscontri e neanche a distanza avrà manifestazioni vistose e significative, però è un modo di impostare la vita: aspirare alla ricchezza. Alla fine dell’incontro di un mese fa ci dicevamo che il rischio dei maestri è di essere perennemente depressi, mentre i personaggi con cui abbiamo a che fare adesso sono degli entusiasti che si lanciano verso avventure commoventi di cui sono molto fieri. Coloro che sono protesi verso l’accumulo di beni materiali sono atleti che instancabilmente procedono nella loro corsa. “E ora a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», mentre non sapete cosa sarà domani!

Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello. Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo. Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato”. Ci sono quelli che programmano la vita per accumulare guadagni. Non entro nel merito degli affari in corso o dei beni che sono trattati dai commercianti al mercato; non ci interessa. Ci interessa la smania di fare affari anche se poi, di fatto, come vi preannunciavo, non si è tanto ricchi e forse non lo si diventerà mai: un atteggiamento per lo più opposto a quello rilevato nei maestri nel loro frequente cedimento alla spirale della depressione. Gente che, come la descrive qui Giacomo, cerca il proprio vanto nella ricchezza da conquistare. E parla di queste cose senza particolari “pruriti”; più avanti dirà qualcosa di molto energico nei confronti dei ricchi, ma adesso non sono esattamente i ricchi in questione. Sono coloro che aspirano alla ricchezza: è un’altra cosa. Tra l’altro questa è anche la categoria di persone a cui si rivolge la Madonna quando dice “ha rimandato i ricchi a mani vuote”: quei “ricchi”, nel Vangelo secondo Luca, non sono i “plusioi” (i molto ricchi), sono i “plutuntes”, coloro che si arricchiscono, coloro che vogliono arricchirsi; è un’altra cosa. Un conto è essere ricchi, un conto è aspirare alla ricchezza: è un modo di programmare la vita per cui noi possiamo essere anche più o meno indebitati e alle prese con le urgenze di un’economia strozzina e d’altra parte aspirare alla ricchezza. E si vantano in rapporto alla ricchezza da conquistare e questo vanto è il gusto della vita; ciò che li gratifica è quella ricerca della ricchezza. E Giacomo dice: “vi vantate della vostra arroganza”; ciò che dà gusto alla propria vita è una pretesa; contraddicendo quella che sembrava una programmazione onesta, diventa una vera e propria forma di idolatria. Sembrava tutto chiaro, limpido, doveroso, addirittura un entusiasmo generoso, un’intraprendenza ammirevole ed è invece qualcosa che, di fatto, sostituisce al riferimento a Dio, l’idolatria di se stessi. Il maestro ne parla in maniera estremamente sobria, ma molto precisa. “Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello”; invece è proprio un’oggettiva dimenticanza pratica di Dio quella che ci testimonia la maniera di impostare la vita di costoro che pure, a modo loro, continuano ad avere slanci devozionali, momenti di entusiasmo religioso, ma ricadono addosso a se stessi: “vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo”. Nel v. 14 leggevo poco fa: “Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare”. “Siete come uno sbuffo di arroganza”, una bolla di sapone. E’ proprio la fragilità di un soffio che si disperde nell’aria senza lasciare traccia, inconcludente, inconsistente; un’espressione di vacuità che pure è stata vantata nel momento in cui quella inutilità è stata professata e proposta come programma di una vita, alla maniera di un valore sacro, alla maniera di un idolo a cui consacrarsi.

V. 17: “Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato”. Il maestro vuole rimarcare un fenomeno che costituisce, a suo modo di vedere, la vera sventura di quel certo modo di impostare la vita, perché c’è di mezzo uno spreco di sapienza: “voi sapete fare il bene e non lo compite”. E’ uno spreco di sapienza dove sapienza, qui, è proprio la vocazione alla vita, la qualità della vita, la positiva qualità della vita, la risposta alla vocazione alla vita che si realizza. Qui la sapienza è sprecata; è proprio una sventura per come Giacomo ce ne parla. “Commette peccato”: non sta pronunciando una sentenza di carattere moralistico; sta manifestando il suo dispiacere per come viene sprecata la vita confondendo il vanto con l’abuso idolatrico della propria pretesa umana che si aggrappa agli “sbuffi” con cui, naturalmente, non si acchiappa più nulla.

