3 dicembre 2013
Secondo incontro del ciclo 2013-2014
Nel nostro primo incontro abbiamo letto i primi tre capitoli del Libro di Giuditta: una grande parabola, un racconto che si estende con notevole ampiezza e con molta abilità letteraria e che un racconto che sviluppa una riflessione sapienziale sul senso della storia umana in una prospettiva che ormai è segnata dalla maturazione del linguaggio apocalittico – come siamo abituati a definirlo – negli ultimi secoli della storia della salvezza. Ed ecco come si manifesta il protagonismo di Dio: è Lui che porta a compimento le sue intenzioni laddove gli eventi sono massimamente contraddittori, le vicende sono drammatiche, l’incombenza dei dati negativi sembra insormontabile. In quel contesto, in posizione di particolare oppressione, il popolo dei credenti è esposto a un’aggressione che non è necessariamente di ordine fisico; sullo sfondo c’è l’esperienza del popolo di Dio, nel corso del secondo secolo a. C., quando effettivamente si svolse per alcuni decenni una persecuzione ad opera dei sovrani della Siria che dominavano il territorio palestinese ed in particolare di uno di questi, Antioco IV. In quell’occasione il tempio fu profanato, trasformato in culto idolatrico: Antioco IV era devoto di Zeus Olimpio; era stato educato a Roma quando il suo potere imperiale dominava ormai tutto quello che avveniva nei paesi che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo. Nel corso di quegli anni si sviluppò quel moto insurrezionale che faceva capo ai Maccabei e che poi condusse all’indipendenza. Proprio ieri è cominciata la celebrazione della festa di Chanukkà, della “Dedicazione del tempio”, che risale al 25 di kislev del 164 a. C. e dura otto giorni, detta anche la “festa delle luci”.
Una persecuzione sperimentata in quell’epoca con l’esperienza di un vissuto segnato da violenze anche molto feroci; persecuzione anche in senso molto più ampio che tocca i livelli profondi della coscienza e il coinvolgimento del popolo dei credenti nel contesto di una vicenda segnata in maniera massiccia dall’invadenza culturale che impone criteri di vita che sono oggettivamente ostili alla testimonianza della fede, addirittura contraddittori rispetto alla coerenza di un vissuto che accoglie l’iniziativa di Dio e ad essa vorrebbe aderire.
Il libro di Giuditta è una testimonianza molto matura di una riflessione sapienziale che aiuta a riflettere, ancora noi e proprio oggi, su questo scenario in quanto prodotto dell’iniziativa che gli uomini vogliono affermare in virtù delle proprie capacità, della propria volontà di potere, di dominio; il massimo prodotto di questa iniziativa umana che pretende di dominare la scena del mondo e di gestire gli eventi della storia umana è l’impero. Su questo sfondo il protagonismo di Dio, la presenza del popolo dei credenti e il vissuto della fede è motivo di attrazione per gli autori di questo racconto in termini che possiamo definire contemplativi; è motivo di stupore e di commozione constatare come, nel vortice di vicende che scuotono gli animi e mettono in discussione le strutture della vita sociale e dell’organizzazione civile e politica, si manifesta con modalità tutte sue e con una misteriosa fecondità l’inesauribile e sempre attuale novità della fede.
Tornando al libro ancora non sappiamo niente di Giuditta; ci vorranno sette capitoli prima che arrivi il momento in cui si farà il suo nome, nel cap. 8.
Nei primi tre capitoli abbiamo letto di Nabucodònosor, un impero che si sostituisce al precedente; un emblematico rappresentante di una cultura dell’immagine, dello spreco: la cultura della mediocrità è l’arma vincente che consente a Nabucodònosor di imporsi come la vera figura divina che domina il mondo e che riduce a se stessa l’obbedienza della moltitudine umana. Gli uomini non aspettano altro che potersi specchiare in un essere divino che è rappresentante esemplare della mediocrità più squallida, solitaria, inconcludente che mai. Ricordate che Nabucodònosor ha incaricato Oloferne di svolgere una missione punitiva nei confronti delle nazioni dell’occidente che non hanno corrisposto al suo invito nel momento in cui ha affrontato Arpacsàd che, da tempo immemorabile, aveva riposto la sua sovranità imperiale sulle regioni dell’oriente. Nabucodònosor trionfa ed è una necessità di ordine religioso, un obbligo morale richiamare all’ordine le popolazioni dell’occidente che non hanno prestato ossequio al suo progetto, alla sua iniziativa, a lui personalmente ormai instaurato come nume onnipotente che governa la storia umana. Nabucodònosor ha incaricato Oloferne di una missione che scimmiotta, per così dire, quella rivelazione di Dio di cui coloro che hanno a che fare con la rivelazione biblica sono al corrente; quella rivelazione mediante la quale Dio si rivela parlando: la Parola inviata, che è esercizio operoso dell’iniziativa di Dio nel corso degli eventi e, naturalmente, in tutto il quadro, l’impianto, la strutturazione del creato intero. La Parola creatrice, operosa, efficace di Dio; la Parola inviata da Dio. Oloferne è parola inviata da Nabucodònosor per rimettere in ordine le cose, per imporre alle popolazioni dell’occidente le regole che ormai debbono essere accettate come un valore sacro: l’obbedienza, il culto devoto e intransigente dedicato a venerare il suo potere universale. Oloferne è impegnato nella sua impresa; le stesse popolazioni dell’occidente gli vanno incontro, si prestano per essere ridotte in stato di vassallaggio, anzi fanno festa; tutti sono contenti di essere finalmente schiavi di Nabucodònosor: sembra che non ci sia garanzia più gratificante di questa per quanto riguarda la possibilità di sopravvivere sulla scena del mondo. “Finalmente possiamo essere contenti perché abbiamo trovato un padrone che, nel momento stesso in cui ci riduce in stato di schiavitù, ci conferisce il gusto esaltante di essere anche noi esecutori della sua parola, scintille che rispecchiano, trasmettono, effondono lo splendore della sua scena”.
