5 novembre 2013
Primo incontro del ciclo 2013-2014
Dopo aver dedicato le riflessioni dello scorso anno alle Lettere pastorali di S. Paolo, affronteremo quest’anno, ritornando all’Antico Testamento, la lettura del Libro di Giuditta. Questo libro era un “cavallo di battaglia” di P. Saverio Corradino e diventa un po’ avventuroso il nostro proposito di rileggere pagine che P. Corradino, amico di molti di noi, leggeva a suo modo con tanta sapienza e potenza teologica.
Partiamo da una constatazione: il Libro di Giuditta appartiene a quella piccola raccolta di scritti antico-testamentari che solitamente vengono definiti “deuterocanonici”, nel senso che non appartengono al canone delle scritture ebraiche, ma sono stati riconosciuti come scritti canonici dalle Chiese nell’epoca neo-testamentaria. Nella tradizione della Chiesa questi Libri sono stati letti come parte integrante della rivelazione biblica, ma non sono stati accolti nel canone delle scritture ebraiche. È la lettura neo-testamentaria che scopre in queste pagine di fatto appartenenti all’Antico Testamento, il valore della rivelazione piena, definitiva. Si potrebbe dire che si tratta di un’incursione del Nuovo Testamento nell’Antico perché questi scritti sono stati riconosciuti come scrittura rivelata dalla matura interpretazione che è propria del popolo cristiano. Quindi, una collocazione piuttosto singolare, originale che meriterebbe ulteriori precisazioni e approfondimenti. Una raccolta di scritti: oltre al Libro di Giuditta ricordiamo Tobia, i Maccabei, il Libro della Sapienza, del Siracide, pezzi del Libro di Daniele, di Ester, del Libro di Baruc; sono Libri che la Chiesa dall’inizio legge in greco (alcuni di essi sono stati scritti direttamente in greco, altri sono stati tradotti in greco e il testo originario è scomparso; questo vale anche per il Libro di Giuditta). C’è una certa oscillazione tra la traduzione in greco e quella in latino per cui può succedere che nelle nostre Bibbie – anche se le note normalmente ci informano – le pagine si presentano con qualche incertezza, ma si tratta di piccole variazioni che non ci devono preoccupare. All’origine c’è un testo in ebraico tradotto in greco in un’epoca peraltro molto antica e un testo aramaico tradotto in latino da S. Gerolamo tra il IV e il V secolo.
Leggiamo un libro che si inserisce nella elaborazione letteraria nella fase più recente della storia della salvezza (II secolo a.C.) quindi un testo tra i più recenti dell’Antico Testamento e abbiamo a che fare con un racconto che ha tutte le caratteristiche di una parabola caratterizzata da un linguaggio sapienziale orientato a elaborare un insegnamento: una grande parabola che si sviluppa nell’arco di sedici capitoli e mette in scena personaggi, situazioni, vicende e descrive dei luoghi; c’è poco da preoccuparsi per quanto riguarda l’esatta identificazione dei riferimenti di ordine storiografico o geografico: tutto rientra nella logica propria del linguaggio sapienziale che usa lo strumento della parabola. Quando leggiamo le parabole del Signore nei Vangeli poco importano i particolari riferimenti; quello che conta nella parabola è il filo conduttore di una vicenda che viene valorizzata nel suo significato propriamente teologico, per quanto esprime e trasmette un messaggio di ordine sapienziale.
