Incontri di discernimento e solidarietà
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1 aprile 2014

Libro di Giuditta

La bellezza della fede

Sesto incontro del ciclo 2013-2014


Abbiamo letto nei mesi passati fino al capitolo 13, v. 10; stasera faremo un altro pezzo di strada e concluderemo la lettura del Libro di Giuditta il primo martedì di maggio. Abbiamo definito il racconto una grande parabola che ci aiuta a riflettere sui movimenti che sconvolgono la scena del mondo e che hanno una visibilità scenografica spesso impressionante; ma si tratta di grandi movimenti che coinvolgono, in realtà – e questo diventa sempre più interessante per noi – gli atteggiamenti profondi del cuore umano laddove è in gioco la relazione con il Mistero di Dio perché è proprio lui, il Dio vivente, il protagonista della storia. Ed è nella relazione con questo Mistero che il cuore dell’uomo si manifesta come il luogo in cui è in atto il discernimento radicale, quello che per l’appunto ci aiuta a interpretare il senso della storia e che costantemente ci rimanda alla relazione che chiama tutti e ciascuno ad accogliere, nel proprio intimo, il Mistero del Dio vivente. È un Mistero presente, operoso, che avanza attraverso gli eventi visibili e invisibili in modo tale da affermare la propria inesauribile e irrevocabile volontà d’amore. È l’opera di Dio presente nella storia umana che è realizzata come opera di salvezza nel senso di una rieducazione più che mai necessaria perché gli uomini imparino a vivere; è il dramma innato della storia: gli uomini hanno smarrito il senso della propria vocazione alla vita e la confusione è dilagante anche se assume aspetti monumentali, grandiosi, impressionanti come un grande impero: una produzione di morte che sembra trascinare la storia lungo una china infernale. L’opera di Dio presente è opera di salvezza, nel senso di una rieducazione radicale che scava nel cuore umano e che suscita e coltiva atteggiamenti nuovi, alternativi che sono struttura portante di quel nuovo cammino nella vita che, secondo l’intenzione di Dio, è ormai tracciato perché l’umanità intera vi metta piede e si inoltri in quella direzione: è storia di salvezza; una storia travagliata, carica di complicazioni, con tradizioni che esigono un discernimento sempre più raffinato. È storia di salvezza: tutto quello che riguarda la rieducazione dell’animo, del cuore, dell’intimo umano in rapporto alla vocazione alla vita lo possiamo ricapitolare, stando a quel che abbiamo già potuto leggere e contemplare attraverso i momenti più significativi della grande parabola che il libro mette a nostra disposizione, nell’esperienza di fede. La fede come ricapitolazione, sintesi e attuazione di tutti quegli atteggiamenti interiori che diventano struttura portante di una vocazione alla vita ritrovata. Una relazione con il Mistero che apre l’esistenza di ciascuno a quella prospettiva che raccoglie la partecipazione corale di tutte le creature di Dio all’interno di quel disegno che corrisponde all’intenzione originaria del Dio vivente: una volontà d’amore e, quindi, un’intenzione di salvezza.

