07 gennaio 2020
Terzo incontro del ciclo 2019-2020
Dedicheremo ancora al testo della Prima lettera ai Tessalonicesi quest'incontro, che ci consentirà di completare la lettura della prima parte della lettera, costituita dai primi tre capitoli. Questa prima parte della lettera è caratterizzata da una intonazione eucaristica: Paolo ringrazia. Sappiamo che il testo della Prima lettera ai Tessalonicesi è lo scritto più antico tra tutti quelli che compongono il Nuovo Testamento. Prima di questo scritto, forse lo stesso Paolo ha già avuto modo di scrivere altri biglietti, in altri momenti, rivolgendosi all'una e l'altra chiesa. Fatto sta che, per quanto riguarda la letteratura neotestamentaria, questo testo ha il valore certamente di una soglia di accesso che ci commuove e ci entusiasma; per certi versi ci richiama a un’attenzione particolare. L'accesso a tutta la letteratura neotestamentaria certamente assume un valore programmatico di grande rilievo: la Prima lettera ai Tessalonicesi si apre con un ringraziamento che Paolo indirizza a Dio per il fatto che a Tessalonica ci sono coloro che hanno accolto l'Evangelo che ancora resistono, che ci sono dei cristiani nel mondo (sappiamo bene che Paolo non usa questa terminologia). Paolo scrive in un momento di difficoltà, di amarezza, di particolare urgenza nella sua attività missionaria, mentre è in atto il secondo grande viaggio di cui parla Luca negli Atti degli Apostoli. É entrato in Europa, a Filippi, Tessalonica, Atene ed ora è a Corinto da dove scrive per ringraziare, in base a quello che ci riferisce a partire dal v. 17 del cap. 2. A Tessalonica ci sono coloro che hanno accolto l’Evangelo e Paolo è preso da una vibrazione che percepiamo immediatamente nel contatto con le righe di questo scritto, una vibrazione interiore che si traduce nella urgente necessità di ringraziare Dio e d'altra parte sottolinea, rimarca in termini emotivi, la necessità pastorale di elaborare un linguaggio che consenta a lui di comunicare in maniera comprensibile e adeguata con persone molto diverse rispetto a sé, e di precisare quale sia la nota caratteristica di questa vita nuova di cui Paolo constata l'esperienza. Quei tali a Tessalonica, a loro volta, hanno ricevuto un messaggio che li ha messi in discussione, che ha determinato una ristrutturazione del loro vissuto. Paolo sintetizza questa novità facendo uso molto appropriato di un termine che acquista a questo riguardo un valore programmatico: l’Evangelo, che entra nella vita degli uomini, che interferisce con lo svolgimento della storia umana, che irrompe come potenza rivelatrice di un'iniziativa gratuita di Dio, in maniera tale da determinare tutto un nuovo impianto nel modo di impostare l'esistenza umana e quindi tutte le relazioni, tutti i percorsi del vissuto, a diversi livelli di quella apertura alle relazioni che costituisce il quadro all'interno del quale si svolge la vocazione alla vita. Tutto è trasformato, ma come esplicitare, elaborare un linguaggio che consenta a Paolo (e ad altri interlocutori a cui si rivolge e rispetto ai quali Paolo non soltanto è in posizione magistrale, di colui che parla, ma anche in posizione di ascolto, come colui che tenta di interpretare l’eco, la risonanza della novità che opera nella vita altrui, l’Evangelo) di interpretare dove sta e come si esprime la novità della vita umana che si viene configurando in continuità con l'Evangelo accolto, Evangelo che sarà ulteriormente trasmesso? Questa preoccupazione tipicamente teologica, catechetica, pastorale di Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi trova una sua primaria formulazione che contribuisce ulteriormente a conferire a questo scritto un particolare prestigio.
In realtà si tratta di un piccolo scritto, solo cinque capitoli, ma la ricerca teologica di Paolo affiora qui, in queste poche pagine, in tutta la sua originalità, in tutta la sua fecondità e genialità, perché prima di Paolo non ci sono altri interpreti che abbiano avuto modo di esprimere, in maniera così precisa e penetrante, i dati che danno forma alla esistenza umana che si viene trasformando, convertendo, ristrutturando in obbedienza all’Evangelo. E per Evangelo non si intende semplicemente un messaggio con contenuti dottrinari che devono essere più o meno luminosamente illustrati. Evangelo, per Paolo, è quella novità che fa tutt'uno con un modo nuovo di stare al mondo, di cui è stato interprete in prima persona quando si è presentato a Tessalonica. Che cosa è successo quando Paolo si è presentato? Quali caratteristiche ha avuto quel suo modo d'essere presente, di aprirsi alle relazioni, di inserirsi nel contatto con un ambiente nuovo, con gente sconosciuta (non bisogna mai dimenticare che Paolo è un giudeo e a Tessalonica ha a che fare con altri giudei di una piccola sinagoga che rapidamente considera Paolo un disturbatore che deve essere messo alle strette, tenuto a distanza e possibilmente espulso), con gente che proviene da una cultura, una mentalità pagana, e comunque è gente che ha accolto l’Evangelo? Che cosa è avvenuto nella relazione tra Paolo e costoro? Ricordate come Paolo parlava di quel suo modo di intrattenere relazioni di disponibilità all'accoglienza, alla gratuità nella condivisione di un cammino di ricerca. Paolo ha rievocato il suo modo di essere presente e operante a Tessalonica attraverso due riferimenti che sono comprensibilissimi nel linguaggio comune della nostra esistenza umana: la maternità e la paternità. Paolo si definisce come “una madre” e come “un padre” in mezzo a loro, non semplicemente per rievocare schemi di vita domestica, relazioni familiari, ma perché in quel modo di essere madre, di essere padre è la novità che è ha coinvolto coloro che hanno avuto a che fare con Paolo in una misteriosa relazione con il mistero del Dio vivente, quel mistero che si è presentato nella storia umana attraverso la missione affidata al figlio di cui Dio si è compiaciuto, al figlio che è disceso, è risalito e che ora è il Signore, il Kyrios. É la novità che ha permesso di entrare in relazione con il Kyrios in una modalità di familiarità, di intimità, di parentela, di entrare nella famiglia di Dio attraverso questo vincolo misterioso di comunione vitale con Gesù, il Signore nostro Gesù che è morto, che ha vinto la morte ed è intronizzato nella gloria, che viene da Dio, appartiene a Dio, ed è il Kyrios, il Signore.
