6 maggio 2014
Settimo (e ultimo) incontro del ciclo 2013-2014
Stasera concluderemo la lettura del Libro di Giuditta che ci ha impegnato nel corso di quest’anno. Abbiamo a che fare con le battute conclusive di questo scritto dal v. 14 del cap. 15 fino alla fine del cap. 16.
Questa grande parabola ci ha mostrato come lo svolgimento della storia umana si illumina in rapporto al protagonismo di Dio: è Lui vittorioso mediante l’innocenza della creatura credente, Giuditta.
La fede è stata messa alla prova. È la novità per eccellenza nella storia degli uomini. L’innocenza della fede dotata di una bellezza particolarmente affascinante, misteriosa più che mai, ma commovente, entusiasmante; la fede, splendida nella bellezza come essa appare, realizza nella storia umana quella testimonianza che celebra la vittoria di Dio perché è Lui il protagonista, il Dio vivente.
L’avversario è sconfitto ed è rappresentato da quella presunzione idolatrica che affligge il cuore umano, lo stringe, lo stritola, lo irrigidisce in una condizione di estrema intransigenza; l’idolatria è l’iniziativa degli uomini che vuole affermarsi come dominatrice del mondo e della storia. E tutto in obbedienza al valore assoluto che è attribuito al potere esercitato dagli uomini: l’idolatria del potere che è stata decapitata, sconfitta, sbugiardata.
Nella pagina che leggevamo un mese fa, dopo che Oloferne è stato decapitato e Giuditta mostra quel capo nel momento in cui evangelizza la novità, annuncia l’evento che segna la svolta determinante nella storia umana, in un contesto liturgico che il racconto ha valorizzato con molte sottolineature. Tutto l’esercito di Oloferne è in rotta: ha perso il capo. È l’idolatria del potere che è sbugiardata e nella sua menzogna diventa causa di un crollo irreparabile: è la storia fatta dagli uomini che precipita su se stessa, in se stessa, risucchiata in un vortice infernale che la disintegra. Nello stesso tempo – lo abbiamo ricordato il mese scorso – il saccheggio è in atto, non solo alla maniera dei vincitori che approfittano dei beni ricavati dalla rotta altrui, ma il saccheggio come testimonianza di quanto la storia umana accumula nel suo svolgimento che è positivo e lo rimane poiché tutto viene recuperato; mentre si disintegra la storia fatta dagli uomini all’insegna dell’idolatria del potere, la storia stessa viene integralmente recuperata in riferimento alla vittoria che spetta all’innocenza della fede che celebra il protagonismo di Dio.
Siamo ancora alle prese con questo saccheggio giunto a compimento (nel cap. 15) e lo sviluppo ultimo di quell’impresa raccoglie un immenso materiale, depositato nell’accampamento degli assiri; tutto quello che era depositato nella tenda di Oloferne viene consegnato a Giuditta come testimonianza della devozione e della gratitudine da parte del popolo e delle supreme autorità di Gerusalemme, del sommo sacerdote.
Leggevamo che:
“Intanto si radunarono tutte le donne d'Israele per vederla (Giuditta) e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo onore”.
Qui concludevamo la lettura un mese fa: una danza corale, partecipata da tutte le donne, guidata dalla stessa Giuditta. E’ lei stessa che si afferma adesso come colei che governa lo svolgimento di questa danza. Da notare la continuità con il saccheggio che assume l’andatura, la fisionomia, il ritmo di questa danza:
“Essa prese in mano dei tirsi e li distribuì alle donne che erano con lei. Insieme con esse si incoronò di fronde di ulivo: precedette tutto il popolo, guidando la danza di tutte le donne, mentre ogni Israelita seguiva in armi portando corone; risuonavano inni sulle loro labbra”.
