03 marzo 2020
Quinto incontro del ciclo 2019-2020
Torniamo alla Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi. Abbiamo letto fino al cap. 4, v.12, e da lì dobbiamo ripartire. Siamo alle prese con la seconda parte della lettera. Ricordate questa suddivisione sulla quale ci siamo intesi a suo tempo? Una prima parte è caratterizzata da un’intonazione eucaristica. Nei primi tre capitoli Paolo ringrazia Dio per quello che è successo a Tessalonica, per il fatto che lì ci sono ancora quelli che hanno accolto l’Evangelo. Ma che cosa vuol dire Evangelo e che cosa vuol dire accogliere l’Evangelo? E ancora, che cosa vuol dire trasmettere l’Evangelo? Quello che stiamo leggendo è il testo più antico di tutto il Nuovo Testamento, una storia di accesso a tutta la letteratura neotestamentaria, una specie di reliquia, un seme fecondissimo che anticipa e in qualche modo annuncia lo sviluppo di tutto quello che il Nuovo Testamento poi metterà a nostra disposizione, cioè le molteplici testimonianze che compongono quel corpo letterario: i Vangeli con gli Atti degli Apostoli e poi tutte le altre lettere di Paolo, le lettere cattoliche, la lettera agli Ebrei e l’Apocalisse. La nostra piccola lettera, la Prima ai Tessalonicesi, ci ha invitati, anzi in un certo modo ci ha costretti, a ristabilire un contatto immediato con la sorgente di tutta quella corrente di nuove testimonianze di vita che man mano diedero forma alla prima comunità dei discepoli ed alle prime chiese, attraverso il contatto con il mondo dei pagani e con culture diverse, fino all’estrema periferia del mondo all'epoca conosciuto. Attraverso questo scritto, possiamo capire come si sviluppa la serie degli eventi che Paolo interpreta e intravede in questo momento così pregnante della sua attività missionaria, quando per la prima volta è entrato in Europa: dall’Asia all’Europa, dall’Oriente all’Occidente, a Tessalonica. Gli antefatti che portano alla scrittura di questa lettera sono questi: Paolo è stato costretto ad allontanarsi rapidamente da Tessalonica, esposto a testimonianze di ostilità molto vivaci, e dunque mesi dopo da Corinto scrive perché ha ricevuto notizie circa la presenza ancora attiva a Tessalonica di quei tali che hanno accolto l’Evangelo: ci sono ancora quelli che noi chiamiamo i cristiani (Paolo non usa questa terminologia). Ci sono dei cristiani nel mondo, a Tessalonica, che sorpresa! Che meraviglia! Che incanto! Paolo commosso scrive, ringraziando Dio. Riflette su quello che è successo e questa riflessione costituisce un riferimento esemplare, estremante istruttivo: che cosa sta all’origine di quella vita nuova che noi chiamiamo vita cristiana e che implica tutta una ristrutturazione del nostro vissuto, del nostro rapporto con il mondo, con gli altri e della relazione con il mistero di Dio, per la rivelazione che abbiamo ricevuto? Tale rivelazione si è espressa mediante un linguaggio che è straordinariamente creativo, quel linguaggio che i primi discepoli del Signore hanno riconosciuto nell’evento del maestro, Gesù il Messia d’Israele, che è morto e che ha vinto la morte, che è vivente, che è glorioso. Naturalmente Paolo, in maniera magistrale, fa riferimento a tutta l'eredità delle sacre ed antiche scritture d’Israele. Ma il linguaggio mediante il quale il mistero si è rivelato ha dimostrato un'originalità travolgente della Signoria di Gesù, il figlio di cui Dio si è compiaciuto. Ed ecco come la potenza del soffio divino, il respiro del Dio vivente, si è effuso in maniera tale da instaurare vincoli di comunione inimmaginabili tra la nostra realtà di creature umane, di esseri umani che brancolano sulla scena del mondo in maniera così sempre segnata da innumerevoli condizionamenti nello spazio, nel tempo, e la vita del Figlio che è intronizzato, che è vittorioso sulla morte nella sua carne crocifissa e glorificata, il titolo che ci rende presentabili a Dio come figli. La prima lettera ai Tessalonicesi si apre con quella constatazione che rimane come un segnale che indica tutto il percorso lungo il quale si svilupperà la evangelizzazione futura. Noi oggi siamo in grado di rivolgerci a Dio e di chiamarlo Padre nostro. Ci sono dei cristiani nel mondo, quelli che dicono a Dio: Padre nostro! E questo perché sono in comunione con il Signore Gesù Cristo e respirano condividendo il soffio del respiro stesso del Dio Vivente che si è riversato su di noi, e adesso sostiene, promuove, alimenta, discerne dall'interno il nostro nuovo modo di stare al mondo. Su questo Paolo sta riflettendo.
Nella seconda parte della lettera (capitoli 4 e 5, che abbiamo suddiviso in tre sezioni, delle quali abbiamo letto la prima, fino al v. 12 del capitolo 4) il discorso di Paolo prende un'andatura più precisamente esortativa, che per certi versi segue la piega dell'ammonizione, del richiamo, sempre in modo estremamente benevolo e incoraggiante, e per altri versi la piega dell'esortazione, che vuole sostenere, gratificare, ma è sempre vero che anche l'incoraggiamento è per Paolo occasione propizia per sviluppare temi di carattere magistrale; dunque temi che contengono contenuti teologici di alto valore: la vita nuova, la vita che si realizza per far contento Dio, la volontà di Dio, e quelle due direttrici lungo le quali Paolo ha potuto ricapitolare tutta la novità del vissuto che l’Evangelo genera nella nostra condizione di creature umane, cioè la consacrazione a Dio e la Philadelphia, l'amore fraterno; l'amore di Dio e l'amore del prossimo, le grandi direttrici che peraltro sono intrecciate tra di loro.