Il Libro di Giuditta si collega con un tipo di letteratura che acquisterà un rilievo sempre più importante nel corso degli ultimi secoli dell’epoca antica e ancora nei primi secoli dell’epoca nuova, cioè la letteratura apocalittica. E’ imparentato con i Libri che appartengono a quel certo genere letterario caratterizzato da un linguaggio teologico, pastorale che va comunemente sotto il titolo di “letteratura apocalittica”. Quando si dice apocalisse – lo sapete bene – si intende un messaggio di consolazione in rapporto a una situazione problematica, dolorosa, forse drammatica, forse addirittura catastrofica: il “male nel mondo” per dirla con un’espressione un po’ grossolana, ma che ci consente di intenderci magnificamente senza bisogno di aggiungere elaborazioni di dettaglio. Il messaggio apocalittico affronta con piena disponibilità di linguaggio, per quanto riguarda il coinvolgimento dell’animo umano, il vissuto personale e comunitario, il dramma e si assume la responsabilità di annunciare un messaggio di consolazione; laddove il male esplode è un’apocalisse, uno svelamento, una rivelazione del protagonismo di Dio. Dio si presenta come vittorioso. Tutto questo a partire dalla premessa che la letteratura apocalittica, che poi diventa una modalità di comunicazione pastorale e teologica, è scontata: per renderci conto di quello che succede nel mondo, nella storia umana e di come si tratta di affrontare il dramma, la catastrofe, il male, bisogna partire dalla fine. E il linguaggio apocalittico assume esattamente questa modalità interpretativa della realtà come un affaccio sul mondo, sulla scena della storia, sugli eventi che sono in corso a partire dalla fine, che appartiene a Dio; e la fine è dimostrazione ineccepibile della gloria di Dio, il trionfo di Dio. Ed è a partire dalla fine che gli eventi in corso e che, generazione dopo generazione fino ad esserne coinvolti e forse travolti anche noi dentro un vortice di dolore e tribolazioni, la storia prende significato: a partire dalla fine. Nel linguaggio corrente quando si dice “apocalisse” si intende un messaggio che annuncia un disastro, una catastrofe o un messaggio che annuncia qualcosa che deve succedere in seguito come se occorresse stare attenti ad elaborare la comprensione di “segni” che incombono per tenere la fine più lontana che si può, perché la fine è minacciosa, pericolosa, ci casca addosso come estrema condanna: non è così perché è proprio a partire dalla fine che tutto si illumina, si rivela, splende nella luce gloriosa di Dio che è vittorioso e che porta a compimento la sua intenzione d’amore.
La nostra parabola si inserisce in vicende che hanno impegnato il popolo dei credenti nel corso di tanti secoli ormai; una fase di maturità (II secolo a.C.), in un contesto che dal punto di vista storico è caratterizzato dall’esperienza di una grande persecuzione. E’ proprio nella prima metà del secondo secolo a. C. che il popolo che risiede nella terra di Israele è sottoposto a una tribolazione che tocca livelli superlativi; una vera e propria persecuzione al tempo di un personaggio, re di Siria, che è anche il sovrano che governa il territorio nel quale risiedono i discendenti del popolo di Israele, Antioco IV. Ed è proprio nel corso di quegli anni che poi prende vita e si sviluppa l’insurrezione che fa capo ai Maccabei. Ma il Libro di Giuditta ci racconta, attraverso il linguaggio della parabola, non esattamente quei fatti ma come interpretare quei fatti e quella che nella storia umana è sempre e comunque, nella diversità dei luoghi e con molteplici manifestazioni pratiche, l’opposizione a cui va incontro il popolo dei credenti. La prova a cui è esposta la fede, che non è riservata a qualche momento particolare ma è sempre attuale ed è la prova che porta con sé la minaccia per eccellenza, il dramma più doloroso, l’ipotesi più sconvolgente di un risucchio nel vortice dell’iniquità umana. Ed ecco come la vittoria di Dio si realizza laddove il popolo dei credenti è stretto in una morsa che sembra stravolgere ogni cosa.
Stasera dovremmo riuscire a leggere i primi tre capitoli del Libro che descrivono il contesto nel quale poi man mano andrà prendendo la vicenda e faremo conoscenza con il personaggio che dà il titolo al Libro, ma che incontreremo solo nell’ottavo capitolo. E per otto capitoli non sapremo niente di come funziona quella manifestazione di Dio che nella storia umana si esprime con il linguaggio della fede: la fede di un popolo e di una creatura che in questo caso si chiama Giuditta. Sono molteplici in questo libro episodi della storia della salvezza e tanti i personaggi. Il fatto che si tratti di un personaggio femminile che svolge una funzione esemplare non ci lascia indifferenti.
Nel capitolo primo si spalanca dinanzi a noi una raffigurazione di quello che è il complesso di eventi che emerge visibilmente sulla scena del mondo e si impongono come macroscopiche espressioni del protagonismo umano. La scena del mondo appare nella sua visibilità immediata, laddove sono in gioco potenze, forze, più esattamente un impero che è una sintesi di ordine civile, culturale, politico e militare; un sistema di poteri che governano il mondo. La storia umana e la sua visibilità esterna, contemplata qui in maniera che potrebbe apparirci grossolana anche se è in realtà anche molto penetrante, si sviluppa attraverso vicende che, nella loro grandiosità, assumono la fisionomia di imperi che si succedono, che si accavallano uno sull’altro, che si contraddicono uno con l’altro; e, da un impero all’altro, ecco che la storia umana assume una configurazione che sembra volta per volta piena, matura, definitiva e invece intervengono poi processi di decadenza.