Viene data voce a questo canto, partecipato coralmente da tutti coloro che sono presenti al corteo e che danzano, ed è Giuditta che intona il canto: è il cantico di Giuditta, uno dei grandi canti antico-testamentari, dall’inizio del cap. 16, fino al v. 17. La voce di coloro che partecipano al canto di Giuditta coglie e commenta il ritmo della danza che già abbiamo contemplato. E’ un’immagine che torna in altre occasioni nella storia della salvezza: il caso classico è quello costituito da Davide che guida il corteo danzante di quanti accompagnano l’arca santa che viene trasferita da Kiriat-Iearim fino a Gerusalemme, nel secondo Libro di Samuele, cap. 6, o nel secondo Libro delle Cronache e nel primo Libro delle Cronache, cap. 16. Proprio in questo libro è Davide che insegna alla sua gente qual è il ritmo che sostiene dall’interno lo svolgimento della storia umana, laddove la danza di Davide e di tutti coloro che sono con lui è scandita dal versetto che conosciamo bene perché ricorre nel Salterio a più riprese:
“Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia”.
Nel Salterio da un certo momento in poi acquista un rilievo molto significativo. E poi il Salmo 136 dove ogni versetto è scandito puntualmente dal ritornello:
“perché eterna è la sua misericordia”:
è il ritmo che viene indicato con la testimonianza empirica, pratica, operativa di quella danza che rimane come indicazione orientativa, criterio ermeneutico per il popolo di Dio nel corso della storia, fino a quando, dopo aver recitato l’inno, Gesù si trasferisce dal cenacolo nel Getsemani ed entra nella Passione. Quell’inno del quale si parla nei vangeli secondo Matteo e secondo Marco è esattamente il grande hallel (alleluia) perché è così che si conclude il banchetto pasquale. La caduta, là dove si precipita nel vuoto e si sprofonda in un abisso, si evolve, si trasforma e si rende comprensibile come un salto, un’acrobazia, come un’espressione di armonia sempre più mirabile, affascinante; tutto viene sintetizzato e proiettato su altri orizzonti sempre più ampi, nella rivelazione di un’armonia che ci lascia incantati. È la storia umana, nella quale l’eterna misericordia di Dio si rivela come potenza, che trasforma la caduta, l’abbassamento, lo sprofondamento, la sconfitta, il disastro, la catastrofe in una rivelazione gloriosa di bellezza che porta in sé la conferma relativa alla parola creatrice di Dio che, dall’inizio, ha conferito alle creature una bellezza intramontabile; una bellezza a cui lui, Creatore, non ha rinunciato, non vuole rinunciare, non rinuncerà mai. La storia umana è dunque tutta da interpretare al ritmo di questa danza; ci sono padri della Chiesa che definiscono proprio Lui, Gesù, il Figlio che è disceso e risalito, che ha compiuto il passo di danza per eccellenza. Lui, il danzatore cosmico, colui che ha compiuto il salto e in quel passo di danza, quel salto acrobatico, quella Pasqua redentiva di morte e resurrezione ha instaurato nella storia umana quella novità che oramai rimane come indiscutibile, ineccepibile criterio interpretativo del passato e del futuro, di ogni realtà visibile e di tutte le componenti invisibili della scena. La storia della salvezza va in questa direzione: la Pasqua del Signore, il suo salto, il suo passo di danza: ha toccato il fondo dell’abisso, è risalito e “eterna è la misericordia” di Dio; e la storia umana è tutta raccolta, ricapitolata, presa in braccio nel corso di questo suo itinerario danzante di discesa e di risalita, di morte e di risurrezione.
Ora Giuditta sta guidando la danza a cui partecipa tutto il popolo verso Gerusalemme con il canto che commenta il ritmo della danza. Questo è il segnale che val la pena di porre all’inizio della nostra lettura perché una volta che avremo completato il passaggio attraverso i versetti del cantico, ritorneremo esattamente a questo segnale che indicavo come criterio interpretativo che orienta la nostra ricerca perché “eterna è la misericordia di Dio”, vittoriosa è la misericordia di Dio. Là dove la storia fatta dagli uomini precipita nell’abisso dell’idolatria, ecco che il Dio vivente ha dimostrato la sua gloria e l’innocenza della fede fa dell’umanità in cammino un popolo di danzatori.
“E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”»; ricordate il Salmo 87: Gerusalemme.
