Incontri di discernimento e solidarietà
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04 febbraio 2020

Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi - quarta parte

Raccomandazioni e incoraggiamenti di Paolo ai Tessalonicesi

Quarto incontro del ciclo 2019-2020


Ritorniamo alla Prima lettera ai Tessalonicesi. Abbiamo letto 3 capitoli e questa sera faremo un po' di strada, non tanta. Procediamo molto lentamente, ma ne vale la pena perché stiamo prendendo contatto con il più antico degli scritti neotestamentari. Dunque, una soglia di accesso a tutta una letteratura, uno scritto che Paolo produce in un momento di grande commozione. Ce ne rendiamo conto dal fatto che le parole con cui si esprime sono parole che rinviano a un vissuto interiore dotato di una straordinaria ricchezza; una fecondità a cui ci accostiamo con una certa circospezione, un po' in punta di piedi e con un senso quasi di contemplazione. D' altra parte, profittiamo di queste pagine per ritrovarci tutti coinvolti in quella novità straordinaria che per Paolo è la vita cristiana, anche se lui non usa questa espressione che è nostra. L’Evangelo di Dio, come egli si è espresso, ha trasformato la vita di coloro che a Tessalonica hanno accolto il suo passaggio e non solo il suo passaggio personale, ma quello di una di una forza nuova che si è espressa attraverso di lui: lo stesso Paolo è stupefatto per come la sua permanenza di 2-3 settimane a Tessalonica possa avere prodotto effetti tali per cui mesi dopo a Tessalonica quei tali ci sono ancora. Quando è venuto a saperlo, preso dall'entusiasmo, ha deciso di scrivere. Ed ecco la nostra prima lettera ai Tessalonicesi. Tutta la prima parte della lettera, quella che corrisponde ai primi 3 capitoli, è caratterizzata da una intonazione eucaristica, come vi ho detto e ridetto a più riprese: “e ringrazio sempre Dio”. Questo ringraziamento è stato ribadito nel corso di tutta la prima parte: Paolo ringrazia Dio per questa sorprendente dimostrazione di come l'opera di Dio è in atto nella storia umana e di come l'evento dell'incontro con la novità di Cristo Signore ha dato una svolta travolgente al cammino della sua vita. Una vita di giovane teologo impegnato pastoralmente, nel contesto di una sua vicenda personale messa in contatto con quella sorprendente, originalissima, inimmaginabile novità che è la vittoria sulla morte di Gesù, il Messia d'Israele, come adesso Egli viene riconosciuto: il Cristo, Signore, vivente, vittorioso, glorioso, con tutte le promesse compiute in Lui. Adesso, nel corso degli anni, è diventato il motivo portante di quel servizio all’Evangelo di cui ci parla anche questa lettera, di quel suo dedicarsi a quell'opera di costante accompagnamento rispetto a Colui che è il vero protagonista della novità. É il mistero stesso di Dio che si è rivelato così attraverso la signoria di Cristo, il figlio di cui Egli si è compiaciuto, ed è l’Evangelo di Dio che Paolo sta constatando essere impulso che dall'interno sostiene, trasforma, conferisce un nuovo orientamento alla storia degli uomini. L'esistenza di coloro che l'hanno accolto ha preso una nuova configurazione: la vita cristiana, la vita nuova. Che cosa è successo a Tessalonica quando Paolo ha soggiornato in quel breve periodo di tempo in quella città? Paolo ce ne ha parlato da Corinto dove si trova in una condizione di grande precarietà. Ha ricevuto notizie e sta scrivendo.