Siamo giunti, nella narrazione, al momento in cui Giuditta compie la sua impresa in maniera rapida e travolgente (cap. 13, v. 10). Mentre i poteri, così presenti sulla scena della storia, si contendono il dominio del mondo ecco la prova della fede; è la fede del popolo dei credenti in quanto tale che è la prerogativa di coloro che man mano sono coinvolti in quel percorso pedagogico a cui accennavo poco fa; e per quel che riguarda il popolo dei credenti che stanno verificando la loro identità, laddove l’essenziale di tutto si ricapitola nella relazione con il Mistero del Dio vivente, è in gioco non soltanto un episodio riguardante qualche personaggio un po’ singolare o addirittura un popolo di credenti che tra tutti gli altri popoli, nella storia umana, assume una sua fisionomia eccezionale, ma è in questione la prospettiva che riguarda l’umanità intera. Il popolo dei credenti è avanguardia in un cammino di rieducazione; e l’attenzione si è concentrata su una singola persona, Giuditta. Ci siamo resi conto anche del fatto che là dove Giuditta è presentata a noi come espressione limpida e radicale di una fede consegnata all’iniziativa del Dio vivente, lì è in gioco la sorte di un popolo e dell’umanità intera: il senso della storia umana. Giuditta si è presentata a noi per l’appunto come creatura che, nella sua solitudine, è divenuta testimone di una responsabilità che apre il suo particolare vissuto a relazioni universali: una responsabilità di comunione senza limiti, dove è in gioco la sua città, Betulìa, il popolo di Israele in quella situazione drammatica di assedio da parte dell’esercito assiro. Da testimone di una difesa ad oltranza che resiste all’aggressione, Giuditta si è trasformata in condottiera di un’impresa che per adesso riguarda solo lei nella sua singolare solitudine, ma che la responsabilizza in rapporto a quell’impatto con quella scenografia così impressionante che sta lì a rappresentare la pesantezza mostruosa della storia umana che, gestita dall’iniziativa degli uomini, diventa un programma di morte. E Giuditta ha espugnato; (cap. 13, v. 10) Giuditta ha decapitato Oloferne. Tutto è avvenuto in un clima di preghiera, la preghiera interiore che conferma tutto quello che precedentemente abbiamo letto. Giuditta si è resa responsabile della situazione della sua città, del suo popolo, della sua gente, che sembrava ormai definitivamente inquinata: si trattava di aspettare cinque giorni e poi arrendersi: “meglio diventare schiavi che perdere la vita”. Giuditta ha preso lei la responsabilità di questo giuramento pronunciato dai capi della città e, in quei cinque giorni, si è inoltrata in quel territorio impervio e inquinato, mostruoso (così l’abbiamo accompagnata anche noi) fino al momento in cui è in grado di decapitare Oloferne. E ci siamo resi conto che tutto il racconto conferisce un valore epifanico, rivelativo, apocalittico alla bellezza di Giuditta: la bellezza della fede, della creatura affidata, consegnata; la creatura che, nella fede, è interpellata in prima persona e investita di una responsabilità comunitaria, ecumenica: una comunione universale. E’ questa bellezza che ha sconfitto, travolto, sedotto, ingannato, ridotto Oloferne allo stato di una creatura che precipita nel suo proprio fallimento; una figura che ha un sapore infernale, qualcosa di demoniaco, come tutto quel che riguarda l’esercito assiro. E questa è la raffigurazione plastica di quella vicenda umana che, abbandonata all’iniziativa della creatura che vuole affermarsi come detentrice di un potere assoluto, divino, sacro, diventa una storia che precipita in se stessa e si autodistrugge.

La bellezza della fede splende: una bellezza impalpabile, impagabile, che non è possibile gestire, dominare, controllare, schiacciare. È bellezza che si espande, si effonde, dilaga come un profumo che nessuno può trattenere. La bellezza di Giuditta ha sconfitto Oloferne. E’ la bellezza della fede che rende testimonianza al protagonismo di Dio che è presente e operante nella storia umana in modo tale che gli uomini non sono prigionieri del loro inferno, ma sono liberati per essere ricondotti alla sorgente della vita.


