4 febbraio 2014
Quarto incontro del ciclo 2013-2014
Riprendiamo la lettura del Libro di Giuditta ed io spero che, nel corso di queste settimane, l’eco delle pagine che stiamo man mano leggendo sia ritornata nei nostri animi e ci aiuti a proseguire in quell’atteggiamento di ricerca, sapienziale, che è proprio della redazione di un testo come questo che stiamo leggendo: una riflessione sapienziale sul funzionamento della storia umana, dove i dati essenziali si riducono alla constatazione riguardante la scenografia grandiosa che l’iniziativa dell’uomo mette in opera nel corso di una vicenda che, con diverse angolature, passa attraverso la comparsa di grandi imperi che sono il punto di coagulo di movimenti di civiltà, sintesi culturali, espressioni magnifiche, per certi versi entusiasmanti, della capacità umana di organizzare il mondo, dominare la scena della storia, costruire impalcature di ordine civile, amministrativo, giuridico, sociale. Ed ecco, nell’avvicendarsi di grandi imperi, il protagonismo di Dio: la presenza che man mano viene identificata come strumento rivelativo, come sacramento che rende riconoscibile la presenza operosa del Dio vivente che è il protagonista. Il popolo dei credenti è esposto a costrizioni di ogni genere, come sappiamo: è un popolo di peccatori che si convertono; un popolo come gli altri, coinvolto all’interno di quel vortice che il Libro di Giuditta descrive nei primi sei capitoli come un avvicendarsi di imperi: in quel contesto c’è anche il popolo dei credenti, un popolo di peccatori che stanno facendo esperienza di conversione.
Proprio leggendo i primi sei capitoli abbiamo fatto conoscenza con Nabucodònosor, Oloferne, il generale comandante dell’esercito che è stato spedito in missione per conquistare l’Occidente. I popoli che man mano si arrendono e si consegnano con entusiasmo, con trasporto, felici e commossi di poter finalmente riconoscere Nabucodònosor come loro sovrano e come loro dio. Oloferne imperversa usando una capacità di penetrazione, di invasione, di conquista che è inarrestabile finché, ad un certo momento, sulla scena compare il popolo di Israele, il popolo dei credenti; arroccato in una zona di montagna, impervia, per cui l’esercito di Oloferne si accampa nella pianura sottostante la scarpata che, provenendo da nord, garantirebbe l’ingresso nel territorio e il raggiungimento di Gerusalemme; la grande minaccia che sconvolge gli animi è la profanazione del tempio che è stato restaurato da pochissimo tempo.
Abbiamo affrontato, a partire dal cap. 7, una seconda parte del racconto (capp. 8-9) che ho intitolato “la prova della fede”. C’è stato l’intervento di Archior, un personaggio singolare e a suo modo commovente; un generale ammonita che, dinanzi a Oloferne, rende testimonianza del popolo di Israele che è serenamente inserito in quella relazione di speciale alleanza che lo lega al suo Dio; questo tempo, spiega Archior, è un tempo di armonia in questa relazione; sarebbe meglio non attaccarlo. Archior è stato condannato dal generale comandante e trasferito dall’altra parte del fronte e dimora anch’egli a Betulìa, la città assediata, la vergine assediata, la verginità della fede assediata, l’autenticità, la coerenza, la santità della fede assediate e, nello stesso tempo, la debolezza della fede, perché la fede è debolissima; è esposta a situazioni che la interpellano, la contestano, la mettono a dura prova. E’ inevitabile: la fede è l’atto supremo della libertà che si trova alle prese con le vicende della storia umana, nelle quali tutto quel che si prospetta come motivo di successo o comunque garanzia di benessere, di stabilità, di serenità assume la forma di una persuasiva esortazione ad accettare la schiavitù, anzi a volerla, a desiderarla: “più siamo schiavi e più staremo bene”. Troviamo il padrone giusto e, ora, è Nabucodònosor”. Meglio essere schiavi di Nabucodònosor e così vivere prosperosamente, con gratificazioni, con l’inserimento in questo disegno culturale e politico, godendo di quel successo che ha dato alla storia umana un timbro ormai indelebile, per quel che sembra naturalmente. Poi sappiamo che si passa da un impero all’altro, che gli imperi decadono; ma questo, ora, sembra ormai un dato acquisito in maniera definitiva, un marchio incancellabile impresso agli eventi che, nel loro succedersi ed evolversi, confermano e continueranno a confermare sempre che il potere spetta a Nabucodònosor che è il dio di questo mondo. “Meglio essere schiavi”: questa schiavitù è la diretta contestazione della fede. La fede è l’espressione suprema della libertà ed è esattamente quella libertà a cui Dio chiama le sue creature.