La speranza cristiana: i defunti si risveglieranno in Cristo Gesù
Cap. 4, vv. 13-15
Procediamo ora a leggere la seconda sezione, che va dal v. 13 del cap. 4 al v.11 del cap. 5, in cui l'esortazione assume il tono esplicito di un incoraggiamento, anche se è un incoraggiamento che fa appello alla necessità di chiarire, di precisare, di correggere, in rapporto a fraintendimenti che potrebbero apparire addirittura grossolani. D’altra parte quei tali nella chiesa di Tessalonica hanno avuto Paolo con loro ad evangelizzarli per non più di tre settimane, sufficienti per intraprendere il cammino di una vita nuova, ma lasciando delle zone oscure e dei fraintendimenti che in un certo modo riguardano elementi imprescindibili di quel nuovo linguaggio in base al quale è necessario interpretare il cammino nella vita nuova intrapreso, e non solo elementi di linguaggio, ma anche qualcosa di sostanziale che riguarda proprio l'impianto del vissuto che deve essere definito nella sua autentica originalità, senza ripiegamenti, senza cedere a confusioni di linguaggio, che investono certamente talune contraddizioni pericolose nell’esercizio del vissuto.
Di questo Paolo adesso si occupa, sempre in termini incoraggianti. V.13: “Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti”. Questo vocativo, “fratelli”, conferma il valore di una relazione che ormai è impostata nei termini di un'intimità sincera, nei termini di una familiarità fraterna, quello che già sappiamo dall'inizio. Ebbene non vogliamo lasciarli nell'ignoranza, che non riguarda soltanto un fraintendimento teorico circa una dottrina, ma ignoranza nel senso di un ingorgo emotivo, affettivo, dell'animo umano che ha accolto l’Evangelo, ma che non è abituato a interpretarne il valore con una presa di coscienza lucida e coerente. E dunque dice: “Non voglio lasciarvi nell' ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti”. Ecco il punto! “Quelli che sono morti”. Il testo alla lettera dice “di quelli che si sono addormentati”. Nel frattempo, qualcuno è morto e Paolo si è reso conto (evidentemente Timòteo gliene ha parlato) che quelli di Tessalonica, per come affrontano la questione, non sono sufficientemente illuminati circa il valore autentico dell'Evangelo che hanno accolto e che ha dato una nuova strutturazione alla loro vita.
Vale la pena di esplicitare subito, anche se in termini allusivi, quella che evidentemente è stata l'interpretazione immediata di quella novità che ha investito la vita di quei tali di Tessalonica, perché di fronte alla morte di qualcuno che si è addormentato tra di loro evidentemente dimostrano sconcerto, disagio, come Timoteo si è reso conto; sono turbati da interrogativi a cui non sono in grado di dare risposta. Perché? Perché molto probabilmente l’Evangelo è stato recepito da quei tali a Tessalonica come il titolo valido per attendere la prossima venuta trionfale di Gesù vittorioso, glorioso, vivente, il giorno del Kyrios, il Signore, che ritorna e in questo modo instaura il Regno. Paolo ha già fatto riferimento a questo giorno. Dunque, l’Evangelo è inteso come prerogativa che qualifica la nostra esistenza umana in rapporto alla manifestazione definitivamente efficace di Gesù che ormai è passato attraverso la morte, ha sconfitto l'avversario e ritorna per instaurare il suo regno. Ma se qualcuno muore prima? E qualcuno è già morto. In questo contesto, si suppone che il ritorno di Gesù sia prossimo, anche se non c'è una scadenza che possa essere precisata (su questo Paolo ritornerà).
L'impatto con l'Evangelo della vita di questi tali è stato così coinvolgente e così intenso, così profondo, per cui la relazione di vita con Gesù risorto è il preludio all’evento finale. Nel suo giorno, la Sua gloria restaura tutto il creato e sintetizza tutto lo svolgimento della storia umana in corrispondenza all'iniziativa originaria di Dio. Ed ecco, se qualcuno muore prima non è presente all'appuntamento; l'importante è esserci per quel giorno, che è ritenuto relativamente prossimo. Ricordate bene che anche Paolo, nei primi anni della sua attività missionaria e pastorale, mostra nei testi delle sue lettere di avere una convinzione del genere, aspettandosi un ritorno del Signore nella generazione presente. Poi, col passare del tempo, lo stesso Paolo si rende conto che gli eventi prendono un’andatura più pacata, misurata secondo altri criteri provvidenziali, affacciandosi su un orizzonte più ampio nello spazio e anche più lungimirante nel tempo; ma nel primo periodo questa attesa orientata al ritorno glorioso del Signore che ha vinto la morte e che instaura il regno a breve scadenza è dominante. E quelli di Tessalonica sono evidentemente partecipi di questa esperienza interiore che comunque ha determinato il cambiamento della loro vita.
