Incontri di discernimento e solidarietà
 
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PADRE E FIGLIO

lettura spirituale di Mc 14,26-52;15,1-20

La nostra attenzione si ferma ora sulla terza ( il Getzemani) e sulla quinta (il Pretorio) sezione. Sono le due sezioni che circoscrivono quella centrale, la quarta.

il Getzemani

Terza sezione del racconto (14,26-52). Nel primo quadro (vv. 26-31) Gesù annuncia che sarà percosso il pastore e quindi tutte le pecore saranno disperse. Nel quadro centrale della sezione (vv. 32-42) Gesù nel Getzemani è in veglia, prega. Tre discepoli sono invitati a vegliare con lui, ma si addormentano, non vegliano, né pregano. Il pastore che è stato percosso non è in fuga, come avviene alle pecore del gregge, continua a procedere nell’adempimento del compito che gli è stato affidato. Si fa avanti. Gesù sta offrendo in prima persona la sua testimonianza ai discepoli. Il quadro centrale della terza sezione ci aiuta a contemplare la realtà di questo pastore che una volta aggredito, colpito, percosso, non si disperde, non arretra, non fugge. Una pastoralità singolare quella di Gesù.

Gesù prega, sta recitando i salmi 42-43, «La mia anima è triste fino alla morte» (v. 34). I salmi 42-43 costituiscono un’unica composizione in tre sezioni, con il medesimo ritornello, sono salmi piuttosto famosi: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete, di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?» Così si apre il salmo 42. Il ritornello, che si ripete nel v. 6, nel v. 12, nel v. 5 del salmo 43, è esattamente questo: «Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio, ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio». E’ Gesù che sta pregando nella tristezza, e questa tristezza è testimonianza di una inflessibile coerenza che riguarda il personaggio di cui parlano i salmi 42-43. Il suo è un esilio tristissimo e dolente, eppure trionfale e maestoso, nell’atto di consegnarsi al "tu" come sigillo di comunione giubilante, festosa. Gesù sta pregando i salmi 42-43. E’ tutto solo nella sua tristezza, ma i salmi 42-43 ci consentono di interpretare la maestà trionfale e gioiosa di quella solitudine. Non è l’atteggiamento di chi è desolato, schiacciato, oppresso da situazioni che lo costringono a ritirarsi. Tutt’altro. Quel personaggio avanza, procede, incalza, irrompe, sta esercitando una funzione regale, pastorale.

Proprio qui, nel racconto evangelico, Gesù si rivolge ai discepoli che stanno dormendo. E’ un’altra citazione dell’AT. Nel Cantico dei cantici, a più riprese, il diletto si presenta come colui che veglia e custodisce il sonno della creatura amata. Certo, solo testi che affiorano sullo sfondo del racconto evangelico. Nel versetto 41 Gesù <<venne per la terza volta e disse loro:Dormite ormai e riposatevi! Basta è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori’>>. Il diletto veglia perché la creatura sia pronta a svegliarsi per rivolgersi al lui in una intenzione di amore. E’ tempo di sonno, è il tempo che segna il distacco tra il diletto e la sua creatura; ma colui che veglia al capezzale dell’umanità addormentata, tutto solo, è colui che sta svolgendo una funzione pastorale.

Gesù si ritira e, gettatosi a terra, prega «che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: "Abbà, Padre!"». E’ la prima volta che risuona questo vocabolo sulla bocca del Signore. «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Prega dicendo, il medesimo logos, la medesima parola: Abbà! L’identità del pastore viene definitivamente precisata: è il Figlio in dialogo con Abbà; il Tu a cui egli si rivolge è Abbà, Padre mio. E’ il perno attorno a cui ruota la terza sezione, ed è esattamente a partire da questa constatazione che siamo rinviati alla quinta sezione.

Prendiamo per qualche momento Gen 22 e fermiamo l’attenzione sulla figura di Isacco. E’ il primo personaggio che nella storia della salvezza compare determinato dalla sua condizione di Figlio. La storia della salvezza comincia con Abramo, che è figlio di suo padre, ma Abramo compare sulla scena già in età adulta. Isacco è presente nella storia della salvezza fin dall’inizio, dal suo stesso nascere, come figlio.

In Gen 22 troviamo un episodio famoso, drammatico, una delle grandi pagine dell’AT e di tutta la rivelazione biblica: il racconto del cosiddetto sacrificio di Abramo. Abramo è chiamato a offrire in sacrificio suo figlio Isacco. Nella tradizione ebraica si usa un’altra espressione: la legatura di Isacco. Stando ai dati che sono reperibili nel testo biblico, quando Isacco si prepara al sacrificio ha 37 anni, è un uomo adulto, non un bambino esposto alla iniziativa di chi ha potere su di lui, il padre Abramo che vuole sacrificarlo. Il racconto biblico ci parla di Abramo ed insieme di Isacco, e Abramo può compiere l’atto del sacrificio in quanto Isacco è in grado di offrirsi. Abramo non può procedere se non è Isacco che si consegna. Il racconto biblico ci invita a contemplare non già il gesto sconcertante e paradossale di Abramo, ma a considerare la misteriosa pienezza di un rapporto di comunione tra padre e figlio, tra Abramo ed Isacco.

