Incontri di discernimento e solidarietà
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4 novembre 2014

Lettera di Giacomo

Le lettere “cattoliche”: L’Evangelo si espande

Primo incontro del ciclo 2014-2015



Introduzione

La regola dell’alternanza che abbiamo seguito finora vuole che quest’anno sia dedicato al Nuovo Testamento ed ho proposto e, in un certo modo, imposto, la lettura della Lettera di Giacomo che forse sarà seguita dalla lettura di altri testi che appartengono alla raccolta delle cosiddette “Lettere cattoliche”. Faccio un richiamo molto schematico su che cosa voglia dire “Lettere cattoliche”; sette scritti che rimangono spesso un po’ nascosti nell’insieme dell’intero Nuovo Testamento: sono un po’ come un’appendice che viene trascurata spesso con una certa disinvoltura. A me piace andare a scandagliare le zone che rimangono in ombra e quindi propongo a voi questo programma. Si chiamano “cattoliche” queste lettere nel senso che sono scritti rivolti al popolo cristiano, sempre e dappertutto, nella sua “cattolicità”; sette scritti, alcuni dei quali molto brevi. Questa valenza simbolica del numero sette è ricorrente nel N.T., come già nell’Antico: sette sono le chiese citate nell’Apocalisse, ma sette sono anche le chiese alle quali sono indirizzate le Lettere di Paolo: Tessalonica, Filippi, Galazia, Corinto, Roma, Colossi, Efeso. Tutte le chiese, la Chiesa. Ognuna, tra le chiese, è la Chiesa nella sua complessità, interezza, cattolicità. Questi sette scritti precisano la “cattolicità” della Chiesa in virtù della provenienza da cui riceviamo il messaggio che le sette lettere ci trasmettono. Abbiamo a che fare con la Chiesa madre di tutte le chiese che fu, è e rimane la Chiesa di Gerusalemme, la prima Chiesa con i primi discepoli; coloro che per primi hanno accolto l’Evangelo e sono diventati il grembo fecondo da cui ha avuto inizio quella evangelizzazione che poi è andata crescendo nel tempo e nello spazio fino a un passaggio che viene segnalato con molta passione nel contesto degli scritti neo-testamentari ed è segnato dal coinvolgimento di interlocutori pagani, a partire da quella prima Chiesa composta esclusivamente da giudei. I primi discepoli del Signore sono stati tutti giudei; la prima Chiesa, le prime chiese tutte giudeo-cristiane, come si dice comunemente. Ed è incastonata nel grembo del popolo di Israele dove vive e cresce questa prima comunità di discepoli, la sede originaria, il nucleo primigenio, la sorgente dell’evangelizzazione. Dalla Chiesa di Gerusalemme alle chiese, a quelle chiese che, in base al passaggio che ho richiamato in maniera molto sommaria, ma che è segnalato con molta consapevolezza circa il valore straordinario che esso comporta nel N. T.; l’apertura, dalla prima risposta da parte di giudei che accolgono l’Evangelo, ai pagani che lo ricevono e man mano danno forma a una moltitudine di chiese che solitamente vengono chiamate etnico-cristiane: le chiese formate ormai prevalentemente se non esclusivamente da pagani, come capita a noi ancora oggi. Siamo tutti inseriti in quella storia dell’evangelizzazione che coinvolge, a partire da quella svolta, pagani che appartengono alla moltitudine dei popoli della terra con le molteplicità delle culture, delle lingue e così via. Dalla Chiesa madre di Gerusalemme alle chiese che si stanno man mano configurando nel corso di una storia che è appena all’inizio, ma che poi si svilupperà nel corso delle generazioni fino a noi oggi. In questo senso si chiamano “Lettere cattoliche”: Lettere che sono testimonianza di quella prima evangelizzazione che, a partire dalla Chiesa madre, continua ad essere offerta con inesauribile fecondità alle chiese, molteplici, cattoliche nel tempo e nello spazio che stanno crescendo lungo il corso della storia futura che per noi è la storia attuale.

E’ molto importante tener conto del fatto che la “cattolicità” di queste chiese viene espressa non per qualche contenuto dottrinario in esse contenuto, ma per la provenienza tramite la quale queste Lettere sono indirizzate a noi che apparteniamo al corso della evangelizzazione che si è sviluppata nel tempo in modo tale da coinvolgere i pagani che hanno accolto e intrapreso il cammino della “vita nuova”. Queste Lettere sono identificate in base al nome dell’autore; le lettere di Paolo, che costituiscono una grande componente della letteratura neo-testamentaria, sono intitolate in base ai destinatari (chiese o personaggi). Le “Lettere cattoliche” sono invece intitolate in base all’autore: Lettera di Giacomo, di Pietro, di Giovanni e un’ultima letterina di Giuda. Sono le figure dei tre personaggi che Paolo nella lettera ai Galati (cap.2, v.9) riconosce come le colonne della Chiesa madre di Gerusalemme: è proprio Paolo che parla di Giacomo, Cefa e Giovanni. A questi tre personaggi (le colonne della Chiesa di Gerusalemme) si aggiunge Giuda, figura collaterale, ma comunque con un suo rilievo, che fa come da “scorta” a Giacomo: si parla in un altro testo del N.T. di Giuda di Giacomo.