“Allora Giuditta intonò questo canto di riconoscenza
(traduce così la Bibbia. La parola greca dice “un canto di confessione”, ma in italiano suona male anche perché si intende confessione del peccato, ma il termine usato qui in greco traduce quello che in ebraico serve ad indicare l’atto di presentarsi, di porgersi, di consegnarsi, di esserci nella situazione e nella relazione con tutto il proprio vissuto dove, allora, non c’è solo la confessione di peccato, ma c’è la confessione di fede, confessione di lode che serve a ricapitolare tutto il complesso di eventi che danno forma al vissuto umano in una prospettiva di gratitudine, dove la vita è riconsegnata, restituita come atto che è in grado di celebrare la vittoria di Dio, la gloria del protagonista)
in mezzo a tutto Israele e tutto il popolo accompagnava a gran voce questa lode”.
Invito alla lode di ringraziamento a Dio, che fa guerra alla guerra
Cap. 16, vv. 1-2.
“Giuditta disse …”.
Il cantico si sviluppa in due elementi come due pannelli di un dittico. Dal v. 1 al v. 12 il primo pannello: si celebra il protagonismo di Dio nel contesto di uno svolgimento di eventi storici. Nel secondo pannello, dal v. 13 al v. 17, il cantico celebra la grandezza di Dio che è il sovrano dell’universo: uno svolgimento di ordine cosmico. Nel primo pannello c’è una introduzione, nei vv. 1-2, e poi il corpo del canto di lode come solitamente si dice tenendo conto del fatto che è un inno di lode, nella letteratura biblica, ma non solo in essa. Si compone di due elementi fondamentali: l’invitatorio e il corpo dell’inno che contiene le motivazioni. L’invitatorio può essere formulato in maniera più o meno ampia; normalmente sono presenti verbi all’imperativo (lodate, ringraziate, celebrate, benedite). Il corpo dell’inno o canto di lode: lodate perché è successo qualcosa, un fatto particolare o situazioni universali. I canti di lode possono assumere configurazioni quanto mai varie a seconda dei contesti, dei vissuti, dell’urgenza che provoca quel motivo di ringraziamento, di celebrazione, di festeggiamento. Il prefazio è costruito così.
Vv. 1-2. È un invitatorio formulato in modo tale che in sé già è un piccolo inno a suo modo completo:
“«Lodate il mio Dio con i timpani,
cantate al Signore con cembali,
elevate a lui l'accordo del salmo e della lode;
esaltate e invocate il suo nome.
Poiché il Signore (pur essendo ancora nel contesto dell’invitatorio, ma già si allude allo sviluppo dell’inno nel senso che si passa a precisare qual è il motivo)
è il Dio che stronca le guerre;egli mi ha riportata nel suo accampamento in mezzo al suo popolo,
mi ha salvata dalle mani dei miei persecutori”.
È l’invitatorio che nei versetti seguenti trova quel riscontro motivazionale, esplicativo a cui accennavo, ma con una formulazione con la quale Giuditta, già in questi due versetti, ci comunica l’essenziale della sua testimonianza. C’è di mezzo il riferimento al nome del Signore “mio Dio”: lodate il mio Dio, cantate al Signore, il Signore è il mio Dio. E’ dotato di un nome in quanto è protagonista di una relazione: il nome è un principio di relazionamento; il nome del Signore, la sua volontà di relazionarsi con noi, è la sua rivelazione mirata ad instaurare un rapporto personale. E Giuditta è entrata, aderisce a questa relazione. Motivo fondamentale di questa sua risposta al mistero di Dio che si è rivelato in maniera diretta, personalissima, affettuosissima, è la fine della guerra,
“Poiché il Signore è il Dio che stronca le guerre”.
E’ colui che fa guerra alla guerra. È il “tropario” di Pasqua nella tradizione bizantina: “Cristo è risorto dai morti, calpestando con la sua morte la Morte”: colui che fa guerra alla guerra.