Adesso leggiamo la terza sezione della prima parte, fino a tutto il cap. 3. Nella prima sezione, cap. primo fino al v. 10, Paolo ha ringraziato Dio perché ci sono ancora quelli di Tessalonica: “Siamo io e voi davanti a Dio Padre nostro”. Nella seconda sezione, dall’inizio del cap. 2 fino al v. 16, Paolo rievoca che cosa è avvenuto dal momento che si è presentato a Tessalonica, assumendo atteggiamenti che meritano un’attenzione particolare in riferimento a quella novità in cui quelli di Tessalonica sono stati coinvolti in quanto hanno accolto l’Evangelo, in questa misteriosa relazione con la Signoria di Gesù. L'aver accolto l'Evangelo li ha resi capaci di rivolgersi a Dio, di presentarsi a lui, di entrare al cospetto dell'infinito mistero di Dio e rivolgendosi a Lui con l'intima consapevolezza di essere ormai partecipi di una familiarità irrevocabile, di poter dire: “É il Padre nostro!” Noi lo sappiamo che i cristiani sono quelli che dicono “Padre nostro”, ma lo sappiamo dando per scontato un’evidenza che per noi non ha bisogno di ulteriori commenti, dimostrazioni, precisazioni. Qui è tutto nuovo: quelli di Tessalonica e Paolo, un giudeo di fronte a gente facente parte di una piccola realtà comunitaria e proveniente dal paganesimo. “Padre nostro”: siamo partecipi di un'unica famiglia, che vive in virtù di relazioni di intimità, di un affidamento vicendevole, di una responsabilità reciproca, e in rapporto a Dio Padre nostro. Terza sezione, dal v. 17: Paolo ritorna agli avvenimenti che ebbero luogo dal momento in cui dovette allontanarsi da Tessalonica. Stando al racconto di Luca negli Atti degli Apostoli nel cap. 17, quella partenza fu accelerata in maniera piuttosto rocambolesca perché i giudei della piccola sinagoga di Tessalonica ritengono la presenza di Paolo preoccupante, motivo di disturbo. Hanno fatto di tutto per denunciarlo, ma poi sono ricorsi a maniere molto spicce: hanno prezzolato personaggi di malaffare che stazionano sulla piazza della città per aggredirlo. In realtà non riescono a trovare Paolo nella casa in cui dimora e se la prendono invece con l'amico che lo ha ospitato in casa sua, un certo Giasone, e gli altri che sono vicini a Paolo in quella occasione subito gli suggeriscono, quasi gli impongono, di allontanarsi rapidamente. Continua sulla Via Egnazia, una delle grandi strade dell'Impero, in direzione di Durazzo, si ferma a Berea dove, anche lì, viene inseguito dalle contestazioni di quei giudei che anche a distanza di qualche chilometro vogliono far di tutto per cancellare la presenza di Paolo. Allora rapidamente si trasferisce a sud, ad Atene. Poi da Atene, dopo un'esperienza drammatica nel contesto di quel centro universitario che è diventata questa città (non è più l’Atene del tempo classico, ma è comunque un centro universitario di notevole prestigio nel mondo ellenistico), in cui Paolo vive un contatto molto deludente con i personaggi di quell'ambiente, se ne va con la coda tra le gambe. Si trova adesso a Corinto dove scriverà la lettera. Ma che cosa è avvenuto prima di scrivere la lettera?
Un distacco doloroso. La tentazione diabolica di dividere e di cancellare gli affetti. La speranza di conservare la comunione fraterna.
