Incontri di discernimento e solidarietà
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7 aprile 2015

Lettera di Giuda

E’ in atto una crisi pastorale: non c’è più militanza

Quinto incontro del ciclo 2014-2015



Abbiamo letto, nei quattro incontri di quest’anno, la Lettera di Giacomo. Leggeremo stasera la Lettera di Giuda, che fa parte anch’essa delle “Lettere cattoliche” con cui abbiamo intrattenuto una relazione di carattere generale fin dall’inizio del nostro lavoro di quest’anno. Abbiamo constatato di avere a che fare con la Chiesa madre di Gerusalemme che lascia a noi, e a tutti coloro che provengono dal paganesimo, un’eredità che si radica nell’evento primario da cui tutto dipende: la Pasqua del Signore, la manifestazione ai primi discepoli, il primo nucleo di credenti; Gerusalemme, le prime chiese composte da giudei che hanno intrapreso il cammino della vita nuova e l’Evangelo che cresce investendo, in una prospettiva sempre più dinamica e sempre più aperta su orizzonti ecumenici, il mondo dei pagani. Le Lettere Cattoliche sono così chiamate perché indirizzate a tutte le chiese che man mano assumeranno il compito missionario di trasmettere l’Evangelo; tutto a partire da quel nucleo originario dei primi discepoli, da quell’”evento” primigenio, la Pasqua del Signore e dalla Chiesa madre di Gerusalemme. Gli autori delle Lettere Cattoliche sono personaggi che vengono identificati altrove, da Paolo, come le colonne della Chiesa di Gerusalemme: le tre lettere di Giovanni, due di Pietro, la lettera di Giacomo che svolge un ruolo di spicco; Giacomo come figura di riferimento, il grande maestro, personaggio con un ruolo di presidenza nella prima Chiesa di Gerusalemme. Decenni dopo, verso l’anno 80 del primo secolo dopo Cristo, un maestro, che si inserisce splendidamente in quella tradizione giudeo-cristiana, si assume, con impegno molto sapiente e al tempo stesso delicato, la responsabilità di trasmettere la novità evangelica nella sua radicale originaria autenticità. Sappiamo che si tratta di scritti che ci rimandano a un ambiente dove i metodi dell’insegnamento dottrinario sono configurati secondo gli schemi propri della tradizione rabbinica, sapienziale che è una delle componenti del lascito antico-testamentario; ma abbiamo a che fare con autori che si esprimono magnificamente in greco, con molta raffinatezza, sapendo bene di rivolgersi a interlocutori che ormai provengono, in modo pressoché esclusivo, dall’ambiente dei pagani. Nel contesto delle Lettere cattoliche si inserisce questa Lettera di Giuda, che è uno scritto tra i più brevi del Nuovo Testamento, viene attribuita a un autore di nome Giuda che si presenta subito, nel prologo della lettera, come fratello di Giacomo. Si parla di un altro Giuda, oltre l’Iscariota, tra i dodici apostoli; questo nome è citato ancora nel contesto dei parenti di Gesù; tutto lascia intendere che il nome di Giuda è in realtà il nome che serve a identificare un maestro che, senza volerci in nessun modo imbrogliare, assume come propria l’identità anagrafica di un maestro di tradizione giudeo-cristiana prossimo a Giacomo. E’ sempre un richiamo all’autorità, sempre così prestigiosa, di Giacomo il fratello del Signore, uno dei dodici; a questo Giuda viene attribuito il titolo di Taddeo che è un soprannome, come pure Cefa (Pietro) che si chiama Simone, o il testardo (duro come una pietra) o Didimo e così via.

