4 marzo 2014
Quinto incontro del ciclo 2013-2014
Proseguiamo la lettura di questo libro un po’ nascosto nel contesto della letteratura antico-testamentaria, ma che ci trasmette una ricchezza veramente preziosa di contenuti: una parabola sul senso della vicenda umana, così come sapienti del popolo di Dio hanno potuto sintetizzare in una fase ormai avanzata di quella storia che conduce fino alla pienezza del Disegno nel Nuovo Testamento (II° secolo a.C.). La scena del mondo, così come appare laddove i poteri visibili e anche grandiosi sono dotati di un fascino che immediatamente colpisce l’immaginazione dei popoli; i poteri sono in conflitto fra loro e si avvicendano nel dominio del mondo. In questo libro è emersa fin dall’inizio, come espressione della volontà di dominio universale, non solo nello spazio – per quanto riguarda la geografia dei popoli e delle regioni – ma nel senso di una penetrazione nelle coscienze in modo tale da scandagliare gli animi e imporre ed ottenere un atto di sudditanza che implica un vero e proprio impegno di fede dove il potere del dominatore di turno attribuisce a se stesso un valore sacro, divino: la figura di Nabucodònosor; poi la grande impresa, affidata al generale comandante delle sue truppe, Oloferne, per punire i popoli dell’Occidente che non hanno corrisposto immediatamente al suo programma. L’avanzata travolgente dell’esercito immenso guidato da Oloferne si è arrestata sulla soglia di quella terra singolarissima nella quale vive il popolo di Israele, il popolo dei credenti. Abita sulla montagna: un popolo di peccatori che sono stati coinvolti nell’esperienza di conversione; appena tornato dall’esilio si è sistemato in quella regione della terra che assume un rilievo emblematico sulla scena del mondo. Tutto fa riferimento a Gerusalemme, al Tempio; siamo sul confine, identificato nella narrazione con la città di Betulia che sovrasta un valico attraverso il quale l’esercito di Oloferne dovrebbe penetrare nella terra di Israele, ma quel valico è strettissimo; la scarpata che conduce a quella cresta di montagne è particolarmente impervia: bisogna espugnare Betulia. La sorte del centro, di tutti i territori e della gente che vi abita, e dunque la sorte di Gerusalemme, con tutto quello che fa riferimento al valore sacramentale del tempio, dipende dalla resistenza della periferia, rappresentata dalla città di Betulia, la vergine. E abbiamo constatato che l’attenzione nel racconto si è andata progressivamente concentrando proprio su coloro che abitano in quella città e sulla motivazione interiore della resistenza che è sempre più precisamente qualificata come una resistenza che custodisce in sé l’identità del popolo in quanto impegnato in una relazione di fede con il Signore. Questa è la resistenza a cui sono tenuti gli abitanti di Betulia, una resistenza che li chiama a radicarsi nella fede; ma la precarietà, la debolezza, l’insufficienza della fede viene man mano emergendo in modo preoccupante al punto che, nella sua strategia, Oloferne, opportunamente consigliato, ha deciso di conquistare Betulia ricorrendo a un espediente che gli garantisce un successo pieno e senza alcuna perdita da parte sua: impedisce il rifornimento d’acqua. Questo richiamo all’acqua, come abbiamo già constatato, ha a che fare con quella resistenza di coloro che si radicano nella fede; è un’esperienza antica che accompagna la storia del popolo di Dio. Non c’è più acqua. Da qui, ricordate, il giuramento: i capi della città hanno giurato di resistere ancora cinque giorni e poi si arrenderanno. “Meglio schiavi che dover andare incontro a una morte certa ed essere in primo luogo testimoni della morte delle nostre donne e dei nostri bambini”. A quel punto è intervenuta Giuditta che convoca i capi e li rimprovera; poi si è fatta avanti dichiarandosi intenzionata a compiere un’impresa che non è stata meglio precisata. “L’impresa di Giuditta” è il titolo che suggerivo per inquadrare la terza parte della narrazione, della parabola. Abbiamo visto nella prima parte il confronto tra poteri che disputano per il dominio del mondo, fino al cap. 6; nella seconda parte, la prova della fede, capp. 7-9. E ora la terza parte fino al cap. 13. Giuditta si è presa l’impegno di affrontare la questione; ci sono cinque giorni di tempo perché si è anche accollata la responsabilità di quella situazione di debolezza che affligge la fede di tutti e che, attraverso il giuramento dei capi, ha assunto una visibilità pubblica, istituzionale. I capi, in questo caso, stanno a dimostrare istituzionalmente la debolezza della fede di tutti. Con quel giuramento ci sono cinque giorni di tempo per arrivare a una soluzione che confermi l’autenticità di una fede pura che è radicata nella libertà matura di