Incontri di discernimento e solidarietà
 
  • Download

  • Puoi scaricare l'intero file nei seguenti formati:
  • Microsoft Word - Scarica in formato Microsoft Word (51 KB)
  • Adobe Acrobat PDF - Scarica in formato Adobe Acrobat PDF (369 KB)
 

L’AMEN DEFINITIVO

lettura spirituale di Mc 13,1-37

Gesù, il maestro, fallisce nel rapporto con i discepoli. Il cuore degli uomini è duro, non si converte. A Gerusalemme Gesù è alle prese con la città santa, alle prese con la resistenza che gli viene opposta dalla sua stessa carne. Quel popolo, quella città, il tempio, è la sua carne umana. E’ nella sua umanità che il Figlio patisce il dramma di una resistenza straziante per cui è impossibile rispondere alla voce che chiama. È proprio attraverso l’esperienza di questa impossibilità che si protende verso la voce da cui è stato chiamato: si tratta di offrire una risposta. E’ una necessità ormai ineluttabile.

Questa è la prospettiva da cui dipende la rivelazione del mistero: la prospettiva di un fallimento patito fino al limite estremo. L’obbedienza, che risulta infruttuosa nel risultato della sua consistenza mondana, diviene rivelazione di una imprevedibile sovrabbondanza di amore, di una ricchezza inesauribile al di là di ogni misura: il mistero dell’amore di Dio. Attraverso il fallimento del Figlio ci è data la rivelazione della paternità. Il mistero di Dio si spalanca, il segreto dell’Onnipotente assume una visibilità scandalosa: è il volto del Figlio che diviene trasparenza gloriosa nella abissale profondità. Il grembo di Dio onnipotente diviene luogo accogliente, perché tutte le creature siano ricomposte in un disegno di redenzione.

Ed ecco, proprio qui, il grande discorso della fine. L’evangelista Marco ha inserito in questo discorso un linguaggio che era presente nella tradizione religiosa del popolo d’Israele da un paio di secoli: quello apocalittico.

la consolazione dell’apocalisse

Il messaggio apocalittico è un messaggio di consolazione. Questo va precisato con molta fermezza. Avviene, qualche volta, che nel linguaggio corrente, quando si parla di apocalisse, si intende qualcosa di catastrofico. L’apocalisse è, invece, un messaggio di consolazione che si confronta con la realtà catastrofica di questo mondo; ma l’apocalisse non è l’annuncio di una catastrofe, è l’annuncio di una consolazione. Il messaggio apocalittico emerge nel contesto di una storia, nella quale il popolo di Dio ha vissuto momenti di intensa negatività: negatività di dolori, tribolazioni, stragi e calamità di ogni genere; negatività sperimentata nell’intimo delle coscienze, come sconvolgimento degli animi, come turbamento e angoscia della profondità dei cuori. Nel contesto di questa negatività il messaggio apocalittico annuncia la consolazione. La nostra difficoltà nel prendere contatto con i testi apocalittici dell’Antico e del Nuovo Testamento dipende dal fatto che non abbiamo ancora sperimentato quella tribolazione che fa da contesto al messaggio; non abbiamo patito abbastanza per ricevere la consolazione che ci viene annunciata.

A qualcuno che sta male, che sta veramente male, si parla con un linguaggio appropriato. Il modo comune di parlare non è adatto a consolare chi si trova in situazioni catastrofiche. Il linguaggio apocalittico è modulato appositamente - con simboli e espressioni forti e dolci allo stesso tempo - per cogliere e interpretare la situazione di grande dolore in cui versa l’umanità, quando, appunto, ogni altro discorso risulterebbe vano. È l’urgenza del dramma nel quale si è coinvolti, che esige l’intervento di qualcuno che forse urlerà, strapazzerà, ma per annunciare una consolazione a chi sta davvero male.

dalla fine

Quando parliamo di apocalisse spesso intendiamo un annuncio che riguarda quel che deve succedere; pensiamo a una previsione che riguarda la fine. E la fine ci spaventa, bisogna cercare in qualche modo di tenerla il più lontano possibile da noi. Le cose non stanno così. Il messaggio apocalittico non ci prospetta l’itinerario da percorrere per arrivare alla fine; il messaggio apocalittico viene dalla fine e si rivolge a noi, nel nostro tempo e nella nostra realtà personale e sociale, nell’oggi della nostra storia. Il messaggio apocalittico parte dalla fine: la fine è già realizzata, è già avvenuta. La forza del messaggio apocalittico sta proprio in questo protendersi verso di noi a partire dalla fine, dal momento che la fine appartiene a Dio.