Cap. 2, vv 17-20
Paolo ce ne parla adesso nel v. 17: “Quanto a noi, fratelli”. Paolo si rivolge a quelli di Tessalonica che quasi tutti provengono dal paganesimo. “Fratelli” non è un’espressione puramente decorativa, teatrale o semplicemente adeguata al linguaggio di chi predica dal pulpito. Fatto sta che, “dopo poco tempo che eravamo separati da voi, di persona ma non con il cuore, eravamo nell'impazienza di rivedere il vostro volto tanto il nostro desiderio era vivo”. Paolo esprime lo struggimento che ha segnato il suo animo dopo quella partenza accelerata da Tessalonica, che poi determina la frattura del contatto con quella piccola comunità appena nata, che forse sta crescendo, ma Paolo per diversi mesi non ne sa più niente. “Il desiderio di rivedervi”: questa relazione diretta, interpersonale, tra Paolo e quelli di Tessalonica ancora una volta viene qui rievocata nel suo valore affettivo, primario, qualcosa cui già abbiamo accennato a proposito del testo che precedeva. Adesso dice: “Io ho un grande desiderio di rivedervi”. Notate che qui Paolo parla di una frattura avvenuta in quell'occasione e ci tiene a precisare “di persona, ma non con il cuore”, dove il termine greco per persona, prósōpon, tradotto nella mia Bibbia con “volto”, è lo stesso che ricompare immediatamente dopo (“il desiderio di rivedere il vostro volto”), per far intendere una distanza misurata nella geografia dei luoghi “ma non con il cuore”. Il cuore di Paolo ha continuato a custodire in sé la certezza di un vincolo di comunione, intenso, profondo, irrevocabile, eppure si è separati fisicamente e questa separazione per Paolo è stata estremamente dolorosa. Oltretutto notate che qui dove dice “ci eravamo separati da voi”, Paolo parla di uno stato di “orfanità” (in greco “aporphanisthentes”), vuole dire cioè che, nel momento in cui si è trovato a percorrere quella strada che lo ha allontanato da Tessalonica e dai discepoli che sono rimasti in quella città, si è considerato come un orfano. Un’affermazione che ribalta quei criteri interpretativi della relazione tra Paolo e quelli di Tessalonica su cui insisteva la pagina precedente, quando Paolo diceva di essere come una madre, come un padre nei loro confronti. Adesso invece si definisce come un orfano nei loro confronti. La prospettiva è ribaltata. Sta dicendo: mi son trovato a percorrere quelle strade che fisicamente mi allontanavano da voi come un orfano che ha perso il contatto con la famiglia. É uno strappo che compromette gli equilibri fondamentali della vita e comunque è una situazione che Paolo ha vissuto come temporanea, come se non potesse in alcun modo interpretare quel distacco avvenuto come un evento definitivo. In realtà, lo svolgimento dei fatti in seguito dimostrerà che quel distacco non è stato definitivo, ma fisicamente l'allontanamento di Paolo ha determinato una impossibilità di incontrarsi, di confrontarsi, di comunicare, e quindi il desiderio vivissimo di rivedere anche il loro volto, quando in realtà c'era modo soltanto di custodire nel cuore la memoria di volti lasciati a Tessalonica, che induceva nell'animo di Paolo l'esperienza di una lacerazione inconsolabile. Bisogna riflettere per qualche momento su questo desiderio di Paolo di rivedere i volti che custodiva nel cuore, leggendo ancora i versetti che seguono: è il desiderio di ristabilire un contatto diretto, un modo di rispecchiare il proprio volto nel loro volto e viceversa, di offrire la propria presenza come riferimento per far loro assumere una consapevolezza sempre più matura della loro identità. Paolo non si accontenta della memoria custodita nel cuore, si ritiene veramente segnato da una ferita nell'animo, proprio là nel cuore dove custodire la memoria significa allo stesso tempo patire il dolore di una separazione, in quel cuore che cerca nella relazione con la visibilità dei volti, che è poi la presenza fisica delle persone, il modo per superare il dramma della frattura e recuperare il valore prezioso di una comunione vitale. Comunione che rimane attraverso il cuore, ma un cuore ferito, e la ferita patita nel cuore per Paolo ha il valore di un richiamo struggente in vista di una auspicata nuova possibilità di incontro diretto, che per lui in quell'occasione era soltanto ipotetica. E Paolo ha messo in atto dei tentativi per ritornare a Tessalonica. Ne parla subito qui: “Il nostro desiderio era vivissimo, perciò io Paolo più di una volta ho desiderato di venire da voi”. Dunque, Paolo ha fatto dei tentativi per ritornare a Tessalonica, “ma satana ce lo ha impedito”. Un impedimento satanico. Sono diversi i testi dell'Antico Testamento che potremmo citare a questo riguardo: c'è il testo nel Libro dei Numeri, cap. 22, che si riferisce all'indovino Balam, che ha a che fare con un impedimento nel cammino che deve affrontare e c'è di mezzo un'asina che avverte l'ostacolo che si para dinanzi all'indovino che la sta cavalcando; l’asina percepisce la potenza dell'impedimento satanico che trattiene quel personaggio dal compiere la sua missione. Abbiamo a che fare con il nemico della comunione. Satana è l'accusatore per antonomasia, è colui che vuole dimostrare come i criteri che danno forma a una vita che si apre a relazioni gratuite sono criteri fallaci, per cui la comunione è impraticabile, la vita deve essere ricondotta alle misure di una autonomia che deve difendersi e imporsi nella sua singolarità. Ipotesi di comunione sono ipotesi pericolose che devono essere senz'altro escluse. Il satana, il diábolos come si dice pure altrove, è espressamente “il divisore”, colui che separa, per cui Paolo dice qui che “Satana ce lo ha impedito”. Un impedimento che Paolo ha sperimentato come la tentazione per eccellenza. Un ostacolo che, in base a quello che leggevamo immediatamente prima, assume la minaccia di una dimostrazione incontestabile; l'allontanamento è tale non solo da essere registrato fisicamente, geograficamente, volto da volto, ma è un allontanamento che deve essere assunto come una necessità anche nel cuore, quando invece nel cuore, diceva Paolo, “io continuavo a struggermi nel desiderio di rivedervi”. É certamente uno struggimento doloroso, è lacrime, è un cuore ferito, un animo lacerato. Ed ecco la tentazione: prendere atto di come quella separazione non è soltanto un episodio o un fenomeno empirico che non intacca il valore interiore di un legame affettivo che è ormai solido e irrevocabile, ma esattamente è questo valore interiore che viene progressivamente minacciato, eroso, cancellato e finalmente rimosso. Paolo ha avvertito questa tentazione: l’avversario tenta di dimostrare che la comunione, quella comunione di vita che è stata sperimentata nel contesto della prima evangelizzazione da Paolo a Tessalonica e ai Tessalonicesi nei suoi confronti, ormai è giunta all'esaurimento delle sue potenzialità di comunicazione. Il desiderio che Paolo ha conservato per qualche tempo nel cuore è nient'altro che un residuo destinato a scomparire come polvere nel vento dal momento che il contatto visibile, volto a volto, ormai risulta impraticabile. E questa impossibilità di ristabilire un nuovo contatto, minacciosa invadenza di un influsso negativo che isterilisce gli affetti, che cancella i sentimenti, che abolisce quella sapienza della comunione nella gratuità della vita nuova che il cuore invece ancora custodiva, è opera di Satana.
