Nunc dimittis
Nel vangelo di Luca Simeone prende tra le braccia e solleva alla sua guancia il bambino, quindi benedice: Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli. Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Lc 2,29-32). E’ il cantico di Simeone, il Nunc Dimittis, in cui l’anziano israelita testimonia che si è compiuta per lui la promessa per la quale non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore.
Tutte le sere, nella preghiera di compieta, facciamo nostra la benedizione di Simeone: ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace... Quando ormai si è entrati nella notte, quando ci si ritira a conclusione di tutto il ciclo degli eventi che hanno scandito lo svolgimento della giornata, quando ci si orienta ormai verso il sonno, la chiesa canta così : ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace, i miei occhi hanno visto la luce.
La luce che non si spegne. Simeone ormai è pronto per affrontare la morte: i miei occhi hanno visto, l’evangelo mi è stato affidato, io posso scomparire, l’evangelo rimane. L’evangelo che passa attraverso di me rimarrà come lampada accesa in grado di illuminare la scena del mondo e raggiungere tutte le stirpi umane sulla faccia della terra fino agli estremi confini. La vita si consuma e l’evangelo rimane, riflesso di una luce che non si spegne, sacramento di una sorgente di vita che zampilla ininterrottamente.
Il salmo 4 nella liturgia della Chiesa
Il salmo 4 nella tradizione benedettina caratterizza la preghiera della compieta. Sempre quando si entra nella notte fonda, quando si completa il circuito delle vicende quotidiane, secondo la tradizione benedettina, il popolo cristiano prega con il salmo 4. E’ il salmo della compieta per antonomasia. In base alla riforma liturgica nella preghiera di compieta, nel corso della settimana, sono usati diversi salmi. Prima della riforma il salmo 4 non mancava mai; dopo la riforma liturgica ogni sera, per la compieta, si usa un salmo diverso. Ora il salmo 4 si recita nella compieta che fa seguito ai primi vespri della domenica, ed è una posizione strategica, perché i primi vespri della domenica sono quella soglia che indica l’ingresso nel giorno definitivo. La compieta del sabato sera è la preghiera che prelude, attraverso la notte che viene attraversata, al giorno che sorgerà per non tramontare mai più.
Una preghiera di fiducia
Abbiamo a che fare con una preghiera di "fiducia" con cui si esprime un fedele giunto alla sera del giorno, nell’atto di coricarsi e di addormentarsi. La sera a cui è giunto chi prega con il salmo 4 assume un significato che non è semplicemente relativo alla scadenza del quotidiano: è l’esito conclusivo di un itinerario che ormai è passato attraverso molti momenti, molte tappe che si sono consumate nei tempi di una vita, di una storia, di una ricerca, di una fatica, fino al momento in cui ormai si è giunti alla svolta che conduce al sonno finale. E’ la giornata che misura una vita intera, abbiamo a che fare con testimonianza di chi ha raggiunto ormai quella fase della propria esistenza in cui è possibile volgersi indietro, ricapitolare, riprendere contatto con tutto quello che è avvenuto e coglierne il significato, discernerne il valore definitivo.
Il salmo 4 assume un andamento lirico, una forma di confessione che non ha nulla di sdolcinato e di banale, in nessun dei suoi momenti. E’ la testimonianza di una ricerca interiore che giunge alla fase della maturità e si presenta in modo molto sobrio: sono solo 8 versetti. Chi li pronuncia non è un chiacchierone, gli manca il fiato per fare lunghi discorsi, non è più in grado nemmeno di dettare le proprie memorie, di lasciare le sue estreme considerazioni nelle pagine di un diario. E’ la preghiera di chi è stanco, di chi è giunto al momento in cui si fa un salto e ci si addormenta.
Il nostro orante esprime le sue considerazioni su quello che la vita gli ha manifestato, ma non propone degli insegnamenti. Il salmo non è riconducibile alla tipologia delle preghiere meditative o sapienziali, anche se non mancano aspetti che sono imparentati con quel tipo di preghiera. Qui è proprio l’espressione immediata di quella intimità che nel segreto del cuore è custodita e che affiora limpida, cristallina, autentica, così com’è. In questa sua intimità il nostro orante è impegnato sul fronte di una relazione dialogica, parla con qualcun altro. Anche se tutto si ricapitola nella sua vicenda interiore, ha degli interlocutori, interpella altri che sono diversi da lui, lontani da lui e che comunque hanno fatto parte della sua storia ed hanno preso posizione all’interno della sua stessa ricerca di viandante sulle strade del mondo e della vita che adesso si dichiara nella sua testimonianza definitiva.