“È Lui che in questo modo mi ha riportata all’accampamento”;
è colui che custodisce l’accampamento laddove si raccoglie il suo popolo; questo accampamento è un’immagine plastica che serve a rievocare la presenza del popolo dei credenti nella storia umana e, quindi, in prospettiva è tutta la storia umana che viene ricomposta come l’ambiente nel quale Lui esercita e realizza la sua opera di salvezza.
…“mi ha salvata dalle mani dei miei persecutori”,
“mi ha riportata alla sorgente della vita”.
C’è di mezzo l’umanità intera ricondotta al giardino della vita da cui si era allontanata. Dio fa guerra alla guerra.
Il Signore manda in frantumi gli invasori
Vv. 3-5. Adesso Giuditta spiega in maniera più precisa e puntuale, dal v. 3 al v. 12; rievoca i fatti che conosciamo, ma li sintetizza nelle tappe fondamentali; una vicenda storica che diventa a sua volta criterio interpretativo della storia umana in tutto il suo completo svolgimento. Tre strofe per arrivare al v. 12. Nella prima strofa, dal v. 3 al v. 5, Giuditta rievoca l’avanzata tumultuosa, prepotente dell’esercito assiro; Oloferne con l’immensa orda di armati che, inviati da Nabucodònosor, invadono l’occidente:
“Calò Assur dai monti, giù da settentrione
(in molti testi dell’Antico Testamento, soprattutto nell’ambito della predicazione profetica il Nord è l’emblema del negativo anche perché il Nord è buio, freddo; è la minaccia per antonomasia),
calò con le torme dei suoi armati,
il suo numero ostruì i torrenti,
i suoi cavalli coprirono i colli.
Affermò di bruciare il mio paese,
di stroncare i miei giovani con la spada,
di schiacciare al suolo i miei lattanti,
di prender come preda i miei fanciulli,
di rapire le mie vergini.
Il Signore onnipotente li ha rintuzzati
per mano di donna!”.
Notiamo una serie di verbi che danno vitalità, urgenza, commento, sonorità a questa avanzata dirompente, a questa calata degli invasori dal nord, ad un’irruzione travolgente: ed ecco che il Signore ha disposto l’argine che manda in frantumi l’impresa di Assur.
Prima strofa:
“Il Signore onnipotente li ha rintuzzati per mano di donna!”.
La bellezza della fede di Giuditta vince il nemico
Vv. 6-9. Seconda strofa: adesso è proprio su questa battuta conclusiva che Giuditta concentra la sua attenzione e ci descrive come la mano di quella donna (lei stessa) è intervenuta e ha operato in maniera tale da rendersi testimone limpidissima dell’onnipotenza del Signore.
“Poiché non cadde il loro capo contro giovani forti,né figli di titani lo percossero,né alti giganti l'oppressero,ma Giuditta figlia di Merari,con la bellezza del suo volto lo fiaccò”.
Le cose non andarono come si sarebbe potuto immaginare: un esercito più forte, un generale più imponente, minaccioso ed esperto nella conduzione della strategia militare di Oloferne, ma non è così.
“Giuditta figlia di Merari,con la bellezza del suo volto lo fiaccò”.
La bellezza di Giuditta ha esercitato una forza e manifestato una potenza travolgente. Insiste Giuditta mirando a segnalare come la vittoria spetti alla bellezza: è la bellezza che ha ingannato, che ha sedotto? E’ l’innocenza della fede che rende testimonianza alla vittoria di Dio sull’idolatria del potere di cui gli uomini sono prigionieri. E in questo modo la sconfitta dell’illusione del potere è la liberazione; è l’evento decisivo da cui dipende il ribaltamento della prospettiva che ci consente di spiegare il senso della storia umana non per la condanna in un abisso di morte, ma per la liberazione in vista di un ritorno di una conversione alla vita.
“Essa depose la veste di vedova per sollievo degli afflitti in Israele, si unse con aroma il volto (importantissimo il volto, come notavamo leggendo le pagine precedenti)
cinse del diadema i capelli,indossò una veste di lino per sedurlo.I suoi sandali rapirono i suoi occhi
la sua bellezza avvinse il suo cuore e la scimitarra gli troncò il collo”.
