Incontri di discernimento e solidarietà
 
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L’INIZIO DEL VIAGGIO

lettura spirituale di Mc 16,9-20

noi, per finire

Il racconto evangelico di Marco si conclude con 16,8; ma è anche vero che l’evangelo secondo Marco, così come la Chiesa lo ha ricevuto e ce lo trasmette, ci propone la lettura di altri versetti supplementari, che fanno parte del testo canonico. Resta vero che questi versetti non appartengono alla originaria redazione del vangelo, alcuni commenti li ignorano, come se non esistessero. In realtà esistono.

All’inizio del II secolo dopo Cristo c’è stato un lettore del vangelo secondo Marco, che ha ritenuto necessario, aggiungere i versetti che noi stiamo leggendo.

Il personaggio, che ha aggiunto questa pagina ( un interprete autorevole nella Chiesa del tempo), si è trovato nella stessa situazione in cui ci troviamo noi, di chi constata che ci manca ancora qualche cosa. Ma il qualche cosa che ci manca non è da imputare a una deficienza del vangelo secondo Marco. In realtà ci manchiamo noi. Ci manca non già un pagina da aggiungere per completare il testo evangelico, ma ci manca quella partecipazione nostra che dimostri in pienezza, la autenticità e l’efficacia dell’evangelo. Questa pagina aggiunta ci riguarda. Sono versetti, questi, che possiamo attribuire ad un’epoca successiva; espressione di una ricerca che prosegue, si arricchisce, si fa sempre più problematica, per molti versi si fa più dolorosa e si carica di interrogativi laceranti nel contesto di una storia che riguarda la vita cristiana, la vita della chiesa, delle prime generazioni e di quelle che verranno, fino alla nostra.

Questi versetti sono testimonianza dell’esperienza drammatica della distanza che ci separa dal messaggio evangelico. Già all’inizio del II secolo c’è chi ha ritenuto doveroso affrontare sul serio questo problema. Impostata così la questione interessa anche noi. Per questo il canone ha riconosciuto questi versetti come elemento integrante del testo sacro, anche se non sono dello stesso redattore del vangelo secondo Marco. Per grazia di Dio ci sono! Il Signore onnipotente si è manifestato a noi attraverso la novità dell’evangelo, eppure c’è una storia che è ancora in farraginoso e contraddittorio svolgimento. E’ già la storia delle prime generazioni cristiane, ed è ancora la nostra storia ; la storia di cristiani che stanno verificando in modo inconfutabile come l’evangelo non coincida con la loro attualità, con la nostra attualità. Dunque l’evangelo non funziona! Interviene allora questa pagina conclusiva del vangelo secondo Marco, con tutta la sua modestia, anche con una certa grossolanità di linguaggio, per ribadire che il messaggio evangelico riguarda questi miserabili cristiani che siamo noi oggi e qui.

Il testo raccoglie notizie provenienti dagli altri vangeli ed è facile ricostruire le pagine che stanno sullo sfondo di questi versetti. Sono pagine interpretate assai severamente. E’ come se il nostro autore, nel momento in cui considera quale sia la risposta dei discepoli alla manifestazione del Signore risorto, sentisse urgente la serietà di un rimprovero. Non è un rimprovero moralistico, non è rivolto a chi non è sufficientemente bravo, impegnato, generoso, buono. Il rimprovero è formulato in modo da richiamare in tutta la sua urgente attualità il valore di una vocazione evangelica che riguarda i cristiani oggi e qui. Il nostro autore vuole aiutare i cristiani che hanno sperimentato e stanno sperimentando come la loro vocazione sia inquinata, soffocata, avvilita. E sono cristiani che si dedicano sul serio all’ascolto del messaggio evangelico.

la maschera

Il testo può essere utilmente suddiviso in 4 piccoli quadri.

Il primo quadro (16,9-11) e il secondo (vv. 16,12-13) sono in parallelo e potremmo chiamarli così: i volti dell’incredulità. Il vangelo non è stato recepito. Lo sa già il nostro autore all’inizio del II secolo. Lo sappiamo ancor meglio noi alla fine del II millennio! Questa è un’evidenza.