Alla fine del cap. 3 Oloferne è accampato nella piana di Esdrelon o di Izreel, come viene nominata altrove nei testi biblici. E’ la pianura che sta sul confine tra la Galilea e la Samaria e viene considerata come la regione che fa da confine settentrionale della terra di Israele. Tutti i popoli confinanti con il popolo di Israele hanno accolto Oloferne con festose devozioni, si sono schierati dalla sua parte, si sono inseriti anch’essi come truppe ausiliarie nel suo immenso esercito. Cap. 3, v. 10: “Essi si accamparono fra Gebe e Scitopoli e Oloferne rimase là un mese intero per raccogliere tutto il bottino delle sue truppe”.
Dopo l’esilio, ancora allarme per Gerusalemme e il suo tempio
Cap. 4, vv. 1-4. Per la prima volta compare il nome di Israele; era comparso il nome del territorio, Giudea, due volte; ora compare il nome del popolo. Israele, un popolo identificato in base a particolari connotati di ordine civile, amministrativo, religioso: è il popolo dell’Alleanza? E’ il popolo certamente segnato da un’identità che fa capo, come sappiamo e come man mano si chiarirà in maniera sempre più decisa, a una identità di fede: è il popolo coinvolto in una relazione con il Dio vivente che ha assunto, nel corso di molti secoli ormai, la forma di una alleanza ossia di una comunione di vita; in questa relazione il popolo è entrato, ha aderito ad essa, ha imparato a vivere in comunione con il Dio vivente in una dimensione che possiamo ricapitolare mediante il termine “fede”.
“Quando gli Israeliti che abitavano in tutta la Giudea sentirono per fama quanto Oloferne, il comandante supremo di Nabucodònosor, aveva fatto agli altri popoli e come aveva messo a sacco tutti i loro templi e li aveva votati allo sterminio, furono presi da indescrivibile terrore all'avanzarsi di lui e furono costernati a causa di Gerusalemme e del tempio del Signore, loro Dio. Oltre tutto, essi erano tornati da poco dalla prigionia e di recente tutto il popolo si era radunato in Giudea; erano stati consacrati gli arredi sacri e l'altare e il tempio dopo la profanazione”. E’ un popolo tra gli altri popoli, certo, ma popolo che si definisce in virtù di una particolare relazione con il Dio vivente. Tutto quello che suggerivo poco fa si può ricapitolare facendo appello a quella dimensione propria di un rapporto così misterioso tra Dio e una creatura umana che si chiama fede.