Nei versetti che abbiamo appena letto il nostro maestro, con un opportuno richiamo, ci fa intendere che l’unica vera fierezza è di coloro che vivono in obbedienza a Dio (vv. 14, 15): “Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello”. Coloro che vivono in obbedienza a Dio, che altrove e ancora successivamente, Giacomo chiama “i poveri”; e vivono in obbedienza a Dio non nei propositi di ordine teorico (che rischiano sempre di coincidere con fughe in astrazioni spiritualistiche), ma “poveri” che obbediscono a Dio accogliendo i dati di una condizione umana che li inserisce in un circuito di relazioni sociali, negli impegni del lavoro, nella fatica delle attività che danno forma all’inventiva, alla genialità, alla creatività dell’animo umano, alla cultura umana. Sono poveri: obbediscono ai dati nella loro concretezza, nella loro oggettività e, spesso, dati che sono pesanti e che, comunque, sono sempre un tramite indiscutibilmente efficace per quanto riguarda la relazione con il Dio vivo e vero, mentre quegli “sbuffi” di cui sono protagonisti i personaggi di cui ci parlava non realizzano un contatto con il Dio vivo e vero, ma provocano una ricaduta sulla nostra iniziativa umana che, nella sua autoreferenzialità, diventa anche auto-corrosiva.