" Resuscitato al mattino nel primo giorno dopo il Sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva scacciato sette demoni. Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere (16,9-11).

Non è esplicitato il soggetto. E’ evidente che il soggetto è Gesù, ma il nostro autore non menziona il nome del Signore. Non si parla più di Gesù dal momento in cui egli è morto, da 15,37: "Gesù dando un forte grido spirò." Di lui si parla poi in termini oggettivi. Adesso invece è di nuovo Gesù il soggetto, ma non è citato per nome: è indicibile il nome di Gesù, c’è qualcuno che noi nemmeno ci azzardiamo a chiamare per nome. Con questa provocazione si avvia la riflessione sulla realtà della vita cristiana in rapporto al vangelo che noi continuiamo a leggere e ad ascoltare. "Resuscitato al mattino del primo giorno dopo il Sabato": è il suo giorno, ed è indicibile. Viviamo proprio nel contesto di queste contraddizioni, ci alimentiamo di queste contraddizioni. Indicibile nel suo giorno; colui che non viene detto è colto come per intuizione, è avvertita la sua presenza quasi con uno sguardo furtivo, nascosto, solo allusivo. Eppure è il suo giorno! E’ il suo tempo, eppure, è una presenza innominabile. Non per questo è meno presente. Nemmeno si può dire che è sconosciuto. Già basta questa battuta di avvio perché ci rendiamo conto che c’è un problema. Colui che è resuscitato ed è vivente, appare a Maria di Magdala. Si parla di questo incontro con Maria di Magdala nel vangelo secondo Giovanni; c’è di mezzo il ricordo dei sette demoni, che implica una reminiscenza del vangelo secondo Luca cap. 8.; c’è poi l’annuncio di Maria di Magdala ai seguaci di Gesù, circa la rivelazione che le è stata concessa. I seguaci di Gesù erano in lutto ed in pianto.

A questo proposito conviene ricordare colui che abbiamo osservato mentre si copriva il volto e piangeva, Mc 14,72: Pietro. Adesso veniamo a sapere che i seguaci di Gesù, a cui Maria di Magdala si rivolge, erano in lutto ed in pianto, anche loro sono come paralizzati da quella stessa tristezza che invase il cuore di Pietro; quella tristezza è divenuta un clima che domina i discepoli e fa tutt’uno con l’intima convinzione che essere discepoli del Signore vivente e glorioso in realtà è impossibile. Tristezza. Bisogna nascondere la faccia, mascherarla. La storia della vita cristiana a questo riguardo è esemplare: storia di maschere. Erano in lutto ed in pianto, " udito che era vivo ed era stato visto da lei non vollero credere". Sono espressioni molto sobrie. Non vollero credere! Un volto della incredulità, un volto mascherato, uno di quei volti che riconosciamo nel tentativo di precisare chi siano i cristiani, là dove è interiormente avvertito il disadattamento radicale di chi non è in grado di guardare in faccia l’agnello innocente che viene condotto al macello. Tristezza.

la solitudine

Il secondo quadro sta in parallelo al primo e ci consente di aggiungere una considerazione ulteriore. "Dopo ciò apparve a due di loro sotto altro aspetto mentre erano in cammino verso la campagna." (vv.12-13) E’ l’episodio dei discepoli di Emmaus, nel vangelo secondo Luca. Il nostro autore non ha nessunissima voglia di sciogliersi in sentimentalismi; legge il vangelo dei discepoli di Emmaus e non si commuove, non si commuove per niente. "Apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunziarlo agli altri, ma neanche a loro vollero credere." Qui la situazione è leggermente diversa rispetto a quanto leggevamo precedentemente. Qui non è più la tristezza di Pietro che è divenuta la tristezza di una moltitudine di discepoli che si raggomitolano in loro stessi. [Un po' anche si coccolano da se stessi, nella convinzione che il volto del Signore rimane invisibile. E se mai qualcuno si azzardasse a puntare lo sguardo verso quel volto resterebbe bruciato, fulminato, smascherato. Meglio mascherarsi. Ma che tristezza però giocare alle maschere nel giorno del Signore!]