Giuda si inserisce in quella testimonianza proveniente dalla Chiesa madre di Gerusalemme; possiamo collocare lo scritto che leggeremo nel contesto storico che è circoscritto tra l’anno 80, 90 dopo Cristo. Ha ancora a che fare con interlocutori che prevalentemente provengono dal paganesimo; i destinatari di questo scritto sono lettori che sono già venuti in contatto con ambienti giudeo-cristiani e, quindi, il maestro dà per scontata la conoscenza delle Scritture, almeno nelle sezioni più rilevanti, e anche la conoscenza di testi che appartengono alla tradizione giudaica dell’ultimo periodo, del periodo inter-testamentario come si dice solitamente. Abbiamo a che fare, come già quando abbiamo letto la Lettera di Giacomo, con una situazione di crisi pastorale (chiamiamola così) e da questa inquadratura dipendono molte delle indicazioni che man mano il testo che leggeremo ci rivolgerà in maniera, qua è là, molto incisiva o provocatoria. Una situazione di crisi pastorale riducibile a questa immagine: ormai le chiese provenienti dal paganesimo crescono brillantemente, numericamente e qualitativamente nel coinvolgimento di coloro che accolgono l’Evangelo in maniera sempre più generosa, con tanta passione, con il fervore di coloro che scoprono una nuova possibilità di vita. Non c’è dubbio; eppure la Lettera di Giuda (come già, per certi versi, la Lettera di Giacomo) coglie, in questa situazione dove l’evangelizzazione sta crescendo, il rischio che l’eredità, ricevuta da quella prima evangelizzazione che proviene dalla Chiesa madre di Gerusalemme, venga strumentalizzata, anzi banalizzata; come se l’Evangelo, che è divenuto patrimonio custodito e rivendicato dalle chiese composte in prevalenza da pagani come un valore di riconoscimento quanto mai prezioso, corresse il rischio di essere ridotto a un titolo ormai acquisito, una garanzia per escludere ogni ulteriore cammino di conversione. Il rischio è presente in quella che è la prima tappa dell’evangelizzazione verso la fine del primo secolo dopo Cristo, ma è un rischio sempre attuale che coinvolge anche la nostra responsabilità di discepoli del Signore che abbiamo accolto il deposito evangelico, lo custodiamo e facciamo di esso il criterio della nostra identità. E’ come se la novità cristiana corresse il rischio di essere ridotta a una vanità astratta, un valore ideologico lontano dai dati oggettivi, empirici, concreti laddove è effettivamente necessario intraprendere un cammino di conversione; o ridotta a un vezzo, qualche volta un po’ scenografico o imponente nelle sue manifestazioni liturgiche, senza più militanza, coerenza, intraprendenza operativa di chi si è impegnato ad accogliere l’Evangelo come motivo che dall’interno ristruttura tutto l’impianto della nostra esistenza umana; il rischio che l’Evangelo sia ridotto a una definizione, un’etichetta, una maschera che ha aspetti anche solenni e affascinanti, ma che non intacca la realtà degli eventi, la concretezza del vissuto, non ha più nulla a che fare con il reale coinvolgimento di una vita, di persone, comunità, di una chiesa che è costantemente bisognosa di essere ristrutturata in modo da corrispondere autenticamente alla novità dell’Evangelo che è stato ricevuto. E’ la Chiesa madre di Gerusalemme, depositaria nella sua responsabilità primigenia, che rivendica il valore di questa eredità che è stata trasmessa e che corre il rischio di essere banalizzata, ridotta a una pura messa in scena che magari viene vantata come chissà quale novità, ma che non intacca, non coinvolge, non penetra, non suscita più un reale impegno di ristrutturazione, un reale cammino di conversione. Non c’è più militanza.


Indirizzi e saluto agli “eletti”.

Vv. 1-2. La lettera parte da un saluto proprio di uno scritto epistolare perché il testo che leggiamo, come la Lettera di Giacomo, non è propriamente una lettera, ma serve ad identificare uno scritto che ha un’altra configurazione, un’altra natura, un altro genere letterario. Si tratta di un libello caratterizzato da una forte intonazione polemica che poi si sviluppa in una forma esortativa, ma la prima sezione dello scritto, fino al v. 16, ha le caratteristiche di un richiamo molto energico e, per molti versi, provocatorio. Poi, dal v. 17, questo scritto prende un’andatura di carattere propriamente esortativo; termini più concilianti, più confacenti all’opportunità di incoraggiare e non più di contestare.

Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo, agli eletti che vivono nell'amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo: misericordia a voi e pace e carità in abbondanza”. Giuda si presenta e mette in risalto la parentela con Giacomo, ma determinante è il riferimento a Gesù che è Cristo, il Messia. Così Giuda qualifica se stesso in quanto impegnato a svolgere un servizio che riguarda la missione di Gesù nella storia umana. Sullo sfondo intravediamo senza incertezza la Chiesa madre di Gerusalemme. A chi si rivolge Giuda dopo essersi presentato? “Agli eletti che vivono nell’amore di Dio”. Gli “eletti” sono i “chiamati”, tutti coloro che sono chiamati, tutti i cristiani, quelli che ormai provengono dal mondo dei pagani; e si rivolge a noi, a tutti coloro che sono depositari di questa vocazione che vengono meglio identificati in quanto “vivono nell’amore di Dio Padre” (alla lettera dice: “amati in Dio Padre”), coloro che sono radicati nel grembo della paternità di Dio. E aggiunge: coloro che “sono stati preservati per Gesù cristo”, custoditi per Gesù Cristo, in vista di Lui; coloro che sono attesi in vista dell’incontro con il Messia che viene nella sua gloria. E’ la vita cristiana che Giuda sintetizza qui nelle sue dimensioni fondamentali, in rapporto alla sua origine – il grembo della paternità divina – e in rapporto alla sua destinazione che è l’incontro con il Signore glorioso che viene e instaura la sua sovranità definitiva. E’ la vita nuova, piena, cristiana che così si qualifica in rapporto al mistero di Dio che si è rivelato, si è spalancato per noi nel contesto di una vicenda umana che, attraverso le tappe della storia passata e futura, è orientata, senza più deviazioni, verso l’instaurazione definitiva del Regno. Il saluto, nel v. 2: “misericordia a voi e pace e carità in abbondanza”. Una terna di auguri. Il termine che fa da perno è “pace”; misericordia e carità fanno da cornice e sintetizzano tutto il vocabolario della carità. Nel contesto della novità caratteristica della vita cristiana, tutta pervasa da questa corrente d’amore, la vita si realizza nella sua pienezza; la pace è la piena attuazione di tutte le prerogative che danno forma alla vita, che rispondono alla vocazione alla vita. La vocazione cristiana si trova tuffata in questo abbraccio d’amore che è la rivelazione inesauribile di quella novità per la quale siamo abilitati a vivere nella pace, a vivere nella pienezza della vocazione che corrisponde all’intenzione originaria di Dio; e tutto questo “in abbondanza” che allude ad un itinerario di crescita. E’ un vero e proprio augurio, un vero e proprio incoraggiamento. Giuda ci interpella in rapporto alla nostra vita cristiana, la nostra vocazione in quanto siamo debitori in rapporto all’inesauribile fecondità dell’amore di Dio e siamo coinvolti in una vicenda che ci responsabilizza fino all’instaurazione finale del Regno mediante il quale il Signore Gesù non mancherà all’appuntamento.