Ma avviene che qualcuno muore. E se muore prima? Paolo dice: “non voglio che voi siate ignoranti”. Paolo non discute il fatto che il Signore vittorioso, glorioso, trionfante ritornerà a breve scadenza del tempo. Parlerà successivamente di quello che comunque è un riferimento cronologico che nessuno può stabilire, usando un linguaggio che incontriamo nelle stesse parole di Gesù (“non si sa né il giorno né l’ora”). Ma qui la questione è: come la mettiamo con quelli che muoiono nel frattempo? E adesso, nei tempi nostri, non soltanto è morto qualcuno, ma sono morte generazioni e generazioni in attesa di quel giorno. E se qualcuno muore prima? Se qualcuno non è in vita in quell'incontro? Se qualcuno non ce l’ha fatta ad arrivare al momento decisivo? Si è perso la strada, è finita così, è smarrito? Allora si ha la percezione di qualcosa che non quadra, che non funziona, il sospetto che forse sotto sotto c'è un imbroglio, un inganno, come se accogliere l’Evangelo significasse avere accolto la garanzia di farcela a rimanere nella nostra condizione attuale per entrare nella pienezza definitiva del disegno che si realizza secondo l'intenzione di Dio. Ma se uno muore prima?
La questione è seria e Paolo interviene. Che quelli a Tessalonica avessero le idee confuse al riguardo di un tema del genere non ci deve sorprendere, perché non avevano certo studiato il catechismo. D'altra parte, noi che l'abbiamo studiato abbiamo le idee qualche volta più confuse delle loro. Allora Paolo dice: “Perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”. Affliggersi è reso nell'originale greco con il verbo “lupeomai”, che deriva da “lupe”, tristezza. Paolo percepisce da certe reazioni, magari tenute un po' riservate, che è diffusa una tristezza nell'animo di alcuni di quelli che compongono quella comunità che è ancora una piccola realtà di chiesa, ma sembra in quanto comunità condizionata da questa tristezza serpeggiante. L'afflizione viene considerata qui come un preludio a un fenomeno di disperazione, “gli altri che non hanno speranza”, dove gli altri sono, tanto per intenderci, i pagani, quelli che non conoscono Dio (come diceva nel v.5 del cap. 4). Con l'espressione “quelli che non hanno speranza” Paolo vuole fare riferimento ad una ricaduta nel paganesimo da parte di coloro che pure sono stati messi in luce come i testimoni della novità evangelica. In questi, tale tristezza diventa la causa di un cedimento, uno smarrimento, una specie di vorticoso risucchio interiore dell'animo umano che si arrende a quel modo di vivere nella disperazione che per Paolo è il modo di vivere dei pagani, pur avendo una sua organizzazione, una sua visibilità, ed anche una sua grandiosa presunzione. Disperazione! È evidente che la questione è estremamente seria: è in questione l'ipotesi di un ripiegamento netto e pericoloso della novità evangelica.
Allora insiste: “Noi crediamo infatti (v.14, parla subito in prima persona plurale) che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti...”. Sta dicendo: noi non siamo quelli della disperazione, ma siamo quelli che credono; noi crediamo nel percorso compiuto da Gesù, Lui che è morto e risorto. A tal riguardo quelli di Tessalonica non hanno dimostrato incertezze: Gesù è vivente, Lui ha vinto la morte. Ecco il punto: “...così anche quelli che sono morti (quelli che sono addormentati, quelli che già sono morti tra di noi) Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui”. Dunque, quel percorso compiuto da Gesù, che è morto ed è stato risollevato dalla morte ed è vivente, riguarda i nostri defunti perché coloro che muoiono, muoiono in riferimento a Lui risorto, vittorioso sulla morte. Poche parole, ma estremamente intense, pregnanti quelle di Paolo. Noi crediamo che Gesù è morto e risorto, e così quelli che sono morti Dio li radunerà per mezzo di Gesù Cristo insieme con Lui: per quei morti che sono motivo di turbamento o addirittura di disperazione, la resurrezione di Gesù è il riferimento in base al quale noi adesso siamo in grado di contemplare la loro posizione. Quelli che sono morti non sono ricaduti nel vuoto di un abisso oscuro, ma appartengono a Cristo risorto; il fatto che siano morti non significa che non sono in grado di presentarsi, di esserci laddove il Signore risorto viene nel suo giorno per instaurare il regno definitivo.
Questo riferimento alla resurrezione di Gesù viene sviluppato in due direzioni: in primo luogo Paolo parla di un risveglio per coloro che sono addormentati, dicendo che Dio li radunerà per mezzo di Gesù che è vivente; e la sua resurrezione è garanzia di risveglio per quelli che muoiono; questo è un dato che Paolo attribuisce senz'altro all'iniziativa di Dio, con l’aggiunta di questo raduno che coinvolgerà i nostri defunti insieme con Lui, Gesù che è risorto dai morti, nella sua venuta finale, nella sua parusia. Quelli che sono morti sono in relazione con il Signore risorto in quanto, in virtù della sua resurrezione, sono predisposti al risveglio. Sono in relazione con la resurrezione di Gesù in quanto sono attesi per quel raduno che raccoglierà la moltitudine umana attorno a Lui e con Lui nella sua parusia. Paolo ci tiene a ribadire il fatto, che adesso spiegherà meglio, che la morte prima del giorno non significa esclusione dal rapporto con l'evento pasquale che ha avuto luogo una volta per tutte. Noi siamo in attesa della sua manifestazione definitiva nel giorno del Signore che viene, ma coloro che sono morti muoiono nel senso che sono inseriti in quell'evento di morte e resurrezione. Il morire dei nostri e il nostro morire non ci esclude rispetto alla sua vittoria gloriosa, ma ci inserisce nel suo percorso di morte e di resurrezione. Essere morti significa essere introdotti in quella rivelazione di Dio che si è presentato a noi attraverso l'incarnazione del Figlio, la sua morte nella carne umana e la sua carne crocefissa e glorificata. Ed ecco un appuntamento per tutti coloro che morendo sono già segnati da un vincolo di appartenenza indissolubile a Lui che è morto nella carne umana e che nella carne umana è glorificato.
