lettura spirituale di Mc 14,17-21;15,25-37
L’evangelista Marco costruisce il suo racconto utilizzando costanti riferimenti all’AT; più ce ne renderemo conto e più riusciremo a rintracciare il contenuto specifico del racconto di Marco. Gesù prega con i Salmi: salmo 41, salmo 22.
beato l’uomo che...
Nel Cenacolo Gesù ha annunciato ai discepoli che uno di loro lo tradirà. Sta citando il Sal 41: «Uno di voi mi tradirà, colui che mangia con me». I discepoli si rivolgono a lui, uno dopo l’altro, chiedendo: « sono forse io?» Gesù insiste: «uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto».
Il Sal 41 si trova in una posizione strategica: chiude il primo libretto del Salterio, che si compone di cinque libretti. Il primo libretto va dal Sal 1 al Sal 41. Il salmo 1 inizia con "Beato l’uomo che", il salmo 41 anche: "beato l’uomo che". Tutto il primo libretto si inscrive così all’interno di un’unica grande beatitudine: beato l’uomo che. Dal Sal 1 al Sal 41: quaranta salmi, è una cifra espressiva, è davvero la vita di un uomo, è il tempo che si viene man mano sviluppando in rapporto all’ascolto della Parola.
In contrapposizione al personaggio anonimo dell’inizio c’è una moltitudine di empi che vengono meno. Rimane un’assemblea di giusti, una comunità di ascoltatori della Parola. E’ l’ascolto della Parola che dà fondamento alla comunità dei giusti. E’ una strada che dev’essere percorsa in tutto il suo svolgimento; è la fatica del viandante che attraverso l’ascolto della Parola imparerà a vivere e scoprirà di essere in un rapporto di comunione con una moltitudine di altri viandanti. Ecco, una assemblea di giusti: "beato l’uomo che". Tre strofe nel Sal 41: Prima strofa (vv. 2-4), seconda strofa (vv. 5-10), terza strofa (vv. 11-13). Il v. 14 costituisce la clausola dossologica che chiude il primo libretto del Salterio: «Sia benedetto il Dio d’Israele, da sempre e per sempre. Amen, Amen».
La prima strofa si apre con la beatitudine che già conosciamo; la seconda strofa si apre con il pronome di prima persona singolare: Io; la terza strofa si apre con il pronome personale Tu. Io - Tu: Gesù prega con il Sal 41 durante l’ultima cena, io, tu. Nel momento in cui Gesù sta dicendo: Io, sta individuando il Tu di Dio; nel dialogo con il Tu, Gesù dice: Io. In quello stesso contesto, i discepoli si stanno interrogando: chi sono io? Perché sono nato? Gesù dice: "io" nel dialogo con il "tu" di Dio. Sal 41.
Prima strofa: «Beato l’uomo che ha cura del debole». Chi sta pronunciando questa beatitudine è il debole. C’è un uomo in difficoltà che sta chiedendo aiuto: il debole. Debole qui in ebraico è dal, una sola sillaba per indicare la situazione in cui si trova un pover’uomo schiacciato dalla vita. Dal vuol dire sottile, sottile come un manifesto appiccicato al muro, così inconsistente da non ottenere più alcun riconoscimento. «Beato l’uomo che ha cura del debole». Questo debole chiede aiuto e aspetta, desidera, implora l’intervento di qualcuno che si avvicini a lui. E’ un mendicante, niente di più che un mendicante. E si comporta come bisognoso di tutto: ci sarà mai qualcuno che si accorge di me, che si rende conto di quanto io nella mia debolezza sia bisognoso di soccorso? C’è qualcuno che mi vede, che ha il coraggio di venirmi vicino? C’è qualcuno che mi comprende. Questo prendersi cura è un comprendere dall’interno una situazione compromessa: c’è qualcuno che dunque potrà volgersi a me ed essermi di aiuto nella situazione di debolezza dalla quale sono schiacciato e dalla quale sono travolto?