La fine non è uno spauracchio, la fine è la rivelazione della signoria di Dio. E’ proprio a partire dalla fine e in nome della fine che può essere finalmente illuminato quello che sta avvenendo adesso e che qui, nella nostra storia, diviene interpretabile.

Il messaggio apocalittico contempla tutto il percorso della storia, nella sua estensione ma anche nella sua profondità, in quanto coinvolge la vicenda umana dalle sue espressioni più elevate alle situazioni più nascoste e impenetrabili. La realtà nascosta nel profondo del cuore umano viene scandagliata in tutti i suoi segreti, perché tutto appartiene a Dio e la signoria dell’Onnipotente è ormai instaurata. A lui l’onore, la potenza e la gloria.

dinanzi al mondo

Marco ci presenta la scena all’interno della quale Gesù pronuncia il discorso apocalittico. Gesù è uscito dal tempio e un discepolo gli dice: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni! ». Siamo fuori da Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, proprio di fronte al Tempio, le mura cingono la città santa. Gesù risponde al discepolo: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta». Questo splendore è fatiscente, si consuma, già è finito, già crolla. Gesù è seduto: la sua posizione allude all’atteggiamento del maestro, anzi all’atteggiamento regale del Messia. È seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, di fronte a Gerusalemme. Questo modo di guardare lo spettacolo che appare sotto i suoi occhi comporta una interpretazione apocalittica del disegno della storia umana. Gesù, il maestro, è in rapporto ai discepoli; Gesù, il Messia, è in rapporto alla città di Gerusalemme, alla particolare storia di quel popolo, di quel tempio. Gesù, il Figlio, ha dinanzi a sé lo spettacolo della storia umana.

Gesù è «seduto sul monte degli Ulivi di fronte al tempio, ed ecco Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: "Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?. Sono presenti i primi quattro discepoli di Gesù. Li avevamo incontrati nel cap. primo, sulla riva del mare. Sono ancora loro. Lo sguardo di Gesù, il Figlio, era proteso verso l’oltremare, verso la casa, per ritornare là, dove la voce lo chiamava, attraverso il deserto. Gesù con i quattro discepoli non guarda ora semplicemente una città o la storia di un popolo e di un tempio; è la storia umana sotto lo sguardo di Gesù, il Figlio.

Il mondo, quella totalità di eventi nel tempo e nello spazio che noi chiamiamo mondo, è sotto lo sguardo del Figlio che risponde alla voce.

La risposta del Figlio alla voce acquista l’urgenza definitiva del compimento del disegno che appartiene a Dio: è la fine.

l’amen definitivo

Là dove il Figlio risponde alla voce, là si manifesta il compimento definitivo delle intenzioni di Dio. È la fine che urge, penetra, incide la storia umana e diviene criterio di interpretazione di ogni evento. Questa fine coincide con l’essere Figlio di Gesù: è il Figlio che risponde alla voce, è Dio che affronta l’esperienza più sconvolgente, più scandalosa, più radicale del fallimento. Il Figlio che risponde alla voce è lui stesso rivelazione della fine, è la parola definitiva. Gesù parla ai discepoli di un crollo: la magnificenza del tempio crolla, il mondo crolla, la storia umana precipita, ogni creatura finisce.

Ma tutto crolla addosso a lui. La fine è lui. Ed è lui, il Figlio, che tutto trascina con sé per tornare a casa, mentre il mondo gli casca addosso: gli eventi si consumano, la tribolazione si diffonde, i sentimenti sono sconvolti , tutti gli equilibri, a cui il cuore umano si è assuefatto, sono scardinati. È lui la fine; è lui l’interprete di quel che sta avvenendo nella storia degli uomini.