una vocazione alla vita radicata nell’appartenenza a Dio. E, d’altra parte, in questo impegno, non ancora esplicitato dal punto di vista operativo, ma così limpido e rigoroso di Giuditta, c’è la testimonianza di una responsabilità circa il dato comunitario che coinvolge il popolo nella sua interezza e che ha assunto una visibilità pubblica molto deprimente attraverso il giuramento dei capi. Questa responsabilità comunitaria conferisce a Giuditta, per come si è presentata fin dall’inizio, una fisionomia materna. Sappiamo che è vedova e senza figli; uno stato vedovile che, secondo quel che leggevamo nella narrazione, assume una configurazione verginale, nel senso di una riduzione allo stato di colei che non ha altro sposo se non colui che è promesso come il Messia; lo Sposo del popolo che, nel corso di una lunga storia, si sta preparando alla maniera di coloro che prendono le opportune misure nel senso di un fidanzamento. Questa vedovanza di Giuditta, così come assume una singolare fisionomia nuziale, in rapporto allo Sposo promesso (lo Sposo per il popolo dei credenti), assume anche una speciale fisionomia materna; lei stessa si fa avanti per compiere quell’impresa che la espone direttamente e personalmente in una maniera davvero esemplare. Per come si è espressa nella conversazione con i capi, per come ha pregato lungamente, per come si comporta adesso nel seguito della vicenda, Giuditta conferma puntualmente la consapevolezza di portare con sé la storia del suo popolo, l’identità autentica della sua gente, la vocazione alla vita di coloro che appartengono al popolo dell’Alleanza. Una presa di posizione – quella di Giuditta – in nome della fede che, non mi stanco di ripetere, assume il valore di testimonianza di fecondità.
Abbiamo letto fino al capitolo 10: siamo alle prese con la terza parte della parabola (“L’impresa di Giuditta). Ora una seconda sezione; la prima sezione (nel cap. 10) ci ha consentito di osservare quel che avviene quando Giuditta esce da Betulia e si trasferisce nell’accampamento di Oloferne. Adesso è entrata lei in quello spazio così munito, rigorosamente circoscritto, ben difeso, là dove è asserragliato l’immenso esercito di Oloferne; Giuditta è entrata, addirittura scortata, ricevuta solennemente; splendono luci che illuminano il crepuscolo della sera: una scena che conferisce a Giuditta il ruolo della protagonista quando, in realtà, è ufficialmente una donna ebrea, fuggita dalla città assediata che è stata catturata dalle sentinelle assire in ricognizione. E’ comparsa dinanzi a Oloferne; le pagine che leggevamo un mese fa hanno rimarcato con puntigliosa commozione l’incantevole bellezza di Giuditta, quasi da restare senza fiato; commovente, entusiasmante è, nello stesso tempo, una bellezza provocatoria, che disturba, che si inserisce, nel contesto delle vicende umane, come un fenomeno dirompente, destabilizzante: è la bellezza della creatura umana che vive radicata nella fede, che è in grado di operare nella libertà; ed è una bellezza che già in sé, per come si presenta ed effonde il suo fascino gratuito, è testimonianza di fecondità, una fecondità che trasmette la vita, genera per la vita, ama, vuole la vita ed è al servizio della vita.
Oloferne offre a Giuditta una “salvezza” di schiavitù
Cap. 11, vv. 1-4. Giuditta è comparsa dinanzi ad Oloferne; lo stesso generale comandante dell’esercito assiro si è mosso verso di lei che si è prostrata a terra nascondendo il volto; quel volto che illumina ormai da un pezzo la scena della narrazione ed è stata subito fatta rialzare perché è il suo volto incantevole che attrae l’attenzione di tutti. Giuditta avanza a testa alta laddove, di fatto, è una prigioniera, è fuggiasca, è colei che si presenta come se volesse proporre al generale assiro una soluzione che garantisca la vittoria senza colpo ferire; una proposta di tradimento? Il doppio gioco di una spia? Se ne possono pensare tante: l’attenzione rimane comunque paralizzata dallo splendore di questo volto; a testa alta avanza, libera e amante della vita Giuditta che, nella relazione con il Dio vivente usa il “Tu” e ha fatto e continua a fare di sé tutto quello che comporta un atto di consegna al “Tu” del Dio vivente.
Cap. 11, v. 1: è la seconda sezione di questa terza parte che terminerà nel cap. 12, v. 9 che potremmo intitolare “La conversazione tra Giuditta e Oloferne”. Notate che è il vero campo di battaglia perché questo è il combattimento che ormai è impostato secondo criteri che nulla hanno a che fare con la tattica militare, perché mentre Oloferne vuole espugnare Betulia, Giuditta è già entrata nell’accampamento assiro, espugnando di fatto la difesa degli assiri che sono così potentemente attestati nel loro fortificato e poderoso accampamento.