I ricchi e la loro sventura

Cap. 5, vv. 1-3. Secondo paragrafo: dal v. 1 al v. 6 del cap. 5 il maestro parla esattamente dei ricchi, coloro che già di fatto vivono nell’opulenza, e parla di coloro che sono comunque ormai inseriti nella comunità dei discepoli del Signore. “E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme (ora Giacomo usa un linguaggio piuttosto energico; ci sembra addirittura fin troppo sferzante o addirittura feroce, ma sta citando un testo dopo l’altro; sta mettendo insieme richiami a pagine e versetti di testi dell’Antico Testamento. Non sta inventando niente); il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!”. Una bella sfuriata! Giacomo sta invitando i ricchi non tanto a subire la denuncia da parte di un forsennato contestatore come potrebbe apparire a noi in questo momento, ma a rendersi conto di come sono sventurati. Che sventura!. “Piangete…”. Non si rivolge ai ricchi per dire: “adesso spogliatevi di quello che avete o mettete i vostri beni a disposizione di una ong che dovrà curare gli ammalati di lebbra”. Lui dice: “Piangete, che sventura vi è capitata”, perché qualunque altra soluzione si possa trovare per smistare quella ricchezza, per riprodurla in modo che sia apparentemente benefica, per darla in beneficienza, perché sia costruttiva, qualunque sviluppo ulteriore a cui i ricchi saranno condotti in seguito alla maturazione nel cammino evangelico della loro vita, dipende dall’essersi resi conto di come sono sventurati. Se non c’è questo, qualunque beneficienza sarà sempre a vantaggio dei ricchi. Che poi è la constatazione di qualunque politica sociale: le politiche sociali fatte dai ricchi sono sempre a vantaggio dei ricchi, non c’è dubbio. In Italia, come in Brasile, come in Bangladesh la politica sociale fatta dai ricchi è vantaggiosa per i ricchi: è sempre così. Ma Giacomo lo dice alla fine del primo secolo; non aspetta le furbizie dei nostri moderni sociologi dello sviluppo. Sta dicendo: “sventurati!”: è un linguaggio prettamente evangelico. Nel Vangelo secondo Luca vengono indicate quattro beatitudini e quattro guai: Luca, cap. 6 (vv.24-26), “guai, guai, guai, che sventura mi è capitata, che guaio”: è un linguaggio tipicamente biblico, profetico, da predicazione dei grandi nella storia della salvezza. E Giacomo parla ai ricchi di come la loro vita si può realizzare (perché è importante realizzarla la vita, non buttarla via, non sprecarla) nel pianto. “…piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano!”, per come quella confidenza nella ricchezza è, in sé e per sé, devastante, corrosiva, premonitrice di sciagure inenarrabili che coinvolgono il vissuto dei cosiddetti ricchi in una vicenda che ha poi un risvolto di ordine ecumenico: è la storia dell’umanità nella sua interezza che viene così coinvolta in questa inevitabile esperienza di fallimento. “Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco”. Notate la molteplicità di testi antico-testamentari che vengono citati, montati insieme, incastonati uno nell’altro da Giacomo fino a quel sospiro che chiude il brano che ho appena letto: “Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!”. Qui c’è proprio un sospiro. Nella mia traduzione c’è un punto esclamativo che dice anche poco; c’è l’esatta percezione della sventura: “che guaio vi è capitato”; “piangete, piangiamo”. Quella ricchezza non è e non sarà mai un motivo di affermazione positiva per il bene del mondo. Se le cose stanno così, il nostro maestro sta dicendo qualcosa che ci mette fortemente in discussione. D’altra parte è tutta la storia della salvezza che va esattamente nella direzione che lui ancora ci sta indicando in una prospettiva dove l’autenticità dell’evangelizzazione deve essere assolutamente rispettata. In effetti il modo di rivelarsi di Dio non è passato attraverso l’accumulo dei beni, ma attraverso la dismissione e la consegna dei beni; attraverso quell’itinerario di svuotamento che ha fatto di Lui il servo nella condizione umana. Non è in questione qualche contestazione accesa da parte di provocatori di piazza o giovani intemperanti o, come avveniva una volta, cultori della messa in comune di tutti i beni in una forma ideologica esasperata. Non è questo. E’ proprio in questione il dato teologico in sé e per sé assoluto e indiscutibile: Dio si è rivelato, presentato, rivolto a noi attraverso la condizione di povertà. Non è una scelta strumentale, interna a una logica di equilibratura nella distribuzione dei beni (tutte questioni importanti e interessanti da cui non si può prescindere), ma Dio si è rivelato a noi nella povertà. Il discorso è questo: si è presentato così. Povertà non è un ammennicolo aggiuntivo o un’ipotesi temporanea e la povertà non è il problema di coloro a cui bisogna prestare soccorso; la povertà è intrinseca all’evangelizzazione sempre che quest’ultima sia autentica; la povertà non è la prerogativa di coloro che sono referenti dell’evangelizzazione, ma non c’è evangelizzazione possibile che non sia povera.


Il grido del debole giunge alle orecchie del Signore

Vv. 4-6. E aggiunge: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida (dà per scontato tutto questo; quell’accumulo della ricchezza, in maniera così vistosa, come ci lascia intendere, presuppone inevitabilmente un esercizio dell’ingiustizia sistematica. Parla a coloro che sono proprietari di terreni che vengono coltivati da lavoratori che non sono pagati o, comunque, non sono pagati come sarebbe opportuno; e questo salario grida); e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti (non dimenticate che Giacomo non sta parlando a quegli sporcaccioni dei capitalisti pagani, sta parlando a dei cristiani). Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza”. Per il nostro maestro la ricchezza accumulata, per cui c’è chi può apparentemente goderne il beneficio illimitato, è sempre il frutto di una violenza prepotente verso e contro i più deboli. Vi facevo notare quel verbo “gridare” perché è implicita una nostalgia di fraternità. Ricordate “il sangue di Abele che grida dalla terra”; quel sangue di Abele che è più volte citato in altri testi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Una nostalgia di fraternità per arrivare alle orecchie del Signore che ascolta il grido. E nel v. 5 si parla di quell’”ingrassamento del cuore”: “vi siete ingrassati, avete gozzovigliato, saziati di piaceri”; è il cuore che si è ingrassato o meglio si è coperto di grasso per cui è diventato inarrivabile, irraggiungibile, impenetrabile perché è protetto da una barriera di grasso tale per cui il pericardio è diventato una corazza. …“vi siete ingrassati (nel cuore) per il giorno della strage”. Attenzione a questa espressione perché c’è di mezzo una citazione del profeta Geremia (12, 3): quello che Geremia dice in quel versetto e nel contesto di quel suo intervento, in rapporto a una vicenda che ora non stiamo a rievocare nei dettagli, è l’eco di un messaggio che si ripropone a più riprese e che utilizza esattamente il linguaggio della strage o il linguaggio (passando attraverso la traduzione in greco è lo stesso verbo e lo stesso sostantivo) della “sgozzatura”. E’ il linguaggio usato dal Deutero-Isaia a proposito del servo del Signore (Is. 53, v. 7) sgozzato e portato al macello: l’agnello? L’Agnello sgozzato e portato al macello. E’ il quarto canto del servo, la prima lettura della liturgia solenne del venerdì santo, l’esaltazione della croce. Questo è il termine usato da Giovanni nell’Apocalisse quando parla dell’Agnello sgozzato e vittorioso; quando compare per la prima volta (cap. 5) e poi ritorna nel contesto delle visioni di Giovanni: l’Agnello sgozzato che attrae a sé il sangue di tutti gli sgozzati della terra: il sangue versato, che grida, il sangue dello sgozzato “nel giorno della strage”. Giacomo qui sta affermando che, in questa situazione tragica per cui la storia fatta dai ricchi è storia che sgozza l’umanità, incontra l’Agnello innocente.