Abbiamo a che fare con scritti che sono l’espressione preziosissima della prima testimonianza con cui la Chiesa madre si rivolge alle chiese, alla moltitudine delle chiese, alla cattolicità della Chiesa che sta crescendo nel tempo e nello spazio; chiese che sono ormai costituite eminentemente da pagani che hanno accolto l’Evangelo; si sono convertiti ed hanno intrapreso il cammino, ma sempre all’interno di situazioni imbarazzanti, di incertezza, spesso compromettenti e con la prospettiva di ripiegamenti che potrebbero essere assai inquietanti. D’altronde è l’esperienza nostra: sappiamo bene come l’evangelizzazione che ci ha raggiunti e che ci ha segnati è sempre accompagnata dai segni di una stanchezza avvilente e paralizzante se non addirittura sterilizzante.

Dalla Chiesa madre di Gerusalemme continua a provenire questo messaggio, questo impulso, questa spinta, questa testimonianza di fecondità che proviene dal grembo primigenio; è un dato importantissimo. Aggiungo che i sette scritti che compongono la raccolta delle “Lettere cattoliche” non sempre sono scritti epistolari: lo sono la prima Lettera di Pietro e la seconda e la terza Lettera di Giovanni, ma gli altri quattro scritti non sono propriamente delle lettere; sono configurate come scritti epistolari, ma hanno altre caratteristiche compresa la Lettera di Giacomo della quale dobbiamo avviare la lettura stasera. Sono “canovacci” di catechesi, di omelie, appunti che sono raccolti e sistemati con un certo ordine e messi a disposizione di coloro che sapranno poi approfittare di quei suggerimenti per elaborare, approfondire, ricercare, sviluppare; testi che appaiono spesso un po’ faticosi, fastidiosi. Dico questo non per scoraggiarvi, ma per onestà nel momento in cui si tratta di intraprendere una ricerca che certamente non è comoda perché questi scritti non si presentano a noi rifiniti, decorati con tutte quelle caratteristiche che rendono un messaggio gradevole, persuasivo o coinvolgente. Spesso, come constateremo avviando la lettura della Lettera di Giacomo, troveremo una sequenza di detti sapienziali secondo uno stile che è già presente in alcuni testi dell’A.T.; pensate ad alcuni dei grandi Libri sapienziali: il Libro dei Proverbi, il Libro del Siracide. E’ una procedura didattica scontata nella tradizione ebraica: l’insegnamento assume questa andatura sentenziosa per cui si succedono le proposizioni in modo tale da dare risalto a un certo concatenamento. Dobbiamo fare attenzione per accorgerci che sono gli anelli di una catena che si viene man mano costruendo con dei richiami: un termine che si connette con un termine presente nella sentenza precedente e così si costruisce un percorso che non ha le caratteristiche dei nostri ragionamenti deduttivi, come siamo abituati a ritrovarli in un piccolo trattato di teologia o anche semplicemente in uno scritto di catechesi dove le cose devono funzionare secondo gli schemi della logica della nostra cultura occidentale moderna. E, quindi, bisogna che un po’ ci impratichiamo nel prestare ascolto a questa metodologia didattica che conserva una sua originalità purissima, una sua coerenza cristallina di cui dovremo tener conto. In più, c’è da notare che questi testi sono scritti in greco e in un ottimo greco; certamente abbiamo a che fare con scritti che provengono dall’ambiente giudeo-cristiano, ma che volutamente, programmaticamente sono indirizzati a pagani che parlano greco, passando attraverso quello che è stato già il contatto con la cultura ellenistica che, come già sappiamo per altra via (basta leggere gli Atti degli Apostoli), ha coinvolto un ambiente pagano che man mano ha mostrato interesse, ha percepito un richiamo, ha avvertito una nota di simpatia nei confronti del mondo giudaico, che rimane in sé e per sé misterioso anche se così affascinante per dei pagani. E qui abbiamo a che fare con una comunicazione tra un ambiente giudeo-cristiano e un modo pagano, etnico-cristiano, che si sviluppa in quella dimensione che è ormai radicalmente e strutturalmente nuova, dal momento che c’è di mezzo l’Evangelo: è l’Evangelo che transita, che procede nel suo cammino, che, a partire da quel grembo, ormai porta frutti inserendosi in altri contesti che sono quelli in cui i pagani di questo mondo vivono, operano, crescono e, a loro volta, poi accolgono e rendono testimonianza all’Evangelo.