Vale la pena ricordare che l’interpretazione, alla quale noi siamo solitamente abituati nella lettura di queste pagine, tende a concentrarsi sulla figura di Abramo quasi dimenticando Isacco. C’è una tendenza massimalista e una tendenza minimalista di questa lettura.

Nell’interpretazione massimalista Abramo è presentato come l’uomo della fede che è in grado di compiere, in obbedienza a Dio, un atto tragico come quello di offrire in sacrificio il proprio figlio. La fede in Dio di Abramo giunge a sorpassare tutti i limiti della moralità corrente. Non c’è impedimento che possa trattenere Abramo dal rispondere alla chiamata di Dio. La fede è disponibilità ad operare nella misura dell’assurdo.

Per l’interpretazione minimalista il racconto va invece posto nel contesto della religiosità cananea, dove il figlio primogenito deve essere offerto in sacrificio. Abramo si adegua alla devozione dominante presso la popolazione a cui egli fa riferimento: gli è nato il figlio, finalmente, dopo tanta attesa, e adesso deve offrirlo in sacrificio per dimostrare la sua sincera gratitudine a Dio. E sarà in contrasto con questa sua presunta devozione che interverrà il Signore per dirgli: Abramo, non tuo figlio, ma invece di tuo figlio un ariete. Il figlio primogenito deve essere sostituito da un animale: un ariete, un capro. Questo vale anche per Gesù nei vangeli dell’infanzia: essendo figlio primogenito, è necessario offrire un sacrificio in sostituzione, in questo caso, due colombine. La norma rimane: il figlio primogenito dev’essere riscattato, mai offerto in sacrificio; guai a chi tocca un uomo, a chi versa il sangue.

Le due interpretazioni danno risalto solo alla figura di Abramo; Isacco è come se non esistesse.

Uno sguardo al testo biblico di Gen 22: «Abramo prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Secondo una tradizione successiva, il monte Moria è quello su cui verrà edificato il tempio. Abramo non è un avventuriero della fede, non è un esaltato cantore della trascendenza da cui è possibile attendersi di tutto, compreso l’atto così contraddittorio di sacrificare il figlio. Abramo è commosso, angustiato, affronta gli eventi in modo molto discreto. Egli si rende conto - e i gesti che compie lo dimostrano- che non può nulla se il figlio non si consegna a lui. La paternità di Abramo non si afferma per il fatto che può permettersi di fare quello che vuole del figlio; la paternità di Abramo si afferma nel momento in cui Abramo è in attesa di ricevere una risposta. Solo quando il figlio gli darà una risposta, nella libertà e nella gratuità del rapporto, solo allora Abramo sarà padre in misura compiuta e definitiva.

«Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi». Ci vogliono tre giorni e tre notti di viaggio nel corso dei quali Abramo tiene il capo abbassato. Cammina a testa bassa. Il terzo giorno alza gli occhi e da lontano vede la montagna. Il salmo 121 dice: «Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?». Nel Vangelo più volte si usa questa espressione a riguardo di Gesù: alzò la testa, alzò lo sguardo, alzò gli occhi. Abramo alza gli occhi, vede il luogo. «Allora Abramo disse ai servi: "Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi"». «Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco». Il figlio Isacco è un uomo valido, robusto; tutta la legna è caricata su di lui. «Abramo prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme». Proseguirono tutti e due insieme. La salita sulla montagna avviene man mano che il passo dei due personaggi assume la stessa andatura, lo stesso ritmo, la stessa scansione dei gesti, la stessa intenzione che viene man mano determinandosi nell’intimo dei cuori. Il dialogo tra loro è sintetizzato nei vv. 7-8: «Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: "Padre mio!"». Rispose: "Eccomi, figlio mio"». Il dialogo è ridotto all’essenziale. Tutta la catechesi evangelica si può ricapitolare in questo dialogo: Tu sei il Figlio di cui io mi compiaccio; e adesso, nella notte della veglia e dell’arresto, Padre mio. Dal giorno del battesimo di Gesù alla notte del Getzemani: Padre mio, Figlio mio! Figlio mio, Padre mio!.

Ci stiamo affacciando su questo orizzonte misterioso che ci propone la realtà di un dialogo di amore, di una intimità condivisa, di una comunione nella medesima intenzione, il Padre ed il Figlio. Una comunione di amore! Il Padre non può nulla se non è il Figlio che si offre, e il Figlio non vuole nulla di suo se non è il Padre che glielo chiede. Ed è proprio questa comunione di amore tra Padre e Figlio che realizza nella storia degli uomini la novità per eccellenza, quella novità che contiene tutto della storia umana, stringe tutto e passa attraverso tutto quel che la storia degli uomini ha accumulato nel suo percorso.

E’ la comunione tra Padre e Figlio che vince la morte.