Nel cap. 8 abbiamo fatto conoscenza con Giuditta che compare nel momento in cui la fede del popolo dei credenti, che in questo caso è rappresentato dagli abitanti di Betulia, è messa a dura prova: è una città che si assume una responsabilità di ordine generale perché se Betulia cede, si arrende e viene conquistata, l’accesso al territorio è esposto all’aggressione di Oloferne, all’invasione del suo esercito e quel che ne conseguirà per la sopravvivenza del popolo dei credenti; Betulia è la porta di accesso per conquistare Gerusalemme e il tempio dove è conservato il culto che è il grande sacramento dell’alleanza tra il Signore e il suo popolo. Nel cap. 7 abbiamo visto come sia reso impossibile il rifornimento dell’acqua. E’ una problematica antichissima: abbiamo ricordato, proprio un mese fa, i tanti episodi nel corso del grande viaggio dall’Egitto, là dove quella massa di gente era schiava, laddove l’evento della liberazione si è espresso nella sua forma più gratuita e laddove quel popolo nel corso del viaggio è sollecitato ad attivare comportamenti, un nuovo modo di impostare la vita e di aderire alle situazioni che man mano si presentano nel rapporto con il mondo in un contesto di libertà. E questa libertà è compromessa, contrastata, avvilita; corre il rischio di un drammatico soffocamento. Tanti episodi che raccontano il grande viaggio dall’Egitto alla Terra promessa. E a Betulia è venuto meno il rifornimento dell’acqua e la popolazione non ce la fa più: meglio arrendersi e consegnarsi come schiavi, così almeno sarà salva la vita. I capi, Ozia e i suoi collaboratori, hanno giurato: “ancora cinque giorni e poi ci arrenderemo”. A questo punto interviene Giuditta, cap. 8: convoca i capi, li rimprovera severamente, aspramente; il discorso chiarificatore che Giuditta rivolge ai capi della città è testimonianza cristallina di una posizione di fede che non vuole arrendersi. Giuditta è vedova e la sua vedovanza l’ha ricondotta a una condizione di verginità che guarda oltre gli orizzonti che circoscrivono il cammino di una vita all’interno di un destino di morte: è una vedovanza messianica; è rappresentante davvero di tutto un popolo che, a suo modo, è così fragile e segnato da tanta fiacchezza; un popolo di credenti ansimanti che sono pronti ad arrendersi, ma Giuditta, nella coerenza della sua posizione di fede, si assume la responsabilità di quel popolo; non emerge come l’eroina solitaria, sprezzante del pericolo e di quei personaggi pusillanimi che sono pronti a rinunciare alla fede. Senza disprezzare nessuno, ma assumendosi una responsabilità diretta per quanto riguarda la debolezza di tutti, si fa avanti e si assume anche la responsabilità di quel giuramento che ormai è irrevocabile: “ancora cinque giorni”. Ne sono passati trentaquattro dall’inizio dell’assedio, più cinque del giuramento. Il quarantesimo giorno sarà il giorno decisivo. E Giuditta dice: “lasciate fare a me, «voglio compiere un’impresa che passerà di generazione in generazione ai figli del nostro popolo»”. Noi ancora non siamo informati del suo progetto, né lei informa i capi della città con i quali sta conversando; vuole mantenere il segreto. Ma, quale che sia lo sviluppo narrativo o scenico dell’impresa annunciata, è l’atto della fede che Giuditta sta annunciando come suo impegno che coincide con l’attestato di una responsabilità che le assegna l’incarico di sostenere tutto un popolo di credenti