“Allora Oloferne le rivolse la parola: «Sta’ tranquilla, o donna, il tuo cuore non abbia timore, perché io non ho mai fatto male ad alcun uomo che abbia accettato di servire Nabucodònosor, re di tutta la terra”. Per Oloferne, che adesso parla mentre sta osservando, contemplando, ammirando la bellezza di Giuditta, tutto il programma della sua vita – in questo caso della sua missione in quanto comandante dell’esercito assiro – dipende dalla risposta che ottiene da parte di coloro a cui si rivolge e coloro che vogliono diventare schiavi di Nabucodònosor presso di lui troveranno sempre una garanzia di salvezza. …” io non ho mai fatto male ad alcun uomo che abbia accettato di servire Nabucodònosor, re di tutta la terra”: è un annuncio di salvezza. Oloferne, a suo modo, è un evangelizzatore; soltanto è un evangelo che garantisce la vita a coloro che accettano, vogliono, si compiacciono di diventare schiavi; coloro che finalmente rinunciano alla vita. In realtà questo annuncio di salvezza di cui Oloferne è il portatore coincide con l’esercizio sempre e comunque di un potere di morte. Tanto è vero che ora egli stesso dice: “Quanto al tuo popolo che abita su questi monti, se non mi avessero disprezzato, non avrei alzato la lancia contro di loro; essi stessi si sono procurati tutto questo (dunque sono condannati a morte). Ma ora dimmi per qual motivo sei fuggita da loro e sei venuta da noi. Certamente sei venuta per trovar salvezza (è proprio vero: Oloferne evangelizza la salvezza che sta nell’essere finalmente gradevolmente, felicemente consegnati come schiavi a Nabucodònosor). Fatti animo: resterai viva questa notte e in seguito. Nessuno ti può fare un torto, ma ti useranno ogni riguardo, come si fa con i servi del mio signore, il re Nabucodònosor»”. E’ proprio questo il motivo che sostiene tutta l’attività, l’impegno missionario, quella pretesa di evangelizzazione che Oloferne vanta come le prerogative del suo vissuto: la maggior gloria di Nabucodònosor perché è il re del mondo; e se Giuditta è serva, schiava di Nabucodònosor, sarà regina. Intanto osserva la prigioniera e non c’è dubbio: la bellezza di lei lo sta conquistando. Giuditta, da parte sua, ha già degli alleati che non sono accanto a lei perché Giuditta è sola. C’è un’ancella, muta, accanto a lei, ma è una presenza che, in qualche modo, assume la forma di una specie di ombra che l’accompagna, come una presenza che fa parte di lei. Giuditta è sola, ma ha degli alleati che sono dentro Oloferne e questi alleati si possono chiamare in varia maniera: la vanità, la sensualità, quella presunzione di vittoria (una vittoria programmata e che già si prospetta come un’urgenza rigorosamente attuata) dell’uomo in carriera; è Oloferne e la presunzione della vittoria che gli spetta proprio perché è l’impegno con cui si dedica al servizio di Nabucodònosor che gli merita tutto questo. Una vittoria programmata e già realizzata in lui e nel suo modo di rannicchiarsi nel vezzeggiare la propria vanità e la propria sensualità. E questi sono gli alleati di Giuditta.
Giuditta incanta per come parla
Vv. 5-19. La risposta di Giuditta è un discorso bello e lungo. Giuditta incanta per la bellezza dei suoi lineamenti e incanta per come parla (così riconoscerà lo stesso Oloferne e gli altri accanto a lui). E’ quel modo di parlare che manifesta una motivazione interiore che si trasmette attraverso la bocca e la comunicazione verbale; si trasmette con una continuità, una limpidezza e una trasparenza che trova la sua figura sacramentale nella luminosità, nello splendore, nella bellezza del volto, quel che da dentro esce fuori; questa trasparenza del volto in quanto Giuditta parla e parla a cuore aperto, con la libertà e la purezza del cuore; e parla con la purezza del cuore nel momento stesso in cui noi abbiamo l’impressione che sta imbrogliando, sta ingannando, sta seducendo. Parla a cuore aperto: bellissimo il suo discorso. Non è una bellezza da mettere in vetrina, da esporre ai concorsi, né da ammirare su carta patinata. No, è una bellezza che parla in quanto c’è questa continuità tra la motivazione interiore e la testimonianza dichiarata, manifestata nella comunicazione.