Dopo che siamo stati invitati ad osservare gesti semplici, pacati, delicati, tipicamente femminili nel momento in cui Giuditta si sta preparando all’incontro con Oloferne, ecco il gesto risolutivo che tronca il collo del capo. Proprio nel v. 9, quando si giunge alla decapitazione del generale nemico, è il serpente schiacciato, è il serpente sconfitto. E, nello stesso versetto, la scena dei sandali; lo faccio notare perché il fascino seduttivo di questa creatura che ha come sua forza, nell’atto di presentarsi, l’innocenza della fede, passa attraverso quei passi di danza che diventano motivo di interesse, studio, contemplazione da parte di chi osserva come si muovono i sandali. C’è una certa attenzione ai sandali della danzatrice anche nel Cantico dei Cantici (cap. 7, v.2); “come sono belli i piedi” dice invece la profezia di Isaia. I sandali di Giuditta hanno rapito l’occhio di lui, la sua bellezza ha vinto il suo cuore, la scimitarra gli tronca il collo.
La rotta dell’esercito assiro
Vv. 10-12. Terza strofa:
“I Persiani rabbrividirono (una rotta travolgente, incontenibile) per il suo coraggio,
per la sua forza raccapricciarono i Medi. Allora i miei poveri alzarono il grido di guerra
e quelli si spaventarono
(i miei piccoli. L’esercito invasore arretra nello sgomento: in realtà lo sgomento è determinato dal fatto che è intervenuta Giuditta; lo spavento è provocato dal fatto che “i miei piccoli avanzano”);
i miei deboli alzarono il grido e quelli furono sconvolti
(Giuditta si porta dietro adesso questa moltitudine di piccoli e poveri che inseguono l’esercito assiro. E’ una partecipazione globale, completa, unitaria, di tutti quelli che appartengono al popolo di Dio in quanto sono “piccoli, deboli e poveri”. Ed è questa avanzata che riduce all’impotenza l’esercito poderoso di Oloferne. Possono solo spaventarsi e precipitare in una rotta travolgente);
gettarono alte grida e quelli volsero in fuga. Come figli di donnicciuole li trafissero,
li trapassarono come disertori, perirono sotto le schiere del mio Signore”.
(C’è qualche problema di traduzione sul quale non mi soffermo).
Povera gente ha travolto l’esercito immenso e feroce di Oloferne. E’ l’evento di cui è stata testimone Giuditta che fa di lei l’avanguardia di questo movimento che coinvolge una moltitudine di povera gente; e, in prospettiva, è la storia umana che viene ricapitolata come la storia di creature che sono rieducate nell’esperienza della povertà, nell’esperienza della fede e di quella bellezza che sfolgora ormai come conversione alla Parola originaria del Dio vivente.
Dio protagonista del cosmo
Vv. 13-17. Secondo pannello del cantico. Giuditta sta danzando e il ritmo di quella danza (lo ricordavo inizialmente) è “perché eterna è la misericordia del Signore”. La storia umana non è abbandonata ai padroni di turno che si succedono, si sconfiggono tra di loro, si sovrappongono l’uno all’altro per dimostrare che hanno finalmente conseguito l’affermazione di un potere universale e incontrastabile. Non è così “perché eterna è la misericordia del Signore”. Giuditta e un’onda crescente di povera gente, che si presenta sulla scena del mondo, sconfigge la presenza dell’invasore.
Abbiamo a che fare ancora con un versetto introduttivo, equivalente a un invitatorio, che già nella sua piccolissima consistenza letteraria è un minuscolo inno e poi (dal v. 14 al v. 17) c’è uno svolgimento che ci pone dinanzi al protagonismo di Dio nel cosmo, nell’universo, nella creazione.
“Innalzerò al mio Dio un canto nuovo:
Signore, grande sei tu e glorioso,
mirabile nella tua potenza e invincibile (notate che dove leggiamo “Signore, grande sei tu e glorioso”, intendiamo “Signore perché tu sei grande”.