Ora abbiamo sotto gli occhi la Lettera di Giacomo. Tenete presente che si intende Giacomo il Minore, non Giacomo il Maggiore come si dice normalmente: quel Giacomo, fratello di Giovanni, detti i “figli del tuono” tra i primi discepoli del Signore; Pietro, che si chiama Simone, e suo fratello Andrea, Giacomo e suo fratello Giovanni, figli di Zebedeo; quello è Giacomo il Maggiore che è il primo martire tra i dodici apostoli, a Gerusalemme nell’anno 44 circa. Il primo martire è Giacomo (quello di Santiago di Campostela tanto per intenderci) protomartire tra i dodici. Quest’altro Giacomo è il “Minore” nel senso che di lui probabilmente si parla laddove, nell’elenco dei dodici, compare un personaggio che si chiama Giacomo di Alfeo. Altrove si parla di lui come del fratello del Signore, il parente di Gesù, proveniente da Nazaret, da quell’ambiente dove ci sono parenti di vario grado; anche negli Atti degli Apostoli si parla di lui come “fratello del Signore”. Questo Giacomo probabilmente è quel personaggio che ha svolto, nel corso di alcuni decenni, un ruolo di presidenza nella Chiesa di Gerusalemme: come tale viene citato da Paolo, nella Lettera ai Corinzi e nella Lettera ai Galati, fino all’anno 62 che corrisponde alla data del suo martirio. La notizia è riportata da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica. Non c’è dubbio, è una figura presente anche nella tradizione giudaica, un maestro riconosciuto: Giacomo il Giusto, così denominato nella tradizione rabbinica. Ed è il fratello del Signore, il discepolo di Gesù, uno dei dodici; colui che svolge un ruolo di presidenza, di riferimento, di responsabilità pastorale nella prima Chiesa di Gerusalemme: un maestro indiscusso a cui anche Paolo fa riferimento al momento opportuno, nel corso dei suoi viaggi. Non c’è dubbio: il fatto che questa Lettera sia intitolata facendo appello al nome di Giacomo ci rimanda a quella prima Chiesa che è radicata nella storia di Israele, nella tradizione di preghiera che è una qualità prestigiosa del popolo con cui ha fatto alleanza e, nel corso dei secoli, ha continuato ad accogliere l’attesa delle promesse; la Chiesa madre di tutte le chiese che è stata grembo di ogni evangelizzazione.

Questa lettera, come vi dicevo, parla un ottimo greco; se riusciremo a fare passi avanti ci accorgeremo che questa valutazione vale anche per la Lettera di Giuda e per la seconda Lettera di Pietro. Abbiamo a che fare con giudei che hanno accolto l’Evangelo, discepoli del Signore che sono depositari, nella piena maturità della loro esperienza di incontro con Gesù, del compimento delle promesse contenuto nell’Evangelo stesso: sono giudei che parlano un ottimo greco che è la lingua dei pagani. Il fatto è che noi non abbiamo più a che fare esattamente con Giacomo il Minore, fratello del Signore, martire nell’anno 62, ma abbiamo a che fare con un maestro che si inserisce nella tradizione giudeo-cristiana che fa appello alla figura di Giacomo come un patrono la cui autorità è indiscussa; e abbiamo a che fare con un testo che appartiene all’ultimo periodo del primo secolo d. C., dopo l’anno 80, quando ormai è evidente che l’evangelizzazione sta crescendo – in maniera molto vistosa ed entusiasmante – al di là di quello spazio che è segnato dall’identità propria di Israele, nel mondo dei pagani, nel contatto con i popoli, nella molteplicità delle culture che ormai sono attraversate da quest’onda che porta con sé la novità dell’evento che ha segnato la svolta decisiva nella storia umana: l’Evangelo. Verso la fine del primo secolo, intorno all’anno 80 d.C. C’è un maestro che è dotato di un’ottima cultura ellenistica, depositario di una tradizione che gli consente di raccogliere tutto l’insegnamento e soprattutto la metodologia didattica della tradizione ebraica e rabbinica; e si rivolge a cristiani di provenienza pagana, che comunque sono stati già catechizzati ed evangelizzati, passando attraverso il contatto giudeo-cristiano, che ormai hanno accolto in pieno il dono dell’Evangelo e se ne sono, per così dire, appropriati.