Dal v. 3 al v. 16 lo svolgimento critico, polemico, provocatorio del libello.


E’ urgente fermare una decadenza causata da falsi maestri.

Vv. 3-4: “Carissimi (mette le mani avanti, non vuole litigare) avevo un gran desiderio di scrivervi riguardo alla nostra salvezza, ma sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte. Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui - i quali sono già stati segnati da tempo per questa condanna - empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio, rinnegando il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”. Mette in risalto un suo desiderio, la sua sollecitudine; Giuda freme perché è in questione l’essenziale della vita cristiana e vuole intervenire sollecitamente; già da tempo ci pensava, ora dice: “sono stato costretto”. Un’urgenza rispetto alla quale non può più rinviare, tergiversare, aspettare che gli eventi si aggiustino a modo loro; non è più possibile. La sollecitudine riguarda quella che chiama “la nostra comune salvezza”; notate questo “nostra”. Il maestro, ben radicato nel mondo, nell’ambiente, nella tradizione dei giudeo-cristiani, si rivolge a coloro che provengono dal paganesimo, ma parla di una salvezza che è “nostra”, in prima persona plurale. C’è una comunità che ci chiama a condividere un unico dono e la diversità di provenienza, di collocazione culturale non impedisce affatto di riconoscerci come parte di un unico disegno, anzi è un’unica salvezza per me e per voi, per noi tutti. E’ proprio questa unica salvezza che per il maestro sembra essere esposta al rischio di un fraintendimento se non propriamente di una vanificazione. C’è di mezzo la tradizione della fede che è la struttura portante della vita cristiana e delle chiese fin da quello che fu, alcuni decenni prima, l’inizio dell’evangelizzazione per arrivare all’epoca contemporanea per loro e per noi dopo tanti secoli. Afferma che è necessario affrontare il fenomeno di decadenza ecclesiale, teologale (c’è di mezzo la fede), pastorale (c’è di mezzo l’impianto della missione operativa mediante la quale la Chiesa è chiamata a procedere nell’evangelizzazione): “sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede”. Notate questo verbo: “sono stato costretto ad intervenire energicamente, risolutamente, tempestivamente perché è venuta meno la militanza per la fede. “Combattere per la fede che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte ”; la questione viene meglio illustrata facendo appello alla comparsa di questi “falsi maestri” che provocano un atteggiamento di rinuncia rispetto a quel “combattimento” su cui sta invece orientando la sua attenzione richiamando l’attenzione di tutti. “Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui empi”. Parla di loro come di personaggi che sono presenti nell’attualità della storia delle chiese, rispettando naturalmente la diversità dei casi ed equilibri che sono sempre piuttosto delicati; ma sta registrando un fenomeno che era già presente in quella storia antica che sta alle spalle del popolo di Dio come un’eredità preziosa e indimenticabile: è quella che noi chiamiamo la storia della salvezza. Quello che sta avvenendo adesso nelle chiese, in realtà, è una recente e attuale manifestazione di un disagio, di una contraddizione, di una decadenza che il popolo di Israele, nel corso della sua storia, ha già registrato a più riprese. E’ un’empietà di vecchia data che già è stata denunciata e che già, dunque, è stata anche illustrata proprio per trasmettere a noi un insegnamento che non possiamo in alcun modo trascurare. Questi falsi maestri empi “sono stati segnati da tempo per questa condanna (siamo rimandati agli esempi della storia della salvezza che ormai si è sviluppata nei secoli delle generazioni passate); trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio”. E’ un’apostasia che si infiltra, camuffata in modo tale da pervertire la Grazia e comprometterla, svuotarla, disintegrarla, inquinarla dall’interno rendendola strumento di dissolutezza. Notate che “Grazia” è uno dei termini classici della teologia paolina: tutto ciò che è gratuito dono di Dio. E in questo modo, con estrema rapidità stiamo constatando nelle nostre chiese la pressoché totale scomparsa di un’autentica militanza nel cammino della conversione; non ce n’è più bisogno, non serve più a niente perché ormai siamo arrivati, siamo in grado di rappresentare noi stessi in prima persona senza essere messi più in discussione da nulla e da nessuno, quando, in realtà, siamo ancora itineranti, in vista di quella pienezza che raggiungeremo incontrando l’avvento del Regno, la manifestazione gloriosa del Signore Gesù Cristo. Eppure ecco la pretesa della superbia umana che vanta meriti e diritti ormai acquisiti quando, in realtà, nei fatti, viene rinnegata la sovranità, la signoria di Gesù Cristo: “rinnegando il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”. La questione è molto seria, il problema è stato posto in termini così drastici rispetto ai quali non possiamo restare indifferenti in alcun modo. E’ in questione una vera e propria apostasia insegnata, dichiarata, voluta, che diventa addirittura un sistema di vita e, soprattutto, una modalità didattica. Su questo già Giacomo era intervenuto a sua volta in maniera molto lucida e coinvolgente. Sono falsi maestri che pervertono tutto ciò che gratuitamente ci è stato donato in un patrimonio di cui noi ormai possiamo vantarci come di un merito acquisito per cui non abbiamo più bisogno di procedere ulteriormente in un impegno di militanza, testimonianza, conversione perché ormai siamo in grado di godere dei benefici di coloro che sono padroni di casa. Ma, in questo modo, stiamo rinnegando la sovranità e la signoria di Gesù Cristo.