I fatti relativi all’impresa che Oloferne sta conducendo con tanti successi provocano una ripercussione negli animi di questi figli di Israele: le notizie corrono e sono terrorizzati. Notate che il popolo di Dio è reduce dall’esilio: nel racconto il rientro dall’esilio sembra essere avvenuto poco tempo prima. L’esilio che ebbe luogo nel VI sec. A. C. e che poi si protrasse in tanti modi, ma ha già antefatti nei secoli precedenti? La storia del popolo di Dio è una storia segnata a più riprese dall’esperienza dello smarrimento, della dispersione, della diaspora che poi rimane come una nota permanente nel corso delle generazioni. Il racconto rievoca questo ritorno dall’esilio come un evento avvenuto nel passato prossimo rispetto alla vicenda attuale. Notate bene che se il popolo è andato in esilio significa che è un popolo passato attraverso l’esperienza di un fallimento: l’esilio è una tappa dolorosissima nella storia del popolo di Dio che si connette con la responsabilità di Israele nel tradimento della propria vocazione, nel rinnegamento dell’Alleanza; questo popolo, dunque, ha alle spalle l’esperienza di una storia sbagliata (è reduce dall’esilio), ma è anche vero che questo popolo porta con sé l’esperienza di un cammino di liberazione, trasformazione, conversione: un popolo di peccatori che ha vissuto in maniera diretta, consapevole e molto positiva l’avventura di un cammino di conversione. Sono ritornati. E adesso un’ombra si allunga su di loro proprio per questa preoccupazione massimamente angosciosa. Sono, sì, preoccupati per loro, ma (v.2) erano “costernati a causa di Gerusalemme e del tempio del Signore, loro Dio”. La minaccia riguarda Gerusalemme appena ricostruita, il tempio appena restaurato, dove è stato riattivato il culto: quello che avvenne verso la fine del VI secolo a. C. quando i profughi rientrarono dall’esilio, e quello che è avvenuto nell’epoca contemporanea, rispetto al racconto di questo libro, nel 164 a. C., quando il tempio profanato fu purificato. Il tempio è stato appena liberato dalle conseguenze dell’antica profanazione, sono stati consacrati gli arredi sacri e l'altare, il culto funziona a pieno regime, ma è minacciato. Notate: il tempio è un valore sacramentale, sta lì a rappresentare quel segno che, nella storia del popolo di Dio, è memoria costante di una identità che lo definisce: identità del popolo che esiste in quanto appartiene al Signore che è presente. Il tempio è il sacramento dell’Alleanza tra il Signore e il suo popolo. Se il tempio è minacciato è minacciato questo valore sacramentale ed è minacciata così l’identità del popolo che, proprio in quel segno, nel tempo e nello spazio, realizza un valore rivelativo che riguarda esattamente il mistero di Dio e l’identità del popolo che si definisce nella relazione con il Dio vivente. Ed è un popolo provato, passato attraverso l’esperienza dell’esilio e della conversione.
Preparativi di resistenza
Vv. 4-8. La prima reazione coincide con un programma di resistenza: “Perciò spedirono messaggeri in tutto il territorio (da Gerusalemme: al centro c’è Gerusalemme, il Tempio, il Sinedrio, il Sommo Sacerdote e gli addetti al culto. E da Gerusalemme provengono messaggi che raggiungono le estreme periferie in modo tale da organizzare una difesa, almeno una parvenza di difesa; bisogna reagire e cercare di correre ai ripari) della Samaria, a Kona, a Bet-Coron, a Belmain, a Gerico e ancora a Choba, ad Aisora e alle strette di Salem, e disposero di occupare in anticipo le cime dei monti più alti, di circondare di mura i villaggi di quelle zone e di raccogliere vettovaglie in preparazione alla guerra, tanto più che nelle loro campagne era appena terminata la mietitura (un interrogativo: di quale guerra si tratterà? Quale combattimento bisognerà affrontare? Su quale campo di battaglia si svolgerà questa guerra? E, notate, “era appena terminata la mietitura”: vuol dire che il popolo ha appena celebrato la festa di Pentecoste e quindi è possibile raccogliere le provviste perché il raccolto è depositato ormai nei granai. Si prospetta l’eventualità, anzi l’urgenza inevitabile di un conflitto, ma di quale conflitto si tratta?). Inoltre Ioakìm, sommo sacerdote in Gerusalemme in quel periodo di tempo, scrisse agli abitanti di Betulia e Betomestaim (due cittadine dislocate sulla frontiera settentrionale e l’attenzione si concentrerà su Betulia) situata di fronte a Esdrelon all'imbocco della pianura che si stende vicino a Dotain (dove è accampato l’esercito di Oloferne), ordinando loro di occupare i valichi dei monti, perché di là si apriva la via d'ingresso alla Giudea e sarebbe stato facile arrestarli al valico, dove erano obbligati per la strettezza del passaggio a procedere tutti a due a due. Gli Israeliti fecero come aveva loro ordinato il sommo sacerdote Ioakìm e il consiglio degli anziani di tutto il popolo d'Israele (il Sinedrio), che si trovava a Gerusalemme”. Questa dislocazione geografica è emblematica; è vero che rispetto alla piana di Izreel la regione immediatamente meridionale, la Samaria, è più montuosa, ma qui il nostro narratore ci presenta la scena come se fossimo alle prese con una scarpata ridipissima, altissima e queste due cittadine – e l’attenzione si ferma su Betulia – sono lassù, mentre l’esercito di Oloferne è accampato ai piedi della montagna. Un’erta ripidissima conduce a quel valico e per entrare in Samaria le truppe devono passare di là; il passaggio è strettissimo, costringe a passare a due a due e, dunque, lì bisogna resistere. Fermando un momento l’attenzione sul nome della città di Betulia, il richiamo va a Betel, una località carica di reminiscenze nella storia della salvezza: uno dei grandi santuari; un momento di maturazione che conduce già i patriarchi e altri nel corso delle generazioni successive a transitare e sostare a Betel; pensate ad Abramo, a Giacobbe e altri momenti ancora. Betel in una certa epoca poi diventerà un santuario inquinato da devozioni idolatriche. Il termine Betulia rinvia anche ad un termine ebraico “betulì” che vuol dire “vergine”. E’ in questione la verginità: della Giudea? Del popolo dei credenti? Quando quel valico fosse attraversato, le truppe di Oloferne potrebbero dilagare impunemente su tutto il territorio. Siamo incoraggiati ad alzare lo sguardo verso l’alto. Ricordiamo il Salmo 121: “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?”