Qui c'è di mezzo il battesimo. Coloro che sono battezzati in Cristo sono già morti in comunione con Lui, per vivere in comunione con Lui. E quindi il fatto che qualcuno muoia prima di quel giorno non è da considerare come una sconfitta tale per cui si viene esclusi dall'appuntamento. Chi è morto prima non si è perso per la strada, illudendosi per qualche tempo, e poi sprofondando nell’abisso oscuro, perché chi ha accolto l'Evangelo è già stato battezzato in comunione con il Signore, è già morto nel battesimo. Il battesimo è già un anticipo della nostra morte e nel battesimo noi siamo già generati a vita nuova in comunione con Lui. Il fatto che qualcuno muoia prima di quel giorno non è un incidente causa di tristezza tale per cui ritorniamo a condividere la disperazione dei pagani; che qualcuno muoia prima del tempo è perfettamente coerente con il fatto che comunque tutti siamo già morti nel battesimo. Siamo già sepolti per essere sollevati, siamo già naufraghi che sprofondano nel mare per essere generati alla vita nuova del Signore Gesù.
E allora qui (v. 15) Paolo dice: “Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore (viene detto chiaramente che nella sua parusia ci saremo ancora, noi che viviamo saremo ancora in vita per il giorno della sua venuta) non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Non c'è nessun privilegio per i sopravvissuti, non è importante farcela, tenersi in vita con qualche cura di vitamine e qualche integratore supplementare, o facendosi ibernare in qualche clinica della Svizzera. Paolo dice: nessun privilegio! Perché la manifestazione trionfale del Signore non è riservata a quelli che saranno ancora vivi: la sua manifestazione trionfale riguarda tutti i defunti. E anzi proprio i defunti sono chiamati a partecipare alla sua manifestazione gloriosa per il fatto che in realtà (qui è il fraintendimento rispetto al quale quelli di Tessalonica dimostrano di essere ancora sprovveduti) accogliendo l’Evangelo sono stati consacrati mediante il battesimo nella comunione di vita; sono già morti con Lui per vivere con Lui.
E dunque coloro che muoiono non sono gli esclusi perché l'avvento finale del Signore riguarda esattamente tutti i defunti, tutti coloro che si sono addormentati. E allora qui l’orizzonte si amplia smisuratamente, perché non si parla solo di quelli che sono morti nel frattempo, nel giro di pochi mesi, ma il discorso riguarda la moltitudine dei defunti, di coloro che, generazione dopo generazione, sono morti, dai progenitori fino alla nostra generazione e così di generazione in generazione.
Trionfo ecumenico dell’Evento pasquale
vv. 16-18
E allora proseguiamo, al v.16: “Perché il Signore stesso”. Qui adesso Paolo ci fornisce una descrizione dell'evento glorioso del Signore, ossia della sua parusia, utilizzando un linguaggio che viene dall'ambiente apocalittico, linguaggio che naturalmente va inteso secondo le caratteristiche di quella certa cultura teologica che noi conosciamo per altra via e quindi non c'è da impressionarsi troppo; e invece cogliamo l'essenziale di quello che adesso Paolo (v.16) ci dice: “Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo”.
Dunque, una discesa che diventa qui l'evento decisivo che determina il compimento di un disegno all'interno del quale la realtà del creato, lo svolgimento della storia umana, si ricompongono totalmente. C'è di mezzo il suono della tromba di Dio, c'è un ordine che viene dall'alto; è il mistero del Dio vivente che si è spalancato per noi. Ecco, apocalisse, svelamento: è il segreto di Dio che si è espresso in tutta la sua originale, inesauribile fecondità in maniera tale da ricapitolare tutto, contenere tutto, e questo è l'evento verso cui siamo orientati e che sarà instaurato nel momento in cui il Signore stesso discenderà dal cielo, Lui che è già vittorioso sulla morte, che già è risorto e vivente, in questa prospettiva di ricapitolazione totale; è la sua sovranità definitiva.
C'è anche il richiamo alla voce angelica, quella voce che allude poi a tutti gli echi, alle voci, ai rumori, ai messaggi, ai clamori, alle culture che hanno accompagnato lo svolgimento della storia umana. Tutto si compie in obbedienza alla sua venuta, ma è il Dio vivente che attraverso il Figlio, con potenza di Spirito Santo, concilia la totalità degli eventi, il mondo. Ed ecco, in questo contesto, i defunti non sono degli esclusi, sta dicendo Paolo. Proseguendo il v. 16: “E prima risorgeranno i morti in Cristo”. C'è un progressivo coinvolgimento in questo spettacolo grandioso che Paolo sta contemplando e che descrive facendo riferimento a un certo linguaggio apocalittico, e che adesso viene precisato nei suoi momenti essenziali.
Dapprima vi è il sollevamento dei morti in Cristo. Qui per morti in Cristo (necroi en Christo) si intende “battezzati”. Come già abbiamo intravisto poco prima, ci rendiamo conto che Paolo allude a tutti coloro che sono morti. C'è un passaggio che forse il testo non esplicita, ma che noi intravediamo, senza abusare con interpretazioni nostre: tutti coloro che muoiono appartengono a Cristo; i morti in Cristo sono coloro che già sono stati consacrati nell'appartenenza a Cristo che è morto ed è risorto, per essere inseriti nella sua vittoria sulla morte, morendo con lui per risorgere con Lui nel battesimo. Ma l’evento pasquale del Figlio di cui Dio si è compiaciuto, che è morto nella carne umana e che è vittorioso sulla morte, questo evento è tale, nella sua unicità e nella sua fecondità universale, da coinvolgere la condizione umana nella sua dimensione più ampia, più aperta, più universale, perché tutti gli uomini muoiono. L'evento pasquale ha realizzato nella storia umana quell'intenzione d'amore per cui il respiro del Dio vivente è potenza creativa che ricompone l'ordine della creazione intera e restaura la vocazione alla vita di coloro che l'hanno tradita, che l'hanno rinnegata, che l'hanno perduta, di coloro che sono prigionieri della morte.