Questa testimonianza trascina con sé anche la presenza di quegli interlocutori che ormai non esistono più, se non in quanto sono divenuti parte della sua stessa storia e quindi coinvolti nella sua estrema dichiarazione.
Il v. 2 introduce tutto in forma di supplica, dopodiché il salmo si sviluppa in due strofe : vv. 3-6 e vv. 7-9.
Nella prima strofa il nostro orante si rivolge a una certa categoria di uomini con cui ha avuto a che fare nel corso della sua giornata, e con cui ancora ha a che fare, anche se sono presenze che ha accolto nell’intimo.
Nella seconda strofa la testimonianza del nostro orante è indirizzata a un’assemblea di gente più ampia, sfumata che ricapitola in sé la moltitudine umana, senza che ci sia più nessuno che resti escluso.
Quando ti invoco
Partiamo dall’introduzione, v. 2 : «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato; pietà di me, ascolta la mia preghiera».
Una serie di invocazioni con tre imperativi : rispondimi, pietà di me (piegati su di me), ascolta la mia preghiera. I tre imperativi esplicitano l’invocazione : "quando ti invoco", si potrebbe anche tradurre : "appena ti invoco". E’ una invocazione che viene espressa a fior di labbra, forse è soltanto un sospiro, forse è accompagnato da un gemito, un anelito : "Appena ti invoco, rispondimi, piegati, ascolta". La situazione appare debolissima, cogliamo immediatamente la fatica dovuta ad un lungo cammino, c’è di mezzo la storia di una vita.
D’altra parte questa invocazione introduttiva porta in sé, già, una certezza incrollabile. Proprio questo è l’aspetto interessante su cui dobbiamo sostare per un momento: la debolezza estrema di chi invoca in questo modo e insieme la fermezza ineccepibile di chi è radicato in una posizione solidissima, inattaccabile ormai. Ci sono 3 imperativi : rispondimi, piegati, ascolta. L’ordine logico di questa sequenza è capovolto rispetto a quello che ci aspetteremmo, logicamente. Chi invoca dovrebbe esprimersi così : ascolta, piegati, rispondimi. Ed invece: rispondimi, piegati, ascolta. L’orante è già sicuro della risposta prima ancora che la sua invocazione sia ascoltata. Rispondimi: non ha ancora chiesto nulla e già è convinto che la risposta precede la sua stessa implorazione. Questa invocazione introduttiva fa perno attorno alla affermazione centrale: "Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato". Dio è il difensore nel senso biblico: una relazione per cui c’è chi prende posizione a vantaggio della debolezza altrui. Questo è il giusto. Il giusto è colui che nella relazione si schiera dalla parte di chi non ce la fa, in modo da sostenerlo e promuoverlo. "Mia giustizia" è il suo modo di identificare Dio. Dio è il difensore. Il verbo che traduciamo con "liberare" indica l’atto di portare al largo, qualcuno che sta alle strette, che è in secca, rintanato in un angolo e che viene messo in grado di spaziare. In italiano questa espressione rischia di diventare troppo generica, l’espressione ebraica è molto più concreta: Dio è mia giustizia in quanto mi ha tratto al largo, mi ha spalancato lo spazio della vita. E’ la sua giustizia che dà fiato a chi soffoca. Questa evidenza risulta ormai inequivocabile oggi e per sempre : dà uno spazio per vivere.
E’ lo spazio nel senso delle dimensioni fisiche, è spazio delle relazioni interpersonali, è spazio nel senso dell’inserimento sociale, del dialogo culturale, della larghezza interiore : tu mi hai tratto al largo, tu mi spalancato dinanzi lo spazio per vivere, me lo hai spalancato dentro. Per vivere tu mi hai aperto internamente, mi hai insegnato a vivere. Hai fatto della mia vita la rivelazione della tua giustizia, che io ho abitato.