Un popolo in preghiera si affida a Dio
V. 9-12. Tutto il popolo è coinvolto in un’attività penitenziale perché tutti sono consapevoli della debolezza che li affligge; nessuno si illude. “Nello stesso tempo ogni Israelita levò il suo grido a Dio con fervida insistenza e tutti si umiliarono con grande impegno (si fecero piccoli: un’attività penitenziale che, passando attraverso il sospiro, il gemito, il digiuno, il cilicio, coinvolge in maniera determinante quella maturazione interiore che si esprime con il linguaggio della debolezza, della piccolezza, dell’insufficienza umana. E’ un popolo indifeso che parla rivolgendosi a Dio con il linguaggio della debolezza umana che non può difendersi da sola e che può soltanto consegnarsi e affidarsi). Essi con le mogli e i bambini, i loro armenti e ogni ospite e mercenario e i loro schiavi si cinsero di sacco i fianchi. Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore. Ricoprirono di sacco anche l'altare e alzarono il loro grido al Dio di Israele tutt'insieme senza interruzione, supplicando che i loro figli non venissero abbandonati allo sterminio, le loro mogli alla schiavitù, le città di loro eredità alla distruzione, il santuario alla profanazione e al ludibrio in mano alle genti”. Il massimo del dramma sta proprio nell’eventualità che il tempio sia nuovamente profanato, che gli animi siano invasi da questa corrente prepotente e travolgente che sta imponendo il potere assoluto di Nabucodònosor. E’ importante qui quel “tutt’insieme”: una sistematica manifestazione di questo stato di miseria; gente derelitta che, malgrado gli accorgimenti difensivi messi in atto, sa bene che il suo territorio non è una piazzaforte che può resistere all’esercito di Oloferne; nella loro piccolezza, deboli come sono, ma “tutt’insieme”: una coralità di popolo, di cuori, di animi, di coscienze di vocazioni che sono radicalmente unificate, congiunte, in comunione nell’esperienza della povertà umana.
Il Signore dà ascolto
V. 13-15. “Il Signore porse l'orecchio al loro grido e volse lo sguardo alla loro tribolazione (altre volte in diversi testi e momenti della storia del popolo di Dio incontriamo espressioni analoghe a questa. Il caso classico è nel Libro dell’Esodo, cap. 2: quella massa di schiavi in Egitto che si lamenta, strilla e strepita e il Signore ascolta, vede, è coinvolto. E quando Mosè verrà chiamato gli dirà “guarda che io ho ascoltato”. Il Signore è attento, non è latitante, assente o rinunciatario, ma la sua attenzione è rivolta proprio verso coloro che si rendono conto, nell’oggettività del vissuto, che non sono affatto in grado di difendersi da soli e porgono a lui, come attestato della loro effettiva debolezza umana, l’offerta di un grido; un grido dolente che forse non è neanche udibile da orecchie umane, che può essere un sospiro, un rantolo o uno di quei singhiozzi che restano muti nel cuore. Ma il Signore ascolta.), mentre il popolo digiunava da molti giorni in tutta la Giudea e in Gerusalemme davanti al santuario del Signore onnipotente. Ioakìm sommo sacerdote e tutti gli altri sacerdoti che stavano davanti al Signore e tutti i ministri del culto divino, con i fianchi cinti di sacco, offrivano l'olocausto perenne, i sacrifici votivi e le offerte volontarie del popolo. Avevano cosparso di cenere i loro turbanti e invocavano a piena voce il Signore, perché provvedesse benignamente a tutta la casa di Israele”. I sacerdoti sono addetti alla preghiera pubblica e gridano a squarciagola; per loro è un dovere liturgico perché il Signore “visitasse” tutta la casa di Israele per il bene. Intanto però la situazione sta precipitando.