Fatto sta che la prima parte della nostra lettera è attraversata, in tutto il suo sviluppo, da una corrente di gratitudine, fino agli ultimi versetti del capitolo 3 che hanno la forma precisa e inconfondibile di una preghiera (dal v. 11 al v. 13 del cap. 3): “Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù Cristo dirigere il nostro cammino verso di voi!” Chiede per sé di poter finalmente ritrovare la strada che potrà ricondurlo a Tessalonica e chiede per quelli di Tessalonica (vv.12 e 13) che: “Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti”. Verso il mondo, verso tutti. L'amore deve essere vicendevole all'interno di quella piccola realtà comunitaria che esiste da qualche mese a Tessalonica, ma verso tutti: l'affaccio è rivolto a un orizzonte ecumenico amplissimo, sterminato e senza limiti, “come anche noi lo siamo verso di voi”, superando tutte le distanze di ordine geografico, di ordine culturale, di appartenenza ad ambienti così diversi e tradizionalmente esposti ad attriti di ogni genere. Paolo è un giudeo e tale rimane, mentre quelli di Tessalonica sono tutte persone che provengono dal paganesimo. Ebbene, “tra di noi, fra di noi”, una relazione gratuita ci consente di accoglierci vicendevolmente, di riconoscerci come ormai partecipi di un'unica vocazione, solidali in una storia di una famiglia che ormai è determinata non dai caratteri della consanguineità, ma che è aperta all’universale partecipazione di ogni essere umano, in riferimento alla signoria di Gesù che è il messia di Israele, che è Signore universale.

E qui ancora nella preghiera di Paolo si diceva (v. 13): “Il Signore vi faccia crescere, abbondare … per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità.” Cioè in risposta alla vocazione alla vita. É la strada che ormai si apre per coloro che accolgono l'Evangelo e sono afferrati da questa potenza che trascina la nostra esistenza umana lungo itinerari di ritorno, di conversione alla pienezza della vita, nella relazione con il Santo che è il protagonista della vita, è il Dio vivente: “davanti a Dio Padre nostro al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”.

Qui ci eravamo fermati un mese fa e da qui ripartiamo, al cap. 4. Affrontiamo la seconda parte della nostra lettera: sono solo 2 capitoli di poche pagine. Leggiamo per adesso i versetti 1-12 del cap. 4, la prima sezione all'interno di questa seconda parte della lettera che è caratterizzata da una intonazione di carattere esortativo o paracletico, per dirla con un aggettivo più elegante. “Paraklesis” è la consolazione, ma è anche l'esortazione. E dunque, questa seconda parte della lettera è orientata a sviluppare considerazioni di carattere ammonitorio per un verso e promozionale, esortativo per un altro verso. Dopo quelle pagine che hanno dato forma al suo desiderio di ringraziare Dio per il fatto che ci sono quei tali a Tessalonica che adesso ricevono la lettera che stiamo leggendo, Paolo già ringrazia al momento in cui scrive perché noi oggi stiamo leggendo questa lettera, ringrazia perché noi siamo qua. Questa è la sua eucarestia: c'è qualcuno che sta arrancando in qualche angolo del mondo in maniera anche piuttosto scomposta. Paolo lascia intendere che quelli di Tessalonica non hanno certo seguito un corso in teologia alla Gregoriana, sono ancora molto grezzi dal punto di vista della dottrina, sono in certi casi ancora molto confusi e Paolo ritiene necessario intervenire a fornire elementi necessari per chiarire un quadro di riferimento dottrinario, all'interno del quale si potrà inserire con coerenza più matura la vita nuova di coloro che hanno accolto l'Evangelo.

Dunque, adesso Paolo sviluppa il suo messaggio nella forma di una consolazione che è da considerare nei suoi due versanti: da una parte quello ammonitorio, e dunque un richiamo e delle precisazioni che sono necessarie per non restare risucchiati in un vortice di collusioni che potrebbero pregiudicare l'autenticità della vita nuova; dall'altra parte l'incoraggiamento, con un senso ancora una volta di commossa ammirazione per quello che avviene nella vita di quei tali che provenendo dal paganesimo hanno accolto l’Evangelo, per come opera la signoria di Cristo, per come la paternità di Dio si è rivelata e per come la potenza dello Spirito Santo dall'interno sta ristrutturando il modo di stare al mondo di quei tali. Di tutto questo Paolo parla non nei termini dell'osservatore asettico e, per così dire, chiuso in uno scafandro con la mascherina sulla faccia, ma invece parla come partecipe di questa stessa febbricitante avventura che dall'interno conferisce tutto un impianto originalissimo al cammino nella vita di coloro che accolgono l’Evangelo.