Giuditta torna a Betulìa: lode a Dio

Cap. 13, v. 11-16. Giuditta, accompagnata dalla sua ancella, con l’involto che contiene la testa di Oloferne deposta nella bisaccia nella quale avevano portato i viveri necessari per quei giorni, rientra a Betulìa, nella notte. Questi eventi che si svolgono di notte sono espressione di una folgorazione luminosa che contribuisce, in maniera evidente, ad esplicitare la bellezza della fede che evangelizza l’inferno della storia umana; l’inferno evangelizzato. E qui, è luce che sfolgora nella notte. “Giuditta gridò di lontano al corpo di guardia delle porte: «Aprite, aprite subito la porta: è con noi Dio, il nostro Dio (è un annuncio messianico: il Dio-con-noi, l’Emmanuele. Ricordate tutta la teologia dell’Emmanuele nella profezia di Isaia. “Aprite le porte”, Salmo 118, Salmo 24: Dio-con-noi. È il nostro Dio, il Dio dell’alleanza che fedelmente persegue i suoi propositi e li realizza), per esercitare ancora la sua forza in Israele e la sua potenza contro i nemici, come ha dimostrato oggi». Non appena gli uomini della sua città sentirono la sua voce, corsero giù in fretta alla porta della città e chiamarono gli anziani. Corsero tutti, piccoli e grandi, perché non s'aspettavano il suo arrivo (il rientro di Giuditta a Betulia sorprende tutti); aprirono dunque la porta, le accolsero dentro e, acceso il fuoco per far chiaro, si fecero loro attorno (un punto di luce nella notte. C’è un fuoco che arde anche nella passione del Signore, nel cortile del palazzo del sommo sacerdote. Che sorpresa! Ricordate la parabola del Vangelo secondo Matteo che racconta dello sposo che deve tornare dalle nozze; a mezzanotte tutti dormono. “Ecco lo sposo: accendete le lampade”). Giuditta disse loro a gran voce (questo modo di presentarsi di Giuditta ha le caratteristiche di un vero e proprio evangelo): «Lodate Dio, lodatelo; lodate Dio, perché non ha distolto la sua misericordia dalla casa d'Israele, ma ha colpito i nostri nemici in questa notte per mano mia» (per mano di donna. Un ritornello che abbiamo incontrato precedentemente: in una situazione di estrema, dichiarata e scoperta debolezza degli Ebrei, il nemico è sconfitto perché il protagonista è Lui. Alleluia! Dio è fedele alla sua volontà d’amore; la sua misericordia è trionfante. “Alleluia! Lodate il Signore perché è buono: eterna è la sua misericordia” che si ripete di versetto in versetto. E’ quello che sta proclamando Giuditta. Ora ne porge il segno dimostrativo mediante il quale intende confermare il valore dell’Evangelo che sta enunciando con la sua presenza, il suo annuncio, il suo canto). Estrasse allora la testa dalla bisaccia e la mise in mostra dicendo loro: «Ecco la testa di Oloferne, comandante supremo dell'esercito assiro; ecco le cortine sotto le quali giaceva ubriaco; Dio l'ha colpito per mano di donna. Viva dunque il Signore, che mi ha protetto nella mia impresa, perché costui si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina, ma non ha potuto compiere alcun male con me a mia contaminazione e vergogna»”. La testa di Oloferne viene esposta in pubblico; Giuditta puntualmente conferma il fatto che è stato il Signore a operare: è il Signore che l’ha colpito, che è intervenuto, che agisce laddove la debolezza, la precarietà, l’autenticità della fede si consegna a Lui senza ritrosie e senza presunzioni. C’è di mezzo la mano della donna? C’è di mezzo il volto splendente di bellezza di Giuditta. “Costui (Oloferne) si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina”. E’ la bellezza che l’ha sedotto; e la bellezza della fede si connette indissolubilmente con l’innocenza di Giuditta, che conosciamo già, ma che è affermata nella sua indiscutibile coerenza. «… ma non ha potuto compiere alcun male con me a mia contaminazione e vergogna». Questo è il modo di intervenire di Dio nella storia umana: dove dice “il Signore mi ha protetto nella mia impresa” è la strada di Dio che inganna la storia fatta dagli uomini. Apre questa strada attraverso la bellezza di Giuditta; la fede della creatura che si consegna senza pretese, facendosi peraltro carico di una responsabilità universale.


Il popolo esulta e benedice il Signore

V. 17, la risposta popolare: dapprima l’assemblea di gente che si è raccolta davanti alla porta e poi l’intervento di Ozia, capo della città. “Tutto il popolo rimase incantato oltre ogni dire e tutti si chinarono ad adorare Dio, esclamando in coro: «Benedetto sei tu, nostro Dio, che hai annientato in questo giorno i nemici del tuo popolo» (nelle pagine che stiamo leggendo le reazioni si susseguono con un ritmo incalzante. Questa è la risposta popolare agli eventi che Giuditta ha rievocato, perché Dio è fedele agli impegni dell’alleanza. Dire il “nostro” Dio non è un atteggiamento proprietario: è il Dio che ci invade nell’intimo, che ha saldato una relazione che ci coinvolge radicalmente nella profondità dell’essere; il “nostro” Dio, come noi siamo suoi: “io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo”. E’ il nostro Dio “benedetto”, fedele nella sua intenzione d’amore così come ci ha rivelato e porta a compimento le sue intenzioni.