deboli, fiacchi, pusillanimi. Nella sua fede si assume l’onere dell’incredulità generale, di quella situazione ambigua, grigiastra, intermedia in cui il popolo dei credenti è abituato a stazionare sia come popolo che come singoli. Ricordate ancora come Giuditta ci tiene a precisare che non vale nemmeno mascherarsi dietro una confessione di peccato (siamo peccatori e allora Dio ci punisce); anche questo per lei è un atto di pusillanimità; la situazione incresciosa, tragica nella quale ci troviamo non è una punizione da parte di Dio perché noi siamo peccatori. E’, invece, un’occasione propizia che porta in sé la rivelazione di una fecondità misteriosa che solo Dio conosce e che riguarda la fede; è una prova di fede, non una punizione per la nostra tradizionale e miserabile assuefazione al peccato. Non siamo chiamati ad accettare una punizione, ma ad affrontare fino in fondo il rischio della fede, in un contesto nel quale la nostra oggettiva impreparazione è più che mai evidente, sperimentata, condivisa. E, condividendo la debolezza generale, Giuditta avanza.
L’inganno umano è vinto dallo zelo della fede
Cap. 9, vv. 1-4. Questo capitolo fa ancora parte della seconda sezione del nostro racconto che intitolavo “La prova della fede”. Giuditta ha dichiarato la sua intenzione senza scendere nei dettagli. “Allora Giuditta cadde con la faccia a terra e sparse cenere sul capo e mise allo scoperto il sacco di cui sotto era rivestita (viveva in penitenza, portava il cilicio) e, nell'ora in cui veniva offerto nel tempio di Dio in Gerusalemme l'incenso della sera, Giuditta supplicò a gran voce il Signore (tutto il cap. 9 è dedicato a raccogliere e trasmettere a noi la testimonianza orante di Giuditta. Anche nel momento in cui il nostro personaggio entra in preghiera il racconto tiene a sottolineare il vincolo di comunione che la collega con tutto il popolo. Dividiamo questa supplica in quattro sezioni: prima sezione (dal v. 2 al v. 4): «Signore, Dio del padre mio Simeone (Giuditta appartiene alla tribù di Simeone che scomparve molto presto per appartenere alla tribù di Giuda; eppure non è un caso se ella è stata presentata come discendente di Simeone ed essa stessa ci tiene a rievocare un episodio che leggiamo nel cap. 34 del Libro del Genesi nel quale è direttamente coinvolto il suo antenato. Sono due figli di Giacobbe, Simeone e Levi, che intervengono in maniera molto severa nei confronti di quel principe di Sichem che si è innamorato di una sorella, Dina, e si è unito a lei. I fratelli hanno predisposto una vendetta ferocissima: costrinsero gli abitanti di Sichem a circoncidersi da adulti e, nel momento in cui sono tutti doloranti in seguito all’intervento chirurgico, vengono sterminati. Senza scandagliare nei dettagli, Giuditta rievoca quell’episodio dimostrando di non essere spaventata per l’abbondanza di sangue che fu allora, in maniera così violenta, versata a danno di innocenti o colpevoli che fossero; comunque, sinceramente disposti a entrare in un rapporto positivo con la gente di Giacobbe, tanto è vero che erano stati disposti ad accettare la circoncisione; ma che cosa dice Giuditta qui? Leggiamo) tu hai messo nella sua mano la spada della vendetta contro gli stranieri, contro coloro che avevano sciolto a ignominia la cintura d'una vergine, ne avevano denudato i fianchi a vergogna e ne avevano contaminato il grembo a infamia. Tu avevi detto: non si deve fare tal cosa! ma essi l'hanno fatta. Per