Il Figlio, che nella condizione umana sperimenta la gratuità del fallimento, l’insopportabilità distruttiva del fallimento, ne patisce le conseguenze nella sua innocenza. E’ lui che instaura la fine, che rivela il definitivo di Dio. Tutto nella storia degli uomini si consuma proprio perché è una storia di inquinamento, di dolore, di peccato.

Nel v. 4 i discepoli domandano a Gesù: «Dicci quando accadrà questo». «Quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?». E’ presente una espressione che ritorna nella letteratura apocalittica. Leggiamo in Dan 12,7: "Tutte queste cose staranno per compiersi, quale sarà il segno?". Quale sarà il segno, come si interpretano le cose, quelle che stanno avvenendo, viste dalla fine? È proprio lo sguardo apocalittico che vede le cose dalla fine. Ed è lo sguardo di Gesù, perché la fine è lui stesso, perché tutte le realtà che avvengono e che finiscono appartengono a lui. Tutto diventa allora segno, tutto diventa rivelazione in quanto viene interpretato a partire dalla fine. Già nel cap. 8 del nostro Vangelo compare questo stesso termine: semeion, segno. «Vennero i farisei e incominciarono a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova» (Mc 8,11). Un segno dal cielo, un segno che venga da Dio. Come possiamo noi interpretare quello che succede se il cielo non si spalanca, non si apre, non si rivela? Gli chiedono un segno dal cielo per metterlo alla prova. «Ma egli, traendo un profondo sospiro, disse: "Perché questa generazione chiede un segno?» (8,12). E’ come se Gesù negasse di dare un segno; il segno è proprio questo suo profondo sospiro, è lo spalancarsi del suo cuore, in cui si rispecchia la sua obbedienza filiale. Nel cuore aperto del Figlio si specchia l’infinita larghezza del cielo. Il grembo di Dio onnipotente si spalanca per noi, su di noi, sul mondo, sulla storia, su ogni evento, là dove il cuore del Figlio che avanza e porta a compimento la sua missione attraverso i deserti della nostra condizione umana, si è manifestato. La fine è lui, il Figlio. Con un profondo sospiro disse ai farisei: «Non c’è un segno per voi». Il segno è lui. È il Figlio che guarda il mondo e lo accoglie e lo contiene e tutto trascina in un itinerario di radicale conversione verso la casa, là dove egli ritorna in obbedienza alla voce.

Si tratta adesso di andare incontro alla morte. Ne ha parlato con i discepoli a più riprese e i discepoli non hanno inteso ragione. A Gerusalemme ormai tutto è preparato, così come egli aveva previsto. È il suo passaggio. E’ il passaggio attraverso il quale il Figlio ritorna a casa, ma è il passaggio attraverso il quale tutto è trascinato da lui nella obbedienza alla voce, affinché la volontà di Dio si compia e l’amore di Dio eserciti la sua vittoria, che salva, redime, converte, fa nuovi.

Il discorso si articola in 4 quadri.

la seduzione

«Gesù si mise a dire loro: Guardate che nessuno vi inganni!», che nessuno vi seduca, perché questo tempo è tempo di seduzione. «Molti verranno in mio nome dicendo: "Sono io", e inganneranno molti. E quando sentirete parlare di guerre non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine». Non sarà ancora la fine. L’inganno seduttivo consiste nel prospettare un discernimento parziale delle realtà che incontriamo. La speranza viene ridotta ad aspirazione per qualche esito positivo nel contesto di un equilibrio penultimo. Questo è un inganno. "Non allarmatevi se sentirete parlare di guerre" «bisogna che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine. Si leverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti sulla terra e vi saranno carestie. Questo sarà il principio dei dolori». In questo tempo, nel quale siamo minacciati dalla seduzione, è proprio in nome della fine che siamo in grado di cogliere qual è il valore di ciò che sta succedendo. Non mancano le guerre, i terremoti, le carestie, e ogni altra forma di tribolazione. Qual è il valore di quello che sta succedendo? È l’inizio delle doglie di una partoriente. La seduzione sta nel rimuovere il dolore, là dove questo dolore è fecondo, è l’ultima tappa della gestazione.