Il grido del debole giunge alle orecchie del Signore

E proprio qui, v. 6, (fateci caso, non distraetevi): “Avete condannato e ucciso il giusto”. Il “giusto” è l’Agnello innocente, il “giusto” è l’unico innocente, l’unico “giusto” e non oppone resistenza. Ricordate l’Agnello condotto al macello che porge il collo, afono, senza voce, non protesta; ma quell’Agnello è il Pastore attorno al quale tutte le pecore si raccolgono: è l’Agnello divenuto Pastore; un messaggio pasquale sta in quella contemplazione del servo del Signore. Le pecore possono finalmente fidarsi del Pastore perché è l’Agnello. “Questo è il giorno della strage” dice il maestro; è il giorno in cui noi siamo coinvolti in quell’unica strage dove è la presenza dell’Innocente che conferisce a questa tragedia il valore di una comunione redentiva. E’ la presenza dell’Innocente, il Giusto che non oppone resistenza. Il modo di procedere di Dio per la salvezza dell’umanità non è passato attraverso l’accumulo dei beni e tutto quello che abbiamo intravisto poco fa, ma è passato attraverso quel radicale svuotamento per cui l’Innocente, colui su cui si è scaricata tutta la prepotenza che fa della storia umana una tragedia sanguinaria, ha trasformato questa storia in una rivelazione di intesa, di solidarietà, di comunione aperta all’universalità delle presenze umane: i ricchi sono redenti, i ricchi sono salvi non in base alle loro politiche sociali, ma in quanto la storia umana è visitata fino in fondo all’abisso di cui essa è inevitabilmente la causa che tutto travolge e riduce in un abisso infernale. In realtà è proprio l’abisso infernale che adesso si è trasformato nel luogo della comunione radicale, originale; il valore di un grembo che trasforma questa storia inquinata dalla ricchezza in storia di conversione alla vita. Quel Giusto, quell’Innocente, l’Agnello che nel giorno della strage condivide tutte le responsabilità orribili che competono alla nostra condizione umana, alla ricchezza umana, è il protagonista di quell’impresa che raccoglie le pecore disperse e le ricompone nell’unico gregge che è ri-condotto o condotto alle sorgenti dell’acqua della vita.

Il nostro maestro, che usa espressioni così semplici e stringate (qua e là anche espressioni forti, però qualche volta sembrano soltanto slogans ad uso e consumo dei predicatori), in realtà è rigorosamente fedele al suo impegno primario: l’autenticità dell’Evangelo. Questo deve passare: l’autenticità dell’Evangelo deve essere confermata senza fantasie, senza illusioni, mascherature, approssimazioni. Poi non è che il maestro risolve tutti i problemi, ma sa bene che la novità nella storia umana dipende dal fatto che l’Innocente ha condiviso le conseguenze tragiche della storia sbagliata fatta dai ricchi. E così è aperta la via della salvezza, del ritorno alla sorgente per i ricchi, sventurati.