I padri della chiesa, quando commentano il salmo 4, e lo commentano con grande affetto e intensa devozione, non hanno alcun dubbio, d’altronde la loro interpretazione è sempre cristologica. Il salmo 4 è preghiera del Messia: è il Messia, è proprio lui che si rivolge a noi e a tutti con questa testimonianza della smisurata larghezza che si è spalancata nell’intimo del suo cuore. Mi hai tirato al largo, mi hai trasportato al largo, hai fatto largo, hai fatto della mia vita una larghezza, mi hai fatto vivere perché mi hai allargato. La mia vita è lo spazio che tu hai disteso attorno a me e hai scavato dentro di me : Dio mia giustizia.
Chi dichiara questo ha espressamente citato le angosce con cui ha avuto a che fare, dunque è stato esposto a tutti i conflitti, nulla gli è stato risparmiato e, come si è detto, è in procinto di affrontare il passaggio che lo conduce alla notte, al sonno finale.
Eppure il cuore si è dilatato. Mi hai dilatato nel cuore, facendomi passare attraverso tutte le contrarietà, tutte le strettoie, tutte le angustie. Tu sei, Dio, mia giustizia, maestro per me nel cammino della vita. Tu sei l’esperto disegnatore dello spazio che fa di me un vivente in quanto trovo dimora e in quanto la mia stessa realtà di vivente diviene dimora per altri, dimora per il mondo, dimora per la storia umana. Hai spalancato in me uno spazio che contiene l’intera creazione.
Fino a quando o uomini
Prima strofa, vv. 3-6 : «Fino a quando o uomini». La prima strofa è indirizzata a una certa categoria di uomini che la nostra bibbia traduce in modo sommario con «uomini». In ebraico si trova bené isc, un’espressione un po’ singolare. Altre volte nell’ebraico biblico si parla del bené adam, il figlio di Adamo, il figlio dell’uomo, per indicare gli uomini, i discendenti di Adamo, tutto il genere umano; qui bené isc, figli dell’uomo nel senso di quella figliolanza che assume prerogative di nobiltà, di forza: l’essere uomini in quanto comporta un potere, una prepotenza, almeno nel senso di un desiderio, di una programmazione della vita. Gli uomini di cui si parla sono coloro che fanno della loro vita un progetto di potere. I "caporali" del mondo, i caporali della vita, quelli che vanno per la loro strada senza guardare in faccia nessuno, perché sono loro il punto di riferimento; se mai pretenderebbero di essere guardati, di essere considerati come i modelli esemplari a cui assuefarsi, con cui allinearsi.
Il nostro orante certamente li ha incontrati; c’è stato un impatto con i figli dell’uomo nella sua vita, con queste posizioni di presunta nobiltà, di dominio prepotente che vuole imporsi in modo indiscriminato. Li ha incontrati. E li ha incontrati non soltanto perché gli è capitato di incrociare le loro strade, ma li ha incontrati dentro. Sta dialogando con loro in una situazione interiore. Tant’è vero che gli interlocutori a cui si rivolge non parlano più, non fiatano più, non hanno più niente da dire, il discorso che il nostro orante rivolge loro è un discorso senza risposta, perché quei tali sono ormai, per così dire, scomparsi, svaniti.
«Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore». Dal v. 3 al v. 6 il discorso del nostro orante ai caporali si sviluppa in 3 domande e 7 raccomandazioni.
Tre domande : fino a quando ? perché amate ? perché cercate ?
Poi 7 raccomandazioni, ci sono 7 verbi in forma inperativa : sappiate, tremate, non peccate, riflettete, placatevi, offrite, confidatevi. Tre più sette è una specie di decalogo. Il nostro orante è preoccupato per questo, si rivolge a loro con impegno, con calore, direi quasi con affetto. Il suo atteggiamento non è quello di chi si erge nei confronti di questi tali per chiuderli sotto il peso di una condanna irrevocabile; si rivolge a loro mirando a suscitare un processo di conversione. Li sta stimolando, sollecitando, incoraggiando, provocando, certamente, proprio perché è convinto che per loro si apra la strada di una vita nuova. D’altronde il discorso rivolto a quei tali si sviluppa nell’intimo della sua esperienza solitaria, l’esperienza di tutti quelli con cui ha avuto a che fare e tutti quelli che sono parte della sua stessa vita. E mentre si rivolge a loro, sta esprimendo la testimonianza di quel che Dio ha realizzato nella sua vita: Dio, mia giustizia, mi ha tratto al largo, mi ha sottratto alle angosce, mi ha dato spazio. Fino a quando uomini ? Tre domande.