persecuzione e annuncio

«Voi badate a voi stessi. Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparite davanti a governatori e re a causa mia, per rendere testimonianza davanti a loro». Questo è il tempo della persecuzione. Viene considerata la sorte a cui saranno sottoposti i credenti. In vari modi si manifesta questa insofferenza della storia degli uomini nei confronti dei credenti. Gesù dice: «Ma prima è necessario che l’evangelo sia proclamato a tutte le genti». Nel corso di questo tempo segnato dalla persecuzione, l’evangelo viene proclamato su tutte le strade, in tutte le direzioni, fino agli estremi confini della terra, così da raggiungere tutti i popoli del mondo.

Mentre sperimentiamo la persecuzione e siamo stretti nella morsa che mette a prova la nostra fede, cresce, dilaga, incalza con una tensione dirompente nella storia degli uomini, l’evangelo che coinvolge tutte le genti. «E quando vi condurranno via per consegnarvi, non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, ma dite ciò che in quell’ora vi sarà dato: poiché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo. Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte. Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato». Nel v. 11 c’è un accenno preciso all’irrompere dello Spirito Santo. Il tempo della persecuzione è il tempo della evangelizzazione; ma è anche il tempo nel corso del quale viene sperimentata la gratuità dello Spirito Santo. Tutto quel che ci riguarda, nella prospettiva di una testimonianza di fede sottoposta alla persecuzione, è piegato, addolcito, trasfigurato dalla effusione senza limiti e senza confini dello Spirito.

idolatria e profanazione

«Quando vedrete l’abominio della desolazione stare là dove non conviene... chi legge capisca, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti... » . Questo è il tempo della grande profanazione, dell’idolatria che occupa la scena del mondo e diventa prepotenza sistematica nella storia degli uomini. L’idolatria abbrutisce la creazione. La creazione è profanata là dove alle creature è oscurata la bellezza conferita loro dal creatore. Quando viene esercitata nella creazione una violenza che sottrae la bellezza delle creature, sfigurandone l’identità e l’autenticità, qui domina l’idolatria. L’idolatria è la grande profanazione. Gesù usa il linguaggio apocalittico tradizionale. «Pregate che ciò non accada d’inverno; perché quei giorni saranno una tribolazione, dall’inizio della creazione, creata da Dio, fino al presente, né mai vi sarà.. Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe. Ma a motivo degli eletti che si è scelto ha abbreviato quei giorni». Gli eletti. Proprio là dove il nostro tempo è tempo di profanazione affiora l’evidenza di un disegno di elezione. C’è una resistenza che argina e contesta l’idolatria. E’ un accenno esplicito a quel disegno di elezione che è struttura portante di tutta la rivelazione biblica. Il popolo dei credenti è considerato in rapporto alla missione che gli è affidata: è il popolo di Dio. Nel contesto della realtà profanata prende consistenza quella vocazione di quanti sono inviati per abbreviare (anche questa è espressione tipicamente apocalittica) e per resistere.

lo smarrimento

«Se qualcuno vi dirà: "Ecco, il Cristo è qui, ecco, è là, non ci credete; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti». La situazione si fa qui più pericolosa che mai. Sono messi alla prova gli eletti, si prospetta l’eventualità di uno smarrimento anche per loro. Essi possono smarrire la vocazione, il valore della missione che gli è stata affidata. Un’eventualità del genere è anch’essa interpretata a partire dalla fine. «Voi state attenti. Io vi ho predetto tutto». Può darsi che la stessa elezione si corrompa, può darsi che la profanazione dell’idolatria eserciti il suo influsso distruttivo anche a riguardo della elezione, può darsi che lo stesso privilegio della elezione acquisti una fisionomia idolatrica. Anche l’abominio della desolazione è stato introdotto nel tempio. "Io vi ho predetto tutto" dice Gesù. Questo annuncio viene formulato in prima persona singolare, con una energia strabiliante. Là dove anche gli eletti saranno tentati e messi alla prova, là dove anche gli eletti possono smarrirsi e rinnegare la loro vocazione, là dove anche il privilegio della elezione di un popolo chiamato e inviato per arginare l’idolatria, diventa esso stesso idolatria: "sono io che ho predetto". E’ lui che avanza, si presenta, si impone: è lui che impone la fine. E nella fine imposta da lui si realizza un nuovo cielo e una nuova terra, la liberazione per il cuore umano, la redenzione per la storia che, abbandonata a se stessa, precipiterebbe nell’inferno dell’idolatria, nell’abbrutimento.