E allora Paolo prosegue e dice: “Chi infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia, la corona di cui ci possiamo vantare, davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta? Siete voi la nostra gloria e la nostra gioia”. Attenzione a questo linguaggio di Paolo che rievoca quel momento drammatico di quella fase del suo cammino, la minaccia della tentazione a cui egli è stato esposto. É una tentazione che mira a provocare il dissesto interiore di quella novità che l’Evangelo ha generato nel cuore, di quella capacità di comunione nella gratuità di una vita che apre alla relazione con il Dio vivente, di quella comunione che, esplicitatasi nelle forme di un contatto diretto, interpersonale, comunitario, con coinvolgimento sociale, è sacramento dell'appartenenza al mistero di Dio, al grembo della vita nell'intimo di Dio. Ebbene, questo desiderio di rivedere il volto di quei tali che sono rimasti a Tessalonica, Paolo adesso qui lo rievoca come una istanza che ha continuato ad animarlo anche in presenza della tentazione e proprio in contraddizione con l'impedimento satanico. Leggiamo il v. 19, “Come potrei io presentarmi davanti al Signore nostro Gesù?” Cioè, come potrei presentarmi davanti al Signore nostro Gesù nella sua parusìa, nell'incontro con il volto glorioso del Signore Gesù che ritorna nella sua gloria, senza quella identità mia, che si esprime attraverso la visibilità di un volto, il mio, che è un volto specchiato nel vostro, senza essere in grado di porgere un volto che sia espressione di una corrispondenza di vita, di una comunione di vita, nell'intimo del cuore, ma nella concretezza di una storia comune, di un'appartenenza familiare, irrevocabile, con voi? Queste poche righe sono dotate di una potenza teologica straordinaria. Per Paolo, nella prima fase della sua attività pastorale, missionaria, il ritorno del Signore è considerato come un evento prossimo, che forse si verificherà in questa generazione, come dirà lui stesso altrove. Paolo si chiede: come posso presentarmi a lui se non sono in grado di immergere lo sguardo del mio volto nell'epifania gloriosa che proviene dal volto del Signore nella sua parusìa? Ma questa immersione del mio volto, nella comunione con il suo, passa attraverso la vostra presenza, passa attraverso di voi. L’evento della comunione per Paolo è sacramento escatologico per antonomasia. Non si tratta di rievocare la solidarietà, la vicinanza e il compiacimento di quel particolare circuito di relazioni nuove che per pochi giorni, però in modo intenso, Paolo e gli altri di Tessalonica hanno sperimentato, e dunque il rammarico per aver perduto quel contatto umano. Piuttosto, la qualità di nuove relazioni affettive, l'intensità evangelica di questa comunione nell'appartenenza vicendevole sono il principio di una risposta all'incontro con il Signore glorioso. É quello che poi leggiamo nei vangeli, nel vangelo secondo Matteo in un contesto redazionale molto più avanzato. Quando nel vangelo secondo Matteo, cap. 25, colui che viene nella sua gloria, dice: hai visto? Quello che era affamato, quello che era assetato, quello che era nudo, quello ero Io! Dove l’autenticità della relazione d'amore nella gratuità più semplice, più spicciola, più capillare, ma più continua, più strutturale nella vita nuova, questa relazione d'amore nella gratuità con i piccoli, con le creature di Dio, è il percorso che conduce direttamente all'incontro con il Signore che ritorna nella sua gloria. É un sacramento escatologico, la comunione che riconosce il valore gratuito della presenza altrui, è un percorso aperto, è l'unico percorso adeguato in vista dell'incontro con il Signore che ritorna nella sua gloria. Come potrei presentarmi a lui che ritorna per la sua parusìa? Siete voi la nostra gloria, la nostra gioia! E quindi Paolo qui sta rievocando quel momento drammatico della sua vicenda, quando la separazione da quelli di Tessalonica sembrava una necessità insormontabile. E d'altra parte, l'intensità dell'attesa in vista del ritorno glorioso con il Signore per Paolo ha fatto e continua a fare tutt'uno con l'intensità di un rapporto d'amore, di un vincolo di comunione che rimane indissolubile, quale che sia la distanza; non c'è tentazione satanica che possa convincerlo circa l'evidenza che la distanza di fatto impone. Anche la rinuncia nell'intimo del cuore sarebbe come rinunciare a procedere nel viaggio per eccellenza, e rinunciare all'urgenza accelerata di quello che nella vita nuova è il desiderio di accogliere la venuta gloriosa del Signore.
