Incontri di discernimento e solidarietà
 
  • Download

  • Puoi scaricare l'intero file nei seguenti formati:
  • Microsoft Word - Scarica in formato Microsoft Word (49 KB)
  • Adobe Acrobat PDF - Scarica in formato Adobe Acrobat PDF (369 KB)
 

«IO SONO»

lettura spirituale di Mc 14,12-15,39

l’agnello

Siamo nel Cenacolo. Tre quadri: il primo quadro (14,12-16); il quadro centrale (14,17-21); il terzo quadro, quello che chiude la sezione (14,22-25).

Nel primo quadro ci sono i preparativi in vista del banchetto della Pasqua (o il banchetto del Pasqua, come bisognerebbe dire, perché il Pasqua è l'agnello pasquale); i discepoli si danno da fare, seguendo le istruzioni del maestro. Tutto va esattamente come Gesù ha preannunciato: entrano in città, trovano la persona ed il luogo di cui Gesù aveva loro parlato, preparano per il banchetto dell'agnello pasquale. Nel corso del banchetto Gesù prende il pane e dice: "Questo è il mio corpo"; prende poi il calice del vino e dice: "Questo è il mio sangue". Il banchetto pasquale diviene l'occasione nella quale Gesù istituisce il banchetto eucaristico. All'agnello pasquale si sostituisce il nuovo agnello: il corpo e il sangue di Gesù. L'agnello pasquale è immolato di anno in anno per ricordare quello che avvenne al tempo della schiavitù in Egitto, quando con il sangue dell'agnello furono identificate le case abitate dai figli di Israele; adesso c’è un nuovo agnello e altro sangue è versato; da un altro sangue sono segnati coloro che partecipano a questo banchetto.

Nel centro della sezione (vv. 17-21), Gesù è a tavola con i dodici. «Mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù disse: "In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà"». Incominciano uno dopo l'altro a interrogarlo: "Sono forse io?". L'accento è posto proprio su questo interrogativo drammatico, sconvolgente. "Sono forse io che partecipo a questo banchetto in qualità di traditore?" Ciascuno dei dodici si considera interpellato in prima persona: sono io?

Gesù precisa: "Uno dei dodici, uno che intinge con me nel piatto. Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il figlio dell'uomo è tradito! Bene per quell'uomo se non fosse mai nato". Perché io sono nato? E possibile che io sia nato per tradire? Il tradimento dell'agnello mi riguarda? Il sangue versato dell'agnello da cui prendo vita è zampillato a causa del mio tradimento? Sullo sfondo di questa pagina evangelica c’è una pagina dell'Antico Testamento, il Sal 41: "Beato l’uomo che si prende cura del debole". Nel Sal 41 compare una precisa allusione a colui che mangia nello stesso piatto e che tradisce. " Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno" (41,10) E’ Gesù stesso che si presenta ai discepoli assumendo in pieno la condizione del debole, dell’indifeso, del consegnato. L'agnello è proprio lui. Gesù si presenta nella condizione dell'agnello. E chi si prende cura del debole? Il Sal 41 spiega che solo il debole si prende cura del debole.

Abbà

Terza sezione (14,26-52): Getzemani. Anche qui tre quadri. Il primo quadro(14,26-31), il racconto del trasferimento dal Cenacolo fino al Getzemani; il secondo quadro, quello centrale (14,32-42); il terzo quadro, conclusivo (14,43-52).