«"Il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?" Abramo rispose: "Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!" Proseguirono tutt’e due insieme». (v.8) Ritorna quell’espressione che abbiamo incontrato nel v. 6. Il percorso compiuto da Abramo e da Isacco fino a che raggiungono la vetta della montagna è contenuto all’interno di questi due richiami alla comunione dei viandanti: proseguirono tutti e due insieme. Sono insieme, il padre ed il figlio. Il Padre che si compiace del Figlio, il Figlio che si offre al Padre. La paternità è rivelata là dove il figlio si consegna. E’ la comunione nell’unico amore tra Padre e Figlio che costituisce nella storia degli uomini l’attuazione di quell’evento che instaura la novità qui appena preannunciata, ed è già la novità definitiva. E’ così che Dio si è rivelato: siamo appena all’inizio ed è già uno sguardo che si proietta verso l’evento definitivo. Anche la morte cede dinanzi alla attuazione di un evento come questo. E’ l’amore tra Padre e Figlio che vince la morte e che impedisce alla morte di ergersi come barriera. La morte non è più un impedimento alla comunione proprio perché è comunione di amore, è il rivelarsi di questo indissolubile vincolo di amore nell’intimità del mistero divino: il Padre chiama il Figlio e si compiace di lui; il Figlio si offre e procede fino ad affrontare la morte. E’ proprio in questo modo che la morte è sbaragliata, non è più un impedimento, è divenuta anch’essa una creatura docile, addomesticata.

Così interpreta la tradizione ebraica da epoca molto antica: Abramo lega il figlio, ma è il figlio che si fa legare. Come potrebbe Abramo legare suo figlio se non è Isacco che si offre a questo scopo? «Legò il figlio Isacco». Isacco incoraggia Abramo, e Abramo piange, Isacco piange; questa comunione di lacrime tra padre e figlio diventa una alluvione di lacrime che scivola sulla legna preparata per ardere, perché il sacrificio, dopo essere immolato, deve essere bruciato. Questo già prelude all’impossibilità di celebrare quel sacrificio: tutta la legna è inzuppata di lacrime.

Interviene l’angelo inviato appositamente per chiamare Abramo: «Non mi hai rifiutato il figlio, il tuo unico figlio». Abramo alza gli occhi, guarda : ecco un ariete. Il Signore provvede. Questo è il nome di quel luogo: il Signore provvede.

Nel v. 5 Abramo aveva detto ai servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo usa il plurale. L’uso di questo plurale non passa inosservato agli antichi commentatori, sia della tradizione ebraica, sia della tradizione cristiana. In una sua omelia Origene afferma: "come mai Abramo dice ai servi noi ritorneremo da voi? Come mai dice ritorneremo ? Non è possibile che Abramo volesse imbrogliare i servi, perché sarebbe disdicevole per il grande patriarca mentire. E’ evidente che Abramo già credeva nella resurrezione. Ritorneremo."

L’evento che si compie sulla montagna è la rivelazione di una comunione d’amore che vince la morte, che sfonda la barriera della morte: Dio provvede. Ecco come Dio ha introdotto nella storia umana una novità a sua misura, una novità che è corrispondente alla pienezza dell’amore.

Gesù dice: Abbà. Il Figlio si offre al Padre, risponde alla chiamata; la libertà del Figlio rivela la paternità del Tu con il quale egli è in dialogo fin dall’inizio. Questa condivisione di un’unica intenzione di amore introduce nella storia degli uomini la pregnanza di un dono di vita che esercita per se stesso una funzione pastorale. Nell’antico racconto compare un ariete, un capro. Gesù è pastore ed è capro, è pastore ed è agnello. Su questo l’evangelista Marco ritornerà più avanti. Avviene che proprio quando il gregge è disperso, perché il pastore è stato colpito, compare un agnello che svolge il ruolo del pastore. Il Figlio affronta la morte in obbedienza alla voce che l’ha chiamato. Il pastore percosso è un agnello. Il gregge disperso si ricompone in rapporto a un agnello che, mentre affronta la morte, rivela la paternità di Dio e attira a sé le pecore disperse.

il pretorio

Nella quinta sezione al centro di tutto è la figura di Gesù in silenzio, agnello che tace. Accanto a lui la figura del bar-Abbà, Barabba, una pecora dispersa, rappresentativa di tutte le pecore disperse: E’ un omicida, come Caino, in fuga dall’inizio (Gen 4): Caino randagio, Caino inquieto, Caino turbato, Caino fuggiasco, ramingo. Tra gli omicidi, nella lunga sequenza delle generazioni, da Caino fino a noi, compare anche Mosè, anche Mosè è un omicida. In Barabba c’è tutta la discendenza umana che porta in sé una eredità immonda, il sangue versato, fino a Mosè. Oltre Mosè, certo, ma Mosè è personaggio più che mai emblematico. Mosè nel deserto di Madian, Mosè che sta considerando la sua realtà di pecora dispersa, troverà un pastore che si prende cura di lui, un agnello divenuto pastore in grado di recuperare le pecore disperse e attirarle a sé, là dove il Figlio che affronta la morte introduce nella storia umana la novità di un amore fecondo al punto da trasformare la stessa morte in sigillo di comunione, da trasformare un omicida da pecora dispersa in pecora riconciliata del gregge.

Là dove Gesù invoca, Abbà, un omicida scopre che gli è attribuito il titolo di figlio amato da Dio.


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