Oloferne prepara l’attacco
Cap. 5, vv. 1-4: “Fu riferito intanto ad Oloferne, comandante supremo dell'esercito di Assur, che gli Israeliti si preparavano alla guerra e avevano bloccato i passi montani, avevano fortificato tutte le sommità dei monti e avevano disposto ostacoli nelle pianure (è una sorpresa per Oloferne; è sconcertato e quando riceve questa notizia si infuria). Egli montò in gran furore e convocò tutti i capi di Moab e gli strateghi di Ammon e tutti i satrapi delle regioni marittime (sono le popolazioni confinanti con Israele che si suppone conoscano che popolo sia Israele), e disse loro: «Spiegatemi un pò, voi figli di Canaan, che popolo è questo che dimora sui monti (una definizione significativa: popolo che “dimora sui monti” e che non è andato incontro a lui come altre popolazioni dimoranti nella medesima regione geografica) e come sono le città che egli abita, quanti sono gli effettivi del suo esercito, dove risiede la loro forza e il loro vigore, chi si è messo alla loro testa come re e condottiero del loro esercito e perché hanno rifiutato di venire incontro a me a differenza di tutte le popolazioni dell'occidente»”. Che popolo è mai questo? E, in maniera più pratica, Oloferne vuole informarsi sull’organizzazione militare e politica di questo popolo, chi ne è il re e chi il comandante dell’esercito.
Archior ricostruisce l’identità degli Israeliti: il popolo degli espulsi assistito dal suo Dio
Vv. 5-19. Adesso facciamo conoscenza con un personaggio che poi ritroveremo più in là nel racconto. E’ il generale delle truppe ammonite; Ammon è una popolazione che sta a oriente del Giordano, tradizionale nemica di Israele, assoldata nelle truppe di Oloferne. Archior risponde e fa un discorso bellissimo perché non formula una definizione di carattere sentenzioso che faccia riferimento a strutture amministrative, a una dinastia di governanti o a una particolare appartenenza etnico-culturale. Per quanto Archior sia un vero pagano fa un discorso prettamente teologico. Dovremo riflettere anche sul suo nome perché in ebraico Archior significa “fratello e luce”.
“Gli rispose Achior, condottiero di tutti gli Ammoniti: «Ascolti bene il mio signore la risposta dalle labbra del suo servo: io riferirò la verità sul conto di questo popolo, che sta su queste montagne vicino al luogo ove risiedi, né uscirà menzogna dalla bocca del suo servo. Questo popolo si compone di discendenti dei Caldei. Essi si trasferirono dapprima nella Mesopotamia, perché non vollero seguire gli dei dei loro padri che si trovavano nel paese dei Caldei. Essi avevano abbandonato la tradizione dei loro padri e avevano adorato il Dio del cielo, quel Dio che essi avevano conosciuto; perciò li avevano scacciati dalla presenza dei loro dei ed essi si erano rifugiati in Mesopotamia e furono là per molto tempo”. Archior non farà mai nomi propri; parla del popolo in quanto popolo; non cita Abramo per esempio, né Mosè, né Davide; parla del popolo, un popolo originale, radicalmente segnato da questa appartenenza al Dio del cielo per il quale gli antichi progenitori si trasferirono dalla regione in cui dimoravano, dal paese dei Caldei, all’Alta Mesopotamia e ancora furono costretti a spostarsi di qua e di là. Questa esperienza della espulsione viene subito segnalata come nota caratteristica: l’esperienza dello sradicamento. Dice il v. 7: “si trasferirono”, abituati a dimorare come forestieri in territori impervi, parzialmente sconosciuti nei quali poi si insediano e dai quali sono in qualche modo costretti ancora ad allontanarsi; e dice il v. 8 che erano stati scacciati dalla presenza di coloro che erano devoti di quegli dei venerati nel paese dei Caldei e quindi dimorarono come stranieri nell’alta Mesopotamia per molto tempo; abituati ad essere cacciati via, espulsi. Gente che come stigma originario di un’identità che permane nel corso del tempo, custodisce quello strappo che li ha espulsi da qualche parte dove pure erano a casa loro; li ha sottratti a certi legami a cui pure erano affezionati; gente buttata via.