«Fino a quando o uomini sarete duri di cuore ?» La traduzione in questo caso si rifà al greco della LXX, baricardioi, uomini dal cuore pesante. In realtà il testo ebraico dice: fino a quando uomini oltraggerete il mio onore ? Il nostro orante si presenta in qualità di aggredito, di oltraggiato, dunque l’incontro con i tali è divenuto uno scontro, egli ne ha subito le conseguenze in modo doloroso e forse ha dovuto anche mettersi a terra. Fino a quando o uomini calpesterete il mio onore ?
Ma proprio perchè è stato aggredito, affronta i suoi aggressori, quei tali che, secondo il greco della LXX, hanno il "cuore pesante": come è possibile che ancora ve la prendiate con quelli che subiscono la pesantezza del vostro cuore, come pensate di essere autorizzati a schiacciare, a scaricare addosso agli altri la vostra prepotenza senza limiti! Fino a quando ?
Un aggredito prende la parola, e affronta. Le due domande che seguono, mettono in evidenza il contenuto dell’intera questione : perché amate cose vane ? Il contenuto è l’amore che muove, sostiene, struttura la vita Ma quale amore è il vostro ? L’altro interrogativo mette in evidenza la metodologia che viene applicata nel corso della vita : perché cercate la menzogna ? Quale amore è il vostro, per quale amore vivete ? E di quale maschera vi ammantate?
Questo modo di interpellare gli aggressori non è orientato a ributtare addosso a loro una condanna quasi ovvia. Il nostro orante è passato attraverso l’esperienza dell’aggressione e dell’impatto con gli uomini prepotenti, ma ha assunto la responsabilità di una testimonianza che sollecita proprio quei tali a intraprendere un cammino di conversione. Ed ecco allora il v. 4.
«Sappiate che il Signore fa prodigi per il suo fedele: il Signore mi ascolta quando lo invoco».
Questo è il primo imperativo, la prima raccomandazione: rendetevi conto, sappiate. Una conoscenza, questa, che non è soltanto di ordine concettuale, come sempre nel linguaggio biblico. La conscenza implica una partecipazione diretta, un coinvolgimento personale, implica una situazione che è empirica, per un verso, e che si incide nell’intimo del cuore, per altro verso. Sappiate che il Signore fa prodigi per il suo fedele. La prospettiva di una conversione per questi uomini prepotenti è determinata da una realtà che egli proclama come una evidenza incontestabile: è il Signore che fa prodigi per il suo fedele, il Signore lo ascolta quando lo invoca, il Signore si prende cura del suo servo, in ebraico hassid. Si potrebbe tradurre quel "fa prodigi" con il nostro "distingue". Sappiate che il Signore distingue il suo hassid, si prende cura nel senso che lo custodisce, lo sa circondare di tutte quelle premure che sono segno di un privilegio, quel privilegio che è di ogni creatura di Dio in quanto è amato nella sua debolezza, nella sua piccolezza, nella sua precarietà: è hassid, il fedele, l’amato.
Sappiate che il Signore distingue il suo amato. Quella creatura indifesa, disarmata, esposta ha sperimentato cosa vuol dire essere aggredito. Proprio questo è diventato il contenuto della sua testimonianza : sappiate che il Signore dedica un privilegio di amore al suo fedele. Il tema su cui il nostro orante invita gli uomini prepotenti a riflettere, coincide con quella che è la sua storia personale, con quella che è la sua vita che si ricapitola per intero in questa testimonianza : il Signore dedica un privilegio di amore alle sue creature ed a ogni sua creatura in quanto non ha più alcuna pretesa di vantare propri individuali o autonomi diritti. Ogni creatura, in quanto creatura che a lui appartiene, è amata con un dono preferenziale, un dono privilegiato. Ogni creatura è hassid, in quanto creatura.