Ozìa benedice Giuditta

vv. 18-26. “Ozia a sua volta le disse: «Benedetta sei tu (fa eco a quella benedizione che coralmente è stata indirizzata al Signore, “nostro” Dio, da parte dell’assemblea), figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici. Davvero il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore degli uomini, che ricorderanno la potenza di Dio sempre ”. Questa benedizione che fa appello al Dio altissimo pone Giuditta in rapporto a tutte le donne che vivono sulla terra e rievoca il cantico di Debora nel Libro dei Giudici, cap. 5; sta anche sullo sfondo del saluto con cui Elisabetta risponde al saluto di Maria quando entra in casa, nel Vangelo secondo Luca, cap. 1: Maria entra in casa e canta il Magnificat ed Elisabetta risponde: “Benedetta sei tu fra tutte le donne”. C’è di mezzo un accenno esplicito alla fecondità di cui la donna è portatrice con un richiamo inconfondibile a quella scena dell’antico racconto biblico nel libro del Genesi, cap. 3: “La donna schiaccerà il capo”. E’ lui, il Dio altissimo che ha creato il cielo e la terra: siamo rimandati al protagonismo di Dio creatore che ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici; laddove l’esistenza umana è sbilanciata, nella fede l’opera di Dio irrompe con tutta la sua potenza, gratuità e fecondità. Ozia riconosce nella fede di Giuditta il titolo opportuno per ricevere questo proclama di benedizione: in lei, credente, si esprime la dignità suprema della condizione umana; tra tutti i figli e le figlie di donne, tra tutte le creature umane, ecco la dignità restaurata, ritrovata, corrispondente all’intenzione originaria del Creatore. “Benedetta sei tu” laddove la realtà delle creature umane è segnata dall’inquinamento, è conseguenza del peccato, una caduta della quale Ozia sta parlando. E’ la novità che si impone come l’Evangelo che restituisce dignità, che fa di quella creatura caduta, stroncata, ridotta a misure infernali, una creatura riabilitata alla fecondità che accoglie e promuove la vita in corrispondenza all’intenzione del Dio vivente. “Dio faccia riuscire questa impresa a tua perenne esaltazione, ricolmandoti di beni, in riconoscimento della prontezza con cui hai esposto la vita di fronte all'umiliazione della nostra stirpe (l’umiliazione della nostra stirpe laddove la realtà umana porta i segni dell’esperienza di una caduta che schiaccia, opprime, disintegra), e hai sollevato il nostro abbattimento, comportandoti rettamente davanti al nostro Dio». E tutto il popolo esclamò: «Amen! Amen!»”. Una vera liturgia che viene celebrata in maniera così popolare nel corso della notte, davanti al fuoco, dinanzi alla porta spalancata della città.


Gli Ebrei si preparano ad attaccare gli Assiri

Cap. 14, vv. 1-4. A questo punto Giuditta riprende la parola e si comporta alla maniera del comandante che oramai, in qualità di stratega, sta organizzando un piano di attacco. “Giuditta rispose loro: «Ascoltatemi bene, fratelli: prendete questa testa e appendetela sugli spalti delle vostre mura. Attendete poi che sia apparsa la luce del mattino e sia sorto il sole sulla terra: allora, ognuno prenda l'armatura da guerra e ogni uomo valido esca dalla città. Quindi, date inizio all'azione contro di loro come se voleste scendere al piano contro le prime difese degli Assiri, ma in realtà non scenderete (un’azione dimostrativa allo scopo di suscitare una reazione nello schieramento nemico). Quelli prenderanno le loro armi e correranno entro il loro accampamento a svegliare i capi dell'esercito assiro. Poi si raduneranno insieme davanti alla tenda di Oloferne, ma non lo troveranno e così si lasceranno prendere dal terrore e fuggiranno davanti a voi. Allora inseguiteli voi e quanti abitano l'intero territorio d'Israele e abbatteteli nella loro fuga”. Un piano strategico: la testa di Oloferne esposta sulle mura di Betulia; “quando cercheranno il capo non lo troveranno”. La testa e il capo: è lo stesso termine. La strategia che viene impostata da Giuditta fa leva sulla paura che sconvolgerà lo schieramento assiro; una paura devastante, travolgente perché quella gente non può stare senza il capo. È gente che può trascinarsi in una parvenza di vita finché ha un padrone a cui obbedire, una figura di riferimento da idolatrare come schiavi in rapporto al proprio sovrano. Quando cercheranno Oloferne non lo troveranno perché il capo è appeso alle mura di Betulia. “Si ritireranno, scapperanno; allora, sì, inseguiteli”. Non c’è neanche una battaglia, non c’è scontro in campo aperto; è una rotta, come di fatto andranno le cose. Lo schieramento dell’esercito assiro si trasforma da compagine militare che avanzava per dominare il mondo in un’orda che si autodistrugge.