Primo quadro. Dopo aver cantato l'inno con cui si conclude il banchetto pasquale (il Sal 136), uscirono per recarsi sul monte degli Ulivi, e nel corso del cammino, Gesù, citando il profeta Zaccaria, preannuncia lo scandalo dei discepoli: «sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse». Se nella sezione precedente dominante era la figura dell'agnello, in questa sezione dominante è quella del pastore: Gesù, il pastore, sarà colpito, sarà percosso, sarà abbattuto; le pecore saranno disperse. Altri testi anticotestamentari sono qui implicitamente citati. Rispondendo a questo annuncio, Pietro ci tiene a precisare che in nessun modo lui cederà allo scandalo: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò». Pietro sta ancora riecheggiando l'interrogativo che i dodici avevano preso in considerazione l'uno dopo l'altro, nel Cenacolo: "sono forse io?" Pietro dice che non sarà certamente lui la pecora che si disperde e dimostra così la sua estraneità ai fatti che si stanno compiendo. Lui e gli altri che, a loro volta, condividono la sua stessa presa di posizione. Sono veramente degli estranei. Pretendono di attribuire a se stessi un ruolo che contraddice esplicitamente quello del traditore, e dimostrano così che non hanno compreso quel che significa per quell'agnello essere immolato, versare il sangue, essere il pastore delle sue pecore. Che significa per l'agnello essere pastore? Proprio qui Gesù preannuncia a Pietro il tradimento: "Mi rinnegherai tre volte prima che il gallo canti due volte." Questo è il primo quadro della terza sezione.

Il terzo quadro (vv. 43-52) descrive quello che avviene, quando Giuda, uno dei dodici, si avvicina con gente armata per arrestare Gesù. Giuda bacia Gesù, lo chiama Rabbì. C'è il tentativo di resistere compiuto da qualcuno che estrae la spada. Resta anonimo questo aspirante difensore, che in realtà non dà alcun seguito al suo gesto sconsiderato. " E tutti abbandonandolo, fuggirono." Tutti, non è soltanto Giuda. Pietro diceva di non essere lui, e così pure gli altri, e adesso, invece, tutte le pecore fuggono. Le pecore non hanno riconosciuto il pastore, e quando il pastore è colpito, le pecore sono disperse. Le pecore non hanno compreso che proprio attraverso l'immolazione, fino al versamento del sangue che subisce l'agnello, proprio in questo modo egli esercita la sua funzione pastorale. Non a causa dell'aggressione che subisce, il gregge perde il pastore, ma proprio per come l'agnello è immolato, il gregge trova il pastore. Tutti fuggono.

Il quadro centrale (vv. 32-42). Nel contesto di questa fuga generale di tutte le pecore, Gesù avanza. Il quadro centrale ci riferisce della preghiera di Gesù. Gesù prende con sé tre discepoli, li invita a vegliare, poi si getta a terra e prega. E diceva «Abbà, Padre!». Una volta, due volte, tre volte, insistentemente ripeteva "quella medesima parola", dice il testo greco al singolare. Quella medesima parola è: Abbà. E’ la preghiera di Gesù nel Getzemani: una invocazione incessante, martellante, appassionata del Padre che finalmente il Figlio interpella in modo scoperto e diretto.

Fino a questo momento, nel Vangelo secondo Marco, non abbiamo mai udito Gesù pronunciare questo nome. Nel cuore della terza sezione del racconto della passione c’è Abbà. E’ Gesù che avanza, mentre tutti fuggono. Coloro che pretendevano di dire "io" sono spariti. Gesù sta occupando la scena assumendo in pienezza la sua identità. E’ il Figlio che invoca: Abbà. Gesù si presenta, si dichiara, si scopre. Fin dall'inizio della catechesi evangelica ci siamo abituati a denominarlo in questo modo: il Figlio. La voce ha dichiarato così: è il Figlio di cui mi compiaccio, è il Figlio che ritorna a casa, che avanza, che attraversa il deserto, il mare, che vuole entrare nel cuore umano e aprire strade di riconciliazione, di conversione. Adesso è lui stesso che assume in modo esplicito la sua identità filiale, è lui stesso che prega invocando, nel corso di tutta quella notte, la paternità di Dio: Abbà. Gesù veglia, mentre i discepoli dormono. E lui che ha il coraggio di attraversare quel territorio notturno, amaro, squallido che è stato abbandonato dagli uomini che hanno la pretesa di dire: "Io". Adesso è Gesù che dice: Io; e dice "Io" nel suo dialogo con il Padre, nel suo rispondere, nel suo appellarsi, nel suo consegnarsi al Padre. "Abbà, non la mia volontà, ma la tua..."