Paolo manda Timoteo: è stata vana la nostra fatica?
Cap. 3, vv. 1-5
Quindi Paolo si trova ora a Corinto. Luca ci parla di quel frangente nel cap. 18 negli Atti degli Apostoli, specificando che Paolo ha dovuto rimettersi a lavorare manualmente, condividendo l'abitazione e il lavoro con due profughi, Aquila e Priscilla, fabbricatori di stuoie, tende, tappeti, che sono stati espulsi da Roma in seguito all'editto di Claudio imperatore, e frequenta la sinagoga della città. Scrivendo in quel contesto di miseria oggettiva (l'ambiente frequentato da Paolo a Corinto nel primo periodo è quello dei profughi), nel v.1 dice: “Per questo, non potendo più resistere, abbiamo deciso di restare soli ad Atene ed abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci turbare in queste tribolazioni”. Paolo, considerando l'insopportabilità di quella situazione, ed anche il conflitto in atto con il tentatore, decide di restare solo a Corinto inviando Timòteo a Tessalonica. A differenza di Paolo, Timòteo può presentarsi di nuovo a Tessalonica, informarsi e poi stabilire in questo modo anche un contatto, come poi di fatto avvenne. Quello che Paolo sta dicendo adesso ha il significato di una decisiva presa di posizione da parte sua rispetto alla tentazione di cui ci parlava precedentemente: una solitudine d'amore. Il tentatore vuole separare, dividere, isolare. Ebbene, la solitudine, che Paolo adesso sperimenta ad Atene, è vissuta da lui come radicale, irrevocabile testimonianza di una volontà d'amore che lo lega a quelli di Tessalonica. Resta solo per amore! É uno sgambetto al tentatore, un modo per sconfiggerlo.
Proseguendo nella lettura di questi versetti, troviamo un esplicito richiamo a questa sconfitta del tentatore che vorrebbe imperversare a suo modo. Leggiamo il v.3: “Voi stessi, infatti, sapete che a questo siamo destinati; già quando eravamo tra voi, vi preannunziavamo che avremmo dovuto subire tribolazioni, come in realtà è accaduto e voi ben sapete. Per questo, (v. 5) non potendo più resistere, mandai a prendere notizie sulla vostra fede, per timore che il tentatore vi avesse tentati e così diventasse vana la nostra fatica”. Si avverte il timore di Paolo che la evangelizzazione sia svuotata di valore, di efficacia, e di aver faticato inutilmente. É un tema che ritorna anche altrove nell'epistolario paolino: è mai possibile che sia svuotato il linguaggio mediante il quale Dio si è rivelato a lui (Prima lettera ai Corinzi, capitolo primo)? É il linguaggio della croce! É possibile che sia svuotato, vanificato, banalizzato, zittito il linguaggio mediante il quale Dio si è rivelato a noi? É possibile che la fatica di Dio nel rivelarsi sia stata vana? Proprio per reagire energicamente a un'ipotesi del genere, la scelta di solitudine diventa scelta d'amore. E così il divisore è sconfitto. Laddove vuole dividere, il divisore diventa invece testimone di una relazione d'amore più forte, una più intensa, più fedele. Ma quello che Paolo sta vivendo nel rapporto con i Tessalonicesi è ancora una volta un sacramento rivelativo rispetto a quello che è il mistero di Dio, di cui noi abbiamo ricevuto la rivelazione. La frattura che separa la creatura ribelle dall'iniziativa originaria del Creatore è stata trasformata in rivelazione di un amore più profondo, più radicale, più che mai irrevocabile e vittorioso. E allora ha deciso di rimanere solo. Dice: “io ho dato questo incarico a Timòteo (giovane collaboratore di Paolo, molto devoto e anche molto sapiente) allo scopo di confermarvi ed esortavi nella vostra fede perché nessuno si lasci turbare in queste tribolazioni”. Dunque, Paolo si rende conto che quelli di Tessalonica hanno bisogno di una conferma di quella consolazione che ha accompagnato l'accoglienza dell'Evangelo, il cammino nella vita nuova; fede è termine che in questo caso, come in precedenza, serve a ricapitolare questo nuovo modo di stare al mondo che è consegnato, affidato, depositato in obbedienza all'iniziativa di Dio così gratuitamente giunta fino a quei tali a Tessalonica attraverso la presenza di Paolo. Ed ecco, quella consolazione deve essere confermata. Sono le espressioni fondamentali di quello che poi è l’itinerario dell’iniziazione alla vita cristiana ancora per noi oggi. C'è il tempo del battesimo e il tempo della confermazione, c’è la generazione alla fede e poi c'è la conferma nell'esercizio maturo della carità, del servizio, delle responsabilità proprie di coloro che ormai, con competenza adulta, diventano non solo depositari, ma trasmettitori dell’Evangelo ricevuto. Tra l’altro Paolo qui fa riferimento alla inevitabile esperienza di tribolazioni e di ostacoli, che ovviamente non sono mancati a Tessalonica. Che cosa è successo nel frattempo? Quando invia Timoteo, Paolo ancora non ha informazioni; poi lo stesso Timòteo gli darà notizie adeguate. Quella prima esperienza di cammino nella vita nuova è esposta a rischi, ostacoli, contraddizioni che destabilizzano. “Per confermarvi in modo tale da non essere turbati nelle tribolazioni”. D'altra parte, lo stesso Paolo, nel corso di quelle poche settimane della sua permanenza a Tessalonica, ne aveva dato un preannuncio a quelli che lo avevano ascoltato: “infatti sapete che a questo siamo destinati; già quando eravamo tra voi vi preannunziavamo che avremmo dovuto subire tribolazioni come in realtà è accaduto”. Per quello che è successo a Tessalonica, Paolo riceve notizie successivamente da parte di Timoteo. “Per questo non potendo più resistere”: il testo che stiamo leggendo in questa terza sezione della prima parte si apre con un accenno a quel desiderio struggente di rivedere i volti. Il cuore esige, implora, gemendo, sospirando, piangendo, versando lacrime di sangue, cerca il volto di coloro che sono rimasti dispersi chissà dove. Si tratta in questo caso del rapporto con quelli di Tessalonica, ma è una situazione che Paolo rivive in una dimensione molto più ampia, molto più ecumenica; possiamo ben comprendere che questo è il desiderio che fa tutt'uno con l’attesa autentica, sincera, di ricevere finalmente la parusìa, la presenza gloriosa del Signore che ritorna per instaurare il regno. Ed ecco, questa urgenza affettiva, che ha un valore sacramentale, escatologico, vince il tentatore, dal momento che Paolo decide di restare solo, in una solitudine d’amore! É possibile che la comunione nella chiesa esiga, o offra quantomeno, anche a tutti quanti noi, a ciascuno di noi, percorsi che, in un modo o nell'altro, assumono, o potrebbero assumere, una fisionomia del genere: una solitudine vissuta come radicamento in quella rivelazione d'amore che cambia dall'interno tutto l'impianto delle nostre relazioni interpersonali, ma che ci conferma nell'appartenenza al regno che viene.