V. 9: “Ma il loro Dio comandò loro di uscire dal paese che li ospitava e venire nel paese di Canaan. Qui infatti si stabilirono e si arricchirono di oro e di argento e di bestiame in gran numero (un legame particolare tra questo popolo, originale com’è, e questa terra che pure non è la terra in cui il popolo dimora in maniera stabile e definitiva; ci saranno ancora tanti spostamenti, però un legame certo, specialissimo tra popolo e terra). Poi scesero in Egitto, perché la fame aveva invaso tutto il paese di Canaan, e vi rimasero come stranieri finché trovarono da vivere. Là divennero anche una moltitudine imponente, tanto che non si poteva contare la loro discendenza. Ma si alzò contro di loro il re dell'Egitto che li sfruttò nella preparazione dei mattoni e perciò furono umiliati e trattati come schiavi. Essi alzarono suppliche al loro Dio e questi percosse tutto il paese d'Egitto con castighi ai quali non c'era rimedio. Perciò gli Egiziani li mandarono via dal loro paese. Dio asciugò il Mare Rosso davanti a loro e li guidò per la via del Sinai e di Cadesbarne; essi eliminarono quanti risiedevano nel deserto”. Qui, dopo essere rimasti in Egitto, malgrado l’inserimento temporaneo che pure dura generazioni, l’estraneità di questo popolo viene nuovamente rimarcata, diventa addirittura per il re d’Egitto il motivo per opprimere, schiacciare, perseguitare, espellere. C’è di mezzo la traversata del Mar Rosso; notate che la traversata nel deserto qui viene sintetizzata, alla fine del v. 14, con “essi eliminarono quanti risiedevano nel deserto”. E’ lo stesso verbo usato riguardo a Israele che è stato espulso: l’identità di quel popolo, che è caratterizzata in maniera così incisiva dall’esperienza dell’espulsione, diventa un modo di essere presenti nella storia umana che attira a sé tutto quello che la civiltà dominante getta via. Tutti gli scarti del mondo trovano modo di inserirsi nel vortice prodotto dal passaggio di quel popolo; il popolo degli espulsi trascina dietro di sé, ingloba, fa sì che sia istaurato un rapporto di misteriosa solidarietà aperta a tutti quelli che sono espulsi. Archior ragiona in questi termini: non sono termini storico-culturali, etnografici o socio-politici; sono termini di ordine propriamente teologico. E’ un’identità misteriosa che Dio conosce e che questo popolo manifesta, nel corso della storia umana, laddove la condizione di reietti diventa condizione propizia perché gli scarti del mondo trovino accoglienza. “Poi dimorarono nel paese degli Amorrei e sterminarono con la loro forza gli abitanti di Esebon; quindi passarono il Giordano e si insediarono in tutte quelle montagne. Scacciarono davanti a loro il Cananeo, il Perizzita, il Gebuseo, Sichem e tutti i Gergesei e abitarono nel loro territorio per molti anni”. Adesso si sono insediati in quella terra, dopo la traversata del deserto e tutte le vicende che sono seguite, e prendono dimora su quelle montagne: è la terra ricevuta in eredità ed è la terra nella quale essi dimorano in maniera tale da assorbire, contenere, accogliere, custodire tutto ciò che la storia umana nel suo corso schiaccia, reprime, travolge, annulla, butta via. Tutto quello che appare come realtà squalificata e perduta va ad insediarsi là dove il popolo è erede della sua terra. “In realtà fin quando non peccavano contro il loro Dio erano nella prosperità, perché il Dio che è con loro odia il male (adesso Archior sta stringendo i nodi di questa sua ricostruzione perché sta dicendo che la sorte di questo popolo dipende dalla relazione con Dio e, quindi, dalla adesione alla chiamata che ha ricevuto, al coinvolgimento nella relazione di vita con Lui che è il Dio vivente). Quando invece si allontanarono dagli ordinamenti che egli aveva loro imposti, furono terribilmente sconfitti in molte guerre e condotti prigionieri in paese straniero, il tempio del loro Dio fu raso al suolo e le loro città caddero in potere dei loro nemici. Ora appunto, riconciliati con il loro Dio, hanno fatto ritorno dai luoghi dove erano stati dispersi (i luoghi della diaspora), hanno ripreso possesso di Gerusalemme, dove è il loro santuario, e si sono stabiliti sulle montagne, che prima erano deserte”. E’ un popolo di peccatori convertiti e la sorte di questo popolo non dipende dall’iniziativa umana che cerca di inserire anche questo popolo dentro una logica di conquista, di alleanza o di intervento socio-culturale; la sorte di questo popolo dipende dalla relazione con Dio.
Archior inascoltato
V. 20-24. “Ora, mio sovrano e signore (sono le ultime considerazioni di Archior, non richieste, che mandano in bestia Oloferne) se vi è qualche aberrazione in questo popolo perché ha peccato contro il suo Dio, se cioè ci accorgiamo che c'è in mezzo a loro questo inciampo, avanziamo e diamo loro battaglia. Se invece non c'è alcuna trasgressione nella loro gente, il mio signore passi oltre, perché il Signore, che è il loro Dio, non si faccia loro scudo e noi diveniamo oggetto di scherno al cospetto di tutta la terra»”. Il contatto con questo popolo esige un discernimento teologico perché la sorte di questo popolo dipende dalla relazione con Dio. In questo modo viene negata la divinità di Nabucodònosor e il valore assoluto del suo potere e Archior che è un pagano si qualifica qui come teologo della storia: “mio fratello e luce”.