Nel vostro cuore fate spazio al mondo

Vv. 7-11. Dal v. 7 del cap. 5 il maestro sintetizza alcune raccomandazioni che ritiene evidentemente importanti per quei discepoli che provengono dal paganesimo e che sono i destinatari del suo scritto. Ma valgono anche per i cristiani del suo ambiente. Dal v. 7 al v. 12 c’è una prima raccomandazione che possiamo ricapitolare nel termine “pazienza” o meglio “magnanimità”. Poi, dal v. 13 una seconda raccomandazione che riguarda la preghiera; bisogna che lo seguiamo nel suo modo di procedere per renderci conto di quello che egli intende assolutamente comunicarci.

Siate dunque pazienti (in greco “magnanimità”, la capacità di respirare profondamente; longanimità come diciamo in italiano: un respiro lungo, profondo; è quella capacità di tirare il fiato in modo tale da affrontare anche i tempi di apnea o i tempi di fatica e di disagio quando la respirazione invece è affannosa), fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”. Questa insistenza del maestro non ci lascia indifferenti; intendo l’insistenza nel descrivere quello spazio interiore che si allarga progressivamente man mano che impariamo a respirare; la vita cristiana intesa come esperienza di una crescita che si fa sempre più ampia, larga, capiente, smisurata nello spazio interiore da cui dipende la stabilità del cuore, come dice nel v. 8: “rinfrancate i vostri cuori”. La stabilità del cuore non sta nel fatto che è irrigidito, ma per Giacomo sta nel fatto che il cuore si allarga in modo tale che si riempie; un cuore stabile non è un cuore ritirato su se stesso, ma un cuore spalancato che è pieno; è pieno di tutto quello che avviene, è avvenuto, avverrà; è presente anche in tutto quello che è sconosciuto nel mondo in rapporto al Signore perché il Signore, che viene per instaurare il suo Regno, esercita la sua sovranità in una dimensione di universalità totale, assoluta, a cui nulla sfugge. E, quindi, quando dice “rinfrancate i vostri cuori perché la venuta del Signore è vicina” intende che aspettare la venuta del Signore a cuore aperto significa fare spazio al mondo, perché il Signore non viene per accontentare la fantasia di qualche fervoroso devoto; il Signore viene per instaurare il Regno universale. E questo Regno universale è instaurato in un cuore che si allarga progressivamente a forza di respirare come lui ci sta suggerendo, in modo tale da diventare contenitore di quella totalità di eventi in cui tutto quel che è del mondo man mano diventa il complesso di elementi che il cuore di un cristiano impara ad abbracciare, ed è così che impara ad accogliere la venuta, la parusia gloriosa del Signore.