Timoteo torna con liete notizie. Esultanza di Paolo
vv. 6-8
Ed ecco come sono andate le cose (dal v. 6). Paolo adesso rievoca, mosso da un'esplosione di entusiasmo, quello che è avvenuto quando Timoteo è ritornato e lo ha informato, che poi è il motivo per cui sta scrivendo: “Ma ora che è tornato Timoteo, e ci ha portato il lieto annunzio della vostra fede, della vostra carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi, desiderosi di vederci come noi lo siamo di vedere voi, ci sentiamo consolati”. Timoteo è tornato, informando Paolo che quelli di Tessalonica ci sono ancora, e anzi: “la vostra fede e la vostra carità e il ricordo che avete di noi come noi siamo così desiderosi di vedere voi”. Questo complesso di notizie che Timoteo riferisce a Paolo qui viene sintetizzato usando ancora una volta il termine che è dotato di una pregnanza teologica e pastorale poderosa: il lieto annunzio, cioè l’Evangelo, che Timòteo ci ha portato della vostra fede. Paolo, che è evangelizzatore, è colui che adesso riceve l'Evangelo tramite Timòteo da parte di quelli di Tessalonica che sono ancora coerenti con la loro fede, quella che hanno assunto all'inizio del cammino, e con l'esercizio di quella carità che dimostra come sia avvenuta una ristrutturazione del loro vissuto che li apre a relazioni nuove nella gratuità dell'amore. Ed ecco il lieto annunzio: l'Evangelo per me! Paolo, che è evangelizzatore, è colui che si dichiara adesso evangelizzato. C’è di mezzo Timòteo, ma il vero soggetto di questa evangelizzazione ricevuta da Paolo è quella comunità che ancora esiste a Tessalonica. É un Evangelo di ritorno che per Paolo è espressione matura di quello che è stato il servizio da lui personalmente dedicato all' Evangelo, che è fruttuoso, efficace, che viene trasmesso in maniera autentica in quanto chi lo trasmette ne riceve la consolazione attraverso coloro a cui si rivolge. Questo, nel nostro piccolo, lo sperimentiamo tutti: quale che sia l’impegno al servizio dell’Evangelo, in maniera molto modesta, molto marginale, nelle nostre chiese o in qualunque contesto, anche quello più profano, è sempre molto più abbondante il dono che riceviamo rispetto a quello che possiamo trasmettere ad altri. Questa è esperienza comune, generale su cui nessuno ha dubbi: nel servizio dell’Evangelo, è sempre molto di più quello che riceviamo che quello che doniamo, da momenti solenni e grandiosi dell’attività pastorale della Chiesa a momenti molto spiccioli e molto periferici del nostro vissuto cristiano. La consolazione che Paolo riceve adesso vale per lui come conferma decisiva circa l’autenticità dell’Evangelo a cui ha consegnato la sua vita. “Siamo consolati, fratelli,” ecco qui il v. 7 “a vostro riguardo, di tutta l’angoscia e tribolazione in cui eravamo per la vostra fede; questo “per la vostra fede” va con “siamo consolati”. Adesso Paolo sa, per quello che Timoteo gli ha riferito, che la vita nuova di coloro che sono a Tessalonica sta crescendo, anche se con molte ambiguità e incertezze, come poi verremo a sapere al momento opportuno. Paolo, a questo riguardo, ha mandato Timòteo perché sa che bisogna affrontare tante situazioni ancora incerte e forse rischi di fraintendimenti piuttosto gravi. Non c'è niente di strano: sono appena nati alla vita nuova, non hanno studiato il catechismo, né fatto corsi di teologia, ma ci sono. Paolo dice: “Ci sentiamo consolati per la vostra fede, a vostro riguardo”, e parla ancora una volta di quell'angoscia che gli stringeva il cuore, che lo rendeva prigioniero di quella esperienza di “orfanità” a cui apparentemente non c'era più rimedio: un orfano buttato sulle strade del mondo, senza più casa, senza più famiglia, senza più relazioni e senza più passato (la tribolazione in cui io mi trovavo). Adesso invece questa consolazione riempie di gioia la fatica della sua missione in una maniera che continua ad essere così spoglia, così poco appariscente, così poco gratificante per quanto riguarda i dati empirici o i risultati oggettivi che Paolo ha registrato in altri casi e forse vorrebbe poter misurare anche adesso nel corso di questo viaggio. Ma non importa questo, c'è la “grande gioia”!