La perfetta letizia è nella fede messa alla prova

Cap. 1, vv.1-4. Una sequenza di brevi insegnamenti collegati tra di loro, come preannunciavo, mediante accorgimenti linguistici che apparentemente accarezzano il disordine dell’insieme; l’impressione è di disordine (dice una cosa, poi un’altra, poi un’altra. E’ un’impressione analoga a quella che ci proca la lettura del Libro dei Proverbi o del Siracide), ma in realtà c’è un filo conduttore ed è una tecnica didattica che favorisce la memorizzazione e vale come costante richiamo alla coerenza del vissuto. Non siamo alle prese con argomentazioni di natura teorica che dovrebbero convincere le menti di intellettuali; abbiamo a che fare con la testimonianza di un vissuto che usa il linguaggio della concretezza empirica, quella che coinvolge nella novità vissuta.

V. 1: “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute”. Il testo che leggiamo prende la forma di uno scritto epistolare, ma è semplicemente un’introduzione, non ci sarà neanche un congedo e lo scritto procederà secondo un’articolazione che non ha nulla a che fare con il messaggio epistolare nelle sue forme classiche. Giacomo o il maestro che si presenta sotto il nome di Giacomo, si qualifica come servo di Dio e del Signore Gesù Cristo. Il suo servizio gli conferisce una posizione onorifica nella storia del popolo di Dio quando ormai si sono compiute le promesse nella messianicità di Gesù. Gesù è il Messia, colui che ha portato a compimento tutte le promesse ed è il Signore, titolo che spetta proprio a Lui. Giacomo è al servizio di questa rivelazione di Dio mediante la signoria di Gesù, colui che ha portato a compimento le promesse. E si rivolge alle dodici tribù disperse nel mondo: un modo piuttosto originale di indicare i destinatari del suo messaggio. Certamente abbiamo a che fare con la missione dei discepoli del Signore che sono ormai alle prese con le strade che conducono verso le estreme periferie della terra, gli estremi confini, tutti i popoli, quella prospettiva ecumenica cui accennavo precedentemente; la missione al servizio dell’Evangelo che coinvolge i discepoli del Signore, ormai senza più limiti, preclusioni, pregiudizi. Ma per Giacomo questa missione al servizio dell’Evangelo in una prospettiva ecumenica si sovrappone a quel grande disegno già annunciato dai profeti, anticamente, riguardante la ricomposizione dell’unità di Israele: le dodici tribù. La storia del popolo di Dio nel corso dei secoli ha determinato la progressiva scomparsa delle tribù: una dopo l’altra, qualche volta in maniera catastrofica, massiccia, clamorosa, queste tribù sono state disperse nel mondo. Una tribù resiste per qualche tempo in maniera più precisa, con una configurazione più determinata: la tribù di Giuda; tribù di Levi per motivi funzionali, poi dispersa. Come identificare questi brani, brandelli, questi squarci del popolo disseminati nel mondo (la diaspora), come dice Giacomo, queste dodici tribù disperse nel mondo? E i profeti già in tanti testi dell’A.T. annunciano il ritrovamento delle dodici tribù, la ricomposizione del popolo nella sua unità: il popolo disperso e riconciliato, restituito alla sua identità originaria. Per Giacomo la missione al servizio dell’Evangelo in una prospettiva ecumenica, aperta ai popoli pagani senza più limiti, coincide con la ricomposizione dell’unità di Israele. Per Giacomo l’Evangelo, che è in atto come impulso operativo, e, nel tempo e nello spazio, coinvolge i popoli della terra, non segna la fine della storia di Israele ma la ricompone riportandola all’identità originaria. L’Evangelo non cancella Israele: realizza la vocazione di Israele che, nell’evangelizzazione che adesso coinvolge i popoli pagani, ritrova la propria fisionomia originaria; si ricompongono le dodici tribù disperse nel mondo. Questo è un modo di impostare le cose che è tipico di un giudeo che parla dei pagani. Forse ci avete fatto caso: un vero ebreo, anche se è una persona molto modesta, umile, discreta, affettuosa, è sempre qualcuno che sa di valere; non ha bisogno di dichiararlo, mostrarlo, dirlo, sostenerlo, pretenderlo: sa di valere e in questo suo valore gli altri non sono esclusi, sono valorizzati. La missione al servizio dell’Evangelo in quella prospettiva che ormai coinvolge la moltitudine dei popoli pagani, per Giacomo coincide con l’attestato di quella presenza di Israele insostituibile, ineliminabile, dotata di un suo prestigio che non ha bisogno di essere descritto o giustificato, perché in sé e per sé indiscutibile. L’Evangelo per i pagani non segna la fine di Israele, ma ne realizza la vocazione.