L'arroganza del potere e la cultura della mediocrità
Cap. 1, vv. 1-12. “Nell'anno decimosecondo del regno di Nabucodònosor (c’è un personaggio che si chiama Nabucodònosor nella storia, re di Babilonia tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., mentre qui è una figura emblematica di un re in ascesa: è il momento della grande impresa che fa di Nabucodònosor il personaggio che assume con risolutezza travolgente l’impegno di imporre il suo potere, il suo dominio, di fare di un nuovo impero il suo impero) che regnava sugli Assiri, nella grande città di Ninive,” mentre contemporaneamente “Arpacsàd regnava sui Medi in Ecbàtana”. C’è un altro impero che è più antico e che è dotato di un suo particolare prestigio che fa capo a questo Arpacsàd che regna in Ecbàtana, in Iran; questo impero è in decadenza. Gli schieramenti in campo sono comunque delineati. “Questi edificò intorno a Ecbàtana mura con pietre tagliate nella misura di tre cubiti di larghezza e sei cubiti di lunghezza, portando l'altezza del muro a settanta cubiti e la larghezza a cinquanta cubiti. Costruì alle porte della città le torri murali alte cento cubiti e larghe alla base sessanta cubiti; costruì le porte portandole fino all'altezza di settanta cubiti: la larghezza di ciascuna era di quaranta cubiti, per il passaggio dell'esercito dei suoi forti e l'uscita in parata dei suoi fanti”. La città di Ecbàtana è grandiosa ma, potremmo aggiungere, mostruosa: misure gigantesche che proiettano un’ombra minacciosa sulla scena. Nello stesso tempo è vero che questa cura dell’immagine lascia intendere una fragilità del sistema che sembra mascherarsi dietro l’immagine che in sé e per sé è grandiosa e insieme mostruosa; mura, porte, un esercito anche se sembra che questo esercito di Arpacsàd serva più che altro ad organizzare parate militari: trombe, fanfare, scenografia, tutto quello che concorre a illustrare l’immagine che è affascinante, è motivo per incantare gli spettatori, ma avvertiamo segnali di debolezza. “In quel periodo di tempo il re Nabucodònosor mosse guerra al re Arpacsàd nella grande pianura, cioè nella piana che si trova nel territorio di Ragau”. Non si sa perché, notate bene, non c’è motivo se non la volontà di Nabucodònosor che vuole imporsi come protagonista di un’impresa che coincide con l’affermazione del suo potere; e questo vale per Nabucodònosor come titolo di merito: essere protagonista in grado di affermare il suo potere è per Nabucodònosor un valore sacro e assoluto. Fa la guerra. Nello stesso tempo attorno ad Arpacsàd si schiera tutto un complesso di popoli che preferiscono allearsi con il vecchio sistema in base al quale il mondo era governato. “Ma si schierarono a fianco di costui tutti gli abitanti delle montagne e quelli della zona dell'Eufrate, del Tigri e dell'Idaspe e gli abitanti della pianura di Arioch, re degli Elamiti. Così molte genti si trovarono adunate in aiuto ai figli di Cheleud”. Dunque Arpacsàd ha dalla sua parte uno schieramento consistente di alleati che preferiscono collaborare con l’antico sistema di poteri da cui il dominio del mondo era garantito, per quello che sembra all’opinione pubblica internazionale, più tranquillizzante. Ma intanto Nabucodònosor irrompe sulla scena: è giovane, travolgente, risoluto, intransigente. “Allora Nabucodònosor re degli Assiri spedì messaggeri a tutti gli abitanti della Persia e a tutti gli abitanti delle regioni occidentali (vuole reclutare alleati che partecipino con lui alla guerra che oramai ha programmato, per la quale si è impegnato e, dunque, invia messaggeri – notate che qui i “messaggeri” sono degli “ apostoli” – ai popoli dell’occidente mentre Arpacsàd governa nelle regioni dell’oriente; questo reclutamento viene qui descritto come un vero e proprio coinvolgimento missionario. Nabucodònosor è convinto o vuole convincere il mondo intero che la sua impresa è un vero e proprio dovere sacro e, quindi, collaborare con lui è il modo di corrispondere a una missione sacra. Convoca tutti i popoli dell’occidente, attraverso questi “apostoli” da lui inviati): a quelli della Cilicia e di Damasco, del Libano e dell'Antilibano e a tutti gli abitanti della fascia litoranea e a quelli che appartenevano alle popolazioni del Carmelo e di Gàlaad, della Galilea superiore e della grande pianura di Esdrelon; a tutti gli abitanti della Samaria e delle sue città, a quelli che stavano oltre il Giordano fino a Gerusalemme, Batane, Chelus