Gli altri dello stato maggiore, nella tenda di Oloferne, adesso protestano: “Ecco appena Achior cessò di pronunziare queste parole, tutta la turba che circondava la tenda e stazionava intorno, alzò un mormorio, mentre gli ufficiali di Oloferne e tutti gli abitanti della costa e i Moabiti proponevano di ucciderlo”. Una protesta che giunge alle estreme conseguenze fino alla minaccia di eliminare fisicamente Archior. Sono i gregari che si vantano perché sono gli ultimi arrivati; neofiti che cercano di mettersi in mostra e pendono dalle labbra di Oloferne in una fanatica devozione. Quando gli sconfitti diventano neofiti che si schierano dalla parte del vincitore, sono portati ad esprimersi con le forme di ossequio ideologico, privi di qualunque senso critico; sono ormai totalmente donati alla causa di colui che li ha sconfitti. “«Non avremo certo paura degli Israeliti, dicevano; vedete che è un popolo nel quale non ci sono esercito né forze armate per un valido schieramento. Dunque avanziamo presto e saranno pascolo di tutto il tuo esercito, o sovrano Oloferne»”. Il capitolo finisce così… appeso. Oloferne…
Archior consegnato agli israeliti
Cap. 6, vv. 1-21. Prende la parola Oloferne. “Quando si fu calmata l'agitazione degli uomini che presenziavano tutt'intorno al convegno, parlò Oloferne, comandante supremo dell'esercito di Assur, rivolgendosi ad Achior alla presenza di tutta quell'assemblea di stranieri e a tutti i Moabiti: «Chi sei tu, Achior, e i mercenari di Efraim, per profetare in mezzo a noi come hai fatto oggi e suggerire di non combattere il popolo d'Israele, perché il loro Dio li proteggerà dall'alto? E che altro dio c'è se non Nabucodònosor? Questi invierà la sua forza e li sterminerà dalla terra, né servirà il loro Dio a liberarli. Saremo noi suoi servi a spazzarli via come un sol uomo, perché non potranno sostenere l'impeto dei nostri cavalli. Li bruceremo in casa loro, i loro monti s'inebrieranno del loro sangue, i loro campi si colmeranno dei loro cadaveri, né potrà resistere la pianta dei loro piedi davanti a noi, ma saranno tutti distrutti. Questo dice Nabucodònosor, il signore di tutta la terra: così ha parlato e le sue parole non potranno essere smentite”. Parola di Nabucodònosor che è l’unico dio e Oloferne è sprezzante di fronte alla profezia di Archior. Lo dice lui stesso: “Chi sei tu per profetare in mezzo a noi”. Oloferne si rende conto che Archior ha proposto un’interpretazione teologica, ma è del tutto menzognera perché l’unico dio è Nabucodònosor e nei confronti della parola di Nabucodònosor è necessario un atto di fede. Per questo è necessario eliminare Israele; è un dovere religioso eliminare Israele perché la presa di Israele, stando alla profezia di Archior, contrasta frontalmente, direttamente, espressamente la unicità di Nabucodònosor. “Il loro Dio non sarà in grado di liberarli”, questo dice Nabucodònosor.