Tre esempi di empietà del passato

Vv. 5,7. Il maestro usa un linguaggio molto scarno, essenziale; qualche richiamo su cui possiamo soffermarci nel tentativo di illustrare, con qualche annotazione aggiuntiva, il valore del suo richiamo. Tutto fa capo all’esemplificazione, attraverso momenti della storia della salvezza; siamo rimandati a testi dell’Antico Testamento, a situazioni, personaggi e tutto serve a illustrare com’è drammatico il caso di una vocazione pervertita; e, in questo caso, è nientemeno che la vocazione cristiana, la vocazione di coloro che sono stati raggiunti dall’Evangelo e avrebbero aderito. Eppure, quella vocazione, che è stata accolta e a cui è stata offerta una risposta in modo generoso fin dall’inizio, è una vocazione che si perverte e questo – ed è l’aspetto particolarmente preoccupante ed anche disgustoso di una vicenda simile – nel momento stesso in cui le apparenze esterne vengono, invece, coltivate con grande trasporto, solennità e passione.

Dal v. 5 al v. 7 il maestro, in maniera lapidaria, rievoca tre esempi dell’empietà così come già si è venuta configurando nel corso della storia antica. “Ora io voglio ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che il Signore dopo aver salvato il popolo dalla terra d'Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere”. Ecco il primo esempio: il popolo liberato dall’Egitto mancò l’appuntamento; non fu presente là dove l’appuntamento era predisposto per entrare nella Terra promessa (Libro dei Numeri, cap. 14; poi ripreso, commentato, illustrato in tante altre pagine). In quell’occasione il popolo fu afferrato da una noia accidiosa che si nascose dietro alle dichiarazioni circa l’impossibilità di procedere, di sostenere la fatica e l’impatto con gli anachiti, figure gigantesche, ma del tutto immaginarie, costruite mentalmente come minacce insormontabili da chi non è stato pronto ad accogliere il dono proveniente da Dio della Terra promessa per tante generazioni; il dono è preparato ed è lì; si tratta solo di entrare. Ma il dono è considerato una minaccia pericolosa da animi che non sono ancora pronti ad accogliere ciò che gratuitamente è stato promesso e che adesso viene consegnato. E la pretesa di trasformare la permanenza nel deserto in una meta definitiva; e questa generazione è scomparsa, come ricorda il maestro. Ed è una generazione di increduli, impreparata ad accogliere nella libertà il dono promesso e finalmente consegnato; e là dove sono accampati il Signore chiarisce come stanno le cose. Un popolo liberato dall’Egitto, ma ancora non educato a vivere nella libertà; un’altra generazione subentrò alla prima ed è quella che poi entrerà. Un primo esempio: questa noia. E’ un caso esemplare di quella perversione della chiamata alla vita cristiana.

Secondo caso, v. 6: “e che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno”. Il maestro qui fa riferimento al testo contenuto in Genesi, cap. 6, nel quale ci parla degli angeli che cadono dalla loro posizione di creature di ordine superiore perché sono invidiosi della bellezza umana. Questa invidia provocò per gli angeli un abusivo travalicamento dell’ordine cosmico, dando forma poi a quelle figure di giganti di cui si parla in quei versetti del libro del Genesi. Su quei pochi versetti (Genesi, cap. 6, v. 1, 4) c’è stata poi tutta una ricchissima meditazione sapienziale che è depositata in diversi scritti degli ultimi secoli della tradizione giudaica. Nel Libro di Enoch, capitoli e capitoli sono dedicati a quella vicenda come esemplificazione dei passaggi mediante i quali il male è entrato nel mondo. Nemmeno gli angeli – ci ricorda il maestro – possono vantare un titolo di impunità perché anche gli angeli sono in attesa di un giudizio. E anche qui un caso esemplare di vocazione pervertita. Questo fenomeno di gigantismo, questa pretesa di scardinare gli equilibri che governano l’ordine della creazione in forza di una passione; lì per lì sembra esplosione di forze straordinariamente positive, ma in realtà è una passione devastante, distruttiva, corrosiva; ne vien fuori una devastazione degli animi, di tutto un impianto, un sistema, un linguaggio culturale dove il riferimento al “gigantesco” attrae tutta la passionalità dell’animo umano, ma in un contesto che porta già in sé i segni di una inevitabile, infernale negatività: “egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno”.