e Cades e al torrente d'Egitto, nonché a Tafni, a Ramesse e a tutto il paese di Gessen, fino a comprendere la regione al di sopra di Tanis e Menfi, e ancora a tutti gli abitanti dell'Egitto sino ai confini dell'Etiopia”. E’ una grande impresa quella che vuole compiere ed è questo il motivo per cui ritiene doveroso che tutti i popoli convocati si alleino e collaborino con lui. La grande impresa non viene dichiarata, non viene minimamente discussa; Nabucodònosor non è disposto a un confronto, a un chiarimento, a una precisa programmazione della sua politica, in questo caso di una campagna militare che vuole gestire fino ad eliminare l’avversario: in sé e per sé il progetto di Nabucodònosor realizza un valore sacro: bisogna” allearsi con lui; e se non ci si allea con lui si diventa colpevoli non solo perché si manca a un appuntamento con l’azione di governo in senso spicciolo, ma perché si manca a un appuntamento con una novità che ha un valore divino di cui Nabucodònosor è il responsabile. Chi non si allea con Nabucodònosor è colpevole: così funziona il regno che sta impostando con tanto fervore, slancio, irruenza, con la prepotenza illimitata di colui che si ritiene incaricato di svolgere una missione sacra nella storia umana che, dunque, merita il riconoscimento di un valore assoluto. Soltanto che, v. 11, “Ma gli abitanti di tutte queste regioni disprezzarono l'invito di Nabucodònosor re degli Assiri e non lo seguirono nella guerra, perché non avevano alcun timore di lui, che agli occhi loro era come un uomo qualunque. Essi respinsero i suoi messaggeri a mani vuote e con disonore. Allora Nabucodònosor si accese di sdegno terribile contro tutte queste regioni e giurò per il suo trono e per il suo regno che avrebbe fatto sicura vendetta, devastando con la spada i paesi della Cilicia, di Damasco e della Siria, tutte le popolazioni della terra di Moab, gli Ammoniti, tutta la Giudea e tutti gli abitanti dell'Egitto fino al limite dei due mari”. Una promessa: Nabucodònosor vuole vendicarsi; arriverà il momento, ma intanto deve portare a compimento la sua impresa. I popoli dell’occidente hanno rifiutato l’invito, la parola di Nabucodònosor è come se fosse parola creatrice, di un soggetto divino: la sua parola è stata disprezzata perché egli “è soltanto un uomo qualunque”; Nabucodònosor è un uomo che si è fatto da solo; questo è uno dei grandi principi della cosiddetta civiltà borghese. E’ soltanto un uomo, un uomo qualunque che si è fatto da solo e questo suo “farsi da solo” è esattamente il valore sacro a cui Nabucodònosor fa appello per imporre il suo potere in maniera assoluta e indiscriminata. In questo essere un uomo solo noi cogliamo un’intuizione teologica che va più in profondità di quella che è semplicemente la registrazione del dato personale, sociale, culturale di cui è rappresentante perché è un uomo solo nel senso che è e resterà sempre senza comunione, un isolato, per quanto possa essere il gran re. Questa diventa, a un certo momento, la sua arma più potente: Nabucodònosor riesce a fare della sua propria mediocrità di uomo solo, di uomo qualunque, un ideale glorioso a cui l’umanità intera vorrà adeguarsi, compiacersi, riconoscersi; la cultura della mediocrità è la forza travolgente di Nabucodònosor, uomo qualunque. E nella sua reazione infuriata c’è l’esasperazione dell’incompreso: “non mi hanno capito, non mi hanno fatto fare quello che dovevo fare, non mi hanno permesso di realizzare la grande impresa cui pure avevo invitato tutti, ma non sono stati d’accordo con me”. Propositi di vendetta furibonda perché Nabucodònosor è diventato la vittima di un’ingiustizia macroscopica che corrompe il mondo; non gli hanno permesso di coinvolgere tutti quelli a cui pure si era così generosamente rivolto nella grande impresa che sarebbe stata garanzia di un benessere pieno, definitivo, universale. Nabucodònosor è la vittima. Per questo non solo è giustificata la sua vendetta, ma è doverosa: è un dovere sacro vendicarsi perché lui è la vittima, l’incompreso, perché l’ideale della mediocrità non è stato accolto. Quanti pezzi della nostra storia passata e recente stanno dentro questo squarcio; la nostra storia, un pezzetto piccolo della storia umana. Altri vedranno meglio le cose dal loro punto di vista; dal nostro punto di vista la storia dell’Italia sta tutta dentro, per quanto riguarda gli ultimi due secoli, a questa cultura della mediocrità.