il Regno

«Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà». Gesù cita due volte Isaia: è proprio la fine. La fine è il Figlio che viene, la fine è lui che instaura il suo potere. Ed è proprio questa fine che ci consente di capire fin da adesso che il crollo in corso non è per la nostra condanna, ma è per la nostra liberazione. È il crollo dell’idolatria, il crollo di quel potere che l’idolatria vuole instaurare; è lo svuotamento del nostro potere. In nome della fine e in nome di colui che viene e fa la fine, noi già accogliamo la consolazione e la sperimentiamo e ne godiamo i frutti di indicibile pienezza. «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande e potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo». La consolazione di questa visione attraversa il mondo, la storia, ogni uomo, ogni generazione, fino a scandagliare l’impenetrabile segreto di ogni cuore.

«Dal fico imparate questa parabola». Il fico è la parabola del nostro tempo. «Quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte». Il fico mette le gemme a dicembre, siamo appena all’inizio dell’inverno, eppure l’estate è alle porte: è lui, il Figlio, che sta alla nostra porta; è lui che ha scardinato la porta; è lui che, morendo e risorgendo, ha divelto il macigno che ostruiva l’ingresso del sepolcro. Il termine "porta" ritorna appunto alla fine del cap. 15 e all’inizio del cap. 16: è la porta del sepolcro. È la sua Pasqua di resurrezione, è la Pasqua che noi celebriamo, nella quale siamo stati battezzati; la Pasqua di cui siamo testimoni ed evangelizzatori. E’ la sua Pasqua che ci stringe, che segna la nostra fine e ci rivela la paternità di Dio.

«Non passerà questa generazione... il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre». Solo il Padre. La paternità di Dio si svela nel nostro finire: mentre siamo consumati, mentre siamo svuotati, noi precipitiamo nel grembo del Padre.

Nessuno conosce il giorno o l’ora. «State attenti e vegliate». È questo il tempo del fico, mentre lui sta alla porta; è il tempo nel corso del quale la Pasqua ci evangelizza e fa di noi, a nostra volta, nella nostra miseria di peccatori che si convertono, degli evangelizzatori. Miseria e consolazione insieme, di peccatori che si convertono. Questo è il tempo della veglia. Veglia fa tutt’uno con ignoranza: "Non sapete quando il padrone di casa ritornerà". Questo è il tempo in cui vegliamo, perché siamo ignoranti, ma non è un’ignoranza che ci condanna. È proprio sperimentando questa ignoranza, che fa tutt’uno con la nostra veglia, che siamo svuotati di quel potere infetto che ci ha abbruttiti e che ha abbrutito il mondo. Questo è il tempo nel quale la testimonianza pasquale, nel nome del Dio che è morto e risorto, ci trasmette la consolazione che ridà fiato, che incoraggia e che anima la nostra veglia, mentre stiamo imparando in comunione con il Figlio, a invocare il mistero di Dio e a chiamarlo Padre.

Gesù inviterà alla veglia i discepoli durante la preghiera sul monte degli Ulivi (Mc 14,32-42). Nel corso di quella notte di veglia, Gesù invoca tutto solo, ripetendo il nome di Dio: Abbà, Padre. Questo è il senso della nostra veglia. La Pasqua del Figlio, che è morto e che è risorto, è un messaggio di consolazione che ci libera nell’intimo del cuore. Stiamo imparando anche noi a invocare il nome di Dio e a chiamarlo Abbà, Padre nostro.


Lectio divina


Archivio

Vangelo di Marco 1996-97