I due se ne erano andati in campagna e adesso ritornano. Percepiamo che c’è un certo disagio, anzi un certo risentimento nei confronti di loro. Se ne sono andati, poi sono tornati; lungo la strada l’hanno incontrato, e adesso pretendono di annunciare chissà che cosa e chissà chi. "Non vollero credere". Qui dice esattamente: non vollero credere a loro. Ai due. Precedentemente il verbo apistein era usato in una forma assoluta: non vollero credere. Adesso: non vollero credere a loro, perché i due personaggi risultano sospetti e insopportabili. Se ne erano andati, avevano affrontato le strade della dispersione, e .. del tradimento; mentre loro erano rimasti a sostenere il peso di una vicenda schiacciante. Sono inaccettabili. E’ ricapitolato qui è il volto della solitudine. Prima i volti dell’incredulità, ora quelli della solitudine. E’ una solitudine che si rinserra in se stessa, che rimane inguaribile e insormontabile. La vita cristiana ti riduce in uno stato di solitudine per il quale non c’è scampo. Noi continuiamo a barricarci, forse a difenderci, forse anche a gloriarci nella nostra solitudine. D’altronde più ci accostiamo al messaggio evangelico e più verifichiamo come la solitudine ci riguardi. La solitudine è divenuta una necessità, una corazza. Nemmeno i discepoli di Emmaus possono tornare indietro e parlare con un nuovo timbro di voce, con la testimonianza di nuovi sentimenti e con l’urgenza di chi ha incontrato il Signore vivente. Noi siamo soli. "Non vollero credere a loro".

l’inizio del viaggio

Terzo quadro (16,14-18): " Alla fine apparve agli undici." Non è ancora citato il nome del soggetto. " Apparve agli undici": è una espressione sintomatica. Quando si dice undici si intende dodici meno uno. Dodici sono i discepoli e dodici è quel numero che, al modo delle dodici tribù d’Israele, prelude alla vita e alla pienezza. Qui sono undici; sono undici, tristi e soli, cristiani disadattati, più undici che mai. Tutto traballa, tutto è scompensato, tutto è deludente. "Apparve agli undici": proprio agli undici in quanto undici, proprio a loro in quanto sono i cristiani dell’incredulità. Tristi e soli: apparve. Anzi: "mentre stavano a mensa". C’è ancora la consuetudine di radunarsi a mangiare. L’ultima volta che si è parlato di una mensa comune è stata quella relativa all’ultima cena, a Gerusalemme per il banchetto pasquale, nel cap. 14. E’ usato lo stesso termine oltretutto. Stavano a mensa. C’è un accenno alla consuetudine di ripetere questo gesto, un riferimento al passato e anche una certa assuefazione a un comportamento. Malgrado tutto continuano a stare a mensa. La presenza del Signore in mezzo agli undici che sono seduti a mensa si traduce in un rimprovero: "Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore". Troviamo espressioni che abbiamo già incontrato: la apistia, la sclerocardia, l’incredulità, la durezza di cuore. Il nostro autore ha letto e studiato il vangelo secondo Marco, ma quel che nel vangelo secondo Marco riguardava i farisei, ora riguarda i discepoli, riguarda noi. Questa incredulità, questa durezza di cuore, è affrontata con una parola, un gesto di rimprovero.

Il verbo usato qui, oneidizo, è il verbo che era stato usato in 15,32 a proposito di Gesù che, mentre pende dalla croce, veniva insultato "da quelli che erano stati crocefissi insieme con lui". Gli dicevano: "Salva te stesso, scendi dalla croce, vedremo e crederemo". Adesso è Gesù che rimprovera. Questo rimprovero non ha il significato di una sentenza di condanna, ma il valore di una vocazione. Sta richiamando i discepoli, li sta bruscamente spingendo per riportarli alla realtà della loro vocazione, che rimane, quali che siano le contraddizioni in sono incappati, da cui si sentono condizionati, da cui sono appesantiti, intristiti, desolati. Li rimprovera, "perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato" (16,14).