La carità, sacramento escatologico: completare ciò che manca alla nostra fede
vv. 9-10
Il testo prosegue nel v. 9: “Quale ringraziamento (quale eucharistia) possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia”. La gioia, “chará”, è un termine che era già comparso nel testo: la gioia di chi vive nella speranza d'incontrare il volto glorioso del Signore, ma che nell'attesa di quell’incontro custodisce in sé la memoria dei volti, la gioia di presentare il volto del nostro vissuto al Signore che ritorna, in quanto è un volto che si è specchiato nel volto di tutti gli esseri umani incontrati e che è diventato specchio in cui tutti gli esseri umani incontrati hanno potuto riconoscersi. Allora, ecco il volto che diventa presenza, ed ecco che la speranza si impregna di gioia. “Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio”. “Davanti al nostro Dio”, “Al cospetto del nostro Dio” è un'espressione che allude all'incontro definitivo con il Signore che ritorna nella gloria e dunque all’accesso al grembo del Dio vivente e alla ricapitolazione di tutto nel creato, nella storia, in corrispondenza all’intenzione originaria del Creatore. Dunque, tutta la gioia che proviene a causa vostra davanti al nostro Dio è proprio quella, per come è tra me e voi, che ha instaurato e confermato questo vincolo in comune, indissolubile che mi rende presentabile a Dio. La carità come sacramento escatologico.
v. 10: “Noi che con viva insistenza, notte e giorno, chiediamo di poter vedere il vostro volto e completare ciò che ancora manca alla vostra fede”. É quello che già sappiamo, ma adesso l’impedimento satanico è stato veramente affrontato e rimosso, il tentatore è sconfitto. La comunione tra Paolo e quelli di Tessalonica è confermata ed è vissuta in tutta la sua potenza, in tutta la sua fecondità, in tutta la sua efficacia, in modo tale che non è certo la distanza effettiva che possa metterla in discussione, pur provocando un risentimento dell'anima, una tristezza profonda nel cuore. Ecco una rivelazione di come il dono d'amore ricevuto da Dio sia dotato di una efficacia tale per cui è instaurato un vincolo di comunione che non è compromesso, quale che sia l'esperienza di una frattura, di una distanza, di una frantumazione di fatto. Il cuore umano evangelizzato è un cuore umano rieducato, liberato rispetto a tutte le contraddizioni che l'hanno inquinato, messo in grado di aprirsi a una relazione d'amore che rende positivamente feconda e aperta alla gratuità più pura la stessa solitudine. In realtà, qui tra le righe noi ritroviamo, nelle poche parole di Paolo, come una contemplazione del mistero d' amore così come ci è stato rivelato da Dio attraverso suo figlio: colui che ha sperimentato la solitudine per antonomasia è proprio Gesù, il figlio nella carne umana, fondamento di comunione universale nella sua solitudine, ma è la solitudine di Dio! É il mistero dell’amore infinito, dell'amore vero, dell’amore che genera per la vita. “E, giorno e notte, io continuo a chiedere”: è Paolo nella sua preghiera.
Preghiera di Paolo: “che il vostro amore sia sovrabbondante verso tutti e verso tutto”
vv. 11-13
Passiamo ora alla terza sezione, alla fine della prima parte, che assume la forma di un vero e proprio intervento orante. Paolo è in preghiera. Sta dicendo della sua preghiera (v.10), continua, assidua, notte giorno. Si ripropone il desiderio maturato attraverso le vicissitudini che abbiamo potuto cogliere nelle righe precedenti: “rivedere il vostro volto”. Paolo si rende conto anche del fatto (Timòteo a questo riguardo gli avrà riferito qualcosa di importante) che quelli di Tessalonica hanno bisogno di essere aiutati a “perfezionarsi nella fede, completare ciò che ancora manca alla vostra fede”; c'è qualcosa che quelli di Tessalonica non hanno acquisito ancora in maniera coerente. Nelle pagine seguenti ce ne accorgeremo.
Paolo si rende conto che hanno bisogno di essere ancora aiutati a comprendere alcune cose, però intanto ci sono. É interessante e non banale un fatto: nella frase “completare ciò che ancora manca”, “completare” traduce il verbo greco “katartizein”. Vi ricordo un'immagine che ritorna più di una volta nei racconti evangelici: i pescatori che sulla riva del lago, che poi viene detto mare nei vangeli secondo Matteo e Marco, hanno tirato le barche sulla spiaggia e aggiustano le reti, rammendano le reti smagliante, che hanno bisogno di essere ricucite, riaggiustate, rattoppate. Anche in questo caso viene usato il verbo “katartizein”. Tra l'altro, le reti diventano nella tradizione cristiana un’immagine della missione della chiesa: le reti gettate nel lago raccolgono tutti i pesci, la barca si trascina dietro conche di pesci e le reti sono bisognose di ricuciture. Allora questo completamento non è un perfezionamento nel senso un po' superficiale per cui bisogna applicare una decorazione, mettere un distintivo all'occhiello, oppure consegnare un diploma per far sentire a posto le persone; un po’ come i ragazzi che fanno la cresima e così hanno la garanzia di essere autorizzati a non farsi più vedere. Non si tratta di applicare un timbro accademico, ecclesiastico. Paolo dice: no, questo perfezionamento è un rammendo continuo. Tale linguaggio è perfettamente adeguato alle urgenze semplici ma vitali della vita cristiana nella Chiesa. Paolo si rende conto di come loro abbiano bisogno ancora di questo, non si scandalizza in alcun modo. Intanto prega, notte e giorno, e chiede di poter rivedere il volto, con cuore libero, aperto al flusso dell’Evangelo ricevuto, da trasmettere.