Questa affermazione è presente anche nel Cantico della Madonna, il Magnificat:
“Tu sei grande”.
“Innalzerò al mio Dio un canto nuovo”:
è una dichiarazione introduttiva; è un auto-invito che ridonda in direzione di tutti quelli che partecipano al corteo, perché Dio è grande, glorioso, mirabile nella sua potenza; perché Dio è invincibile. Giuditta vuole celebrare quell’inesauribile novità che è sempre più originale di quanto mai possiamo avere acquisito, determinato, riconosciuto, contemplato, ammirato; c’è sempre una novità ulteriore per quanto concerne la Sua grandezza sconfinata, inesauribile, superiore ad ogni misura: è la grandezza di Colui che domina tutto e tutti; è l’universo, la totalità delle creature, degli eventi: è la Creazione. E questo respiro profondo di Giuditta, che poi è il respiro profondo, profondissimo della madre del Signore quando entra nella casa di Elisabetta, sua cugina, e la saluta. E il saluto diventa il canto: “L’anima mia magnifica il Signore”. Come è grande il Signore !
Dal v. 14 al v. 17 il corpo di questo pannello del cantico:
“Ti sia sottomessa ogni tua creatura:perché tu dicesti e tutte le cose furon fatte;
mandasti il tuo spirito e furono costruite e nessuno può resistere alla tua voce.
I monti sulle loro basi insieme con le acque sussulteranno,
davanti a te le rocce si struggeranno come cera;ma a coloro che ti temono
tu sarai sempre propizio”.
Giuditta che proclama la grandezza di Dio, motivo del suo canto di lode, fa riferimento alla Parola creatrice di Dio: “Tu dicesti e tutte le cose furon fatte”. E’ una Parola che è proclamata nel soffio del suo stesso respiro; è il respiro del Dio vivente
(“mandasti il tuo spirito e furono costruite e nessuno può resistere alla tua voce);
è la parola creatrice di Dio che, fin dall’inizio, ha manifestato la sua sovranità universale che contiene, ridimensiona, addomestica, sconfigge ogni ribellione. Proprio su questo Giuditta sta insistendo; su questo aspetto della parola creatrice di Dio che tutto ha, fin dall’inizio, chiamato a esistere in obbedienza alla sua iniziativa; ed è una Parola che, fin dall’inizio, già si è affermata come dominante sulla ribellione: “Ti sia sottomessa ogni tua creatura”, dice il v. 14 nella battuta d’avvio. E nel v. 15 “i monti”. Al risuonare di quella parola, al proclama della parola creatrice di Dio obbediscono anche tutte le realtà rigide (i monti, le rocce). Queste immagini tornano anche altrove, per esempio nel Salmo 114:
“Quando Israele uscì dall'Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro”
e quel che segue;
“i monti saltellarono come arieti,le colline come agnelli di un gregge”.
C’è l’ostacolo solido e l’ostacolo liquido; e anche l’ostacolo liquido è riconciliato, addomesticato, reso docile al servizio della parola creatrice di Dio, come è vero che le rocce vanno in frantumi, le montagne si sgretolano; questo terremoto che costringe tutte le componenti rigide dell’universo a sbriciolarsi in obbedienza; corrispondentemente è l’ostacolo liquido che diventa un sostegno, una piattaforma, un ponte facilmente percorribile; le acque si ritirano e appare l’asciutto. Le rocce si spaccano; addirittura dalla roccia zampilla l’acqua che disseta per la vita. Giuditta ci invita a contemplare la grandezza del Dio vivente in quanto è il Creatore che, con il suo intervento, regolamenta l’ordine dell’universo e conferisce alle sue creature quel titolo di docilità che le rende obbedienti all’interno di un’epifania della sua benevolenza, un’apocalisse della sua misericordia.
“I monti sulle loro basi insieme con le acque
sussulteranno,davanti a te le rocce si struggeranno come cera;
ma a coloro che ti temono tu sarai sempre propizio”.