Una pagina dell'Antico testamento sta sullo sfondo del testo evangelico che stiamo leggendo. Nel Cantico dei Cantici, in diversi momenti, compare il diletto in veglia al capezzale della creatura amata dormiente. L'evangelista Marco ci consente di ritornare al Cantico dei Cantici, là dove la creatura umana si addormenta, non regge, viene meno, sviene. Al capezzale di quella creatura dormiente veglia il diletto.

io sono

Quarta sezione: 14,43-72. La quarta sezione è quella del processo davanti al Sinedrio. Pietro, interrogato ed espressamente sollecitato a prendere posizione, rinnega Gesù tre volte, come già Gesù aveva preannunciato.

Primo quadro, v. 54. Pietro ha seguito da lontano Gesù, si trova dentro il cortile del sommo sacerdote e se ne sta seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. Qui in greco si trova: pros to fos. Fos è la luce, è la vampa del fuoco. Sta seduto al fuoco per scaldarsi perché è notte e fa freddo; ma è vero che la vampa del fuoco irradia luce ed è proprio alla luce di quella vampa che Pietro viene osservato. Una serva del sommo sacerdote vede Pietro che sta a scaldarsi, lo fissa. Il volto di Pietro è illuminato dalla vampa luminosa di quel fuoco acceso nel cortile sotto lo sguardo curioso e insinuante di quella serva:

"Tu eri con Gesù di Nazaret". Negò!

"Costui è di quelli". Negò!

"E un Galileo". Pietro è un galileo non soltanto per la sua fisionomia, ma per come muove la bocca, per come atteggia il suo comportamento, per come si mostra: è un Galileo, parla al modo dei Galilei. "Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: "Non conosco quell'uomo che voi dite". Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: "Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte. E scoppiò in pianto". Il greco dice: kai epibalon eklaiev, e epibalon, indica il gesto di chi si tira addosso il mantello e si copre il volto. Kai epibalon eklaiev, e copertosi il volto, piangeva. Pietro si nasconde sotto il mantello, si rintana nel suo mantello, per cancellare il volto che ha perso fisionomia, identità, dignità, luminosità. E’ il volto del discepolo che ha rinnegato il maestro, è il volto dell'uomo che ha tradito l'amore. E’ inzuppato di lacrime il mantello di Pietro, immerso nelle lacrime. Pietro ha perso la faccia, non ha più un volto; dopo avere parlato in prima persona con tanta sicurezza e con tanta presunzione, adesso non sa più chi è.

Nel quadro centrale (vv. 55-65) Gesù è interrogato dai sommi sacerdoti, alla presenza del Sinedrio. Ci sono i falsi testimoni: chi dice una cosa, chi un’altra. Gesù non risponde nulla: "Gesù taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Esattamente così si apriva la catechesi evangelica, v. 1,1: "Inizio dell’Evangelo di Gesù, Figlio di Dio"". Siamo nel quadro centrale della quarta sezione, il centro del centro del racconto della passione; e nel centro del centro l'evangelista Marco ci sta proponendo in modo sobrio ed essenziale, ma con una forza davvero straordinaria il contenuto decisivo dell'evangelo: Gesù che è il Cristo, il Figlio di Dio. Gesù rispose «Io sono!». Ego eimi. Questo è il nome santo di Dio: Io sono. E’ così che Dio si è rivelato a Mosè, quando il roveto ardeva senza consumarsi (Es 3,1-6). Sullo sfondo della pagina evangelica c'è proprio il racconto del roveto che brucia e non si consuma. Dinanzi alla vampa, illuminato dalla luce che quel fuoco proietta attorno a sé, Pietro è venuto meno, ha perso il volto; Gesù risponde: Io sono.

Qui si che conviene inserire un pronome personale con una doppia citazione, il Sal 110 e Dn 7: Il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo. E un commento a quello che Gesù ha affermato: il centro del centro del centro è : Io sono. Tutta la catechesi evangelica ruota attorno a questa rivelazione della santità di Dio: il Dio vivente arde come fuoco, brilla come luce, è presenza che ci attrae, che ci assorbe in sé, che ci brucia e ci illumina, è sorgente inesauribile di una vita nuova, a cui noi ci accostiamo, incerti, titubanti, a cui noi ancora non riusciamo a dare credito, perché siamo in fuga, come le pecore sbandate, perché abbiamo perso il contatto con l'Agnello, perché non ci siamo resi conto che proprio quell'Agnello era il pastore, perché abbiamo perso la faccia insieme con Pietro. Ebbene: Io sono.