Il compiacimento dello spreco
Vv 13-16. “Quindi marciò con l'esercito contro il re Arpacsàd nel diciassettesimo anno, e prevalse su di lui in battaglia (la vittoria sbaragliante di Nabucodònosor) che travolge l'esercito di Arpacsàd con tutta la sua cavalleria e tutti i suoi carri). S'impadronì delle sue città, giunse fino a Ecbàtana e ne espugnò le torri, ne saccheggiò le piazze e ne mutò lo splendore in ludibrio. Poi sorprese Arpacsàd sui monti di Ragau, lo trafisse con le sue lance e lo tolse di mezzo in quel giorno. Fece quindi ritorno a Ninive con tutto l'esercito eterogeneo, che era una moltitudine infinita di guerrieri e si fermò là, egli e il suo esercito, per centoventi giorni dandosi a divertimenti e banchetti”. La capitale di Arpacsàd è caduta, il re è stato trafitto, tutto il regno ormai cancellato: Nabucodònosor trionfa e il suo trionfo viene illustrato nell’ultimo versetto del capitolo primo: questa manifestazione del compiacimento in se stesso e vuole condividere con i suoi sudditi; il compiacimento dello spreco che si esprime come un consumo senza limiti: centoventi giorni di banchetti e di divertimenti. La cultura della mediocrità è strettamente imparentata con la cultura dello spreco. D’altra parte queste sono le armi vincenti di Nabucodònosor.
Preparativi di vendetta
Cap. 2, vv. 1-20: “Nell'anno decimottavo (sono passati altri sei anni rispetto alla notizia iniziale. Tenete presente che l’anno decimottavo di quel personaggio storico che si chiamava Nabucodònosor fu l’anno in cui avviò le operazioni che condussero all’assedio di Gerusalemme, nel 587 a. C.; lo dice Geremia nel cap. 32, v. 1; una reminiscenza trasversale), il giorno ventidue del primo mese (anche questa data non è indifferente perché il primo mese è il mese della Pasqua e il giorno 22 è il primo giorno dopo la settimana di Pasqua), nel palazzo di Nabucodònosor re degli Assiri, fu discusso un piano di vendetta (Nabucodònosor convoca il suo consiglio perché ha già preso la decisione di una vendetta da eseguire con puntuale, rigorosa intransigenza) contro tutta la terra, come aveva annunziato. Radunò tutti i suoi ministri e i suoi dignitari, tenne con loro consiglio segreto (segreto – mysterion: Nabucodònosor ama scimmiottare Dio. È il proposito che Nabucodònosor ha coltivato, coccolato, custodito nell’animo suo e che adesso impone ai suoi collaboratori e, attraverso di loro, vuole imporre a tutta la terra) ed espose compiutamente con la sua parola tutta la perfidia di quelle regioni (meritano la punizione, anzi è doverosa la punizione: lui è l’offeso, lui è stato tradito; quelle regioni sono perfide). Essi decisero che si dovesse punire con la distruzione chiunque non si era allineato con l'ordine (il logos) da lui emanato (la parola di Nabucodònosor è un riferimento di valore assoluto ed esige un ossequio universale; chi manca a questo ossequio è colpevole, bisogna punire). Quando ebbe finito la consultazione, Nabucodònosor re degli Assiri chiamò Oloferne, generale supremo del suo esercito, che teneva il secondo posto dopo di lui, e gli disse (adesso Oloferne viene informato circa il programma che Nabucodònosor ha già esposto nel suo consiglio segreto ed è incaricato di svolgere l’impresa. Oloferne qui viene presentato a noi come l’esecutore della parola di Nabucodònosor, il “gregario” che deve incarnarne la parola): «Questo dice il gran re, il signore di tutta la terra: Ecco tu uscirai come mio luogotenente e prenderai con te uomini valorosi: centoventimila fanti e un contingente di dodicimila cavalli con i loro cavalieri; quindi muoverai contro tutti i paesi di occidente, perché quelle regioni hanno disobbedito al mio comando (ecco l’incarico affidato a Oloferne che avrà a disposizione un esercito grandioso, un’orda immensa e organizzata. C’è di mezzo la parola “divina, creatrice” di Nabucodònosor che vuole imporsi, attraverso Oloferne, come esercizio di un potere che domina il mondo. Soltanto che la parola di Nabucodònosor non è una parola creatrice, divina: è la parola di un uomo qualunque, solo, senza comunione, mediocre, amante dello spreco). A costoro ordinerai di preparare la terra e l'acqua, perché con collera piomberò su di loro e coprirò la terra con i piedi del mio esercito e li metterò in suo potere per