E allora siamo ai vv. 11-13. La prima parte della nostra lettera (v. 11) si chiude con una vera e propria formula di preghiera. Nel v. 11 troviamo quello che Paolo chiede per sé; nel v.10 ne parlava in termini oggettivi. Qui è lui stesso che trasmette a noi quella che è la formulazione della sua preghiera. “Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù dirigere il nostro cammino verso di voi!”. Questo Paolo chiede per sé, che ci sia una strada diritta, percorribile da parte sua verso quelli di Tessalonica, per ritornare a Tessalonica, per raggiungerli. E fa appello alla paternità di Dio e alla signoria di Gesù che poi era anche l’appello che introduceva la nostra lettera fin dal v. 1 del capitolo primo: Dio nostro padre il signore Gesù Cristo. E quella strada diritta è una strada che si sviluppa nella geografia dei luoghi. Di questo c'è pure bisogno, se Paolo dovrà ritornare a Tessalonica certamente avrà da percorrere un itinerario che implica l'impatto con le strade di questo mondo, ma è un itinerario che è tutto interno all'abbraccio con cui il mistero di Dio si è rivelato (la paternità di Dio). É un itinerario che è scandito e orientato, costantemente rincalzato dall'appartenenza alla Signoria di Gesù, Signore nostro.
Nei vv. 12 e 13 troviamo quello che Paolo chiede per i Tessalonicesi, ma chiede anche per noi che stiamo leggendo questa lettera, mettendoci nei panni dei Tessalonicesi destinatari dello scritto. “Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti, come anche noi lo siamo verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. Qui troviamo espressioni che abbiamo già incontrato e con le quali abbiamo già in un certo modo familiarizzato. Paolo chiede al Signore, per quelli di Tessalonica, che crescano fino ad abbondare nell'amore “vicendevole verso tutti”, dunque nell'amore vissuto nelle relazioni interne a quella piccola realtà comunitaria che sta crescendo a Tessalonica, ma anche nell'amore “verso tutti”. Questo amore “verso tutti”, “verso tutto” è un amore che trabocca, è una sovrabbondanza d'amore che Paolo chiede come dono da parte del Signore per quelli di Tessalonica, in consonanza con i sentimenti stessi di Paolo. L'amore vicendevole è un amore che si espande senza limiti, senza ritrosie in tutte le direzioni, in una prospettiva che si apre sulla scena del mondo verso tutti, ma anche verso tutto, sempre. L'amore autentico è sempre sovrabbondante, non è ripiegato, non abbraccia sé stesso. L'amore autentico è effusivo, espansivo, traboccante, ed è quello di cui sta parlando Paolo, che aggiunge (v. 13): “per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità”. Dunque, la stabilità del cuore. Paolo di tutto questo ha fatto esperienza diretta, personalissima, e ce ne ha parlato, a modo suo, con molta sincerità, con grande franchezza. Paolo chiede che davvero il cuore sia ristrutturato, che l'impianto interiore sia reso abile allo scopo di diventare il luogo in cui si deposita il dono dell'amore che, depositato, diventa forza che trabocca, l'amore che viene da Dio e che diventa principio portante del nuovo modo di stare al mondo. Ma per questo c'è di mezzo una rieducazione del cuore, una ristrutturazione del cuore per rendere saldi e irreprensibili i cuori, dove questa irreprensibilità ha a che fare con la trasparenza, perché il cuore ristrutturato è un cuore divenuto trasparente in maniera tale da coincidere con quell’obbedienza alla corrente di vita che viene da Dio. Tale corrente passa attraverso un cuore trasparente nel senso che rende il nostro vissuto umano, in virtù di questo cuore così ristrutturato, adeguato alla iniziativa del Dio vivente, alla sua santità, alla sua volontà di vita, per quanto sia un vissuto umano con tutti i limiti che ci riguardano. “Irreprensibili i vostri cuori nella santità davanti a Dio Padre nostro”. Questa ristrutturazione del cuore fa tutt'uno per Paolo con l'espressione per eccellenza di quella novità che rende la nostra esistenza umana libera, pronta, sollecita, per corrispondere alla iniziativa di Dio, come figli che ritornano a casa, davanti a Dio Padre nostro al momento della venuta del Signore nostro Gesù.
Ecco il figlio, che Dio stesso ci ha donato, e che viene nella sua gloria! Ancora una volta qui si accenna alla parusìa del Signore. Il nostro volto è sacramento rivelativo, visibile della novità che riempie il cuore, trabocca, per specchiarci nel volto del figlio; ed ecco alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi nella comunità dei viventi, anche noi pronti ormai per comparire davanti a Dio nella comunione con tutte le creature del cielo e della terra, come figli che finalmente sono ritornati alla loro casa, che è la casa di Dio Padre nostro.