Terzo esempio, v. 7: “Così Sòdoma e Gomorra (siamo rimandati al libro del Genesi) e le città vicine, che si sono abbandonate all'impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno”. La perversione di Sodoma e Gomorra, la ricerca di relazioni contro natura? Qui la prospettiva è ribaltata: in precedenza il caso di angeli che invidiano la bellezza della creatura umana; adesso, in questa ricerca di relazioni che travolgono l’ordine naturale delle cose, una esaltazione di tipo angelico, una scelta di sterilità, una ricerca di quella che il nostro maestro chiama “un’altra carne”; sterilità che manifesta un’implicita volontà di morte. Non vado molto per il sottile nell’analizzare esattamente i testi che sono qui espressi con un linguaggio molto forbito. Sodoma, Gomorra e le altre città sono andate dietro a vizi contro natura, dietro a “un’altra carne”; sono andate cioè alla ricerca di modalità relazionali che travolgono l’ordine della condizione umana, della carne e della misura umana e in questo modo subiscono le “pene di un fuoco eterno”; una volontà di morte.

Tre esempi di vocazioni pervertite: la noia, il gigantismo, la sterilità: il rifiuto di un’effettiva militanza cristiana in tutti e tre i casi che servono ad illustrare quella che il maestro ci ha indicato come l’apostasia, il rinnegamento dell’Evangelo, il tradimento della vocazione ricevuta. Subito constatiamo in tutti e tre i casi citati una passionalità irruenta, fervorosa, che ha una sua visibilità anche imponente e, per certi versi, affascinante. Ma è una passionalità a vuoto: c’è di mezzo il rifiuto di un’autentica militanza cristiana in un radicale impegno di conversione laddove è l’amore che gratuitamente ci è stato donato che pacifica la nostra vita e la costruisce in obbedienza all’appuntamento con il Signore Gesù Cristo che ritorna nella sua gloria.


Gli apostati di oggi: i professionisti del vuoto

Vv. 8, 13. Dal v. 8 Giuda sviluppa la sua critica. “Ugualmente, anche costoro (sono i falsi maestri a cui si riferiva precedentemente. Quello che ha rilevato tramite i richiami a quelle pagine, a quegli episodi, a quelle figure della rivelazione antica si deve riscontrare adesso nella presenza degli infiltrati), come sotto la spinta dei loro sogni (sono gli apostati di oggi, deliranti), contaminano il proprio corpo, disprezzano il Signore e insultano gli esseri gloriosi”. Più esattamente deformano: è la novità cristiana nel suo impatto con il mondo, con la sua presenza nel mondo; quella novità che è radicale conversione dell’impianto interiore che poi si inserisce nella relazione con tutte le creature misurate dal tempo e dallo spazio. E’ la novità cristiana nel mondo che è contaminata, deformata. Sono deliranti questi apostati di oggi e il maestro dice che costoro assumono – in una prospettiva che dal loro punto di vista dovrebbe essere magistrale e quindi dovrebbe essere accolta, apprezzata, applaudita dal consenso generale, comunitario, universale – una posizione del tutto artificiale tra Dio e il mondo. C’è ancora una volta, nelle osservazioni del maestro, qualcosa che fa pensare a quel fenomeno propriamente clericale che spesso, a suo tempo, descriveva padre Corradino: si nasconde sotto il titolo della “pastorale” tra Dio e mondo. Ma, vedete, dalla parte di Dio? In realtà la sua Signoria è disprezzata. “… disprezzano il Signore e insultano gli esseri gloriosi” e subito dopo dice che, in realtà, coloro che si collocano dalla parte di Dio non conoscono la Signoria di Dio e si rivolgono verso il mondo per giudicare, per bestemmiare le creature di Dio che vengono misconosciute quando invece sono rivelazione della sua gloria. Dove dice: “…insultano gli esseri gloriosi”, sono le creature di Dio che in quanto creature di Dio sono strumenti rivelativi della sua gloria. Una posizione artificiale, delirante tra Dio e mondo Si rivolgono al mondo e giudicano dall’alto, in modo sprezzante, le creature che sono strumenti rivelativi della gloria stessa di Dio.