Ed ecco l'evento pasquale: morendo, nella sua discesa ha raggiunto, per un puro motivo d'amore, la moltitudine umana che è esposta all'inevitabile necessità di morire. Tutta l'umanità, segnata dal peccato, va incontro alla morte ed è proprio nella morte che l'umanità incontra la presenza di colui che ha fatto del suo morire un atto d'amore vittorioso. Tutti coloro che muoiono appartengono a quel figlio che Dio ha donato al mondo, che ha fatto del suo morire un atto d'amore dotato di una fecondità universale. Nel suo morire per amore ha incontrato la morte degli uomini, la morte degli uomini peccatori e la morte di tutti gli uomini: non c'è essere umano che sfugga a questa sua dimostrazione d’amore per come è morto nella gratuità dell'amore, Lui l'innocente! Ed eccolo vittorioso, ha fatto di quel suo morire la sua vittoria e in questa sua vittoria la morte degli uomini peccatori è ricomposta in obbedienza all'amore eterno che è il segreto del Dio vivente.
E allora qui sta dicendo: “E prima risorgeranno i morti in Cristo quindi noi, i vivi”. Anche Paolo pensa di essere tra quelli, a modo suo ci teneva, lo dice anche altrove, ancora condizionato da una visione un po' ristretta. Parlare di queste cose per noi sembra un po' strano, perché la nostra attenzione verso l'incontro, la venuta finale del Signore, è molto fiacca. La nostra vita cristiana non è così fortemente segnata dall'urgenza dell'incontro con il Signore che viene. Invece Paolo dice: ma ce la faccio anch'io! Anche quando scrive di nuovo ai Corinzi qualche anno dopo, ancora dimostra di essere segnato interiormente da una convinzione di questo genere, ma senza imporre niente a nessuno e soprattutto senza la possibilità di stabilire delle scadenze. Ma (v.17) dice: “quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore”. Immagine per noi un po' curiosa, ma attenzione perché qui è l' “aria” non è qualche nuvoletta primaverile che svolazza nel cielo; l'aria è la realtà intermedia tra cielo e terra. Qui è davvero instaurato, in virtù della sua manifestazione finale, quel disegno di comunione tra cielo e terra, e l'aria, la realtà intermedia, è tutta valorizzata come garanzia di corrispondenza tra il cielo la terra, tra il tempo e l'eterno, tra noi che ci siamo e gli altri. È una prospettiva che più ecumenica di così non potrebbe essere.
Nell'incontro con il Signore, Paolo non vede il privilegio di quelli che ce l'hanno fatta a danno di quelli che invece si sono persi per la strada. In quell'evento finale noi, che ci siamo e ci saremo (e Paolo spera di esserci), ci saremo come promossi ed entusiasti testimoni di questo disegno di comunione che ci ricompone all'interno di un unico disegno che raccoglie il passato, tutte le generazioni e tutte le situazioni le più diverse, le più compromesse, le più inquinate, laddove regnò il peccato fino alla morte. Ecco viene Colui che si è fatto carico di quel disastro, nella libertà, nella gratuità, nella purezza e nella innocenza della sua opera d'amore.
Ed ecco, così saremo sempre con il Signore non perché ci sarà qualcuno che giocherà “con gli angioletti tra le nuvole” e invece qualcun altro che brucerà tra le fiamme dell'inferno, ma saremo con il Signore nel senso che nell'attuazione definitiva di quel disegno noi scopriremo di essere riconciliati in una economia di gratuita misericordia, nella benedizione che circola, di dono in dono, nella inesauribile sovrabbondanza della gratuità.
L'aver accolto l’Evangelo non caratterizza noi, coloro che hanno accolto questo annuncio, come privilegiati che ce la faranno ad arrivare alla meta ad esclusione di altri, ma ci caratterizza come coloro che sono depositari consapevoli, sinceri, onesti, di una speranza che riguarda la salvezza del mondo. Infatti, proprio qui è la speranza che l'Evangelo ha suscitato in noi (ce ne parlava Paolo fin dalle prime righe della lettera), la speranza che è esattamente la nota caratteristica di quella vita nuova che non si arrende alla disperazione, come potrebbe avvenire anche a quelli di Tessalonica. La speranza non è relativa all'ipotesi che posso farcela io, o possiamo farcela noi (mettiamoci insieme, aiutandoci per quel tanto che riusciremo di qui al momento decisivo), ma la speranza riguarda la salvezza universale. Di più io non so, dice Paolo, non posso dire, ma so che nell'evento del Signore morto e risorto non è segnato un motivo di condanna per coloro che muoiono perché portano le conseguenze del peccato, perché tutti moriamo conseguentemente al peccato, ma nel morire noi incontriamo Lui vittorioso.