Achior si converte

Vv. 5-10 “Ma, prima di far questo, chiamatemi Achior l'Ammonita (rientra in scena quell’Ammonita, Achior, che abbiamo incontrato a suo tempo e ora si trova a Betulia. Giuditta chiede che Achior si presenti lì dove è esposta la testa di Oloferne perché Achior è l’unico che ha visto in faccia Oloferne; gli altri abitanti della città non l’hanno mai visto. E Achior, ricordate, è un pagano, è un uomo di questo mondo che ne ha viste di tutti i colori e che ha avuto modo di guardare in faccia Oloferne in situazioni così incresciose e tragiche), perché venga a vedere e riconoscere colui che ha disprezzato la casa d'Israele e che l'ha inviato qui tra noi come per votarlo alla morte». Chiamarono subito Achior dalla casa di Ozia ed egli appena giunse e vide la testa di Oloferne in mano ad un uomo in mezzo al popolo radunato, cadde a terra e rimase senza fiato (Achior nasconde subito il suo volto, schiacciato al suolo senza fiato. Rivede il volto di Oloferne). Quando l'ebbero sollevato, si gettò ai piedi di Giuditta pieno di riverenza per la sua persona (qui di nuovo c’è di mezzo il volto splendente di bellezza di Giuditta) e disse: «Benedetta sei tu in tutto l'accampamento di Giuda e in mezzo a tutti i popoli: quanti udranno il tuo nome si sentiranno scossi. Ma ora raccontami quanto hai fatto in questi giorni». Giuditta gli narrò (adesso abbiamo a che fare con questa conversazione tra Achior che ha risollevato il capo prostrato a terra dinanzi a quello spettacolo che lo ha sconvolto e benedice Giuditta. Giuditta rievoca gli eventi; ricostruisce lo svolgimento dei fatti: è un vero e proprio evangelo; ancora una volta possiamo intitolare proprio così questo racconto che Giuditta rivolge ad Achior. C’è un evangelo per il pagano Achior che, lì per lì, è stato sconvolto da un tremore incontenibile quando si è trovato dinanzi al volto di Oloferne, il volto del mondo infernale, lo spettacolo dell’inferno. E Giuditta lo evangelizza) in mezzo al popolo quanto aveva compiuto dal giorno in cui era partita fino al momento in cui parlava. Quando finì di parlare, il popolo scoppiò in alte grida di giubilo e riempì la città di voci festose. Allora Achior, vedendo quanto aveva fatto il Dio di Israele, credette (dalla visione di quel volto orribile, infernale che poi è il volto dell’umanità sconvolta, depravata, corrotta, il volto dell’umanità prigioniera delle conseguenze della propria ribellione, del proprio tradimento della vocazione alla vita, del proprio peccato – è il nostro volto – Achior giunge alla fede) fermamente in Dio, si fece circoncidere e fu aggregato definitivamente alla casa d'Israele”. Gli avvenimenti proseguono con una rapidità che non tiene conto di alcuna tappa intermedia: è Achior, che ha visto in faccia Oloferne, ha visto il mondo e, tramite Giuditta e il popolo che fa da assemblea corale e celebra la festa dell’evento, aderisce: è il pagano che accoglie l’evangelo ed è ormai in cammino nella novità della fede. Vi dicevo a suo tempo che Achior, in ebraico, significa “mio fratello è luce” e il nome può essere inteso in due prospettive che sono complementari: “mio fratello è luce” nel senso che “mio fratello Israele è luce” per un pagano che arranca nella notte del mondo. Giuditta e con lei quelli del suo popolo sono impegnati in questa evangelizzazione che ha come destinatario il pagano che da parte sua è ossessionato dallo sgomento sperimentato nelle vicende infernali della storia umana. Ma “mio fratello è luce” anche in una prospettiva capovolta nel senso che lui, il pagano, è luce per Israele che non ha visto ancora in faccia fino in fondo e in tutta la sua tragedia l’orrore del mondo. Attraverso Giuditta è l’evangelo che sta tracciando solchi incancellabili nell’animo e nella storia umani, nel vissuto di ogni creatura che, attraverso l’impatto con le vicissitudini più terrificanti, è aiutata a scoprire il baluginio della luce, l’affioramento della bellezza, l’epifania della misericordia, la potenza vittoriosa del Dio vivente che fa di questa storia infernale una storia di salvezza.