E insiste: vv. 9-11: “Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri (lamentarsi: è implicito un accenno ancora al respiro; in questo caso un sospiro. Dobbiamo imparare anche a sospirare perché noi siamo costantemente messi alla prova. Ci parlava di questi limiti che ci condizionano, dell’oggettività del nostro vissuto all’interno della quale noi siamo visitati e si apre sempre la strada della nostra conversione, dell’incontro con il Signore. “Perfetta letizia”: così ci ha parlato fin dall’inizio. “Sospirate” non nel senso del lamento protestatario, ma c’è di mezzo la relazione vicendevole), per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano (parlarono) nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione”. La pazienza è intesa come la capacità di tener duro, di stare sotto peso e sopportare il carico. Anche in questo caso non è semplicemente la testimonianza di chi ha buone spalle, muscoli robusti, ma è una capienza che si viene man mano manifestando nell’animo, nella profondità del cuore, nell’intimo del nostro vissuto, dove la pazienza diventa la capacità di farsi carico gli uni degli altri: il carico della presenza altrui fino alla testimonianza ultima. E non per niente il maestro rievoca l’esempio degli antichi profeti, di una solidarietà nel farsi carico gli uni degli altri, di quello che succede al mondo in modo che man mano impariamo a cogliere e contenere all’interno di un unico abbraccio che ci inchioda nella nostra piccolezza umana. E, d’altra parte, è così che viene il Signore, non altrimenti che così; e non altro desiderio è quello che ci sostiene, ci incoraggia, ci fa vivere, ci entusiasma, nel cammino della vita, che incontrare Lui nel momento in cui questo abbraccio ci rende sempre più “sospirosi” in rapporto al carico che inevitabilmente ci viene affidato e di cui stiamo facendo conoscenza; gli uni, gli altri, la presenza altrui. Di questo tener duro, di respirare, pazientare, come egli si esprime, Giacomo dice che è la vera beatitudine. L’avete notato? “Ecco, noi chiamiamo beati”. Questo è il linguaggio evangelico, questa è la beatitudine. Già ha usato il linguaggio delle beatitudini precedentemente: “beato colui che”, “beati noi”; beati noi che stiamo imparando e ci aiutiamo gli uni e gli altri a farci carico nella relazione vicendevole. C’è un accenno inconfondibile alla relazione tra giudeo-cristiani ed etnico-cristiani e viceversa dove, nel caso di queste due realtà, è emblematico il rapporto a tutte le possibili diversità; pensate a quante diversità ci sono nell’esperienza delle chiese così come queste esperienze sono maturate nel corso dei secoli fino alle vicende contemporanee. Quante diversità! Non per niente cita il caso di Giobbe e tutto viene rinviato alla rivelazione della misericordia affettuosissima di Dio: “perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione”: viscere smisuratamente ampie. Il Signore è così. E’ il caso di Giobbe? E’ la nostra vicenda sospirosa e Lui vuole ricondurre in tutto e per tutto a quella larghezza del respiro che man mano apre lo spazio che viene riempito dalla presenza del Signore, perché è il mondo intero che trova accoglienza nel nostro povero cuore umano. Che novità!


E’ il tempo della coerenza

Nel v. 12 c’è un’aggiunta sulla coerenza: “Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro «sì» sia sì, e il vostro «no» no, per non incorrere nella condanna”. E’ una raccomandazione circa la trasparenza delle relazioni, senza ricorrere a mascherature banali e artificiali e senza ricorrere a quel rifugio nella diffidenza che sembra essere una garanzia perché gli altri sono diversi, disordinati e non corrispondono al nostro impianto personale o comunitario. Il respiro così diventa ampio, largo, disteso, segno di fiducia nella sincerità altrui.


La preghiera personale

V. 13. Sono richiami fondamentali: il primo richiamo possiamo sintetizzarlo sotto il termine “magnanimità o pazienza o respiro”; il secondo richiamo è “la preghiera”. Quando dice “preghiera” lui intende esattamente il ritmo del respiro nelle diverse situazioni della vita: è la preghiera che detta il ritmo di quel respiro di cui ci ha parlato ed è così importante per la crescita della vita cristiana e, dunque, la promozione dell’Evangelo oltre tutti i limiti finora raggiunti. Qui, nel v. 13, è la preghiera personale: “Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi”. Un solo versetto per dire la preghiera personale; nel dolore come nella letizia è la preghiera che scandisce dall’interno gli eventi, che sono misurati da situazioni favorevoli oppure da situazioni minacciose che rendono penoso il nostro cammino; tutto quello che è dolore, dramma, contrarietà, afflizione, malattia; e, d’altra parte, i momenti di giubilo, di esultanza, di festa, di gratitudine per i doni che riceviamo. Ed è la preghiera, non nel senso di singoli momenti devozionali, ma come ritmo che unifica questo percorso dove dolori e gioie sono i luoghi di passaggio di un unico itinerario di apprendistato alla vita, alla sua pienezza, a quella larghezza del respiro di cui ci parlava. Non ci parla della “magnanimità” e poi ci pianta in asso; ci dice “adesso, nella gioia e nel dolore, prega perché eterna è la misericordia di Dio”. Ricordate il Salmo 136, il grande hallel, “perché eterna è la sua misericordia”: è il ritmo della preghiera biblica, sempre, quando cadiamo e quando siamo in piedi, quando è notte e quando è giorno, quando sono stanco e quando, invece, sono nel pieno delle forze, quando riposo e quando veglio, quando sono ammalato e quando sono sano, quando cresco e quando declino, quando sono giovane e quando sono vecchio “perché eterna è la sua misericordia”.