Il sommo sacerdote si straccia le vesti. "Tutti sentenziano che è reo di morte. E alcuni cominciarono a sputargli addosso a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". Lo stanno dileggiando, lo stanno insultando, sembra che giochino; in realtà debbono coprirgli il volto, glielo debbono nascondere, non lo vogliono vedere, si rifiutano di guardarlo in faccia. Mosè ha visto la fiamma del roveto che arde senza consumarsi, noi vediamo l'immagine di un volto abbruttito, reso orribile perché disprezzato, oggetto di tutta la violenza umana che rifiuta di guardarlo. Eppure quel volto arde come la vampa del roveto: Io sono. E Dio che si rivela a noi, è il vivente che si piega su di noi, che si prende cura di noi, che si ricorda di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che ha ascoltato il grido di coloro che dimorano in Egitto: Io sono. Là dove la presenza del Figlio subisce il rifiuto più spietato e più subdolo, essa risplende in una luce che trascina.

il Re

Quinta sezione: il pretorio. Anche qui tre quadri: primo quadro (vv. 1-2), solo due versetti: Gesù è presentato a Pilato e viene individuata l'imputazione. "Sei tu il re dei giudei?". Gesù risponde: "Questo lo dici tu". E Pilato trova l'imputazione conveniente per processare Gesù, perché glielo hanno presentato proprio a questo scopo. Pilato deve amministrare, rispettando le norme della burocrazia e della magistratura, il potere dell'Impero. "Dunque tu sei Re": ecco l'imputazione. La regalità di Gesù. Primo quadro.

Se si fa un salto in avanti, al terzo quadro (v. 16-20), nel pretorio, i soldati, dopo aver convocato tutta la coorte, rivestono di porpora Gesù , intrecciano una corona di spine, gliela mettono sul capo e poi lo salutano; "Salve, re dei Giudei!" La regalità di Gesù viene così attribuita per un puro artifizio giuridico.

La regalità di Gesù è da considerare in strettissimo rapporto con la sua pastoralità. Il titolo regale è inseparabile dal titolo pastorale, così in tutta la rivelazione biblica. Il pastore è colui che esercita la sovranità, e la esercita in modo che quella regalità sia edificante, sia davvero motivo di consolazione e di edificazione per le pecore del gregge e per i sudditi del regno.

Gli viene attribuito il titolo regale invece solo per poterlo accusare e condannare a morte. Eppure Gesù sta esercitando una funzione regale. L'Agnello, che è stato aggredito e immolato fino a versare il sangue, è divenuto pastore. Ed è proprio lui che esercita così la regalità in mezzo agli uomini.. Sullo sfondo c’è il quarto canto del servo nel libro di Isaia (52,13-53,12). Colui dinanzi al quale ci si copre la faccia, ha un volto orribile; eppure quel volto splende, manifestando una gloria inimmaginabile. Dinanzi a lui ci si nascondeva la faccia. L'Agnello, condotto senza voce al macello, è il pastore di cui le pecore del gregge potranno fidarsi. Così cantava il profeta a proposito del servo. Adesso è Gesù il re, che viene condannato a morte. Nel quadro centrale (vv. 3-15) Gesù non dice nemmeno una parola; viene interrogato da Pilato, ma non risponde, è afono, come l'Agnello. L'Agnello senza voce, l'Agnello innocente, non si difende, né c'è consolatore per lui. Eppure quell'Agnello condannato a morte sta già esercitando una funzione pastorale, sta già dimostrando di essere in grado si regnare: è in grado di elargire un dono di vita nuova agli uomini di questo mondo.

In questo contesto compare un personaggio che porta il nome di Barabba. Il nome di Barabba è citato tre volte (vv. 7.11.15). Barabba è un soprannome, vuol dire Bar Abbà, in aramaico figlio di Abbà. Nella terza sezione, nel Getzemani, Gesù vegliava e pregava invocando: Abbà. Adesso compare un personaggio che si chiama Bar Abbà, un omicida per il quale si apre una strada di liberazione. Un omicida a cui compete in modo più che mai opportuno il titolo di figlio di Abbà: un uomo che ha ucciso ha trovato un padre, c’è un pastore per lui, c'è un re che lo ha coinvolto in una impresa di liberazione.