Gli Assiri si accorgono della morte di Oloferne: è un mondo che crolla!

Vv. 11-19 e cap. 15, vv 1-3. “Quando spuntò il mattino, appesero la testa di Oloferne alle mura; poi ogni uomo prese le sue armi e scesero lungo i sentieri del monte divisi in manipoli. Appena li videro, gli Assiri mandarono in cerca dei loro capi e questi corsero dagli strateghi, dai chiliarchi e da tutti i loro ufficiali. Poi si radunarono davanti alla tenda di Oloferne e dissero al suo attendente: «Sveglia il nostro signore, perché quegli schiavi hanno osato scendere per darci battaglia, a loro estrema rovina». Bagoa entrò e bussò alle cortine della tenda, poiché pensava che egli dormisse con Giuditta. Ma siccome nessuno rispondeva, aprì ed entrò nella parte più interna della tenda e lo trovò cadavere, steso a terra vicino all'ingresso, con la testa tagliata via dal tronco”. L’esercito di Oloferne è strutturato nell’obbedienza gerarchica al capo. E’ un mondo intero, non soltanto un esercito, da Nabucodònosor fino agli estremi confini della terra, costruito in ossequio all’idolatria del potere. Ora gli Assiri sono senza capo e non possono vivere senza capo. E Bagoa urla ed è un urlo di dolore inconsolabile perché annuncia un disastro irreparabile. “Allora diede in alte grida di dolore e di lamento, urlando con tutte le forze e stracciandosi le vesti. Poi si precipitò nella tenda dove era alloggiata Giuditta e non ve la trovò. Allora corse fuori davanti al popolo e gridò: «Gli schiavi ci hanno traditi! Una sola donna ebrea ha gettato la vergogna sulla casa del re Nabucodònosor! Oloferne eccolo a terra e la testa non è più sul suo busto»”. Gli schiavi si sono ribellati – disgraziati, traditori – perché il popolo dei credenti non presta ossequio all’idolatria del potere. E ora tutti reagiscono come se fossero costretti a subire un lutto per cui non c’è consolazione, non c’è rimedio, non c’è riparo. “I comandanti dell'esercito assiro, appena udirono questo annunzio, si stracciarono i mantelli e rimasero terribilmente sconvolti nel loro animo; risuonarono entro l'accampamento altissime le loro grida e gli urli di dolore”. Vi dicevo poco fa che non c’è combattimento, un’impresa militare che conduca un manipolo di eroi a sconfiggere un immenso schieramento sul campo di battaglia: è la rotta, è un mondo che si disintegra, si autodistrugge, che non sta in piedi perché ha perso il capo, la testa, quel riferimento che era celebrato come valore assoluto, sacro: l’idolo del potere.


Vince il Signore, rieducando il cuore umano alla fede

Cap 15, vv 3-13: “Tutti gli altri che erano nelle tende, appena seppero dell'accaduto, restarono allibiti e furono presi dal panico e nessuno volle più restare vicino al compagno, ma tutti si sparsero in fuga in ogni senso nella pianura e su per i monti. Anche quelli accampati sulle montagne intorno a Betulia si diedero alla fuga”. In pochissimi tratti la narrazione descrive una vicenda che coglie nella situazione non soltanto gli aspetti visibili di uno sbandamento che si trasformerà in un fuggi-fuggi generale, ma è uno smarrimento della geografia interiore; è il cuore umano che non sa più a chi rivolgersi, riferirsi, consegnarsi, a chi dichiararsi subito: è il cuore umano che ha perso quel modello idolatrato a cui era assuefatto e di cui, in un certo modo, si vantava, si beava, si compiaceva. “Non c’è più”.