Vv. 2-4: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla”. Giacomo ha davanti a sé la vita dei discepoli del Signore, la vita cristiana, la nostra vita. La prima raccomandazione che ci rivolge, in maniera molto sobria ma anche oggettiva, riguarda la constatazione circa l’inevitabile impatto con le prove o tentazioni (è lo stesso termine), tutto quello che ha a che fare con l’esperienza del limite di ordine fisico, psichico, morale; limite di ordine sociale, relazionale. Con un’espressione così semplice, ma anche così lapidaria, siamo rimandati alla concretezza del nostro vissuto. E dice che la vita cristiana si costruisce nelle prove. Non ci aspettavamo che la Lettera di Giacomo si aprisse con la “perfetta letizia”, un’espressione che per noi sta bene solo nei Fioretti di San Francesco; e invece stava già scritta nella Lettera di Giacomo, guarda caso… La lettera parla di una gioia totale, proprio attraverso l’esperienza dei limiti che in modi diversi mettono alla prova la fede. Non c’è da stupirsi, anzi c’è da trovare, in questo, motivo per rallegrarsi sempre e dappertutto. Su queste poche battute subito potremmo rievocare, nella storia della salvezza, le prove attraverso cui è passato il popolo di Israele nel corso delle sue peripezie, dei suoi viaggi, in particolare la grande traversata del deserto. Notate ancora il clima di fraternità che imposta fin dall’inizio con molta discrezione, ma anche con molto affetto. “Considerate perfetta letizia, miei fratelli” (miei fratelli. E’ un giudeo che parla a dei pagani) perché siamo alle prese con limiti che ci contengono, barriere contro le quali urtiamo, ostacoli che ci mettono in difficoltà. Non c’è dubbio, ma la strada della nostra vita passa di là e passa di là gioiosamente. E’ proprio in virtù di questa prova continua, di questa contestazione a cui siamo esposti in molteplici modi, in virtù di questo impatto con “le prove”, che nella nostra vita e, più esattamente, nella nostra fede, prende forma quella resistenza che diventa poi la capacità valida ed efficace di portare ad integrare la nostra vocazione alla vita. “E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri”; per imparare a vivere in pienezza: la nostra vita cristiana non si realizza perché portiamo un distintivo all’occhiello o indossiamo una maglietta con qualche immagine sacra o siamo iscritti in un registro parrocchiale; la nostra vita cristiana si realizza in quanto è la nostra vocazione alla vita in pienezza che si realizza, aprendosi a quella molteplicità e a quella totalità di relazioni nelle quali si sostanzia la vita stessa. Siamo chiamati a vivere in maniera integra e perfetta “senza mancare di nulla”: siamo messi alla prova nella fede. E la fede sta dalla parte di coloro che sperimentano i propri limiti; noi, dalla parte di coloro che urtano contro l’ostacolo, che hanno a che fare con la barriera che stringe, provoca contraddizioni, contestazioni. L’ha già detto ed è un programma che si porterà dietro per tutta la lettera: gioia totale. Giacomo non ci sta imbrogliando, non ci sta incantando: come prima sua proposta mette a nudo i dati oggettivi della nostra fatica di vivere nella fede; e la fede sta dalla parte della nostra debolezza là dove le prove ci mettono in discussione per imparare a vivere in pienezza.