“Giuditta gli rispose: «Degnati di accogliere le parole della tua serva e possa la tua schiava parlare alla tua presenza (la presenza indica il volto; si rivolge al volto di Oloferne). Io non dirò il falso al mio signore in questa notte”. Qui e ancora successivamente Giuditta non accetta di avere come interlocutore Nabucodònosor; non lo dichiara espressamente, ma non lo cita mai; si rivolge a Oloferne. “Io ho a che fare con te non con Nabucodònosor”. Infatti dice: “io sono la tua schiava, alla tua presenza; mi rivolgo a te che sei il mio signore in questa notte”. Cerca il rapporto diretto, il suo interlocutore è Oloferne anche se possiamo porci un interrogativo: quando Giuditta parla del “suo signore” a chi si riferisce? Sta ingannando; chi è “il mio Signore” per Giuditta? Sta ingannando o più esattamente sta parlando a cuore aperto, così come è la realtà del suo vissuto nell’intimità più sincera e verace. “Certo, se vorrai seguire le parole della tua serva, Dio agirà magnificamente con te e il mio signore non fallirà nei suoi progetti”. Anche qui chi è “il mio signore? “Ho un consiglio da darti, ti suggerisco come procedere in modo tale da essere sicuro nella vittoria”. E questa convinzione di essere chiamato a vincere, a stravincere, a travolgere sempre e comunque è proprio l’alleato che Giuditta può considerare come collaboratore particolarmente significativo nell’animo di Oloferne. “Sai come devi fare per vincere? Adesso te lo spiego io”. “Perché, per la vita di Nabucodònosor, re di tutta la terra, e per la potenza di lui che ti ha inviato a riordinare ogni essere vivente («tu sei nientemeno che depositario di una missione da cui dipende l’ordine della vita nel mondo, “tu”»), non gli uomini soltanto per mezzo tuo lo servono, ma anche le bestie selvatiche e gli armenti e gli uccelli del cielo vivranno in grazia della tua forza per l'onore di Nabucodònosor e di tutta la sua casa. Abbiamo già conosciuto per fama la tua saggezza e le abili astuzie del tuo genio ed è risaputo in tutta la terra che tu sei il migliore in tutto il regno, esperto nelle conoscenze e meraviglioso nelle imprese militari”. Giuditta è all’attacco, sta già penetrando nell’animo di Oloferne, lo sta catturando in nome del fatto che si è presentata per dichiararsi schiava del “suo signore”. Ma chi è il “suo signore”? “Lasciamo da parte Nabucodònosor; ci sei tu che nientemeno hai ricevuto la missione di instaurare l’ordine della vita nel mondo”. E prosegue. V. 9: “Quanto al discorso tenuto da Achior nella tua riunione, noi ne abbiamo udito il contenuto, perché gli uomini di Betulia l'hanno risparmiato ed egli ha rivelato loro quanto aveva detto davanti a te. Perciò, signore sovrano, non trascurare le sue parole (Giuditta dice che quello che ha detto Archior deve essere preso in debita considerazione, perché Archior diceva: “per combattere contro questo popolo bisogna tener conto della relazione che lo lega al suo Dio. Se la relazione è positiva è inutile che combatti con loro perché non li vincerai mai; se invece sono in difficoltà, come è capitato altre volte perchè hanno abbandonato, tradito, rinnegato l’alleanza con il loro Dio, allora sono esposti a tutte le calamità di questo mondo; ma adesso non ti consiglio di procedere contro di loro perché sono in pace con il loro Dio”. Giuditta dice che bisogna tener conto di quel criterio teologico), ma imprimile bene nella tua memoria perché sono vere (proprio per quelle parole Archior è stato trattato in quella maniera. Giuditta, invece, fa riferimento a quelle parole e trova udienza presso Oloferne): realmente il nostro popolo non sarà punito e non prevarrà la spada contro di lui, se non avrà peccato contro il suo Dio. Ora perché il mio signore non resti deluso e a mani vuote, sappia che si avventerà la morte contro di loro, perché li stringe il peccato per il quale provocheranno l'ira del loro Dio appena compiranno un gesto inconsulto”. “Archior ha detto il vero”, dice Giuditta “e, anche se è un povero disgraziato, rimane perfettamente corretta la sua lettura della storia e della storia del nostro popolo. La sorte di Israele dipende dalla qualità morale della nostra coerenza nell’alleanza con il Signore. E adesso ci siamo perché il nostro popolo sta per sprofondare nell’abisso di un peccato che manifesterà una situazione di rottura con il Signore, Dio di Israele; e allora tu potrai inserirti in quella situazione”. Giuditta, nella sua esposizione, sta conducendo Oloferne a trovarsi coinvolto in una vicenda che viene interpretata in base a criteri di ordine prettamente teologico che fanno riferimento alla relazione con il Signore Dio di Israele. La stessa Giuditta, anzi, assume, nei confronti di Oloferne, un tono di protezione: “fidati di me, ti proteggo io, ti