Prosegue ora nel v. 9 con un accenno a una scena che è descritta probabilmente in un testo della tradizione giudaica dell’ultimo periodo (L’assunzione di Mosè), ma c’è un accenno anche nel Libro di Zaccaria: “L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!”. Persino l’arcangelo Michele non si è permesso di offendere nemmeno il diavolo in quanto creatura di Dio. “Costoro invece bestemmiano tutto ciò che ignorano (una presa di posizione autoritaria; non autorevole, autoritaria, presuntuosa, prepotente, invadente, artificiale; in realtà si pongono tra Dio e il mondo bestemmiando la signoria di Dio e disprezzando le creature che sono di Dio. Inventano così una situazione tutta sognata; un sogno che sarebbe meglio definire un delirio, una bolla di sapone dove si muovono, agiscono, intervengono, parlano, proclamano, insegnano e forse anche compiono gesti imponenti, grandiosi, liturgie monumentali. “Che guaio” dice nostro il maestro); tutto ciò che essi conoscono per mezzo dei sensi, come animali senza ragione, questo serve a loro rovina (una stupidità animalesca). Guai a loro! (è un linguaggio sferzante) Perché si sono incamminati per la strada di Caino e, per sete di lucro, si sono impegolati nei traviamenti di Balaàm e sono periti nella ribellione di Kore”. Gente smarrita che si perde alla maniera di chi è prigioniero di una stupidità animalesca. E’ un linguaggio ferocissimo, ma è una ferocia polemica che si comprende bene nel testo di un genere letterario come quello proprio di un libello. E subito aggiunge tre casi esemplificativi di questo disastro pastorale: il caso di Caino e la strada tormentosa del fratricidio; Balaàm è lo stregone che dovrebbe maledire e invece benedice nel Libro dei Numeri e viene intrappolato dentro all’imbroglio che gli viene proposto e a cui si adegua e indulge pur di fare affari. Situazioni che sono ricorrenti in quella che spesso chiamiamo la vita e l’attività pastorale. Il fratricidio e l’imbroglio come una necessità imprescindibile per fare affari. E il terzo caso esemplificativo: Kore (e qui siamo rimandati al Libro dei Numeri, cap. 16) che se la prende con Aronne e coloro che appartengono alla categoria sacerdotale nel corso della traversata del deserto; che si slancia con vigore aspro e odioso contro le misure poste da Dio stesso, quelle misure mediante le quali Dio stesso ha impostato il rapporto di alleanza e quindi anche il servizio della santificazione affidato al sacerdozio. E’ Kore che si è inalberato in maniera così prepotente e fuori misura. Un disastro pastorale; è un’apostasia in atto. E ancora non ha finito: vv. 12-13. Chi sono costoro? “Sono la sozzura dei vostri banchetti sedendo insieme a mensa senza ritegno, pascendo se stessi; come nuvole senza pioggia portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno”. Il maestro usa un linguaggio molto curato. In primo luogo sono degli scrocconi che siedono a tavola; e qui è la tavola nel senso forte del termine: profanano l’eucarestia. “… pascendo se stessi”: nei banchetti si rimpinzano nel senso che non hanno altra realizzazione pastorale di cui vantarsi, di cui gratificarsi e alimentarsi che non sia esattamente la soddisfazione di sé. Li chiama professionisti del vuoto e inserisce quattro immagini bellissime: come nuvole secche, alberi sterili già sradicati, onde ridotte a misere goccioline di schiuma, astri erranti già morti. Professionisti del vuoto, pastori che pascolano se stessi, scrocconi che si rimpinzano ai banchetti per i quali non hanno imbandito la mensa.


L’antica profezia di Enoch

Vv. 14, 16. “Profetò anche per loro Enoch (adesso ricorda Enoch di cui si parla nel Libro del Genesi, cap. 5; è il settimo della genealogia che va da Adamo fino a Noè. E di Enoch si dice che camminò con Dio e poi fu preso e quell’immagine di Enoch preso rimane come un richiamo che nel corso dei secoli ha suscitato tante riflessioni; tutta una teologia enochica che si è poi sviluppata nell’ultimo periodo della storia del popolo prima del Nuovo Testamento, nell’epoca neo-testamentaria e nel periodo successivo. La figura di Enoch trova un riscontro nel caso di Elia che viene rapito verso il cielo), settimo dopo Adamo, dicendo: «Ecco, il Signore è venuto con le sue miriadi di angeli (è una citazione del Libro di Enoch) per far il giudizio contro tutti, e per convincere tutti gli empi di tutte le opere di empietà che hanno commesso e di tutti gli insulti che peccatori empi hanno pronunziato contro di lui»”. Enoch, stando alla citazione che il maestro ricava da quel testo apocrifo, profetò a riguardo di loro (i falsi maestri, gli apostati, i professionisti di una pastorale vuota, deprimente, devastante, distruttiva, corrosiva, abusiva) nel senso che già da quella primissima tappa della storia umana, nel percorso che va da Adamo fino a Noè, era stato impostato il giudizio mediante il quale l’empietà dei falsi maestri viene sbugiardata. E’ proprio Giuda che fa appello alla profezia antichissima di Enoch per intervenire su questo terreno pastorale e, nel v. 16, pronuncia la sentenza definitiva riguardo a questi intrusi che pretenderebbero di strumentalizzare le cose sante di Dio e nientemeno che l’Evangelo in modo tale da esaurirne la potenzialità creativa, trasformatrice, redentiva. “Sono sobillatori pieni di acredine che agiscono secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce parole orgogliose e adulano le persone per motivi interessati”. Anche qui il nostro maestro in poche parole riesce a descrivere plasticamente vicende e dinamiche anche piuttosto complesse in un ambiente comunitario, in un gioco che coinvolge diversi testimoni di quella vita comunitaria che l’evangelizzazione, da parte sua, genera con inesauribile fecondità. Gente mai contenta, dice Giuda, raggomitolata su se stessa, abituata ad usare un linguaggio sempre sovradimensionato; ma gente che, in realtà, parla addosso a se stessa e se parla con qualcuno è in funzione del proprio interesse. Una sentenza lapidaria che più intensa, drammatica e anche più efficace di così non potrebbe essere, nel senso che Giuda sa bene a chi si rivolge; a queste presenze inquinanti che sono molto attive ed eloquenti, ma è come se non volessero mai accettare la presenza di interlocutori con cui entrare in rapporto, in dialogo di comunione, condivisione, ricerca. Ricordate che fin dall’inizio si è rivolto a coloro che leggeranno questa lettera dicendo: “c’è una salvezza comune tra me e voi, c’è una vocazione che ci accomuna; malgrado tutte le diversità di provenienza o di linguaggio, è una storia che ci coinvolge insieme in un itinerario di radicale conversione e rispetto a questa radicalità siamo ancora bisognosi di incoraggiamento, di sostegno, di ulteriori sollecitazioni”. Ed è quello che avviene dal v. 17.