Il passaggio dal v. 14 al v. 15 è sbalorditivo: "Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate l’evangelo ad ogni creatura» (16,15) Uno stridore sconcertante. Li ha appena rimproverati perché non avevano creduto e adesso li invita ad andare in tutto il mondo e predicare l’evangelo. Eppure è proprio questo il senso di quel rimprovero, questa è la prospettiva verso la quale preme quella spinta, così aggressiva, che il Signore ha inferto ai discepoli, ai cristiani: "andate in tutto il mondo". Li impegna per un viaggio, conferisce alla vita cristiana il valore di un viaggio, la modalità di un viaggio. Andate in tutto il mondo. E non c’è confine, non c’è orizzonte che circoscriva il territorio di questo viaggio: ogni tempo, ogni luogo, ogni creatura, tutte le creature.

I discepoli, che sono stati rimproverati, sono già trascinati da una corrente che preme addosso a loro e li muove, malgrado loro stessi, verso orizzonti inesplorati. Proprio quei cristiani che hanno sperimentato la radicale impossibilità della loro vocazione, sono coinvolti direttamente, pubblicamente, nel grande viaggio, che è stato il viaggio di Gesù, il Figlio, disceso, risalito, morto, risorto, il viaggio dell’evangelo. Adesso è il viaggio nel quale sono coinvolti i cristiani. "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato" (16,16). C’è di mezzo la fede, c’è di mezzo il battesimo. E non è soltanto la fede degli altri, destinatari dell’evangelo, non è soltanto il battesimo di coloro che lo riceveranno, è già la fede dei discepoli, è già il loro tuffo battesimale in questa corrente che li trascina al di là di ogni loro aspettativa. Il vangelo secondo Marco, nell’ultimo brano del racconto della passione, ci parlava di quell’onda di profumo che avvolge le donne e le accompagna nella loro corsa; anzi, è un profumo che le sollecita alla corsa, le precede nella corsa, perché si sono trovate dinanzi alla rivelazione di un amore che vince la morte. Non soltanto un amore fino alla morte, ma un amore che vince la morte. L’unguento profumato è rimasto a loro, e sono in corsa, perché questo profumo dilaga in tutte le direzioni, e su tutte le strade percepiscono il profumo di colui che è vivente ed ha aperto il passaggio, ha spalancato il varco, il Signore vivente. Il nostro autore ci parla della vita cristiana come battesimale immersione in questa onda di profumo. Questo vale per quei cristiani che sono rimproverati, capita proprio a loro di essere trascinati dalla corrente che ha la delicatezza del profumo. E’ la forza travolgente di una vita nuova che riguarda tutti gli uomini, in ogni luogo e in ogni tempo, e che riguarda tutta la creazione di Dio. E questa vita nuova è la vita di colui che è passato in modo da aprire un varco attraverso la morte.

i segni

Nei vv. 17-18 veniamo informati circa i segni che accompagneranno quelli che credono. "E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni". Nel nome di Gesù. E’ questo il nome che aveva gridato Bartimeo alla fine del cap. 10. Gesù si era fermato. Tutti quelli che volevano zittire il mendicante cieco, lo volevano tenere in disparte, vengono contestati. Sono espulsi i demoni che dal di dentro di noi stessi, vorrebbero convincerci di lasciar perdere; sono allontanati quei tentacoli che vorrebbero stringere la coscienza, chiudere il cuore, imporre la decisione di rinunciare a tutto, come se fosse l’unica soluzione cristiana, evangelica. Ebbene sul volto di un cristiano affiora questo tratto .