La geografia, nei versetti che seguono, descrive luoghi un po’ fantastici come se nel giro di pochi momenti si percorressero distanze enormi perché la rotta dilaga su una scena sempre più ampia, ma è la geografia interiore che si sta disintegrando; sono i punti di riferimento dell’animo umano, della coscienza, del cuore che sono consumati, esauriti, svuotati, svaporati: “non c’è più e noi siamo perduti”. E’ proprio su questo terreno che avanza lo splendore del protagonismo di Dio: è la luce del giorno che viene. Non è il gusto del massacro a danno dei cosiddetti nemici, ma è il valore rivelativo di questa novità che irrompe nella storia umana come testimonianza resa al protagonismo di Dio che realizza la sua intenzione, che fa di questa storia infernale una storia di salvezza. C’è di mezzo la rieducazione del cuore umano, la rieducazione alla vita per coloro che hanno tradito quella vocazione.

A questo punto gli Israeliti, cioè quanti tra di loro erano atti alle armi, si buttarono su di essi. Ozia mandò subito a Betomastaim, a Bebai, a Cobai, a Cola e in tutti i territori d'Israele messaggeri ad annunziare l'accaduto e a invitare tutti a gettarsi sui nemici e annientarli. Appena gli Israeliti udirono ciò, tutti compatti piombarono su di loro e li fecero a pezzi arrivando fino a Coba. Scesero in campo anche quelli di Gerusalemme e di tutta la zona montuosa, perché anche a loro avevano riferito i casi successi nell'accampamento dei loro nemici. Quelli che abitavano in Gàlaad e nella Galilea li colpirono terribilmente aggirandoli, arrivando fino a Damasco e al suo territorio. I cittadini rimasti in Betulia si gettarono sul campo degli Assiri (adesso c’è il saccheggio), si impadronirono delle loro spoglie e ne trassero ingente ricchezza”. Questo impero, costruito secondo l’ideologia di Nabucodònosor, con l’ossequio dei sudditi e di popoli, di tutto un impianto che ha imposto procedure rigide e inspiegate alla cosiddetta civiltà dominante, è frantumato. La storia umana è una storia di imperi che decadono e sono travolti, ma è la storia stessa che porta in sé questo inquinamento autodistruttivo; ed è la storia nella quale avanza e si impone vittorioso il protagonismo di Dio, la sua volontà d’amore. Ed ecco un momento celebrativo di questa novità che capovolge l’equilibrio che sembrava definitivo del potere che domina il mondo. E invece è un tracollo miserabile. E’ la festa, la grande festa. Quando si parla di saccheggio non si vuole inneggiare al gusto di approfittare delle ricchezze altrui dopo che abbiamo eliminato i cosiddetti nemici, ma il nostro racconto prende atto del fatto che, nella storia umana, man mano che crolla l’idolatria, ci sono comunque cedimenti che conservano una loro inconfondibile positività. Nella storia umana, mentre crolla l’impero, permangono elementi, contenuti, esperienze che appartengono a quella che era fin dall’inizio l’intenzione originaria di Dio che ha chiamato gli uomini alla vita e c’è una positività radicale che continua ad essere nascosta, schiacciata, compromessa, strumentalizzata dentro la costruzione del grande impero; ma, quando crolla l’impero, raccogliere questa grande quantità di materiale che l’esercito assiro ha abbandonato ha esattamente questo significato: la festa della fede è festa che non celebra il valore di uno schieramento militare che ha sconfitto i nemici, ma celebra la gratitudine nei confronti di quella vittoriosa iniziativa di Dio che restaura il senso della storia umana in funzione della vocazione alla vita. Tutto quello che di positivo, benefico, sano, coerente con la vocazione originaria che, nel corso della storia umana, man mano è stato accumulato e anche schiacciato dentro gli ingranaggi di una storia infernale, tutto viene recuperato: viene recuperata la bellezza del mondo, la bellezza delle creature in quanto creature. Sconfiggere l’esercito di Oloferne con il crollo dell’impero di Nabucodònosor non significa far piazza pulita; significa ritrovare la bellezza del mondo creato da Dio. Ed è la bellezza dello sguardo incantevole di Giuditta che ha affrontato Oloferne, l’ha affascinato, ingannato, sedotto; è quella bellezza che adesso trova modo di specchiarsi nella bellezza della creazione in quanto è di Dio, è dono suo dall’inizio.