Questo mendicante continua a chiedere aiuto a dei passanri con una serie di benedizioni, pronunciando per tre volte di seguito il nome del Signore, come un crescendo: «Nel giorno della sventura il Signore lo libera». E’ la prima benedizione. Seconda. «Veglierà su di lui il Signore, lo farà vivere beato sulla terra, non lo abbandonerà alle brame dei nemici». La situazione si è fatta più problematica; qui non è soltanto in questione l’intervento liberatorio del Signore in un momento difficile, è in questione una presenza costante e fedele del Signore, che veglierà su di lui sempre e dappertutto. Questo mendicante rincara la dose; evidentemente, malgrado si dia da fare per ottenere soccorso, per attirare l’attenzione, non ha successo. La cosa comincia un poco a preoccuparci. Quaranta salmi dopo il salmo 1 (Beato l’uomo..) ci aspetteremmo che ci sia qualcuno a rispondere e invece cominciamo a renderci conto che quest’uomo beato non appare all’orizzonte. La scena è occupata per intero da un poveraccio debole e bisognoso di tutto. Dove è andato a finire l’uomo beato?
«Il Signore lo sosterrà nel letto del dolore: gli darai sollievo nella sua malattia», la terza benedizione. E’ interessante un particolare: il passaggio dalla terza alla seconda persona grammaticale: lo sosterrà sul letto del dolore, gli darai. Tu. Oramai chi si esprime in questo modo è come se avesse rinunciato ad ottenere qualche riscontro; quell’uomo beato di cui lui ha bisogno perché si prenda cura di lui non c’è. Gli resta solo il Signore: il Signore lo sosterrà sul letto del dolore, gli darai sollievo. Il suo interlocutore è il Signore e solo il Signore. Tu gli darai, Tu. «Gli darai sollievo nella sua malattia». Tre benedizioni: un caso difficile e il Signore lo libererà; per tutta la vita il Signore veglierà su di lui; nel momento dell’agonia, il Signore gli rincalzerà il guanciale. E’ il massimo della benedizione, ma non c’è l’interlocutore. L’unico interlocutore è il Signore a cui il nostro uomo, debole e disgraziato com’è, si rivolge dandogli la seconda persona: tu.
Nella seconda strofa questo pover’uomo si presenta; sta parlando con il Signore. E’ il "tu" della sua situazione, è il "tu" della sua vita, è il "tu" della sua debolezza. «Pietà di me Signore, risanami, contro di te ho peccato». Ricostruisce globalmente il cammino della sua vita ed è un cammino segnato - come negarlo ? - da momenti di contraddizione, di caduta: pietà di me, Signore! C’è qualcuno che si piega su di me, che mi raggiunge, che si avvicina a me nel mio stato di prostrazione e potrà sollevarmi? Pietà di me, Signore. Non ha senso per lui rivolgersi ad altri: Signore, pietà di me, risanami, contro di te ho peccato.
Descrive, infine, quello che succede intorno a lui per fasce di personaggi.
«I nemici mi augurano il male: "Quando morirà e perirà il suo nome?"». Sono i nemici dichiarati, pubblici; aspettano soltanto che muoia e ne parlano; si stanno preparando ad applaudire per l’evento da loro auspicato.
«Chi viene a visitarmi dice il falso, il suo cuore accumula malizie e uscito fuori sparla». Sono i nemici che mantengono una posizione di riservatezza, sono peggiori dei precedenti, perché accumulano malizia nel cuore e fuori, dopo aver visitato per convenienza, sparlano.
«Contro di me sussurrano insieme i miei nemici, contro di me pensano il male: "Un morbo maligno su di lui si è abbattuto, da dove si è steso non potrà rialzarsi"». Attorno al pover’uomo dilaga una voce che diventa opinione pubblica; non qualcuno, ma un sentimento che coinvolge tutti nel ritenere che la disgrazia di quel pover’uomo sia inguaribile.