V. 5: Oloferne prende una decisione riguardo Archior. Molti vorrebbero farlo fuori subito, ma Oloferne trova una soluzione più “geniale”. “Quanto a te, Achior, mercenario di Ammon, che hai detto queste cose nel giorno della tua sventura, non vedrai più la mia faccia da oggi fino a quando farò vendetta di questa razza che viene dall'Egitto (notate che ancora c’è di mezzo una condanna a morte che viene rinviata a quando Israele sarà travolto nella sconfitta. Più empiricamente Oloferne decide di rinviare Archior al popolo di Israele; lo consegna a loro come un pacco-dono: “vai dall’altra parte, schierati con l’altra parte”. Lo costringe a condividere la sorte di Israele in modo tale che “tu sei condannato a morte, ma l’esecuzione avverrà quando Israele sarà sconfitto”. Vedete che artifizio “delicato”, ma anche Oloferne ha una sua genialità teologica; una teologia perversa, diabolica, infernale). Allora il ferro dei miei soldati e la numerosa schiera dei miei ministri trapasserà i tuoi fianchi e tu cadrai fra i loro cadaveri, quando io tornerò a vederti (su questo specchiarsi dei due volti torneremo al momento opportuno). I miei servi ora ti esporranno sulla montagna e ti porranno in una delle città sul percorso; non morirai finché non sarai sterminato con loro (Archior viene costretto a passare dalla parte di Israele. Ancora una volta la sorte di Israele – val la pena tornarci – viene condivisa come luogo di comunione per gli scarti, per gli espulsi, per tutti coloro che vengono emarginati e buttati fuori da quel convoglio che avanza con potenza strepitosa e che si impone come l’espressione vincente nel corso della storia umana. Sembra così.). Ma se speri in cuor tuo che essi non saranno presi, non sia il tuo aspetto così depresso. Ho detto: nessuna mia parola andrà a vuoto» (“Devi essere contento”; c’è anche uno scherno feroce). Allora Oloferne diede ordine ai suoi servi, che erano di turno nella sua tenda, di prendere Achior, di esporlo vicino a Betulia e di abbandonarlo nelle mani degli Israeliti. I suoi servi lo presero e lo condussero fuori dell'accampamento in aperta campagna, lo menarono dal mezzo della pianura verso la montagna e si trovarono presso le fonti che erano sotto Betulia. Quando gli uomini della città li scorsero sulla cresta del monte, presero le armi e uscirono dalla città dirigendosi verso la cresta (Archior viene consegnato legato come un pacco-dono). Tutti i frombolieri occuparono i sentieri di accesso e si misero a lanciare pietre su di loro. Quelli ridiscesero al riparo del monte, legarono Achior e lo abbandonarono gettandolo a terra alle falde del monte, quindi fecero ritorno al loro signore. Gli Israeliti scesero dalla loro città, si avvicinarono a lui, lo slegarono, lo condussero in Betulia e lo presentarono ai capi della città, che in quel tempo erano Ozia figlio di Mica della tribù di Simeone, Cabri figlio di Gotonièl e Carmi figlio di Melchièl. Radunarono subito tutti gli anziani della città e tutti i giovani e le donne accorsero al luogo del raduno”. Notate che qui il termine è “ecclisia”, c’è un’assemblea; ci sono i capi, menzionati qui per la prima volta, e gli abitanti della città: giovani, donne, anziani ed è in questo contesto che adesso Archior racconta quel che è successo. E’ un modo molto istruttivo per noi raffigurare in maniera così plastica una assemblea del popolo di Dio: il luogo in cui uno straniero può raccontarsi e raccontare quel che gli è successo. “Posero Achior in mezzo a tutta quell'adunanza e Ozia lo interrogò sull'accaduto. Quegli riferì loro le parole del consiglio di Oloferne e tutto il discorso che Oloferne aveva pronunziato in mezzo ai capi degli Assiri e quanto aveva detto superbamente contro il popolo d'Israele. Allora tutto il popolo si prostrò ad adorare Dio e alzò queste suppliche (lo straniero racconta in quell’assemblea e coloro che sono presenti rispondono al racconto che hanno ascoltato con questo appello alla misericordia pietosa di Dio che soverchia la superbia umana per quanto appariscente e illuminante voglia essere nel corso della storia): «Signore, Dio del cielo, guarda la loro superbia, abbi pietà dell'umiliazione della nostra stirpe e accogli benigno in questo giorno la presenza di coloro che sono consacrati a te» (la misericordia benefica di Dio che travolge la superbia degli uomini. E’ il modo di accogliere il racconto di Archior ed è il modo di coinvolgere anche Archior in questa testimonianza che fa tutt’uno con l’identità del popolo dei credenti. Che ci sta a fare? Esattamente per rendere testimonianza a questo discernimento che legge la storia umana come rivelazione della misericordia di Dio e sconfitta della superbia). Poi confortarono Achior e gli rivolsero parole di gran lode; Ozia da parte sua lo accolse dopo l'adunanza nella sua casa e offrì un banchetto a tutti gli anziani; per tutta quella notte invocarono l'aiuto del Dio d'Israele”. E la scena si chiude con la condivisione della mensa ed è interessante il fatto che c’è di mezzo un pagano (gli osservanti non mangiano alla stessa mensa dove siede un pagano), ma ormai siamo inseriti in un contesto di libertà gratuita che risponde a criteri di misericordia e non al rigore delle osservanze: questo è veramente il banchetto della misericordia, alla fine di un tempo dedicato al digiuno. E là dove è condivisa la mensa è condivisa quella debolezza umana che ormai è pubblicamente dichiarata ed è consegnata alla misericordia di Dio perché è Lui il protagonista e sa come dimostrarlo. In quest’atto di consegna della comune debolezza, ben raffigurata dalla partecipazione alla medesima mensa, sono insieme gli abitanti di Betulia e un pagano che è stato buttato via da Oloferne e la sua organizzazione e che trova accoglienza e consolazione nella città assediata.