La questione è estremamente seria e decisiva: è proprio un elemento costitutivo della vita nuova, ma quelli di Tessalonica hanno le idee ancora un po' confuse. Devo dire, non offendendo nessuno e dicendolo anche per me stesso, che anche noi facciamo sempre un po' fatica a chiarirci le idee riguardo a queste cose, e tutte le volte ci sembra di scoprire qualcosa di nuovo come se non sapessimo questo da quando siamo stati battezzati. Paolo dice: allora saremo sempre con il Signore, andremo incontro al Signore nell’Arca, in questa comunione cosmica dove le misure di tempo e di spazio non sono motivo di separazione, ma motivo di integrazione, di riconciliazione, di solidarietà, di vicinanza, di appartenenza vicendevole, di comunione.
E poi, al v.18 che chiude il paragrafo: “Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”. Quale consolazione più intensa, più penetrante e più coinvolgente di questa?! Non nascondetevi dietro qualche maschera che in realtà non nasconde; il rischio è la disperazione che svuota il cuore e intristisce. “Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”: bisogna che queste parole vengano diffuse a vicenda; bisogna che queste parole siano condivise; che queste parole siano espressive della vita nuova che ha investito e trasformato dall'interno la nostra esistenza personale; ma è esattamente il motivo per cui ci riconosciamo come coinvolti nella partecipazione a un'ecclesìa, a una chiesa, e come depositari di un Evangelo che testimonia la signoria di Cristo, il Figlio di cui Dio si è compiaciuto, e che è fondamento di una riconciliazione cosmica.
Quando? Come “un ladro di notte” e come “le doglie del parto”
Cap.5, vv. 1-3
Diamo uno sguardo al capitolo seguente: Paolo ritorna a considerare il tempo, il momento di quell'appuntamento con la parusia del Signore che nessuno può determinare ricorrendo a un calendario particolare, anche se Paolo ha appena affermato “spero di esserci anch'io per l'occasione, di essere ancora vivo”. Allora (v.1) dice: “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva”. Lo sappiamo già: in nessun modo c'è una data stabilita (tra un mese, tra un anno, d'estate, d'inverno, di notte, di giorno). Paolo sta quindi dicendo: quanto al giorno e all’ora nessuno è informato; al riguardo di questo non c'è da discutere, non avete bisogno che ve ne scriva. “Infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore” (v.2). Forse si potrebbe togliere l'articolo determinativo “il”, perché in greco non c'è, così verrà “un” giorno del Signore. Abbiamo già incontrato questa espressione e la ritroviamo qui. Ribadita la convinzione a riguardo della quale nessuno obietta circa l'impossibilità di stabilire una data, per Paolo è invece importante qualificare l'atteggiamento che coloro che hanno accolto l’Evangelo hanno assunto mentre si sta consumando questo tempo, il nostro tempo, questo tempo intermedio, il tempo dell'attesa, il tempo dell'urgenza, il tempo dello slancio, il tempo del fervore; mentre questo tempo ci proietta verso quel giorno senza data, come vivere in questo tempo?
Qui adesso si intravede un'altra questione: se quello che conta è l’incontro finale con il Signore nel suo giorno, poco importa darsi pensiero di quello che avviene adesso e di quello che è il nostro coinvolgimento nelle vicende del momento attuale. Tale atteggiamento si è ripresentato in altri contesti nella storia della evangelizzazione iniziale e successiva, attraverso i secoli, con diverse testimonianze. Quindi, quale deve essere il nostro modo di stare al mondo qui, adesso? Paolo riprende un’immagine che noi ritroviamo nella letteratura evangelica ed anche nell'Apocalisse: nel giorno del Suo ritorno, “il Signore verrà come un ladro di notte”. È incerta la data, incerto è l'orario, ma è certo che viene come un ladro di notte. Che vuol dire: sappiamo che il ladro viene, sappiamo, come abbiamo colto poco prima dalle parole di Paolo, che la venuta del giorno non è un'ipotesi lasciata nel vago, ma è una meta urgentemente attesa, come un ladro che certamente viene. E il ladro certamente non ci manda a dire quando viene. Se è un ladro, stabilisce lui quando è opportuno secondo i suoi criteri. Attenderlo significa, per dirla adesso in maniera molto essenziale, desiderare che venga prima possibile, al più presto, non potendo studiare quale sarà il momento. Viene di notte, quando normalmente bisogna dormire, riposare, starsene tranquilli. Ma se il ladro viene di notte, come attenderlo? L’attesa è urgente, perché certamente viene! Ma quando? Non lo so. Allora desidero che venga il prima possibile. Paolo sta dicendo: questo nostro è il tempo del desiderio che anima, orienta, sostiene; che struttura dall'interno il nostro modo di stare al mondo.
Ancora una volta qui le parole di Paolo, nella loro semplicità catechetica, colgono elementi essenziali della nostra vita cristiana, rispetto alla quale noi siamo spesso molto lontani, pesanti, farraginosi. Semmai, che venga più tardi possibile. Qui è esattamente l'opposto: che venga al più presto, questo è il tempo del desiderio. Insiste (v.3): “E quando si dirà: «Pace e sicurezza»”. Questo è un messaggio che è stato proclamato dai falsi profeti in diversi momenti della storia del popolo di Dio. Quelli dicevano “pace e sicurezza”, invece Geremia, e poi anche Ezechiele dicono: ma no, altro che “pace e sicurezza”, qui stiamo precipitando. I falsi profeti cercano di tranquillizzare gli animi: ma non ci pensate, con un colpo di genio il Signore troverà la soluzione favorevole alla nostra generazione. Invece il povero profeta, nella sua autenticità, ci fa quasi sempre la figura del profeta di sventure.
Poi continua (v.3): “Quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta; e nessuno scamperà”.