"Parleranno lingue nuove". E’ in questione quel dono di gioia, che appunto attraverso le lingue viene riversato all’esterno, è un dono traboccante. Questo dono di gioia instaura nuove possibilità di relazione, lingue nuove. E’ la gioia dei poveri che incanta; sono coloro che non si posseggono più ed hanno ormai rinunciato a se stessi, anche perché probabilmente non ci capiscono più quasi niente, come capita a chi arriva in fondo alla lettura del vangelo secondo Marco, o in fondo a un itinerario catechetico e avverte solo il desiderio di smetterla. Affiora questa gorgogliante e sovrabbondante ricchezza di gioia che si riversa. Parleranno lingue nuove. Qualcosa avviene dentro, il volto si è illuminato. Adesso è un volto che diventa trasparente nel rivelare quale pienezza di gioia sia sperimentata. E non è altro che gioia: non ci sono discorsi, messaggi, istruzione. Parleranno lingue nuove.

"Prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno. I cristiani nel corso del loro viaggio si trovano alle prese con tutte le situazioni negative, restando indenni. Questo modo di passare attraverso le realtà negative del mondo e della storia, questo modo di passare e di sopravvivere e di rimanere, diventa gesto di liberazione e di incoraggiamento, diventa testimonianza fedele, paziente, che interferisce con tutte le realtà inquinate di questo mondo.

"Imporranno le mani ai malati e questi guariranno". Qui non si tratta di cristiani che vengono alle prese con le realtà negative e non ne subiscono un danno, ma si tratta di cristiani i quali impongono le mani ai malati e questi guariscono. I cristiani diventano strumento di una operosità nel bene che lascia traccia, che suscita frutti. I primi ad essere sorpresi di questo sono proprio loro, i cristiani. Come è possibile far del bene a qualcun altro? Quel volto che abbiamo visto illuminarsi, farsi trasparente, di modo che la gioia affiora e trabocca; quel volto che abbiamo considerato mentre assumeva la serietà e la consapevolezza di chi scruta le realtà di questo mondo e non si spaventa; quel volto assume la fisionomia stupefatta di chi è testimone di quanti frutti buoni nella storia degli uomini vengono suscitati dal passaggio dell’evangelo.

ci attende

Il quarto quadro(16,19-20): "Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio" Il Signore Gesù adesso è chiamato per nome, è assunto in cielo nella sua gloria, è l’estrema lontananza. E’ la vittoria del sovrano, la vittoria messianica che porta in sé la pienezza dei doni, e tutto si ricapitola, nel linguaggio biblico, nel dono della pace: lo shalom. "Fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio". E’ la pace conseguita, realizzata, instaurata. Riguarda lui, ma riguarda noi. Non soltanto noi abbiamo alle spalle la novità evangelica che ci pungola, ci contesta, ci rimprovera; ma la novità evangelica sta davanti a noi, è già un appuntamento che anticipa i nostri passi e discerne per noi l’orientamento del cammino che ci riguarda, discepoli e discepolo, chiesa e popolo cristiano e tutta la storia umana: è la pace.

L’ascensione del Signore al cielo è mistero che ci rivela la maturità della nostra vita cristiana. E’ proprio l’ascensione del Signore al cielo che fa di noi dei cristiani. Strano. Ascendendo al cielo, il Signore si allontana da noi, si separa da noi, non lo vediamo più, non lo tocchiamo più. E’ invece proprio la sua ascensione che ci rende maturi nella nostra vocazione cristiana; che conferisce a quei miserabili cristiani che siamo noi la fierezza indomabile di appartenere a colui che è Signore della pace e che ha instaurato il regno a cui tutte le creature appartengono.

"Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano" (16,20). La novità di Dio è Gesù, il Signore della storia umana, colui che nella gloria del cielo, là dove è salito, dopo avere affrontato la morte, dopo avere urtato contro la durezza del cuore umano dopo avere aperto una strada nel deserto della storia umana, nella gloria è sorgente inesauribile di quella pace che irrora come pioggia redentiva l’universo intero. E’ l’energia dello Spirito Santo che verso di lui attira il mondo.


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