C'è un titolo di figliolanza che può essere applicato ad ogni pecora dispersa del gregge, ad ogni creatura umana, per quanto desolata, devastata, dispersa sia nella sua condizione nel corso di una storia sbagliata. Lo stesso personaggio, che qui porta il soprannome di Barabba, vive questa sua esperienza di liberazione in modo quasi inconsapevole, non si rende conto di come stiano andando le cose. Per lui, omicida, era già pronta la condanna a morte, e invece ora si apre la strada della liberazione. Là dove Gesù avanza, ecco che un omicida come Barabba ha ormai acquisito l'identità per essere riconosciuto come figlio di Dio.

nel grembo del Padre

Siamo alla sesta sezione: il Golgota (15,20-39) Anche qui tre quadri; primo quadro (vv. 20-24): Gesù è condotto al Golgota; secondo quadro (vv. 25-37) Gesù è crocifisso; terzo quadro (vv. 38-39) il tempo della permanenza di Gesù sulla croce fino alla morte.

Gesù viene condotto al Calvario, è spossato, tant'è vero che non può portare la croce. Il Golgota è un cocuzzolo pelato, come un cranio. Tutto contribuisce, anche la stessa configurazione dell'ambiente, a dimostrare che la realtà di questo mondo è scoperta, spoglia. Gesù è privo di forze, non può più reggersi, tanto meno può reggere un peso come la croce da trascinare fino al Golgota. Quando finalmente sono giunti, lo crocifiggono. "si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere." Gesù è un uomo denudato; tutto serve ad rimarcare la nudità di Gesù. E’ citato il Sal 22: "si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse." Il Sal 22 è citato nel corso del racconto, come una specie di ritornello. Se si fa un salto in avanti al terzo quadro ( v 38-39), leggiamo: "Il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso". Il velo del tempio, del santuario: il Santo allora appare, è denudata la santità di Dio. E’ da notare la corrispondenza e la tensione tra il primo quadro e il terzo quadro: dalla nudità di Gesù, il Figlio crocifisso, alla nudità di Dio. E il grembo del Padre che è squarciato, la profondità dell'Invisibile, la sapienza eterna dell'Irraggiungibile che appare a noi nella nudità del Figlio. Nel v. 39, il centurione, un pagano che gli stava di fronte, "vistolo spirare in quel modo, disse: ‘Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!". Là dove il Figlio è crocifisso, nudo, la paternità di Dio appare nella sua nuda santità. Il quadro centrale è ampio e articolato al suo interno, va dall'ora terza fino all'ora nona. C'è un'iscrizione che dice di lui che è il re dei Giudei (v. 26); i passanti lo insultano (vv. 29-32), e poi il grido di Gesù (vv. 33-37). Gesù muore gridando, questo grido coincide con il Sal 22: "Eloì, Eloi, lemà sabactani? che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" I presenti non capiscono, ritengono che Gesù stia invocando Elia, ma "Gesù dando un forte grido spirò". Il Sal 22 è il salmo con il quale Gesù prega mentre è agonizzante fino alla morte. Grida e spira. Questo grido è il suo atto di morte. Colui che è stato rifiutato, misconosciuto, tradito, abbandonato, ucciso, è colui che lascia a noi in eredità la paternità di Dio.

Il Figlio muore là dove il grembo della paternità divina si è svelato per noi; ed ora dalla santità di Dio è riversata sulla storia umana, su ogni creatura, su ogni traditore, su ogni fallito, su ogni uomo che muore una eterna volontà di amore che vuole essere riconosciuta, accettata, chiamata per nome: è il nome di Abbà, che dal grido di Gesù colma ogni silenzio, riempie tutte le distanze, sigilla il vincolo di una comunione nella vita che è più forte della morte. Questo è l'evangelo di Dio, che ha il volto di Gesù e la potenza dello Spirito Santo, per la salvezza del mondo.

Lectio divina


Archivio

Vangelo di Marco 1996-97