Ricordatevi degli apostoli

Vv.17, 19. Il tono del libretto che stiamo leggendo, il libello polemico, cambia. E’ come se ritornasse ai primi due versetti di saluto introduttivo. “Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. Essi vi dicevano: «Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni». Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito”. Giuda, il maestro, dice: “voi siete quelli che custodiscono la memoria”; e la memoria riguarda la tradizione fondata sugli apostoli qui citati comunitariamente come un gruppo omogeneo e compatto; quella presenza che sta all’inizio di tutto, gli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. Ed è a partire dal Signore nostro Gesù Cristo che gli inviati, gli apostoli, sono stati impegnati in quella evangelizzazione che è giunta fino a noi. Di questa evangelizzazione conserviamo memoria e di questo radicamento nel principio di tutto che è stata la Pasqua del Signore nostro Gesù Cristo, l’evento decisivo. Ed è a partire da Lui che è giunto l’Evangelo fino a noi attraverso i primi discepoli, e poi di chiesa in chiesa: il grembo materno della Chiesa madre di Gerusalemme è comunque sempre presente sullo sfondo di questi versetti. E’ la Chiesa apostolica, madre di tutte le altre chiese e noi siamo eredi, e voi siete eredi di ciò che ci è stato così gratuitamente rivelato e trasmesso. E questa memoria deve essere conservata senza vantare titoli di proprietà, senza pretendere di possedere, gestire, dominare, governare o, addirittura, di strumentalizzare in quella maniera pastoralmente devastante cui accennava poco prima. Già dall’inizio – afferma il maestro – voi siete stati avvisati: “Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni”. “Questo discernimento che è necessario oggi, già era stato impostato da coloro che per primi vi hanno evangelizzato”. Qui si tratta di registrare il fenomeno degli imbroglioni, gli impostori dove l’Evangelo è strumentalizzato come un pezzo scenico; un’empietà passionale proprio scenografica; una recita appassionata, ma al servizio dell’empietà. Sono i professionisti della segregazione che impone dei confini: “Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito” (v. 19), che stabiliscono barriere per distinguere, in modo tale da escludere. Sono i veri avversari della comunione, i veri materialisti, sensuali e senza Spirito. “Ma voi, carissimi” siete quelli della memoria e nella memoria custodite l’Evangelo e custodite il criterio che vi rende inattaccabili come coloro che sono in grado di discernere, con prontezza sempre vigile e generosa, il rischio dell’imbroglio.


Radicatevi nella fede e prendetevi cura del mondo

Vv. 20, 23. “Ma voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede (il fondamento di questa costruzione è la fede santissima nel senso che la fede è la modalità di radicamento nell’intima appartenenza alla vita del Santo, il Dio vivente. E’ la fede che ci connette direttamente con l’intimità fecondissima della vita divina), pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell'amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna”. In pochissime battute, molto scarne, ma anche molto pregnanti, Giuda descrive la vita cristiana inserita nella corrente della vita trinitaria; quelli che respirano al soffio dello Spirito Santo, lo Spirito del Dio vivente. E parla di questa dimora stabile nell’amore che è nel grembo del Padre; e poi parla di questa attesa in vista del Figlio che viene per la vita definitiva. E’ la fede che ci radica; la fede è il coinvolgimento nella comunione con la vita stessa di Dio, il Suo respiro, il grembo della paternità divina, il cammino lungo la strada che, passando attraverso le cose, gli eventi, il mondo, nel tempo e nello spazio, ci orienta in maniera da coinvolgere pienamente tutto e tutti verso l’incontro con il Figlio che ritorna nella gloria. E ora qui una prospettiva che, in maniera molto sintetica, ricapitola la responsabilità nei confronti degli altri, vicini, lontani, le cose del mondo, le persone e le situazioni più complesse. Il maestro indica tre modalità di approccio agli altri – espressione quanto mai generica – nelle diverse condizioni di vita in cui si trovano. In primo luogo dice: “convincete quelli che sono vacillanti, altri salvateli strappandoli dal fuoco, di altri infine abbiate compassione con timore, guardandovi perfino dalla veste contaminata dalla loro carne”. Vengono individuate tre categorie di interlocutori: gli esitanti, quelli che son caduti nel fuoco e quelli che sono contagiosi. Categorie sempre più preoccupanti. E’ anche una premura che è inversamente proporzionale alla comodità dell’intervento perché dice: con gli esitanti occorre un’opera di convincimento; con quelli che sono caduti nel fuoco bisogna avvicinarsi perché solo avvicinandosi ad essi li si può strappare dal fuoco; e, in terzo luogo, nei confronti dei contagiosi raccomanda una compassione che adora la presenza di Dio senza alcuna complicità con l’infezione che è compromettente, inquinante, che macchia al punto da diventare contagiosi. Non incoraggia i cristiani a contaminarsi in alcun modo, ma parla di una compassione per loro con timore, dove il timore è obbedienza a Dio, è atto di adorazione nei confronti della presenza di Dio che da parte sua si è rivelato a noi come Colui che ha inviato il Figlio, che ha scandagliato la profondità dell’abisso infernale e ha evangelizzato il fondo oscuro della negatività dove precipita tutto ciò che nella nostra responsabilità umana è prodotto di morte. Quelli che si prendono cura di sé edificano se stessi in quanto si prendono cura del mondo e di tutti. Questa visione della vita cristiana che custodisce l’Evangelo ed è costantemente impegnata in un itinerario di conversione che esige ulteriori passaggi, applicazioni, chiarimenti, discernimento. E’ prendersi cura del mondo nella sua complessità, diversità, totalità e anche con diverse modalità di coinvolgimento. Gli esitanti, coloro che sono caduti nel fuoco e devono essere sottratti e i contagiosi che devono essere quantomeno raggiunti dalla compassione che contempla, nel loro dramma, l’opera di Dio che certamente per loro sta instaurando la novità pasquale di cui è stato protagonista il Figlio risorto dai morti.