Gli altri 6 imperativi sono distribuiti per coppie e, quindi, a due a due, formano tre nuclei di quella ricerca che l’orante ha prospettato agli uomini prepotenti.
E dunque in primo luogo : «Tremate e non peccate». Questo tremore esprime l’atteggiamento di chi si trova davanti a una manifestazione di Dio, ma la manifestazione di Dio coincide qui con quel che è capitato a quella povera creatura che è amata dal Signore: rendetevi conto di come il Signore ama la sua creatura, tremate e non peccate.
E quindi : «sul vostro giaciglio riflettete e placatevi». Ecco altri due imperativi: riflettete. In ebraico "ditevi nel cuore, ripetevi nel cuore, raccontatevi nel cuore queste cose".
Sul giaciglio, dunque, durante la notte, nel tempo che dovrebbe essere del sonno, riflettete. Questi tali hanno a che fare con l’insonnia, è segno di un certo tumulto che li agita, di un certo disordine che li accompagna. La loro insonnia è orientata nella direzione di questo ripensamento che li impegna intimamente. Aggiunge : «placatevi». "Fate silenzio" si potrebbe tradurre. Quel tumulto, a cui l’immagine dell’insonnia accennava, tende davvero a placarsi e la posizione distesa di chi giace sul giaciglio diventa posizione di sollievo, di ristoro. Sarà il riposo che è raggiunto attraverso quel processo di compunzione, di sbriciolamento, di frantumazione del cuore, a cui il nostro orante sta accennando, né altrimenti sarebbe possibile giungere ad un riposo che sia veramente adeguato alle necessità della vita.
In realtà gli uomini prepotenti vivono male, vivono e non riposano, vivono e non dormono, vivono e non vivono. Riflettete a cuore aperto e fate silenzio.
La traduzione in greco inserisce l’imperativo katanugete, per tradurre quel che nella nostra bibbia leggiamo "placatevi", il greco della LXX dice katanigete, che vuol dire esattamente : "fate compunzione", siate compunti nel cuore.
E adesso ecco il terzo momento di quel certo processo di conversione e altri due imperativi «Offrite sacrifici di giustizia e confidate nel Signore». Il nostro orante accenna a un vero e proprio atto liturgico di offerta, questo significa che i tali, a cui si sta rivolgendo, i cosiddetti prepotenti, sono orientati lungo un itinerario di trasformazione della loro vita per cui saranno in grado di porgere una offerta corrispondente alla giustizia di Dio. Confidate nel Signore. Il discorso indirizzato agli uomini prepotenti, come si detto, non punta alla condanna, alla esclusione, alla cancellazione, ma alla conversione : confidate nel Signore. E se gli uomini prepotenti qui non hanno più niente da dire è perché ormai la loro presenza è totalmente interna al vissuto del nostro orante.
Tutto il dibattito con gli uomini prepotenti è un dibattito che si è consumato nel cammino della sua giornata, nel cammino della sua vita: ha imparato a vivere e ha scoperto che c’è una strada di conversione per i caporali della terra.
Molti dicono
La seconda strofa vv. 7-9. «Molti dicono». Ci troviamo dinanzi a una moltitudine. Chi sono costoro ? Questa è la massa di gente che vive senza vigore, slancio, senza intensità, senza passione, senza progetti, desideri; gente scoraggiata, sottoposta al carico di situazioni che spengono le speranze. Per dirla con una espressione forse fin troppo impegnativa : gente disperata. E’ quella disperazione che non è il caso di drammatizzare, proprio perché è confusa con la banalità del quotidiano.
Quegli uomini prepotenti, di cui il nostro orante aveva parlato precedentemente, avevano un loro piglio, miserabile fin che volete, avevano un loro modo di intervenire, una loro pretesa.
Adesso abbiamo a che fare con una moltitudine di gente disperata. «Chi ci farà vedere il bene?» dicono costoro.
E qui bisogna correggere la traduzione del secondo rigo del v. 7. «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» in: "Chi ci farà vedere il bene se è fuggito da noi la luce del tuo volto". Se il Signore si ritira, se il Signore se ne va, se il Signore non si mostra, se non si impone, se non irrompe con la sua potenza travolgente, chi ci farà vedere il bene ? Sono uomini scoraggiati e pusillanimi. Non c’è possibilità di vedere il bene, non c’è luce, non c’è prospettiva, non ci sono motivi di consolazione, di entusiasmo, di impegno. Si vive, ma è come aver rinunciato a vivere. Chi ci farà vedere il bene se è fuggita da noi la luce del tuo volto ?