questo hai consegnato alla morte i loro capi e al sangue quel loro giaciglio, macchiato del loro inganno, ripagato con l'inganno; hai abbattuto i servi con i loro capi e i capi sui loro troni”. Attenzione a questo linguaggio di Giuditta che dice: “loro ingannarono e sono stati ingannati”. I seduttori sono stati sedotti. È come se Giuditta qui fosse in grado di cogliere, nello svolgimento di quell’episodio antico, ma anche nello svolgimento di eventi che poi si ripropongono in contesti diversi e con proiezioni sempre originali, una regola che si riscontra nel corso della storia umana per cui coloro che ingannano sono ingannati. Si entra dentro questo percorso che, dall’interno, condiziona la storia umana strutturandola come economia dell’inganno mediante la fede: è la fede che è in grado di scrutare, riconoscere, interpretare e anche valorizzare questa economia dell’inganno che è rivelazione del protagonismo di Dio nella storia umana. Giuditta ci dice che laddove viene gestita la storia umana in forza di quella volontà di seduzione, di inganni, di prepotenza, di violenza che è propria dell’iniziativa umana, là proprio l’iniziativa umana è sconfitta. Ma come si entra dentro a questa evoluzione che sconfigge l’inganno? Mediante l’inganno e l’inganno consiste nella fede: il vero inganno che sgambetta la storia fatta dagli uomini come inganno programmatico per gestire, dominare, strumentalizzare tutto e tutti, consiste nello zelo della fede, come dice nel v. 4, laddove la povertà umana entra in scena da protagonista.
“Hai destinato le loro mogli alla preda, le loro figlie alla schiavitù, tutte le loro spoglie alla divisione tra i tuoi figli diletti, perché costoro, accesi del tuo zelo, erano rimasti inorriditi della profanazione del loro sangue e a te avevano gridato chiamandoti in aiuto. Dio, Dio mio, ascolta anche me che sono vedova”. La povertà, l’autenticità, la coerenza, la purezza, lo zelo della fede: la fede che non si difende, che non cerca alleanze strumentali ricorrendo ai metodi di dominio propri dell’iniziativa umana; ecco l’inganno che trasforma la storia gestita dagli uomini in quanto si ergono protagonisti di una prepotenza che vuole imporsi senza alternativa. La fede interferisce con l’iniziativa umana e si esprime con il linguaggio operoso, efficace, vittorioso dell’iniziativa di Dio. “… ascolta anche me che sono vedova”: la povertà umana espressa dalla condizione vedovile, come si può pensare all’orfanità o alla situazione in cui si trovano gli stranieri e così via.
Tu, Signore, sei il protagonista
Seconda sezione della preghiera (vv. 5-6): due versetti dove Giuditta si aggrappa al “Tu”. La sua preghiera non è soltanto un’invocazione relativa a un desiderio che annuncia, a un obiettivo che prospetta, a una meta per la quale chiede aiuto, ma la sua supplica è già strutturata come un atto di affidamento al “Tu”. E’ anche messo in forte evidenza proprio il pronome in seconda persona: “Tu hai preordinato ciò che precedette quei fatti e i fatti stessi e ciò che seguì. Tu hai disposto le cose presenti e le future e quello che tu hai pensato si è compiuto. Le cose da te deliberate si sono presentate e hanno detto: Ecco ci siamo; perché tutte le tue vie sono preparate e i tuoi giudizi sono preordinati”. Dice Giuditta: “tu sei il creatore del mondo e insieme il protagonista della storia”. “Tu”. L’interlocutore è il Signore, ma nella seconda persona singolare: “Tu, creatore”.