La Sapienza è dono di Dio a chi la chiede: genera sicurezza

Vv. 5-8: “Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente (senza doppiezza) e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento; e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni (in tutte le sue vie; questo è un linguaggio tipicamente biblico: l’uomo è itinerante, è sulla strada, cammina. In tutte le sue vie l’uomo che ha l’animo oscillante e instabile non è sintonizzato con quello che il Signore ha voluto donargli. Ma che cosa sta dicendo esattamente? Parte da quella formulazione ipotetica contenuta nel v. 5: “Se qualcuno di voi manca di sapienza”, che concludeva la sentenza precedente. Noi siamo chiamati alla vita in maniera che tutte le relazioni siano strutturate in maniera tale da aprirci alla realtà del mondo in quella pienezza di comunione che ci introduce nel mistero di Dio: di là proviene la vita. Ma “se qualcuno manca di sapienza”, se qualcuno manca proprio della consapevolezza di una vocazione alla vita, Giacomo non dice “si metta a studiare o faccia penitenza”; niente di tutto questo. Dice: “la chieda a Dio che dona a tutti senza doppiezza e senza rinfacciare”. Qui c’è di mezzo l’esperienza vissuta di un’immersione nel regime della gratuità. E questo domandare a Dio è esercizio supremo, è l’esercizio più qualificato della libertà umana laddove c’è di mezzo la presa di coscienza della propria debolezza, della propria fragilità, piccolezza, inconsistenza. E’ in questione nientemeno che la vocazione alla vita. “Domandi a Dio”; e aggiunge subito “la domandi però con fede, senza esitare”, dove la fede sta lì a dimostrare esattamente come la nostra debolezza umana, sottoposta alle prove che ci costringono, ci contengono, ci mettono in discussione, ci tolgono il fiato – ecco la fede, sta lì – e non pone condizioni, ma fa sì che noi ci immergiamo nel regime della gratuità. E Giacomo ci esorta: “domandi però con fede, senza esitare” (senza porre condizioni); questa esitazione l’intendo nel senso di atteggiamento provocatorio, sfidante; l’atteggiamento di chi pone le condizioni. E in questo domandare con fede c’è tutta la debolezza della nostra realtà umana messa alla prova. Ma è lì che si esercita la libertà, è lì che la nostra vocazione alla vita viene finalmente riportata alla pienezza originaria, perché siamo in grado di immergerci nella relazione con il mistero della gratuità di Dio. “Domandi però con fede (senza porre condizioni) perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento (usa immagini molto plastiche)”. Se non si procede portati da quella libertà della fede che manifesta tutta la nostra debolezza di creature messe alla prova, si resta fluttuanti e dispersivi come l’onda del mare mossa e agitata dal vento; e, quindi, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue vie”. E’ illusorio pensare di venire a capo di questa nostra fatica, dove ci dimeniamo alle prese con tante prove, con tante contraddizioni, con tante situazioni che dimostrano i nostri limiti, in virtù del nostro protagonismo umano, ponendo noi le condizioni e imponendo noi i criteri in base ai quali interpretare e gestire l’insieme dei problemi. Questo presunto protagonismo umano è sempre massimamente instabile e inaffidabile; “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile (che ha un animo duplice) in tutte le sue vie”. E’ proprio là dove siamo messi alla prova che la nostra fede è liberante; e la nostra vocazione alla vita è allora che finalmente è messa a nostra disposizione nella relazione con il Dio vivente.


Beati i piccoli

Vv. 9-11. Giacomo fa un richiamo a situazioni molto pratiche perché si vengono delineando dei percorsi di vita: “Il fratello di umili condizioni (il piccolo) si rallegri (si vanti) della sua elevazione e il ricco della sua umiliazione (del suo rimpicciolimento)…”; percorsi di vita che sono effetto prodotto dall’evangelizzazione che interpella, che converte. E allora il piccolo è fiero in quanto viene innalzato e il ricco è fiero nell’essere rimpicciolito, nella sua umiliazione. E’ l’Evangelo che fa di quella piccolezza un motivo di fierezza, e di quella ricchezza un’occasione propizia per rimpicciolirsi. “…perché passerà come fiore d'erba. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese”. Il percorso che qui viene delineato a riguardo del ricco ci descrive un fenomeno di rimpicciolimento che si svolge al sorgere del sole ed è al sorgere del sole che appare un’altra bellezza, mentre c’è quella bellezza che svanisce, si rinsecchisce, viene meno. Tutto questo avviene nel contesto di relazioni fraterne perché il fratello piccolo e il ricco sono coinvolti in una vicenda che, nella diversità delle posizioni empiriche, li accomuna all’interno di un circuito di comunione che diventa circuito di rivelazione rispetto a quell’iniziativa di Dio che conferisce a coloro che sperimentano il proprio limite l’occasione propizia per immergersi nella sconfinata gratuità dell’amore di Dio. Questo vale per il povero e per il ricco non in quanto sono collocati in vetrina, ma in quanto sono itineranti all’interno di un percorso che li espone all’impatto con i limiti, di prova in prova. Ed è là che l’Evangelo fa di loro dei credenti coinvolti in quella novità assoluta per cui la gratuita iniziativa di Dio converte la loro vita nel senso che riporta (convertire è ritornare) la loro vita alla pienezza perché questa è la prospettiva: la pienezza della vocazione alla vita.


Chi supera la prova avrà la vita

V. 12: “Beato l'uomo (una beatitudine) che sopporta la tentazione (che sostiene la prova; una resistenza che, di prova in prova, conduce alla pienezza della vita) perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano”. C’è di mezzo il combattimento che dura tutta una vita, ma la prospettiva è proprio quella di conseguire la corona, cioè di raggiungere la pienezza della vocazione alla vita per la quale siamo stati convocati gratuitamente dall’inizio e per la quale siamo adesso in grado di procedere passo passo nel nostro cammino in maniera efficace perché Gesù Cristo è il Signore; Gesù Messia di Israele è il Signore della vita. E’ proprio lungo questo percorso che la nostra vita umana (dice nel v. 12) viene finalmente rieducata alla scuola di quella gratuità che è l’amore di Dio: quella pienezza della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. Questa espressione ritorna più volte nell’A.T.; è spesso equivalente a “quelli che lo temono” anche se le nostre orecchie avvertono uno stridore; ma quelli che lo temono sono le stesse figure nell’A.T., ma anche nel Cantico della Madonna, il Magnificat: “la misericordia del Signore è per quelli che lo temono, per quelli che lo amano”.