il saccheggio. Quelli di loro che cadranno colpiti riempiranno le loro valli e ogni torrente e fiume sarà pieno dei loro cadaveri fino a straripare; i loro prigionieri li spingerò fino agli estremi di tutta la terra”. I popoli dell’occidente debbono riconoscere il potere sovrano di Nabucodònosor e conseguentemente saranno esposti al saccheggio; e se qualcuno non si sottometterà, non accetterà di sottostare al gran re sarà sterminato o deportato. E Nabucodònosor dichiara che tutto avverrà come se lui fosse il protagonista anche se l’incaricato di svolgere l’impresa è Oloferne: “io vengo, io calpesterò con i miei piedi quei popoli che si sono dichiarati ostili al mio progetto e che tu, Oloferne, avrai saccheggiato e sterminato in quanto generale comandante dell’esercito: Oloferne è l’incarnazione della parola di Nabucodònosor. “Tu dunque va’ (osservate questo rapporto a tu per tu tra Nabucodònosor e Oloferne: “tu ci sei per me, in quanto inviato da me. Che cosa vali tu? Vali perché sei inviato da me, perché te lo dico io, perché lo voglio io, perché esercito io il potere. Senza di me non sei nessuno, non esisti) e occupa per me tutto il loro paese e, quando si saranno arresi a te, li terrai a mia disposizione fino al giorno del loro castigo. Quanto ai ribelli, non abbia il tuo occhio compassione di destinarli alla morte e alla devastazione in tutto il territorio. Come è vero che vivo io e vive la potenza del mio regno, questo ho detto e questo farò di mia mano. Da parte tua bada di non trasgredire alcuna parola del tuo signore, ma eseguisci esattamente ciò che ti ho comandato e non indugiare a tradurre in atto i comandi»”. Bisogna cancellare i ribelli, punire quelli che si arrendono, fare in fretta perché Nabucodònosor è il signore dell’universo, il protagonista che domina la scena del mondo, esercita il potere in maniera assoluta: Nabucodònosor presenta se stesso come colui che detta anche le misure del tempo, le scadenze, le urgenze: “Come è vero che io vivo e vive la potenza del mio regno, questo ho detto e questo farò di mia mano”: io stabilisco qual è l’urgenza che riempie l’attualità del nostro giorno. “Oloferne uscì dalla corte del suo signore e convocò i comandanti, gli strateghi e gli ufficiali dell'esercito assiro; quindi scelse e contò gli uomini per le sue formazioni, come gli aveva comandato il suo signore, in numero di centoventimila, più dodicimila arcieri a cavallo, e li ordinò come si usa inquadrare la truppa per la guerra. Prese poi cammelli e asini e muli in dotazione alle truppe, in numero grandissimo, e ancora pecore e buoi e capre in quantità innumerevole per il loro vettovagliamento. Provvide ancora razioni in abbondanza per ciascun uomo e gran rifornimento d'oro e d'argento dal tesoro del re”. Partirono dunque per iniziare la spedizione e precedere il re, Nabucodònosor, che rimane per il momento a Ninive, nella sua reggia. L’esercito, condotto da Oloferne, apre la strada a Nabucodònosor: è lui che verrà, che calpesterà, che dimostrerà la sua sovranità universale. C’è un brivido di commozione, c’è una nota di entusiasmo, un fervore che accende gli animi: “noi siamo Nabucodònosor incarnato nel momento che stiamo eseguendo l’impresa che corrisponde alla sua parola, al suo desiderio, alla sua intenzione”. Questa identificazione con Nabucodònosor è la spinta che dall’interno muove l’esercito di Oloferne che ne è l’esemplare rappresentante. C’è una sintonia interiore con Nabucodònosor, una sintonia affettiva, il compiacimento di essere come Nabucodònosor, complici, colleghi, sudditi, gregari di Nabucodònosor; mediocri, abilitati allo spreco come lui. La gloria occupa la scena del mondo insieme con l’esercito che adesso dilaga in tutte le direzione per questa impresa di conquista. “Partirono dunque lui e tutte le sue truppe per iniziare la spedizione e precedere il re Nabucodònosor e ricoprire la terra occidentale con i loro carri e i cavalieri e la fanteria scelta. Si unì anche a loro una moltitudine varia, numerosa come le cavallette e come la polvere del suolo, che non si poteva affatto contare per la grande quantità”. C’è un’immensa partecipazione di avventizi, una moltitudine di gente che si accoda, si inserisce, si aggrega: questo desiderio di partecipare all’impresa è corale.