spiego io come vanno le cose…”. E’ materna anche nei confronti di Oloferne: “stanno per commettere un peccato gravissimo e, allora, potrai intervenire impunemente, proprio perché quello che Archior ti aveva spiegato precedentemente ti fornisce il criterio valido per interpretare la vicenda e, dunque, anche la possibilità di vincere nei confronti di questa gente”. Ora perché il mio signore (rileggo il v. 11) non resti deluso e a mani vuote, sappia che si avventerà la morte contro di loro, perché li stringe il peccato per il quale provocheranno l'ira del loro Dio appena compiranno un gesto inconsulto”. Il peccato che qui si prospetta adesso Giuditta lo descrive a modo suo: è esattamente il tradimento della fede, è la rinuncia, il rinnegamento, lo svuotamento, l’avvilimento, lo spegnimento della fede. C’è di mezzo un giuramento: dopo cinque giorni si arrenderanno come schiavi. “Quello è il peccato, quello ti renderà possibile espugnare Betulia, il popolo, la terra, Gerusalemme, il tempio, quella presenza della fede nella storia umana che è sacramento rivelativo della presenza santa del Dio vivente”. E adesso descrive il peccato che si prospetta come una prossima scadenza, con dei riferimenti che noi non abbiamo appreso per altra via e che sono costruiti abbastanza artificialmente; quel che conta è il peccato che sta nella rinuncia alla fede. E, intanto, è proprio lei che, in nome della fede, già sta aggredendo Oloferne.
“Siccome sono venuti a mancare loro i viveri e tutta l'acqua è stata consumata, han deciso di mettere le mani sul loro bestiame (non siamo informati a riguardo di questi programmi) e deliberato di consumare quanto Dio con leggi ha vietato loro di mangiare. “Stanno progettando di contravvenire alle regole dell’alimentazione; hanno chiesto l’autorizzazione a Gerusalemme e pare che anche la suprema autorità, il Sinedrio di Gerusalemme, sia consenziente; e quando questo avverrà tu avrai via libera per avanzare e travolgere la loro linea difensiva”. “Hanno perfino decretato di dar fondo alle primizie del frumento e alle decime del vino e dell'olio che conservavano come diritto sacro dei sacerdoti che stanno in Gerusalemme e fanno servizio alla presenza del nostro Dio, tutte cose che a nessuno del popolo era permesso neppure di toccare con la mano. Perciò hanno mandato messaggeri a Gerusalemme, dove anche i cittadini hanno fatto altrettanto, perché riportino loro il permesso da parte del consiglio degli anziani (vedete come questo cedimento in rapporto alle osservanze delle regole alimentari sembra essere ormai un fenomeno generalizzato). Ma, quando riceveranno la risposta e la eseguiranno, in quel giorno preciso saranno messi in tuo potere per l'estrema rovina”. E’ solo una questione di tempo, dice Giuditta; cinque giorni. Nel frattempo quelli stanno per arrendersi, stanno per rinunciare alla fede e, addirittura, dice, c’è di mezzo la complicità delle autorità di Gerusalemme; si prospetta un atto di resa da parte della suprema autorità. E’ inevitabile: se il popolo sta rinunciando alla fede in quanto popolo, un ruolo preciso e inconfondibile, che assume un aspetto particolarmente drammatico, è proprio quello di coloro che hanno responsabilità di ordine istituzionale. Giuditta sta avanzando lei, tutta sola, in nome della fede, dichiarando e spiegando a Oloferne che potrà vincere soltanto quando avrà espugnato la fede; ed è in nome della fede che lei lo sta affrontando. “Per questo, io tua serva, conscia di tutte queste cose, sono fuggita da loro e Dio mi ha indirizzata a compiere con te un'impresa che farà stupire tutta la terra ovunque ne giungerà la fama (Quale impresa? L’impresa di Giuditta, come vi suggerivo. Che cosa capisce Oloferne? La sensualità di Oloferne come reagisce a questa sollecitazione, a questo suggerimento, a questa allusione a un’ipotesi che sembra suscitare chissà quali aspettative di piacere). La tua serva è religiosa e serve notte e giorno al Dio del cielo. Ora io intendo restare con te, mio signore, ma uscirà la tua serva di notte nella valle; io pregherò il mio Dio ed egli mi rivelerà quando essi avranno commesso i loro peccati (“al momento opportuno ti informerò: il peccato è compiuto e tu puoi procedere. Giuditta si propone come consigliera di Oloferne non in nome di una particolare competenza di strategie militari, ma in nome della sua sapienza profetica). Allora verrò a riferirti e tu uscirai con tutto l'esercito e nessuno di loro potrà opporti resistenza. Io ti guiderò attraverso la Giudea, finché giungerò davanti a Gerusalemme e vi porrò in mezzo il tuo trono. Tu li potrai condurre via come pecore senza pastore e nemmeno un cane abbaierà davanti a te. Queste cose mi sono state dette prima (Giuditta si propone come profetessa, depositaria