Giuditta chiede forza al Dio dei disperati
Vv. 7-11; terza sezione della preghiera di Giuditta: una ricapitolazione mediante la quale descrive la situazione presente. “Or ecco gli Assiri hanno aumentato la moltitudine dei loro eserciti, vanno in superbia per i loro cavalli e i cavalieri, si vantano della forza dei loro fanti, poggiano la loro speranza sugli scudi e sulle lance, sugli archi e sulle fionde e ignorano che tu sei il Signore che disperdi le guerre (la situazione attuale è caratterizzata da questa esplosione della superbia umana. Quello che precedentemente chiamavo l’inganno fatto dagli uomini diventa proprio metodologia operativa dell’iniziativa umana; un’esplosione di superbia. Questo modo di procedere degli Assiri dimostra che essi ignorano che tu sei il Signore che disperdi le guerre; tu sei il Signore che inganna gli ingannatori, che fa guerra alle guerre); Signore è il tuo nome. Abbatti la loro forza con la tua potenza e rovescia la loro violenza con la tua ira: fanno conto di profanare il tuo santuario, di contaminare la Dimora ove riposa il tuo nome e la tua gloria, di abbattere con il ferro il corno del tuo altare. Guarda la loro superbia, fa’ scendere la tua ira sulle loro teste; infondi a questa vedova la forza di fare quello che ho deciso”. Questa vedova è lei stessa nel momento in cui è più che mai evidente la sua radicale debolezza in quanto creatura umana, in quanto la povertà della creatura umana si affida al “Tu” di Dio. “Con l'inganno delle mie labbra abbatti il servo con il suo padrone e il padrone con il suo ministro; spezza la loro alterigia per mezzo di una donna”. “Per mano di donna” è un’espressione che già abbiamo incontrato e che incontreremo ancora a più riprese. Questo intervento che passa attraverso la debolezza qui rappresentata in maniera emblematica dalla figura femminile, e vedovile, verginale, è l’inganno che conferisce alla storia umana, in quanto fatta dagli uomini, quelle contraddizioni che la svuotano dall’interno, la sconfiggono malgrado la sua volontà di proporsi come storia vittoriosa, dominante, in grado di esprimere l’iniziativa umana che conquista il mondo. Ed ecco l’inganno da parte di una donna. Accenna qui all’inganno con cui la sua impresa assumerà anche una particolare eloquenza: “l’inganno delle mie labbra”; e, mediata dall’uso delle labbra, sarà pienamente realizzata mediante un gesto adeguato alla mano di una donna. “Perché la tua forza non sta nel numero, né sugli armati si regge il tuo regno: tu sei invece (cinque attributi che vengono assegnati al “Tu” di Dio) il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati”. Questo modo di affidarsi al “Tu” di Dio in una condizione di debolezza estrema è l’inganno che inganna la storia fatta dagli uomini, è quella guerra di cui è protagonista Dio che sconfigge le guerre fatte dagli uomini; è la novità che introduce nell’esperienza della schiavitù la libertà della vita nuova.
Tu, Signore, sei più potente del male
Vv. 12-14. Quarta sezione con l’invocazione finale della preghiera di Giuditta: “Sì, sì, Dio del padre mio (Simeone, suo padre, ma anche i patriarchi da Abramo a Isacco, Giacobbe) e di Israele tua eredità, Signore del cielo e della terra, creatore delle acque, re di tutte le tue creature, ascolta la mia preghiera (Giuditta si rivolge al Creatore dell’universo che, d’altra parte, è Colui che ha aperto un dialogo con i patriarchi mediante le promesse e ha sviluppato la conversazione fino al momento attuale. E’ interessante questo richiamo all’onnipotenza del Creatore nel momento in cui viene sottolineato il fatto che il Signore è creatore delle acque; è come dire che è dominatore di tutto ciò che è negativo, nel corso della storia umana, attraverso l’esperienza di creature come noi: dall’acqua del diluvio, all’acqua del mare, all’acqua che è minaccia costante; è l’emblema del negativo, è il richiamo inconfondibile a tutte le istanze ostili, a tutte le forme di ribellione che l’iniziativa del Creatore ha incontrato dal principio. L’ostilità per eccellenza, la ribellione per antonomasia, tutto questo sta nella libertà della creatura umana che trascina dietro di sé, nel suo porsi come contrario all’iniziativa di Dio, il disastro del mondo. Ebbene: “tu sei il creatore delle acque, sei il dominatore del negativo, dall’inizio”. E’ così da sempre): fa che la mia parola e l'inganno (l’economia dell’inganno) diventino piaga e flagello di costoro, che fanno progetti crudeli contro la tua alleanza e il tuo tempio consacrato, contro il monte elevato di Sion e la sede dei tuoi figli. Da’ a tutto il tuo popolo e ad ogni tribù la prova che sei tu il Signore, il Dio d'ogni potere e d'ogni forza e non c'è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d'Israele”. Dai patriarchi fino ad oggi, dice Giuditta, tu sei l’unico protettore. È il “Tu” di Dio e nel suo affidamento, nella povertà consegnata a lui, in questa totale gratuità di una libertà esercitata in risposta a Lui che chiama, che avanza, che opera, che si apre la strada della vita per il popolo dei credenti e dell’umanità intera. La strada della vita si apre laddove l’interlocutore che ci conferma nella nostra vocazione è il “Tu” a cui possiamo consegnarci in tutta la nostra fragilità di creature condizionate dalle vicissitudini di ordine naturale; da quella morsa della storia fatta dagli uomini che costantemente ci stringe; condizionati dal batticuore, che ci rende così fragili nell’intimo di noi stessi, c’è il “Tu”.
Giuditta si prepara all’impresa: si fa bellissima
Cap. 10, vv. 1-5. Dal cap. 10 la terza parte della narrazione: l’impresa di Giuditta. “Quando Giuditta ebbe cessato di supplicare il Dio di Israele ed ebbe terminato di pronunziare tutte queste parole, si alzò dalla prostrazione, chiamò la sua ancella particolare e scese nella casa, dove usava passare i giorni dei sabati e le sue feste. Qui si tolse il sacco di cui era rivestita, depose le vesti di vedova, poi lavò con acqua il corpo e lo unse con profumo denso; spartì i capelli del capo e vi impose il diadema. Poi si mise gli abiti da festa, che aveva usati quando era vivo suo marito Manàsse (notate come il racconto ci descrive la fisionomia di Giuditta che, attraverso i gesti che stiamo osservando, assume lo splendore di una bellezza invincibile. Poi si mise gli abiti da festa che aveva usato quando era vivo suo marito. Una memoria vedovile che è allo stesso tempo una promessa messianica; è un atteggiamento nuziale quello che Giuditta assume come categoria interpretativa in vista dell’impresa che sta per compiere). Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto affascinante agli sguardi di qualunque uomo che l'avesse vista (una bellezza sconvolgente. Si aggiunge un segno di particolare premura, attenzione, quasi preoccupazione per quanto riguarda le provviste alimentari). Poi affidò alla sua ancella un otre di vino, un'ampolla di olio; riempì anche una bisaccia di farina tostata, di fichi secchi e di pani puri e, fatto un involto di tutti questi recipienti, lo addossò ad essa”. Gli alimenti devono essere puri secondo certe regole che adesso a noi sfuggono nel loro contenuto specifico, ma importa poco; è evidente che, a parte l’applicazione immediata di una certa normativa alimentare, qui è confermata la preoccupazione primaria di rimanere coerente per quanto riguarda la testimonianza pubblica della sua appartenenza al popolo dei credenti. C’è di mezzo anche questa ancella anonima, silenziosa; teniamo conto anche di lei.
Giuditta esce da Betulia
Vv. 6-9: adesso Giuditta compare in pubblico: “Allora uscirono verso la porta della città di Betulia e trovarono pronti sul luogo Ozia e gli anziani della città, Cabri e Carmi. Costoro, quando la videro trasformata nell'aspetto …”. In greco, qui, aspetto intende “volto” ed è un termine che torna incessantemente nelle pagine che leggeremo. E il volto di Giuditta suscita un’ammirazione commossa da parte di coloro che sono spettatori di questa sua comparsa che viene ricevuta come un sacramento di Dio: è l’opera di Dio nella storia umana, la bellezza della creatura che avanza nella fede. “… quando la videro trasformata nel volto e con gli abiti mutati, restarono molto ammirati della sua bellezza e le dissero: «Il Dio dei padri nostri ti conceda di trovar favore e di portare a termine quello che hai stabilito di fare, a vanto degli Israeliti e ad esaltazione di Gerusalemme». L’incoraggiano senza essere affatto informati circa l’impresa che Giuditta deve compiere; da parte sua “Essa si chinò ad adorare Dio e rispose loro: «Fatemi aprire la porta della città e io uscirò per dar compimento alle parole augurali che mi avete rivolto». Quelli diedero ordine ai giovani di guardia di aprirle come aveva chiesto”.