«Anche l’amico in cui confidavo»: è il versetto citato da Marco, mentre racconta di Gesù durante l’ultima cena. «Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno». Isc scelomi (in ebraico: l’uomo della mia pace).
Terza ed ultima strofa: «Ma tu, Signore, abbi pietà e sollevami». "Tu" Signore abbi pietà e sollevami. Questa invocazione era presente nel v. 5, ora non è più soltanto una invocazione, è una affermazione e una testimonianza: tu Signore hai pietà e mi sollevi. C’è qualcuno che si avvicina a me, che si piega su di me, che mi prende dal basso, che mi solleva, dopo essersi caricato del mio peso, e mi sostiene dal di sotto. «Abbi pietà e sollevami. Che io lo possa ripagare». Con una diversa interpretazione del testo, si può tradurre: che io restituisca loro la pace. Sta succedendo che l’esperienza dell’incontro con la pietà di Dio, che si piega e solleva, conferisce innocenza e il nostro pover’uomo scopre che l’unico in grado di comprenderlo, di aver pietà di lui e sollevarlo è il Signore che si è piegato. L’unico in grado di prendersi cura del debole è un altro debole.
«Beato l’uomo che ha cura del debole», ma chi avrà mai cura del debole? Nel momento stesso in cui il nostro personaggio continua a dichiarare la sua situazione di bisogno, scopre che proprio lui, nella sua debolezza, porta in sé il sacramento di un gesto, una potenza di una compassione, di una pietà che sono quanto egli stesso ha ricevuto da parte di Dio.
«Da questo saprò che tu mi ami, se non trionfa su di me il mio nemico; per la mia integrità tu mi sostieni». Qui di nuovo il pronome di prima persona, "io" . «Mi fai stare alla tua presenza per sempre»: sei tu che ti pieghi su di me, che mi metti nella condizione di non nuocere, di non fare più il male; sei tu che instauri la forza della tua compassione, che trasmetti a me il gesto della pietà, che fai di me, nella mia debolezza, colui che può comprendere il debole e prendersi cura di lui. Beato l’uomo che...
eloì , eloì, lemà sabactani...
Ritorniamo al racconto della passione.
Nella sesta sezione Gesù è condotto al Calvario, viene crocifisso. Nel racconto evangelico della passione il Sal 22, citato più volte, costituisce uno dei testi dell’AT a cui più intensamente hanno fatto riferimento i discepoli del Signore per esprimere l’esperienza nella quale sono stati coinvolti, la passione e morte e risurrezione del maestro. Gesù sulla croce recita il Sal 22, lo recita per intero; viene citato il primo versetto del salmo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», poi grida ad alta voce e muore.
Siamo condotti dalla seconda sezione del racconto alla sesta, dal Sal 41 al Sal 22: da quel dire "io di Gesù in rapporto al tu di Dio; dal dialogo del debole che si prende cura dei deboli, a quel dire tu del 41. E’ il momento finale di tutto un percorso: a quale tu Gesù si rivolge? Con quale "tu" è in dialogo? In rapporto a chi dice io? I discepoli continuano a interrogarsi: ma io chi sono? e io perché sono nato? E tutti i tentativi di dire in qualche modo io si sono già dimostrati clamorosamente fallimentari.
Il Sal 22 è piuttosto ampio, è un grande lamento: è un lungo percorso attraverso il dolore e attraverso l’intensità dell’amore che trasuda là dove il dolore ha raggiunto il suo momento di massima esasperazione. Dolore e amore.
Prima sezione del salmo (vv. 2-11): il lamento. Seconda sezione del salmo(vv. 12-22): la supplica. Terza sezione del salmo (vv. 23-32) canto di vittoria.
E’ necessario leggere per esteso il salmo, perché Gesù prega con tutto il Sal 22. C’è tutta una letteratura che tende a mitizzare quell’invocazione di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», come se fosse dichiarazione di un uomo disperato, perduto.