Il peccato produce la morte

V. 13-15 . Il nostro maestro ci aiuta a precisare meglio come funziona quel discernimento che viene attivato nella prova; è un discernimento che ci mette in discussione e ci coinvolge in un travaglio che è fecondo per maturare fino alla pienezza della vita, nella prova affrontata con fede; e la fede sta dalla parte della nostra debolezza. E’ importante, ne riparleremo a suo tempo. V. 13: “Nessuno, quando è tentato (adesso ferma l’attenzione sull’esperienza dell’impatto con la prova; e in questo impatto emerge tutto ciò che c’è di negativo), dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato (in maniera estremamente schematica rievoca l’esperienza di quella disfunzione strutturale che ci portiamo dietro e che, nella prova, viene messa in evidenza) dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte”. Una sequenza: concupiscenza, peccato, morte; la fenomenologia di un risucchio interno alla nostra struttura antropologica per cui siamo preda di questo vortice infernale; c’è di mezzo l’allusione a qualcuno che compie un’incursione dall’esterno, una qualche pressione demoniaca. Quando qualcuno è tentato si renda conto che è messo alla prova dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce (c’è uno spiraglio che allude a qualche interferenza che viene dall’esterno); poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato e il peccato, quando è consumato, produce la morte.


Tutto è dono gratuito di Dio

V. 16-18. Attenzione però: questa è l’esperienza del negativo che nella prova emerge, ma c’è il positivo che appare nella prova. V. 16: “Non andate fuori strada fratelli (c’è sempre questo richiamo affettuoso e accorato) carissimi; ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento. Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature”. Nella prova noi siamo investiti da questa rivelazione dell’iniziativa di Dio che gratuitamente si riversa su di noi: “…ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto”. In primo luogo un richiamo alla gratuità di tutto quello che appartiene all’ordine della creazione: il Padre della luce; tutta la creazione è nella luce; è articolata, costruita, valorizzata nella gratuità dell’iniziativa primigenia di Dio. Tutto è regalato. E, nella prova, il positivo ci coinvolge in maniera sempre più imponente, travolgente, poderosa; nella prova, sperimentiamo di essere incapaci di gestire, di governare, di dominare, di imporre la nostra condizione creaturale, la nostra radicale appartenenza ad un’altra iniziativa che gratuitamente ci precede, ci coinvolge e continua a manifestarsi a noi con una moltitudine incalcolabile di doni: “…ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce”. La paternità di Dio è prerogativa del Creatore “nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento”: una positività originaria che è rivelazione per noi di quell’inesauribile gratuità di amore che è la vita intima, segreta, nascosta, dall’eternità, nel grembo di Dio. E Giacomo passa dalla creazione e tutti i doni a quel dono per eccellenza che è l’Evangelo che lui chiama “parola di verità”: “Di sua volontà egli ci ha generati”. E’ lo stesso verbo che nel v. 15 era tradotto con “produrre”: “Il peccato produce la morte”; adesso “egli ci ha generato”. C’è una fecondità negativa nella storia del peccato; e qui, vedete, c’è la fecondità inesauribilmente positiva della parola creatrice di Dio che è giunta a noi attraverso l’Evangelo, che Giacomo chiama “parola di verità”. “Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature”. Siamo alle prese con un travaglio generativo, certo, ma è un travaglio che fa di noi le primizie di una nuova creazione.