In questo modo di impostare le cose, riconosciamo una verità: quello scoraggiamento dilagante ha un suo motivo: se è fuggita la luce del volto del Signore, come potremo vedere il bene? Ricordate il cantico di Simeone? I miei occhi hanno visto la luce... E’ una citazione implicita del salmo 4 questo versetto del cantico di Simeone : i miei occhi hanno visto la luce.
Ma se io non vedo la luce.. Chi la vede la luce ? Chi l’ha mai vista la luce ? Nella loro pusillanimità sembrano avere una qualche ragione. Il nostro orante interviene per sbugiardare questa fallacia logica. I vv. 8-9 contengono la testimonianza personale del nostro amico, sotto forma di preghiera ad alta voce. Non sta a fare discorsi, che senso avrebbe fare discorsi con questa moltitudine di gente scoraggiata, avvilita, spenta, di gente che ha rinunciato a vivere. Il discorso va fatto agli uomini prepotenti, se lo è fatto dentro. A questi tali lui non ha niente altro da offrire se non la sua realtà di persona, la sua realtà di orante, la sua testimonianza di vivente che vede la luce. Questa, d’altra parte, è la benedizione di Simeone, la benedizione con cui concludiamo la giornata pregando con la compieta, sempre, tutti i giorni : i miei occhi hanno visto la luce.
«Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento». Non sta parlando con quei tali, sta parlando con il Signore, Tu hai messo, Tu il Signore. Non è in grado di interloquire con quei tali, o meglio, l’unico modo per essere veramente di aiuto a quei tali è di impegnarsi in pieno, abbandonarsi, affidarsi totalmente, lui, in prima persona nel dialogo con il Signore : Tu hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento, Tu sei causa di letizia nelle strettezze, Tu sei l’origine della mia sazietà nella scarsezza di vino e di frumento.
E poi dice : «In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare». Tu sei la pace nella mia notte, Tu sei la causa del mio riposo, Tu fai di questa notte non più l’oscurità che incombe, che mi minaccia, che mi intrappola nei miei incubi o nelle possibili insonnie, Tu sei il garante del mio riposo. Se sono giunto al termine di questo giorno, io sono in grado di affrontare la notte e la notte è tempo di riposo, la notte diviene conferma pacifica in grado di ricapitolare tutto del lungo cammino compiuto. Per questo Simeone adesso può andare in pace : Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace, salmo 4, perché i miei occhi hanno visto. Adesso posso morire, perché adesso la notte è il tempo del riposo e mi addormento al sicuro: andare in contro alla notte significa andare incontro a quel riposo che conferma, potenzia, sostiene la vita. «In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare». Quel, Tu solo Signore, si può intendere anche nel senso di quella solitudine che riguarda me : tu Signore al sicuro fai riposare me che sono solo. C’è un’ambiguità nel testo ebraico che, forse, è voluta : Tu solo per me solo, tu mi hai spalancato dentro lo spazio per trovare dimora e perché la mia vita si esprima come dimora per il mondo e per l’umanità e per la storia intera. Tu mi hai concesso il sonno per cui riposerò nella pace e sarò vivo per sempre.
La rivelazione biblica si apre con gli eventi hanno luogo nel giardino, là dove l’antico Adamo si addormenta e nel sonno il Signore Dio gli estrae la costola per plasmare la compagna che gli presenterà al risveglio. La storia della salvezza giunge al suo compimento quando il nuovo Adamo dormiente pende dalla croce e dal fianco squarciato escono sangue ed acqua, i segni della nuova Eva, la nuova umanità che gli è presentata al risveglio: ossa dalle mie ossa, carne dalla mia carne, è l’umanità dei viventi, la nuova umanità che ha ricevuto l’evangelo, che custodisce e trasmette perché ormai il nostro transitare nella vita ci ha introdotti nella pienezza definitiva, sazietà e riposo di cui godono i viventi che più non moriranno.