Lamento (vv. 2-11): due strofe ( prima strofa fino al v. 6: una situazione di lontananza), seconda strofa vv. 7-11 (viene esplicitato il dramma di quella lontananza.
«"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza": sono le parole del mio lamento». E’ un uomo che si lamenta e sa di lamentarsi; questo lamento è ancora il suo estremo segno di vita. Non c’è bisogno di arrivare all’ultimo versetto del salmo per rendersi conto che quest’uomo non sta scivolando nella disperazione, anche se la situazione è sconvolgente, drammatica, insopportabile. Quest’uomo si immerge nel lamento perché è l’unico modo che ancora gli rimane, per ascoltare la sua voce, per sentirsi vivo, per dire: io. Io sono un lamento, sono le parole del mio lamento. «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo...>> Il lamento è continuo, incessante, martellante, «eppure tu».. E’ fortemente rimarcato il pronome di seconda persona: tu. «Tu abiti la santa dimora, Tu lode di Israele. In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e Tu li hai liberati; a Te gridarono e furono salvati, sperando in Te non rimasero delusi». Tu, il lontano, eppure, non è uno sconosciuto, c’è tutta la storia di un popolo, c’è il tempio, ci sono tutti quelli che hanno dato testimonianza a suo riguardo, hanno gridato, hanno sperato, non sono stati delusi, ecc. Eppure tutti i segni di comunione sono cancellati; per chi prega così rimane solo l’esperienza dell’abbandono.
«Ma io sono verme, non uomo». Viene esplicitato in modo estremamente chiaro il motivo di quella lontananza: io sono un rifiuto, «infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo». «Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo (questo versetto è citato nel racconto della passione): "Si è affidato al Signore, lui lo scampi, lo liberi, se è suo amico"». Questo sono io. Il pronome personale di prima persona singolare risalta in ebraico: io sono un rifiuto, nessuno più mi riconosce, mi accetta, mi considera.
«Sei tu (di nuovo pronome di seconda persona) che mi hai tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio». Rifiutato da tutti, sei ancora tu che mi riconosci, mi riconosci come un figlio: mi hai tratto dal grembo di mia madre, mi hai fatto riposare sul suo seno, tu mi hai raccolto, tu il mio Dio, tu. C’è una forza straordinaria in questa ultima battuta che conclude la prima sezione del salmo di lamento: questo tu , un tu assoluto, un tu che riguarda quel verme che sono io; un tu che non si identifica né con quelli del mio popolo, né con quelli della mia generazione, né con quelli della mia carne e del mio sangue, con i quali io pure sono intimamente legato, ma da cui sono rifiutato. Se nella storia degli uomini tutto è venuto meno, tu sei l’interlocutore per me. Rimane il tu. Qui è la forza straordinaria di questo lamento, il lamento di chi non ha altro io che questo ammasso di putredine: tu mi guardi, mi prendi in mano, mi riconosci.
Il dramma della passione nella interpretazione teologica del nostro evangelista Marco sta tutto qua. Gesù ha detto: tu. Lo ha detto come poteva dirlo un uomo rantolante, lamentandosi; lo ha detto, oltretutto, facendosi fraintendere da coloro che dicono: Mah, cerca Elia; nel suo venir meno di uomo rifiutato, ha detto tu.
La seconda sezione del salmo è la supplica: «Da me non stare lontano, poiché l’angoscia è vicina e nessuno mi aiuta. Mi circondano tori numerosi, mi assediano tori di Basan. Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce» C’è un malessere mortale, tutto si fa urgente, lo strazio si intensifica fino al delirio, un’esistenza che si sta consumando in modo irreparabile, «Da me non stare lontano». «Come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa». Sono dei momenti di lucidità nel delirio, è un’esistenza liquefatta ormai. «Il mio cuore è come cera; si fonde in mezzo alle mie viscere. E’ arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola, su polvere di morte mi hai deposto».