La preghiera della Chiesa

Vv. 14-16. Ora la preghiera della Chiesa in quanto tale e Giacomo mette in risalto la tipologia dell’intercessione. La preghiera della Chiesa è eminentemente preghiera di intercessione (a parte tutto il resto che si può dire e che lui non ignora) che è l’arte di mettersi in mezzo. Padre Martini insisteva molto sulla preghiera di intercessione negli ultimi anni della sua vita. L’arte di mettersi in mezzo nelle situazioni che sono complicate, terribili, drammatiche, che sembrano insolubili; mettersi in mezzo e accogliere, contenere, abbracciare. Esattamente quell’esercizio della respirazione come ce ne parlava poco prima. La prima è l’intercessione per la malattia e per i peccati. C’è una comunanza tra le due situazioni di vita. “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti”. Qui è il caso della malattia e il caso del peccato; sono fenomeni entrambi universali e intrinsecamente collegati. Nel contesto della rivelazione biblica è quasi scontato che si passi dalla malattia al peccato e dal peccato alla malattia; situazioni di significato universale che si presentano nel vissuto di tutti. E la Chiesa è implicata in questa condivisione penosa del carico altrui; quel carico che si manifesta come malattia e come peccato dove vedete quella che lui chiama “confessione”. “Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri”, “consegnate voi stessi” laddove ci si sopporta gli uni con gli altri e, nella reciprocità di questa confessione orante, ecco che si sprigiona la potenza terapeutica dell’Evangelo. E’ il respiro della Chiesa che si allarga, che raccoglie i dolori, le miserie, le sofferenze, le tribolazioni, le malattie; e tutto “nel nome del Signore”. Questo è il testo che viene citato solitamente per trovare un fondamento biblico neo-testamentario al sacramento dell’unzione degli infermi e quell’unguento è lo strumento medicinale di cui la Chiesa si serve per manifestare la propria solidarietà, vicinanza e condivisione del malanno patito; in quella comunione (nella sofferenza, così come nel peccato che nessuno di noi riesce a portare da solo e scarica addosso a qualcun altro) è il nome del Signore che si rivela, è l’Evangelo. Giacomo dice: “La Chiesa in preghiera”, la Chiesa che respira, quel respirare in modo tale che si allarga il cuore umano fino ad abbracciare il mondo; da un malato all’altro, da un peccatore all’altro. E questo nella reciprocità di un’attenzione nel rendersi responsabili della storia comune, nella storia di tutti che è un’unica storia umana. Unica.

E ora, nel v. 16, si passa a un affaccio su quell’orizzonte amplissimo che noi, in modo forse un po’ banale, ma pertinente per quanto riguarda la necessità di esprimerci, definiamo il mondo: un affaccio sul mondo. Malattia, peccato, la Chiesa in preghiera (senza dimenticare mai la preghiera personale perché nel dolore e nella gioia c’è ciascuno di noi personalmente).