L'unica certezza è che viene, mentre invece c'è qualcuno che vuole proporci, garantirci la certezza che possiamo stare tranquilli. Pace sicurezza: questo messaggio conduce direttamente alla rovina. Notate però che la rovina non è la perdizione nella sua realtà irreparabile, come forse l’immaginiamo noi, perché quando Paolo parla di rovina dice “le doglie di una donna incinta”, cioè la comparsa di un dolore improvviso, ma un dolore che avrà le caratteristiche di quello che è il preludio di un parto! Allora quella rovina a cui inevitabilmente andranno incontro coloro che si aggrappano a garanzie di gratificante sicurezza (uno dei temi dominanti della nostra cultura contemporanea, la sicurezza) è un annuncio delle doglie del parto. Quella sicurezza si è configurata come la rinuncia ad attendere il ladro, ma il ladro viene. E quando è venuto, la casa è stata saccheggiata, ma una nuova creazione si è instaurata. Ma intanto noi siamo quelli che attendono il ladro e attendere il ladro significa desiderare che venga il prima possibile. Desiderare che venga lui in quella prospettiva in cui ormai non ci sono più illusioni circa vie di scampo per qualcuno. Qualcuno ce la fa a tirarsi fuori dalla mischia, qualcuno ce la fa a isolarsi in quarantena da qualche parte, qualcuno ce la fa a evitare il contagio, qualcuno ce la farà mettendosi in uno scafandro: abbiamo risolto così il dramma della nostra vocazione alla vita. Ma Paolo dice: questa presunta sicurezza è il modo di sprofondare in quella rovina; è il modo di ritrovarsi dentro a uno sconquasso generale, di cui è protagonista il ladro che saccheggia, che si impossessa della casa, che instaura il suo dominio sul mondo, che fa nuovo il mondo, una nuova creazione! Intanto noi siamo quelli che attendono il ladro, non siamo quelli che annunciano pace e sicurezza. E Paolo sta dicendo qualcosa che è sempre permanentemente attuale nella storia dell'evangelizzazione, della vita cristiana, nella missione della Chiesa.
Vigilanti nell’attesa della venuta del Signore
vv. 4-6
E adesso insiste (v.4) “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre”. Ecco, voi non siete nelle tenebre perché, dice espressamente, voi siete quelli che nel battesimo già sono generati per la vita nuova, per la vita che non muore. “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: (v.5) voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno”. Il giorno del Signore è il giorno rispetto al quale noi siamo già figli, siamo già generati in rapporto a quel giorno e quindi siamo già coloro che vivono nella luce, per cui il ladro viene di notte, ma ormai la notte splende come giorno, splende nella luce intramontabile per coloro che hanno accolto l’Evangelo.
Voi siete i figli di quel giorno. Quel giorno non è per voi una minaccia che incombe, un'ombra che ci assedia, l'ipotesi malaugurata di alcuni profeti di sventura che vorrebbero punirci: quel giorno è il riferimento in base al quale noi stiamo scoprendo come siamo stati generati per la vita che non muore più. E siamo nella luce, viviamo nella luce. È la luce della nuova creazione di cui noi stiamo imparando a interpretare gli elementi, le componenti, le strutture e la gratuità. E allora (v.5) dice: “voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. (v.6) Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri”. Condizione di veglia, perché di notte è bene dormire, ma siccome noi siamo sempre di giorno e allora vegliare significa non essere preda di quell’assopimento che adesso subito viene messo in relazione con l’ebrezza, l’ubriachezza.
Rivestiti con la corazza della fede, della speranza e della carità
vv. 7-10
“Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte” (v7). Qui abbiamo a che fare con una condizione di veglia invece che di assopimento nella luce; è una condizione di sobrietà invece che di ubriachezza, perché sono gli ubriachi che dormono e che sono come coloro che si muovono all'interno di un mondo che è privo di luce, buio, opaco, pesante, segnato da allucinazioni di varia natura, ed è anche il luogo di una irruenza che è propria di chi nell'alcool esplode e poi ci si adagia in una forma di riposo scomposto e patologico. Ed ecco, tutto questo per Paolo ci rimanda a coloro che dicono “pace e sicurezza”: è un’ubriachezza, una patologia, una cecità rispetto alla luce, un modo di impostare la vita confuso e ossessivo senza lucidità, senza limpidezza, senza discernimento per quanto riguarda la gratuità degli eventi nei quali siamo coinvolti. E allora ecco (v.7): “quelli che dormono infatti dormono di notte, quelli che si ubriacano sono ubriachi di notte. (v.8) Noi invece, che siamo del giorno”. Per Paolo questo non significa esprimersi alla maniera di un presuntuoso: noi siamo del giorno e non ci interessa degli altri. Vuole intendere: siamo del giorno, della luce e vediamo il mondo nella luce, e nella luce vediamo anche gli ubriachi, quelli che dormono, che brancolano ciechi e nel buio. Noi siamo nella luce e siamo del giorno e (v.8) “siamo sobri, rivestiti con la corazza della fede”.
Qui adesso si adopera un’immagine tratta dal profeta Isaia nel cap. 59, l’immagine che serve a raffigurare in maniera plastica la vita teologale, la vita di fede, di carità e di speranza, la vita nuova di cui Paolo ci parlava all'inizio, nelle primissime righe del cap. 1. Noi siamo del giorno e la nostra sobrietà si contrappone all'ubriachezza, è lucidità nel discernimento della luce e nella luce che ci permette di vedere tutto nel proprio posto e di recuperare anche le realtà più inquinate e corrotte all'interno di questa coloritura del creato che assume dignità, splendore, verità, caratteristiche del tutto nuove in rapporto alla luce della parusia.