«Un branco di cani mi circonda (ritornano i mostri) mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte». Anche questo versetto è citato nel racconto della passione. Nel corso del salmo chi prega non chiede mai la condanna degli aggressori e non si dichiara mai peccatore. Di solito nei salmi di lamento e di supplica chi prega riconosce i propri peccati; nel Sal 22 questo non avviene, è implicita una testimonianza d’innocenza. E’ un’innocenza che non impedisce il tormento e non rivendica la condanna degli aggressori.
«Ma tu, Signore, non stare lontano». Ritorna il tu che avevamo incontrato nella prima sezione: tu non stare lontano. E’ la passione di Gesù che muore, tu. «Tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto. Scampami dalla spada, dalle unghie del cane la mia vita. Salvami dalla bocca del leone e dalle corna dei bufali».
Terza e ultima sezione. Qui c’è una parola che la nostra Bibbia non traduce: anitani, "tu mi hai risposto". Il testo del Sal 22 è un po’ compromesso, e la lettura e l’interpretazione non sono agevoli. La parola anitani è stata trascurata e abusivamente inserita; forse si potrebbe leggere diversamente: «ma tu hai risposto», possiamo provare ad aggiungere.
«Annunzierò il mio nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea». Assemblea qui è qahal, in greco diventerà: ecclesia, una assemblea di fratelli. Tu hai risposto. Il fratello trascina dietro di sé la lode di una moltitudine di fratelli raccolti in assemblea. «Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea». Il Sal 22 è il salmo con cui prega Gesù giunto alla soglia della morte, giunto in fondo all’abisso. In forza di quel rapporto misterioso e insondabile che lo lega al tu di Dio, è in grado di riconoscere una moltitudine di fratelli; già sta convocando per partecipare ad un unico canto di lode nel nome... del Padre. C’è la descrizione di questa unica, immensa assemblea convocata da Gesù attorno a lui nella fraternità: partecipano i vicini e i lontani, quelli di ieri e quelli di domani; tutte le dimensioni dell’umanità sono considerate nello spazio e nel tempo, il popolo d’Israele e gli altri popoli, tutti i pagani e le nazioni della terra, i morti del passato e le generazioni dell’avvenire. E’ una immensa famiglia di fratelli che viene fondata: ieri, oggi e domani, quale che sia la loro appartenenza sociale, la loro identità personale, la loro funzione pubblica, quale che sia lo stato di miseria in cui versa fino alla malattia, all’agonia e alla morte. Un’assemblea di fratelli.
«Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe, lo tema tutta la stirpe di Israele; perché egli non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma al suo grido d’aiuto lo ha esaudito. Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: "Viva il loro cuore per sempre"». Israele tende ad assumere, in modo sempre più esplicito, la fisionomia di un popolo di poveri, un popolo di anawim.
E adesso, vv. 28-29, le nazioni dei pagani: «Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli. Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni». Gesù è morente, agonizza, ma il regno è del Signore, che domina su tutte le nazioni.
«A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere». Anche i morti fanno parte dell’assemblea convocata per lodare il nome di Dio, il nome del tu, di Gesù.
«Ma io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza (qui comunque lo sguardo è rivolto all’avvenire) Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: "Ecco l’opera del Signore"».
Gridando ad alta voce Gesù spirò, Sal 22,32, ecco l’opera del Signore: il grido di Gesù. Il riconoscimento del verme come un figlio, ecco l’opera del Signore: ha riconosciuto un verme come suo figlio. La lode del figlio attrae a sé una moltitudine di fratelli, li riconosce, ed è l’umanità intera vicina e lontana, del passato e dell’avvenire, che viene generata attraverso la novità di questo travaglio, per essere famiglia di fratelli, là dove la paternità di Dio è stata ridata al mondo da un verme crocifisso.