di un oracolo che ora viene comunicato, annunciato, messo a disposizione di Oloferne. “… nemmeno un cane abbaierà davanti a te”: questo lo troviamo anche nel Libro dell’Esodo quando viene annunciata la decima piaga, quella dei figli primogeniti e quando, invece, Israele potrà uscire dall’Egitto senza subire alcun danno; cap. 11. v.7), io ne ho avuto la rivelazione e l'incarico di annunziarle a te»”. C’è un’impresa che Giuditta e Oloferne devono compiere insieme e Giuditta ha assunto la posizione della consigliera ispiratrice in termini profetici che fanno riferimento alla fedeltà, alla continuità, notte e giorno, della sua preghiera. Per questo si è già anche preparata una strada di uscita dall’accampamento, quella che deve essere praticata per potersi recare in quella località appartata e fare le abluzioni necessarie per la preghiera notturna.
Oloferne ammira la sapienza di Giuditta.
Vv. 20-23: “Le parole di lei piacquero a Oloferne e ai suoi servi (vedete la bellezza di Giuditta che parla), i quali tutti ammirarono la sua sapienza (questa capacità di parlare in modo tale che la comunicazione sia espressione limpida e purissima di un’intenzione custodita nel cuore, laddove il cuore è in ascolto e impegnato nella relazione con il Dio vivente. Oloferne e gli altri sono catturati da questa sapienza) e dissero: «Da un capo all'altro della terra non esiste donna simile, per la bellezza dell'aspetto (il volto) e il senno della parola». E Oloferne le disse: «Bene ha fatto Dio a mandarti avanti al tuo popolo (adesso è Oloferne che parla in nome di Dio), perché resti nelle vostre mani la forza e coloro che hanno disprezzato il mio signore vadano in rovina. Tu sei bella d'aspetto e saggia nelle parole; se farai come hai detto, il tuo Dio sarà mio Dio e tu siederai nel palazzo del re Nabucodònosor e sarai famosa in tutto il mondo”. Addirittura Oloferne prospetta l’ipotesi paradossale di una sua conversione al Dio di Giuditta: “il tuo Dio sarà mio Dio”. Ormai Oloferne è uno spasimante pronto ad annunciare affermazioni che non hanno più misura; e poi, di fatto, Oloferne ritorna sempre a proclamare la sua devozione nei confronti del gran re di tutta la terra che è Nabucodònosor.
Giuditta viene ospitata con tutti gli onori e alle sue condizioni
Cap. 12, vv. 1-9. Giuditta viene sistemata nell’accampamento. “Ordinò poi che la conducessero dove aveva disposto le sue argenterie e prescrisse pure che le preparassero la tavola con i cibi approntati per lui e le dessero da bere il suo vino”. Giuditta è sistemata nella tenda del “tesoro”; è lei stessa un gioiello che contribuisce ad arricchire quel tesoro. C’è di mezzo il problema dell’alimentazione; sappiamo già che Giuditta si è portata dietro il cibo a cui può accostarsi per mantenersi in uno stato di purezza, secondo le regole previste. La sua ancella ha portato una bella scorta, carica di tutto quello che serve e, infatti, Giuditta spiega: “Ma disse Giuditta: «Io non toccherò questi cibi, perché non ne venga qualche contaminazione (“non voglio in nessun modo contraddire le norme a cui il nostro popolo deve attenersi), ma mi saranno serviti quelli che ho portato con me». Oloferne le fece osservare: «Quando verrà a mancare quello che hai con te, dove andremo a rifornirci di cibi uguali per darteli? In mezzo a noi non c'è nessuno della tua gente». Ma Giuditta rispose: «Per la tua vita, mio signore, ti assicuro che io, tua serva, non finirò le riserve che ho con me, prima che il Signore abbia compiuto per mano mia quello che ha stabilito”. Da parte di Oloferne, quell’approccio che usava il linguaggio della mensa condivisa già conteneva l’allusione a un altro tipo di intimità, ma Giuditta mantiene le distanze. Oloferne obietta, ma lei spiega: “prima che vengano meno le provviste il Signore avrà compiuto per mano mia quello che ha stabilito”. “Così i servi di Oloferne la condussero alla tenda ed essa riposò fino a mezzanotte; poi si alzò all'ora della veglia del mattino. Essa fece dire ad Oloferne (aveva fatto dire) «Comandi il mio signore che lascino uscire la tua serva per la preghiera». Oloferne comandò alla guardia del corpo di non impedirla. Rimase così al campo tre giorni (tre giorni e tre notti. E’ interessante che Giuditta ha conferito alla conversazione con Oloferne, alla relazione con il generale comandante, il ritmo della preghiera; impone a Oloferne di sottostare al ritmo della preghiera diurna e notturna): usciva di notte nella valle sotto Betulia e si lavava nella zona dell'accampamento alla sorgente d'acqua. Risalita dal lavacro, pregava il Signore Dio di Israele di dirigere la sua impresa volta a ristabilire i figli del suo popolo. Rientrando purificata, rimaneva nella sua tenda, finché, verso sera, non le si apprestava il cibo”.