Giuditta incontra gli Assiri
Vv. 10.13: “Così fecero e Giuditta uscì: essa sola e l'ancella che aveva con sé. Dalla città gli uomini la seguirono con gli sguardi mentre scendeva il monte, finché attraversò la vallata e non poterono più scorgerla”. Questo è lo sguardo di coloro che sono assiepati sugli spalti della città e osservano Giuditta che si allontana; è il tramonto del primo giorno di quei cinque giorni stabiliti. E vorrebbero accompagnarla; in realtà ad un certo punto non la vedono più. Un altro sguardo adesso incrocia Giuditta ed è lo sguardo delle sentinelle assire che le vanno incontro. “Esse andavano avanti diritte per la valle, quando si fecero loro incontro le sentinelle assire. La presero e la interrogarono: «Di qual popolo sei, donde vieni e dove vai?». Essa rispose: «Sono figlia degli Ebrei e fuggo da loro (notate che questo “da loro” significa dal “loro volto”: Giuditta si presenta come una fuggiasca e veniamo a sapere che si offre come spia, come informatrice. Sta ingannando nel senso che sta operando nella libertà purissima, gratuita e sempre poverissima della fede), perché stanno per essere consegnati in vostra balìa. Io quindi vengo alla presenza di Oloferne (dinanzi al volto di Oloferne), comandante supremo dei vostri eserciti, per rivolgergli parole di verità e mettergli sotto gli occhi (dinanzi al suo volto) la strada per cui potrà passare e impadronirsi di tutti questi monti senza che perisca uno solo dei suoi uomini»”. Giuditta non sta mentendo: è fuggiasca nel senso che la sua presa di posizione, nella libertà della fede, si pone in alternativa a quel giuramento che prevedeva, alla scadenza dei cinque giorni, la consegna della città a Oloferne. E’ in fuga? In questo senso, certo. E, quando parla di una strada da mostrare a Oloferne perché quella è la strada da percorrere per espugnare Betulia, sta dichiarando, con cristallina sincerità, come stanno veramente le cose; la strada da mostrare a Oloferne è una sola: espugnare la fede. Quando Oloferne avrà espugnato la fede, la strada per entrare nel paese, per conquistare Gerusalemme e profanare il tempio, sarà aperta. E’ quello che sta per avvenire perché la fede degli abitanti di Betulia è traballante: è una fede incredula, incerta, approssimata, è la nostra fede. “Voglio andare davanti al volto del vostro comandante per spiegargli qual è la strada”. In realtà la strada che Oloferne dovrebbe percorrere per espugnare Betulia, la terra, il popolo, il mondo è la fede. E’ Giuditta che sta espugnando l’accampamento di Oloferne, è lei che entra nell’accampamento degli assiri, è lei che si è fatta avanti.