E dunque qui (v.8) dice: “siamo sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza”. Sono gli elementi di un'armatura: la corazza e il pettorale, fede e carità, il modo di sostenere l’impatto con la realtà che ci circonda con anche le difficoltà e le contrarietà, le ostilità che non mancano mai in questo impatto. L’elemento più prestigioso dell’armatura è l’elmo della speranza. Qui la speranza è la speranza nella salvezza come sintesi di tutta la novità che Dio ci ha rivelato come dimostrazione efficace della sua eterna volontà d’amore. E dunque, questa è la nostra posizione: nella fede, nella carità e nella speranza. Questa sobrietà non è l'attenzione a non consumare troppa acqua quando si apre il rubinetto (che pure è importante), ma è un discernimento in grado di contemplare la luce che dà fisionomia, contorni, coloritura sempre preziosa a tutte quelle realtà che altrimenti sembrerebbero avvolte dalle ombre di una notte disperata.
E allora eccoci qua: fede, carità, speranza. (v.9): “poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo”. “Il Signore nostro Gesù Cristo, il Kyrios”: tale espressione, già incontrata all'inizio della nostra lettera nel v. 3, vuole indicare la relazione con lui per cui possiamo rivolgerci a Dio chiamandolo Padre nostro. Quindi si apre per noi la strada della conversione alla vita, del ritorno alla soglia della vita, a quel disegno originario, quella intenzione d'amore che è il segreto di Dio che adesso è rivelato, è uno svelamento apocalittico nel quale noi siamo introdotti come testimoni perché abbiamo accolto l’Evangelo, ma la novità riguarda l'attuazione di una opera di salvezza che ha un'efficacia definitiva e universale, perché il Signore nostro Gesù Cristo (v.10) “è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”.
Adesso ci rendiamo conto che, sia che vegliamo sia che dormiamo, cioè sia che siamo ancora vivi o che già siamo morti (quanti sono morti nel corso di questi secoli?) noi viviamo insieme con Lui. Ormai siamo in grado di testimoniare il valore di una vocazione alla vita che abbatte in sé la barriera tra i vivi e i morti. Nel nostro essere discepoli del Signore Gesù Cristo che per noi è morto ed è risorto, nel nostro essere battezzati in Lui con potenza di Spirito Santo, ormai siamo in grado di respirare nel cammino della nostra esistenza umana come coloro che non sono più condizionati dalla barriera che separa i vivi dai morti.
D'altronde, questo è il linguaggio della Chiesa che comunemente parla dei nostri defunti come presenze che sono direttamente coinvolte nella relazione con noi che ancora arranchiamo, ci trasciniamo, siamo condizionati dai dati empirici del nostro vissuto attuale; eppure noi siamo partecipi di un rapporto di comunione che supera la barriera della morte in Cristo, perché apparteniamo al Signore Nostro Gesù Cristo.
Quella voce della Chiesa quando si prende congedo da qualcuno che affronta il varco finale è dunque il saluto e in certo modo un avvio, una missione: “parti anima cristiana!” Ed ecco, quando quel tale che così è stato salutato, incoraggiato a partire (“Venite angeli del cielo!), la Chiesa si pone, nel contesto di quella cerniera, tra la vita e la morte, esercitando un potere, non in nome proprio, ma in nome di Nostro Signore Gesù Cristo. “Parti, muori!” viene detto, in maniera che sembrerebbe brutale, perché la morte obbedisce. “Venite angeli del cielo! Parti!” I due imperativi che nel linguaggio liturgico della Chiesa stringono la morte in obbedienza alla signoria di Cristo ed è l'esercizio supremo della missione affidata alla Chiesa al seguito degli angeli.
Consolazione vicendevole di appartenere a Lui solo
v.11
E quindi sia che dormiamo sia che vegliamo (v.11): “confortatevi a vicenda (ritorna quella raccomandazione alla consolazione vicendevole) edificandovi gli uni gli altri, come già fate”.
Ecco di nuovo quella consolazione che dobbiamo scambiarci in questo tempo dove non ci mancano le fatiche da affrontare, le difficoltà e tutti gli strappi che ci addolorano, ci amareggiano. Una solidarietà che ci conferma nell'appartenenza a una pienezza che qui viene sintetizzata con un'espressione che la nostra traduzione non riesce a recuperare in tutto il suo valore.
Infatti, quando leggiamo “edificandovi gli uni gli altri”, l'originale greco è “oikodomeite eis ton ena”, letteralmente, “edificatevi in rapporto all'unico”, cioè in rapporto all'appartenenza all'unico Signore. Il motivo della consolazione non è “non pensiamoci più, ormai è passato, adesso teniamoci in piedi per quelli che siamo rimasti”.
“In vista dell'uno, dell'unico”: è un'espressione che sembra come scomparire per la sua brevità, in un testo che ci ha messo piuttosto intensamente sotto pressione; invece val la pena di tenerne conto. Vuole dire: noi siamo in grado di confortarci tra di noi per questo, perché sarà lo strappo che ci fa soffrire ancora una volta per qualcuno che muore tra di noi e per come quella morte non è un’istanza che possiamo emarginare, escludere come se non ci riguardasse: è tutto quel che conferma l’appartenenza all'unico Signore, e a questa appartenenza a Lui anche la morte obbedisce. Quelli di Tessalonica erano angustiati, intristiti perché qualcuno era morto nel frattempo. Paolo li ha consolati.