Giuditta al banchetto di Oloferne: non può contraddire il “suo Signore”
Vv. 10-20. Sono passati tre giorni e tre notti. Oloferne ormai è deciso e invita Giuditta. “Ed ecco, al quarto giorno, Oloferne fece preparare un rinfresco riservato ai suoi servi, senza invitare a mensa alcuno dei suoi ufficiali, e disse a Bagoa, (l’eunuco) il funzionario incaricato di tutte le sue cose: «Và e invita quella donna ebrea che è presso di te a venire con noi, per mangiare e bere assieme a noi, poiché è cosa disonorevole alla nostra reputazione se lasceremo andare una donna simile senza godere della sua compagnia; se non sapremo conquistarla, si farà beffe di noi»”. Oloferne è divorato da questo appetito, ma è una sensualità che lo sta risucchiando internamente; il desiderio di conquistare Giuditta, come dichiara all’eunuco suo collaboratore, gli eviterà il ridicolo perché Oloferne ha di sé l’immagine del protagonista che è abile a carpire qualunque gratificazione passeggera senza lasciarsi sfuggire nessuna occasione. “Bagoa, uscito dalla presenza di Oloferne, andò da lei e disse: «Non abbia difficoltà questa bella ragazza a venire presso il mio signore, per essere onorata alla sua presenza e bere con noi il vino in giocondità e divenire oggi come una delle donne assire, che stanno nel palazzo di Nabucodònosor». Bagoa dovrebbe svolgere opera di convincimento, ma trova Giuditta perfettamente disponibile; è predisposta, è maturato il tempo. Bagoa le parla dell’onore che spetta alle donne assire. Che cosa vuol dire essere donna ed essere onorata? Interrogativi che qui vengono formulati lasciando aperta la risposta, ma in una prospettiva che si illumina nel contesto della parabola che ci aiuta a contemplare proprio una figura femminile come testimone della fede e, in questo modo, constatare come la vocazione alla vita acquista l’onore della libertà che è specchio della gratuita vita di Dio. “Giuditta rispose a lui: «E chi sono io per osare contraddire il mio signore? (già è preparata. Rimane sempre quell’ambiguità che nello stesso tempo è una chiarezza folgorante. Diciamo ambiguità? “Il mio signore”: chi è “il mio signore” di Giuditta? E’ ambigua questa sua dichiarazione, questo suo modo di appellarsi a “un signore”? E’ dotata di una chiarezza folgorante: “non posso contraddire il mio signore”) Quanto sarà gradito ai suoi occhi, mi affretterò a compierlo e sarà per me motivo di gioia fino al giorno della mia morte»”. Accettare l’invito da parte di Oloferne, tramite Bagoa, per Giuditta significa dare credito alla promessa che le annuncia una gioia che non muore: è la promessa che conferisce beatitudine immortale all’esercizio della fede, alla vita che si radica e si consuma nella fede ed è la vita che splende come specchio affascinante dell’inesauribile fecondità nell’amore di Dio e del suo segreto. “Subito si alzò e si adornò delle vesti e d'ogni altro ornamento muliebre; la sua ancella l'aveva preceduta e aveva steso a terra per lei davanti ad Oloferne le pellicce che aveva ricevuto da Bagoa per suo uso quotidiano, per adagiarvisi sopra e prendere cibo (anche in questo contesto Giuditta rimane perfettamente osservante, rigorosamente attenta al rispetto di tutte le norme da cui dipende la purità legale dei credenti che appartengono al popolo di Israele). Giuditta entrò e si adagiò. Il cuore di Oloferne rimase estasiato e si agitò il suo spirito, aumentando molto nel suo cuore la passione per lei; già da quando l'aveva vista, cercava l'occasione di sedurla. Le disse pertanto Oloferne: «Bevi e datti alla gioia con noi». Giuditta rispose: «Sì, berrò, signore, perché oggi sento dilatarsi la vita in me, più che tutti i giorni che ho vissuto»”. La sensualità di Oloferne fa di questo personaggio il prigioniero di un ingorgo che lo sta macinando, disintegrando, distruggendo internamente; il cuore di Oloferne, che è rimasto estasiato e si agita in maniera così appassionata, è risucchiato in se stesso in un rigurgito che lo inchioda, lo paralizza: implode il cuore di Oloferne, tanto è vero che si ubriaca a tal punto da rimanere esattamente immobilizzato, paralizzato.