Gli Israeliti tornati dalla strage si impadronirono del resto e le borgate e i villaggi del monte e del piano vennero in possesso di grande bottino, poiché ve n'era in grandissima quantità.

Allora il sommo sacerdote Ioakìm (addirittura intervengono da Gerusalemme proprio per attestare la gratitudine e la stima che Giuditta si è meritata), e il consiglio degli anziani degli Israeliti, che abitavano in Gerusalemme, vennero a vedere i benefici che il Signore aveva operato per Israele e inoltre per vedere Giuditta e porgerle il loro omaggio. Appena furono entrati in casa sua, tutti insieme le rivolsero parole di benedizione ed esclamarono al suo indirizzo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d'Israele, tu splendido onore della nostra gente (è un canto mariano, il “Tota pulchra”). Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele, di esse Dio si è compiaciuto. Sii sempre benedetta dall'onnipotente Signore». Tutto il popolo soggiunse: «Amen!» (un’andatura liturgica; benedizioni su benedizioni, approvazioni corali, da un amen a un altro, da un alleluia all’altra. Così da parte delle autorità di Gerusalemme; è interessante il riferimento che ha un suo rilievo sacramentale come centro a cui tutto il popolo dei credenti è rivolto; a Gerusalemme c’è il tempio dove officiano i sacerdoti. Questo atto di omaggio nei confronti della fede vissuta e testimoniata in periferia; e, su tutto questo, il protagonismo del Signore. E lui che si è compiaciuto).

Tutto il popolo continuò per trenta giorni a saccheggiare l'accampamento (l’evangelizzazione affidata al popolo dei credenti è un’opera di rispetto, ossequio, venerazione, celebrazione: finalmente tutto questo è realizzato nel suo autentico valore corrispondente all’intenzione originaria del Creatore per quanto riguarda la bellezza delle creature che l’idolatria del potere offende, perverte, inquina, devasta, corrompe). A Giuditta diedero la tenda di Oloferne, tutte le argenterie, i divani, i vasi e tutti gli arredi: essa prese tutto in consegna e cominciò a caricarlo sulla sua mula, poi aggiogò i suoi carri e vi accumulò sopra la roba. Intanto si radunarono tutte le donne d'Israele per vederla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo onore”. Noi ci fermiamo stasera dinanzi a questo spettacolo: una danza, perché il saccheggio, che è in atto per trenta giorni, viene trasfigurato in un giro di danza e Giuditta è colei che apre e guida questa danza; è Giuditta che batte il ritmo della storia umana. Poco fa citavo il Salmo 136:

Lodate il Signore perché è buono:

perché eterna è la sua misericordia.

Lodate il Dio degli dèi:

perché eterna è la sua misericordia.

Lodate il Signore dei signori:

perché eterna è la sua misericordia”.

Questo è il ritmo della danza, dove ogni passo è una caduta e ogni caduta è la rivelazione di una nuova armonia, di uno splendore sempre più gratuito e in grado di ricapitolare le misure di tempo e di spazio dell’universo. “Perché eterna è la sua misericordia”; fino all’evento pasquale del Signore che è considerato dai padri della Chiesa, in diversi casi, come il passo di danza del danzatore cosmico, Colui che è disceso e risalito, Colui che ha compiuto il salto, che ha fatto il passaggio decisivo. E’ quel ritmo, che ormai è stato imposto alla storia umana, per cui là dove le creature cadono sono raccolte e ricapitolate all’interno di una armonia per cui non ci sono più impedimenti. “Essa prese in mano dei tirsi e li distribuì alle donne che erano con lei. Insieme con esse si incoronò di fronde di ulivo: precedette tutto il popolo, guidando la danza di tutte le donne, mentre ogni Israelita seguiva in armi portando corone; risuonavano inni sulle loro labbra”. Uno dei grandi inni dell’Antico Testamento è il cantico di Giuditta di cui parleremo la prossima volta. Intanto possiamo fermarci qui dove ci troviamo alle prese con una scena che ci impedisce di restare immobili perché siamo anche noi coinvolti nei passi cadenzati, ritmati, travolgenti di questa danza.

Lectio divina


Incontri 2013-2014 - Libro di Giuditta


  • 1 aprile 2014
    Libro di Giuditta 6
    La bellezza della fede