Giuditta entra nell’accampamento assiro come un’ospite di riguardo
Vv 14-19: “Quegli uomini, quando sentirono queste parole e considerarono l'aspetto di lei (il volto di lei; anche gli assiri restano incantati dinanzi alla bellezza di Giuditta), che appariva loro come un miracolo di bellezza, le dissero: «Hai messo in salvo la tua vita, scendendo in fretta e venendo alla presenza del nostro signore (dinanzi al volto del nostro signore. La bellezza di Giuditta è già travolgente: le sentinelle assire che l’hanno catturata come una fuggiasca, si trasformano in ammiratori ossequiosi che l’accompagnano in una specie di solenne processione per entrare nell’accampamento. Tutti incantati dinanzi a questa epifania di bellezza). Vieni dunque alla tenda di lui; alcuni di noi ti accompagneranno, finché non ti abbiano affidato alle sue mani. Quando poi sarai alla sua presenza, non tremare dentro di te, ma riferisci a lui quanto ci hai detto ed egli ti tratterà bene»”. Cercano di incoraggiarla; invece di trattarla come una prigioniera la trattano come un ospite prezioso, prestigioso, a cui rivolgersi con estremo riguardo. “Scelsero pertanto cento uomini tra di loro, i quali si affiancarono a lei e alla sua ancella e le condussero alla tenda di Oloferne (corteo processionale). In tutto il campo ci fu un grande accorrere, essendosi sparsa la voce della sua venuta tra gli attendamenti (l’ordine militare che governa l’immenso esercito di Oloferne è messo in subbuglio, è turbato per il fatto che sta arrivando Giuditta). La circondarono in massa mentre era fuori della tenda di Oloferne, in attesa che gliela annunziassero. Erano ammirati della bellezza di lei (vedete l’insistenza su questa splendida, affascinante manifestazione di valore sacro; un mistero divino come tentano di dire a modo loro, nel loro linguaggio, questi soldati assiri divenuti ammiratori di una presenza così originale al punto che tutta l’organizzazione dell’immenso accampamento è precipitata) e ammirati degli Israeliti a causa di lei e si dicevano l'un l'altro: «Chi disprezzerà un popolo che possiede tali donne? Sarà bene non lasciarne sopravvivere alcun uomo, perché, liberi, potrebbero far perdere la testa a tutto il mondo»”. “Devono essere uomini veramente straordinari perché hanno donne così belle, e così sono in grado di ingannare il mondo”. Ed è proprio vero: un popolo straordinario e in quanto tale è un popolo da eliminare. Donne così belle e uomini così astuti, così abili nel gestire le cose del mondo che si avvantaggiano della presenza di tali figure femminili, bisogna eliminarli. Sarà bene non lasciarne sopravvivere nemmeno uno.
Giuditta entra nella tenda di Oloferne
Vv. 20-23:: “Venne fuori la guardia del corpo di Oloferne e tutti gli inservienti e la introdussero nella tenda. Oloferne era adagiato sul suo divano sotto un baldacchino, che era di porpora ricamata d'oro, di smeraldo e di pietre preziose. Gli annunziarono la presenza di lei ed egli uscì (è interessante perché Giuditta entra nella tenda, ma è una specie di vestibolo. Comunque è entrata nell’accampamento e nella tenda del generale comandante. Oloferne si alza e si muove per andare incontro a Giuditta) nel recinto d'ingresso, preceduto da fiaccole d'argento. Quando Giuditta avanzò alla presenza di lui (dinanzi al volto di lui) e dei suoi ministri, stupirono tutti per la bellezza del suo aspetto (del suo volto: la luce è prodotta dal volto di Giuditta che proietta attorno a sé uno splendore abbagliante). Essa si prostrò con la faccia a terra per riverirlo, ma i servi la fecero rialzare”. Sotto lo sguardo di Oloferne e dei suoi collaboratori la bellezza di Giuditta, ed ella dà solo il volto; sta ingannando? E’ un atto di reverenza nei confronti del generale comandante? Subito i servi la fecero rialzare; le fanno rialzare la testa. Ormai la bellezza di quel volto illumina la tenda di Oloferne in modo tale che non se ne può fare più a meno, altrimenti si resterebbe prigionieri di un buio insopportabile. E’ una situazione paradossale quella che si sta delineando. E, in tutto questo, Giuditta sta portando a compimento quell’impresa che ha annunciato e che è in fase di esecuzione. Ma non c’è dubbio: abbiamo a che fare con una creatura libera che avanza a testa alta perché si è consegnata al “Tu” con tutta la sua povertà sguarnita e indifesa di creatura e, in questo caso, proprio di donna.