L’esempio di Elia

Vv. 17-18. “Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto”. Il caso di Elia, nel primo e nel secondo Libro dei Re. Giacomo sottolinea la forza di quella preghiera (con “molto vale” intende la forza, dice proprio “forza”) che viene esemplificata mediante il richiamo a Elia che era un uomo “omeopatico” (dal greco), l’uomo della compassione; vuol dire questo: un uomo che pativa come noi, alla pari di noi. Il caso emblematico: pregò e quella preghiera di intercessione che diventa, nel caso di Elia, la ricapitolazione di una vicenda che si svolge nell’arco di tre anni e mezzo (è una cifra simbolica per dire “il tempo del grande travaglio che poi dura tre secoli e mezzo; se ne parla in tutta la scrittura apocalittica, compresa l’Apocalisse di Giovanni); il tempo del grande travaglio perché la sorte del mondo (e qui veramente c’è lo svolgimento dell’intera storia umana), tutto, si compone in rapporto alla venuta gloriosa del Signore, alla vittoria dell’Innocente morto e risorto, in rapporto alla sua Signoria universale. Ecco la preghiera di intercessione; malattia e peccato; l’universalità del disegno che coinvolge tutto nello spazio e nel tempo. La preghiera della Chiesa è questo rendere testimonianza al ritmo che dall’interno sostiene lo svolgimento di questa vicenda così zoppicante, così piagata e sofferente nel vissuto personale e comunitario, di una generazione, nelle cose del mondo: siccità che dura tre anni e mezzo. Ed ecco la venuta del Signore. Non manca l’appuntamento e tutto va a incastonarsi nel cuore orante della Chiesa che porta a compimento la sua missione. Per questo stiamo evangelizzando.


Nel progetto di salvezza siamo fratelli

Vv. 19-20. Ora si rivolge a coloro che sono i destinatari primari del suo insegnamento, i pagani come noi. “Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”. Un finale piuttosto brusco; non è il finale di un’epistola; non c’è il congedo, non ci sono i saluti, i baci, gli abbracci perché, infatti, non è una lettera.

Giacomo sta dicendo: “il tempo dell’evangelizzazione è in atto”, e noi siamo coinvolti in quanto “respiriamo, preghiamo”; e abbiamo sempre bisogno di imparare a respirare e pregare; la Chiesa respira e prega. Questa evangelizzazione in atto conferisce al tempo che ci è donato il valore di una scoperta di fraternità che si fa sempre più intensa, intima, veritiera. E lui parla qui del soccorso prestato da chi si prende cura di qualcuno, fratello, che abbia deviato, che si sia allontanato dalla verità, cioè dall’Evangelo e quindi deve essere ricondotto, aiutato, soccorso perché non proceda nella via dell’errore. Ma fate bene attenzione perché sta dicendo che “costui sappia (v. 20) che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima (la sua vita)”. La salvezza è di colui che viene ricondotto e di colui che riconduce; la salvezza è comune per chi è debitore e per chi è intervenuto come benefattore, che è come dire che la mia preoccupazione di aiutare altri a procedere nel loro cammino, in modo tale da corrispondere autenticamente all’Evangelo che hanno ricevuto, è l’espressione della gratitudine con cui io mi rivolgo a coloro che, accogliendo e procedendo nell’evangelizzazione, sono gli interlocutori verso i quali io sono debitore di una gratitudine massimamente consolante. La trasmissione dell’Evangelo si realizza come un debito di gratitudine, il ringraziamento nei confronti di coloro che accolgono l’Evangelo. Il nostro maestro non si è mai posto su una cattedra; dice: “ecco la mia gratitudine, la nostra gratitudine, la gratitudine della Chiesa madre di Gerusalemme nei confronti di tutte le chiese composte da cristiani che provengono dal paganesimo e che ormai accolgono l’Evangelo e lo trasmettono”. E si apre dinanzi a noi, alla fine del testo che abbiamo letto, uno spazio immensamente ampio per l’evangelizzazione futura; e l’evangelizzazione che crescerà man mano che coloro che trasmettono scopriranno di essere debitori nei confronti di coloro che accolgono.


Il 7 aprile, martedì dopo Pasqua, leggeremo la Lettera di Giuda.

Lectio divina


Incontri 2014-2015 - Lettere cattoliche


  • 3 febbraio 2015
    La testimonianza della vita cristiana: magistero nei confronti del mondo
  • 3 marzo 2015
    Lettera di Giacomo 4
    Dalla Chiesa madre di Gerusalemme l’Evangelo si espande nel mondo
  • 7 aprile 2015
    E’ in atto una crisi pastorale: non c’è più militanza