Avanzata travolgente: è terrore
Vv, 21-28. “Mossero da Ninive camminando tre giorni in direzione della pianura di Bectilet e si accamparono a distanza di Bectilet vicino al monte che sta sulla sinistra della Cilicia superiore. Di là, muovendo tutto il suo esercito, fanti e cavalli e carri, Oloferne si diresse verso la montagna. Quindi devastò Fud e Lud e depredò i figli di Rassis e gli Ismaeliti, che abitavano lungo il deserto a mezzogiorno di Cheleon. In seguito passò l'Eufrate, attraversò la Mesopotamia e demolì le città che s'innalzavano sul torrente Abrona e nel territorio fino al mare. Poi invase i paesi della Cilicia, sterminò quanti gli si opponevano e venne nella regione di Iafet verso mezzogiorno alle frontiere dell'Arabia (un movimento rapido, preciso, vorticoso. Queste notizie, che con molta approssimazione riusciamo a inserire in una carta geografica, servono a illustrare questa avanzata travolgente: città fortificate sono spazzate via, regioni agricole e pastorali sono occupate con la massima disinvoltura; l’esercito condotto da Oloferne si comporta come una forza irresistibile che risucchia nel suo movimento avvolgente tutti i popoli, le presenze diverse dislocate in un territorio così variegato, rappresentanti di culture a loro modo originari). Accerchiò anche tutti i Madianiti e appiccò il fuoco ai loro attendamenti e depredò il loro bestiame. Proseguendo, scese verso la pianura di Damasco nei giorni della mietitura del grano, diede fuoco a tutti i loro campi e votò allo sterminio i loro greggi e armenti, saccheggiò le loro città, devastò le loro campagne e passò a fil di spada tutti i giovani. Allora si sparse la paura e il terrore di lui fra tutte le popolazioni della costa, su quelle che si trovavano in Sidòne e in Tiro, fra gli abitanti di Sur e Okina, su tutte le genti di Iemnaan, e anche gli abitanti di Asdòd e Ascalon ne ebbero grande terrore”. Popolazioni rimaste ancora indenni, non ancora raggiunte dall’esercito che avanza e che sta devastando il mondo, ma lo sgomento e il terrore si ripercuotono in maniera angosciante negli animi di queste popolazioni e di coloro che abitano lungo la costa. Normalmente l’espressione che leggiamo nel v. 28 “paura e terrore” è un’espressione che viene usata nella teofania di Dio: Esodo, cap. 15, il grande cantico della vittoria dopo la traversata del mare e l’uscita dall’Egitto; Giosuè, cap. 2, v. 9, la paura e il terrore che dilagano laddove il Signore si manifesta attraverso la comparsa delle tribù di Israele sulla soglia della terra di Canaan e Giosuè guiderà poi il popolo al di là del Giordano. Soltanto che qui “paura e terrore” non hanno a che fare con la manifestazione di Dio, ma con l’avanzata così devastante del grande esercito guidato da Oloferne.