Questa docilità che viene dall’inizio impressa nell’ordine della creazione è predisposta al servizio di questa misericordia di Dio che raccoglie, converte, trasforma la ribellione per eccellenza, quella ribellione di cui è responsabile la libertà umana abusata, devastata, compromessa; quella ribellione è addomesticata in obbedienza alla misericordia di Dio; ma tutto il creato sta lì a fare da scenario a questa epifania della grandezza di Dio.
“Poca cosa è per te ogni sacrificio in soave odore,
non basta quanto è pingue per farti un olocausto;
ma chi teme il Signore è sempre grande”.
Adesso Giuditta afferma che chi teme il Signore è grande. In quella grandezza smisurata di cui Giuditta ci parlava precedentemente trova modo di introdursi, di inserirsi una creatura umana che, nella sua docilità completa, nella sua obbedienza senza ritrosie e infingimenti, non è altro che una creatura; è così contenta di essere creatura appartenente a Lui, che tutto di Dio si rivela in lei. E’ la creazione di Dio che viene assorbita nella grandezza del Creatore. La Madonna canta così; lei è convinta di questo. E’ convinta che una creatura, quando è soltanto una creatura, è contenta di essere quella creatura che è: quella creatura è rivelazione del Creatore: tutto quello che è di Dio è là, tutto di Dio. È la madre di Dio:
… “chi teme il Signore è sempre grande”;
entra lo stesso aggettivo che ha usato per indicare la smisurata sovranità del Creatore.
Aggiunge il v. 17 che chiude tutto il cantico:
“Guai alle genti che insorgono contro il mio popolo:
il Signore onnipotente li punirà nel giorno del giudizio
(da questa contemplazione cosmica si ritorna a un discernimento storico),
immettendo fuoco e vermi nelle loro carni,
e piangeranno nel tormento per sempre»”.
Non è esattamente nel tormento: “piangeranno nella loro sensibilità”, che diventa il loro sentimento, il modo di intendere e attuare la relazione con il mondo; e quelli che qui vengono così brutalmente condannati al fuoco eterno, in realtà, dice Giuditta, sono coloro stanno imparando attraverso il pianto a sperimentare quale ristrutturazione avviene nella creatura umana che obbedisce a Dio, che si affida a Dio, che vive e muore nella fede, nella bellezza della fede. Il pianto diventa, non un ultimo segno della sconfitta, ma il tramite eloquente e fecondo di un percorso di conversione. Finalmente sconfitti, nella disperazione e nel pianto scopriranno di essere inseriti nel disegno provvidenziale della misericordia di Dio che rivela la grandezza di una volontà d’amore vittoriosa.
Ritorno festante a Gerusalemme
Vv. 18-20.
“Quando giunsero a Gerusalemme si prostrarono ad adorare Dio e, appena il popolo fu purificato, offrirono i loro olocausti e le offerte spontanee e i doni. Giuditta dedicò tutti gli oggetti di Oloferne, che il popolo le aveva dati, e anche la cortina che aveva presa direttamente dal letto di lui, come offerta consacrata a Dio. Il popolo continuò a far festa in Gerusalemme vicino al tempio per tre mesi e Giuditta rimase con loro”.
Il corteo danzante è arrivato alla meta; il ritmo pasquale che ha sostenuto l’andatura di questa unica e immensa processione può riposare alla presenza del Dio vivente nel grande sacramento che è il tempio di Gerusalemme. Tutto il carico accumulato nel corso del viaggio che non è soltanto questo piccolo itinerario processionale, ma è la storia umana, tutto può essere presentato, tutto può essere offerto, tutto ritorna come risposta al Dio vivente.
“Il popolo continuò a far festa in Gerusalemme vicino al tempio per tre mesi”.