Ascoltate senza rabbia, ma con docilità, la Parola

Vv. 19-25. Insiste nel v. 19: “Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira”. Accennavo alla “parola di verità” e, ancor prima, alla “parola creatrice di Dio” che è “Padre della luce”. “La luce fu”, Dio disse. Giacomo ricapitola questo itinerario di conversione per ritornare alla pienezza della vita in virtù dell’Evangelo che ci ha raggiunti, che ci ha coinvolti e che abbiamo accolto come un’esperienza di ascolto. “Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira”. C’è un particolare interessante, perché il negativo dell’ascolto per noi è la sordità; invece per lui il negativo dell’ascolto è l’ira, meglio tradotto con la rabbia. Quell’ascolto che prospetta si definisce in contrapposizione alla rabbia e la rabbia è anche un altro modo di ascoltare, da ribelli. Sta andando a fondo nella questione. Come mai quell’ascolto non produce l’effetto desiderato in quel cammino di conversione che ci ha indicato come il frutto dell’Evangelo? Perché è un ascolto rabbioso, ribelle. E insiste: “Perché l'ira dell'uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime”. Parla di impurità; alla lettera parla proprio di sporcizia. C’è di mezzo una questione di sporcizia che impedisce l’accoglienza del seme, della Parola che salva, impedisce l’ascolto. E quell’ascolto rabbioso in realtà è un ascolto illusorio: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi”. Un ascolto illusorio è l’ascolto di chi, in realtà, si specchia in se stesso. “Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era”. E’ un ascolto illusorio con aspetti evanescenti e una dimenticanza così naturale, scontata, spontanea; quasi quasi una necessaria dimenticanza che cancella l’immagine. Può anche darsi che questo modo di dimenticare si trasformi poi in un rimpianto rispetto a quell’immagine che è comunque perduta, evanescente, inapplicabile. Un ascolto che accoglie la Parola nel senso che diventa operativa, produttiva, generativa, costruttiva, creativa. E, invece, l’ascolto illusorio di chi è abituato a specchiarsi in se stesso dopo essersi guardato per un po’; magari compiaciuto, magari anche dispiaciuto, ma se ne va e non ci pensa più. Questo capita spesso anche a noi. E noi siamo pagani sempre bisognosi di essere ri-evangelizzati. Il nostro ascolto spesso serve proprio a questo: guardarsi allo specchio, magari disperarsi ma ci fermiamo lì: questo ascolto è illusorio con effetti evanescenti. “Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era”. V. 25: “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta (questa “legge perfetta” è lo stesso che la legge della verità, la Parola della verità; un’altra espressione per dire quello che noi chiamiamo Evangelo. La situazione sta prendendo tutto un altro equilibrio dal momento che l’Evangelo intercetta il nostro sguardo; se, invece di guardare allo specchio il nostro volto, siamo alle prese con l’Evangelo l’ascolto diventa operativo), la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”. Beato l’uomo che messo alle strette nel rapporto con l’Evangelo non si costruisce il suo cammino in termini illusori, ma diventa veramente quella creatura nuova che, di prova in prova, nella piccolezza del suo vissuto, nella concretezza delle situazioni che lo mettono alle strette, accoglie quella corrente di gratuità che è la potenza infinita dell’amore di Dio. Beato quell’uomo. Poche righe per sbaragliare tutte le presunzioni di definire la realtà cristiana, il mondo cristiano, la coscienza cristiana, l’identità cristiana, la vita cristiana in base a teorie, a prese di posizioni astratte; fenomeni che già evidentemente registra come invadenti e inquietanti nel mondo pagano che accoglie l’Evangelo, ma c’è una fatica e Giacomo ci vuole aiutare nella fatica: “fratelli miei carissimi”.


La devozione senza le opere è ingannevole

Vv. 26-27. “Se qualcuno pensa di essere religioso (devoto), ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione (devozione) è vana”. C’è un inganno che sta nel cuore e si trasmette nell’uso del linguaggio che poi implica tutta l’articolazione dei comportamenti operativi. “Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo”. Una vita che si spende nell’atto di visitare la debolezza altrui. “Visitare”: un verbo di un’importanza pregnante nel Nuovo e Antico Testamento. Tutta la missione della Chiesa è una missione della “visita”, episcopale; l’epìscopos è il visitatore. La Chiesa porta a compimento la sua missione nel mondo in quanto è “visitatrice”, di visita in visita. E’ la “visita” mediante la quale Dio stesso si è reso presente nella storia umana e ha portato a compimento le sue promesse; il Figlio è l’epìscopos, il vescovo. Ed ecco la missione affidata ai discepoli del Signore, l’evangelizzazione che prosegue. Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo. Questa è la via della purificazione rispetto a tutte quelle manifestazioni di sporcizia che tendono a chiuderci dentro a immagini astratte, artificiali e illusorie nella nostra vita cristiana ancora bisognosa di evangelizzazione.






1 Gli incontri con P. Pino Stancari S.J. si svolgono nel primo martedì di ogni mese presso la sala biblioteca della Parrocchia di San Romano (l’ingresso si trova su Via Cave di Pietralata 81) che gentilmente il parroco, don Marco Fibbi, ci ha messo a disposizione.

Il prossimo incontro, che prosegue il ciclo 2014-2015, si terrà il 2 dicembre dalle 19 alle 20.30

Il testo e il file audio della lectio – ricavato da registratore audio digitale – sono disponibili sul sito Internet dell’Associazione “Maurizio Polverari” all’indirizzo:

http://www.incontripioparisi.it/lectiodivina/2014-15_Lettera_di_Giacomo/giacomo1.php

Lectio divina


Incontri 2014-2015 - Lettere cattoliche


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