Appello finale alla potenza cosmica di Dio

Vv. 24, 25. Il libello si conclude con una formula dossologica: “A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia, all'unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!”. Il maestro ricapitola tutto quello che dà coerenza, autenticità alla nostra risposta di cristiani all’Evangelo che abbiamo ricevuto e ancora una volta abbiamo a che fare con il mistero della vita trinitaria. La risposta è rivolta all’unico Dio che è il Padre che ci chiama alla vita e alla salvezza; l’unico Dio, nostro Salvatore è l’interlocutore a cui è rivolta la risposta. V. 24: “A colui che può”: è la potenza; è il soffio, è il respiro, lo Spirito del Dio vivente, lo Spirito Santo effuso. “A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia”: è la potenza dello Spirito Santo effuso che custodisce l’innocenza, che conferisce a noi la dignità di comparire dinanzi a Dio, nostro Padre. Lo Spirito Santo ci educa nella allegrezza. A Lui, unico Dio, che ha la potenza di effondere su di noi il suo respiro, che vuole la nostra salvezza, noi ci rivolgiamo per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio che ha aperto la strada della vita. L’ha aperta, l’ha tracciata, l’ha percorsa Lui; è quella strada lungo la quale noi stiamo imparando a vivere e a morire; e stiamo imparando a morire per vivere nella pienezza della nuova creazione. E’ il cammino della conversione che si sta sviluppando nelle misure proprie della nostra condizione umana, personale, comunitaria, sociale. E’ il cammino della grande conversione che avviene in questo crogiolo dove tutto si ricapitola in obbedienza all’eterna e inesauribile volontà d’amore che si è rivelata a noi nello spalancamento della vita stessa di Dio, mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il maestro aggiunge, v. 25: “per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza”. La risposta mediante la quale noi siamo rivolti all’unico Dio fa appello a quattro attributi: “gloria, maestà, forza e potenza”. Una quaterna del genere non è affatto casuale perché quattro è la cifra che serve ad indicare simbolicamente tutto ciò che riguarda la creazione, il cosmo; l’universo creato da Dio è quadrangolare, cubico, quaternario, quadruplice. In questo nostro modo di rispondere a Lui che è la sorgente della vita, protagonista della vita nella comunione che è stata svelata a noi come volontà di coinvolgimento, noi ci rivolgiamo nella relazione con tutte le realtà create; nella nostra risposta a Lui noi ci siamo in quanto siamo alle prese con un intreccio di relazioni che ci aprono al contatto con tutto ciò che è creato da Dio nel tempo e nello spazio; e a tutti gli eventi della storia umana. …“gloria, maestà, forza e potenza”; e in più tre riferimenti temporali: “prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!” perché anche il tempo è creatura di Dio ed è creatura redenta. Nella nostra risposta siamo alle prese con quell’itinerario di conversione che ci sigilla nella comunione con la Pasqua del Figlio per morire e risorgere con Lui. Ed ecco il tempo dall’inizio. Noi siamo in grado di testimoniare il valore redentivo della storia passata e di assumere in pienezza la responsabilità del presente e di proiettare un segnale di solidarietà, già riconoscente, verso gli eventi del futuro. Siamo in grado di offrire come risposta il nostro “amen!” a Dio che si è rivelato a noi, che si è avvicinato, che si è spalancato nella sua volontà d’amore, che ha mandato il Figlio, che ha effuso lo Spirito Santo; siamo in grado di corrispondere non perché autori di chissà quale impresa eroica, ma perché siamo in grado di accogliere, apprezzare e gustare il beneficio inesauribile, tutto quello che ci viene donato attraverso le creature che sono nel mondo; e siamo in grado di accogliere il dono che giunge a noi come eredi del passato, responsabili del presente, evangelizzatori del futuro. Amen.

Lectio divina


Incontri 2014-2015 - Lettere cattoliche


  • 3 febbraio 2015
    La testimonianza della vita cristiana: magistero nei confronti del mondo
  • 7 aprile 2015
    Lettera di Giuda
    E’ in atto una crisi pastorale: non c’è più militanza