“Giuditta rispose: «Sì, berrò, signore, perché oggi sento dilatarsi la vita in me, più che tutti i giorni che ho vissuto»”. E’ proprio la potenza, la fecondità della vita, l’inesauribile corrente di vita che passa attraverso una creatura umana quando è l’opera di Dio che si compie, l’iniziativa di Dio che trova ascolto, l’amore di Dio che viene ricevuto e trasmesso. “Incominciò quindi a mangiare e a bere davanti a lui ciò che le aveva preparato l'ancella (perché Giuditta mangia e beve soltanto di quel cibo e di quella bevanda che si è portata da casa sua). Oloferne si deliziò della presenza di lei e bevve abbondantemente tanto vino quanto non ne aveva mai bevuto solo in un giorno da quando era al mondo”. Ubriaco fradicio.
Giuditta si affida allo sguardo del Signore e consuma la sua impresa
Cap. 13, vv. 1-10. “Quando si fece buio, i suoi servi si affrettarono a ritirarsi. Bagoa chiuse dal di fuori la tenda e allontanò le guardie dalla vista del suo signore e ognuno andò al proprio giaciglio; in realtà erano tutti fiaccati, perché il bere era stato eccessivo. Rimase solo Giuditta nella tenda e Oloferne buttato sul divano, ubriaco fradicio”. Due personaggi soli: la solitudine di Oloferne che è annegato nel vino, abbandonato a se stesso da tutti i suoi (un immenso esercito e lui è solo in questo abisso, prigioniero della propria prepotenza umana autodistruttiva) e Giuditta; la sua solitudine è quella della creatura orante nella fede. La scena assume una rilevanza classica molto eloquente: la solitudine di Oloferne annegato nel vino; la solitudine di Giuditta che è immersa nella preghiera. “Allora Giuditta ordinò all'ancella di stare fuori della sua tenda e di aspettare che uscisse, come aveva fatto ogni giorno; aveva detto infatti che sarebbe uscita per la sua preghiera e anche con Bagoa aveva parlato in questo senso. Si erano allontanati tutti dalla loro presenza e nessuno, piccolo o grande, era rimasto nella parte più interna della tenda; Giuditta, fermatasi presso il divano di lui, disse in cuor suo (Giuditta è in preghiera, una preghiera interiore; una preghiera senza voce, che non fa rumore. Ricordate nel 1° libro di Samuele il caso di Anna che prega senza fare rumore dinanzi al santuario e il sommo sacerdote le dice “tu sei ubriaca!”; e poi Anna diventa madre di Samuele. E’ la preghiera di una creatura che è totalmente esposta; una povertà radicale che coincide con la libertà della fede, in un contesto nel quale, come Giuditta ribadisce, sta assumendo la responsabilità di una comunione illimitata, aperta, dove c’è spazio per tutto il popolo e per tutta l’umanità – in quella sua solitudine): «Signore, Dio d'ogni potenza, guarda propizio in quest'ora all'opera delle mie mani per l'esaltazione di Gerusalemme. E' venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi»”. Giuditta si affida allo sguardo del Signore onnipotente: lo sguardo del Signore rende tempestivo l’uso delle mani di Giuditta. La fede esercitata al tempo suo, nel corso della storia umana, realizza un evento che acquista un rilievo fecondo per l’eternità. “Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: «Dammi forza, Signore Dio d'Israele, in questo momento». E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt'e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città”. Il racconto è andato avanti molto lentamente ma quest’ultima pagina che abbiamo letto è rapidissima; una tempestività micidiale, dirompente, incisiva. In tante vicende c’è lentezza, bisogna pazientare, arriverà il momento; quando il momento arriva la mano di Giuditta interviene con quella concretezza oggettiva, empirica, materiale che rivela nell’atto di fede una pienezza di significato di portata eterna, corrispondente all’inesauribile fedeltà creatrice della parola di Dio.