Sottomissione totale; dominio delle coscienze
Cap. 3, vv. 1-10. Sempre più chiara si fa una constatazione su cui dovremo necessariamente riflettere proseguendo nei nostri lavori: la scena ha una plasticità molto eloquente, una visibilità macroscopica, ma constateremo in maniera sempre più lucida che l’opera di invasione che Oloferne con tutto il suo esercito, in seguito alla missione ricevuta da Nabucodònosor, sta realizzando intercetta i pensieri, i sentimenti, gli equilibri interiori, penetra nelle coscienze, invade l’animo umano. È il grande progetto di Nabucodònosor; non semplicemente estendere i confini di un regno, ma instaurare quel regno che occupa le coscienze. “Perciò (adesso succede che gli abitanti della costa cercano un riparo e si fanno avanti con opportune ambascerie per offrire la loro sottomissione a Oloferne pur di aver salva la vita) gli inviarono messaggeri con proposte di pace: «Ecco, ci mettiamo davanti a te noi, figli del gran re Nabucodònosor (la soddisfazione di esser figli di Nabucodònosor, professarsi tali, trovare finalmente la casa di cui avevano bisogno); fa’ di noi quanto ti piacerà. Ecco le nostre case e tutto il nostro territorio e tutti i campi di grano, i greggi e gli armenti e tutto il bestiame dei nostri attendamenti sono a tua disposizione perché tu ne faccia quel che vuoi. Anche le nostre città e quanti vi abitano, ecco sono tuoi servi, vieni e trattale come ti piacerà». Si presentarono di fatto ad Oloferne quegli uomini e si espressero con lui su questo tono”. C’è una triplice forma di sottomissione: prima dicono noi, poi i nostri beni, poi le nostre città: tutto viene messo a disposizione del compiacimento di Oloferne: una condizione di vassallaggio incondizionato pur di aver salva la vita. “Noi siamo figli di Nabucodònosor, siamo contenti; nell’esser figli di Nabucodònosor sta la nostra pace”.
Ora Oloferne occupa la regione costiera: Oloferne avanza, non c’è più opposizione, non c’è bisogno di spazzar via eventuali resistenze; si sono consegnati. “Egli scese allora con il suo esercito lungo la costa e pose presidi nelle fortezze, poi prelevò da esse uomini scelti come ausiliari”. Presidi militari in posizioni strategiche, arruolamento di truppe ausiliarie: occupazione di tutti i territori confinanti con il popolo di Israele di cui ancora non si è fatto il nome, anche se ormai siamo giunti alle regioni confinanti con quelle dove abita il popolo dell’Alleanza, il popolo di Dio, il popolo di Israele. Oloferne arruola con successo truppe ausiliarie perché tutti desiderano mettersi a sua disposizione. In più: “Quelle popolazioni con tutto il paese circostante lo accolsero con corone e danze e suono di timpani”: un’accoglienza festosa da parte della gente perché Oloferne è trattato come il vero liberatore. È in atto l’occupazione delle coscienze, questo lo conferma: “facciamo festa”. “Ma egli demolì tutti i loro templi e tagliò i boschi sacri, perché aveva ordine di distruggere tutti gli dei della terra, in modo che tutti i popoli adorassero solo Nabucodònosor e tutte le lingue e le tribù lo acclamassero come dio (il prezzo della sopravvivenza consiste nell’acclamare la divinità di Nabucodònosor). Poi giunse in vista di Esdrelon (Esdrelon è l’unica vera pianura che esiste nella terra di Israele, tra Galilea e Samaria. E lì Oloferne si accampa), vicino a Dotain, che è di fronte alle grandi montagne della Giudea”. La scena su cui dovremo riflettere ancora andando avanti nella lettura adesso assume anche nella sua configurazione oggettiva l’evidenza di uno scarto, di un dislivello; adesso siamo alle prese con un confine: la piana dove l’esercito di Oloferne è accampato e una scarpata ripida, i monti della Samaria e della Giudea anche se la geografia dei luoghi non corrisponde esattamente a questa descrizione. C’è un richiamo che qui viene esaltato, valorizzato con motivazioni che non sono quelle del geometra che descrive un territorio, ma di un narratore che ha impostato un insegnamento teologico. C’è una scarpata ripida che conduce a una montagna, un altopiano; ai piedi di quella ripida china montuosa l’esercito di Oloferne: “Essi si accamparono fra Gebe e Scitopoli e Oloferne rimase là un mese intero per raccogliere tutto il bottino delle sue truppe”. Sosta di un mese; deve approfittare dell’immenso bottino accumulato; siamo sul confine della Giudea.
Notate che Judith è anche ebrea, è la donna giudea; è il nome che trasforma il territorio in una rivelazione della novità che emerge dal di dentro della storia umana là dove la fede è aggredita e il protagonismo di Dio si rivela. Ho richiamato Giuditta a modo mio; di lei non si è parlato e nei capitoli seguenti non se ne parlerà; non si è fatto neanche il nome di Israele, ma la scena si sta man mano precisando e si arriverà al discernimento decisivo.