Nel vangelo secondo Luca Maria rimane accanto a Elisabetta per tre mesi; e per tre mesi Giuditta, che ancora svolge un ruolo di testimonianza magistrale, rimase con loro. Quella permanenza di Maria accanto a Elisabetta non è soltanto orientata a una collaborazione di ordine pratico come è opportuno in quei casi, ma è orientata a quel sussulto di gioia che la stessa Elisabetta avverte quando prende coscienza della sua maternità, non solo perché ha concepito un figlio da sei mesi, ma perché c’è un profeta, Giovanni. E già lei, Elisabetta, è donna dotata di prerogative profetiche come Zaccaria, suo padre: è la risposta al saluto di Maria che manifesta questa fecondità di un grembo di donna che genera non solo dei figli, ma dei profeti; creature nuove che sono abilitate a rispondere a Dio. Un sussulto di gioia in risposta a quel saluto: tre mesi in vista di questa generazione di un’umanità nuova, abilitata ad esercitare la profezia come risposta che rende gloria a Dio; come itinerario di ritorno in risposta alla voce che chiama fino alla sorgente della vita.
… “per tre mesi e Giuditta rimase con loro”:
il racconto si conclude non esattamente con l’esaltazione di Giuditta – è già stata esaltata a più riprese – ma con quella testimonianza di fede che Giuditta trasmette al suo popolo, al grembo della donna, quindi all’umanità intera, là dove gli uomini ormai sono chiamati a nascere e affrontare il cammino della loro esistenza, nel tempo e nello spazio, come risposta all’amore di Dio.
Torna la normalità, ma tutto è rinnovato
Vv. 21-25.
“Dopo quei giorni, ognuno tornò nella propria sede ereditaria
(tutto ritorna alla normalità come dopo la resurrezione del Signore quando leggiamo quell’episodio, nel vangelo secondo Giovanni, nel cap. 21: “andiamo a pescare”. E la normalità è straordinariamente nuova, sempre nuova: è normalità buttata nell’epifania dalla grandezza di Dio);
Giuditta tornò a Betulia e dimorò nella sua proprietà e divenne famosa in tutta la terra durante la sua vita. Molti ne erano anche invaghiti, ma nessun uomo poté avvicinarla per tutti i giorni della sua vita da quando suo marito Manàsse morì e fu riunito al suo popolo”.
Giuditta rimane al suo posto come sacramento di quella bellezza che si è manifestata in quell’evento e che conferma il valore della sua presenza in seno al popolo anche quando ormai a Betulìa è una donna anziana, vecchia, bellissima.
“Essa andò molto avanti negli anni protraendo la vecchiaia nella casa del marito fino a centocinque anni: alla sua ancella preferita aveva concesso la libertà (quella ancella anonima che l’aveva accompagnata).
Questo suo modo di portare a compimento il cammino nella vita, tutta raccolta nella sua casa, nei limiti del suo vissuto, in un’esperienza di fede che sprigiona da lei una bellezza inesauribile che supera le distanze e attrae anche gli sguardi più lontani, fa tutt’uno con un messaggio di liberazione. E’ una presenza che non è dotata di bellezza perché sta in vetrina, ma è una bellezza operativa, efficace, che produce effetti di liberazione (libera la schiava). E qui non ci sono figli perché è vedova e muore vedova, senza discendenti perché non c’è altra discendenza per il popolo di Dio che non sia esattamente la comparsa, la venuta, la presenza del Messia. Ha consumato la sua esistenza in questo splendido sacramento di bellezza che ha educato dei profeti, ha prodotto effetti di liberazione.
“Morì in Betulìa e la seppellirono nella grotta sepolcrale del marito Emanasse e la casa d'Israele la pianse sette giorni. Prima di morire aveva diviso i suoi beni tra i parenti più stretti di Manàsse suo marito e tra i parenti più stretti della sua famiglia (ha disperso il patrimonio). Né vi fu più nessuno che incutesse timore agli Israeliti finché visse Giuditta e per un lungo periodo dopo la sua morte”.
Non c’è più un patrimonio per una famiglia particolare. Giuditta lascia a noi l’eredità di una novità così definitiva nella storia umana per cui non c’è altro riferimento in rapporto al quale misurarsi che non sia esattamente la venuta del Figlio che il Dio vivente ha promesso al suo popolo e all’umanità intera, finché nella sua Pasqua di morte e di resurrezione la gloria di Dio ci conquisterà perché Dio sia tutto con tutti.