Come stare al mondo piacendo a Dio

Cap. 4, vv. 1-2

Adesso leggiamo dal v. 1 al v.12. Il testo che abbiamo sotto gli occhi inizia così: “Per il resto, fratelli...”. Come già abbiamo constatato, quando Paolo dice “fratelli” non c'è mai da prendere questa espressione in maniera generica, banale, superficiale. Paolo è un giudeo, si rivolge a quelli di Tessalonica che provengono dal paganesimo chiamandoli fratelli in base a tutto quello che ci ha illustrato fin dalle prime battute di questo scritto. Ci sono al mondo quei tali che dicono di Dio che è Padre Nostro: “Fratelli, io so questo di voi, voi sapete questo di me!” Tutto quello che Paolo ha da dire adesso si configura nei termini di una preghiera e di una supplica: “Vi preghiamo e supplichiamo.” In realtà qui Paolo usa i verbi “erotomen” e “parakaloumen”. “Erotomen indica una richiesta, un'implorazione. É interessante notare che Paolo usa un verbo anche più pesante che non il semplice verbo pregare, che in italiano ha una gamma di significati ampia, ma può avere un significato piuttosto sfumato, mentre qui c'è proprio un'implorazione: Paolo si mette in ginocchio e nel momento in cui richiama, ammonisce, ci tiene a precisare come si deve finalmente interpretare la strada nuova da percorrere in corrispondenza all'Evangelo ricevuto. Paolo non si pone in atteggiamento magistrale dall'alto della cattedra per imporre la dottrina, ma è implorante, supplica. Il verbo tradotto con “vi supplichiamo” (“parakaloumen”) ha la stessa radice di “Paraclito”, “Consolatore”, come si traduce frequentemente. Dunque è un incoraggiamento, certo un incoraggiamento magistrale (Paolo qui ritiene necessario fare appello a un messaggio che egli stesso ha rivolto a quelli di Tessalonica a suo tempo e che adesso ribadisce), ma bisogna sottolineare l'atteggiamento supplichevole di Paolo: vi chiedo di rendervi conto di come questa novità che ha investito la mia e la nostra vocazione alla vita è meritevole di una accoglienza totale libera, adorante perché vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù. Leggo: “Avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio”. É un messaggio che Paolo ha rivolto a suo tempo a quelli di Tessalonica e che adesso rievoca con molta insistenza. “E così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.” Le norme sono insegnamenti, norme non nel senso del diritto canonico, ma indicazioni che Paolo ha rivolto nella conversazione intrattenuta con quei tali a Tessalonica nel corso di quei giorni, che è necessario adesso rievocare per riscontrare in esse il valore di orientamento per quanto riguarda il cammino nella vita nuova. “Come comportarvi in modo da piacere a Dio avete appreso da noi”, cioè avete ricevuto da noi quei segnali, quelle indicazioni, quelle norme (traduce così la mia Bibbia) su “come comportarvi”, su come stare al mondo diremmo noi. É implicato davvero tutto l'insieme di relazioni che danno forma alla nostra vocazione alla vita, in modo da piacere a Dio: questo è il richiamo essenziale, nel senso che noi viviamo per piacere a Dio, per far contento Dio.

Quello che è vero da sempre per tutti, per il creato nel suo complesso, per ogni creatura umana e per la storia dell'umanità in tutto il suo svolgimento adesso è l'indicazione decisiva che conferisce alla nostra esistenza l'orientamento che corrisponde all'Evangelo che abbiamo accolto: “noi vi siamo per far contento Dio” che, come poi Paolo dirà immediatamente dopo, corrisponde a “far la volontà di Dio”, che per noi è espressione sempre un po’ pericolosa (chissà cosa Dio vuole, chissà... forse vuole che adesso prendo la tosse? o cose del genere). Cosa vuole Dio? Un modo di intendere l'espressione “la volontà di Dio”, che peraltro è un richiamo costantemente presente nella missione della Chiesa e viene fuori ogni volta che si recita il Padre Nostro, è interpretarla come la volontà del Padre di averci figli, di compiacersi di noi e di poter condividere con noi l'inesauribile fecondità della sua volontà d'amore. Questo è farlo contento. Qui emerge la dignità qualitativa della vita nuova: far contento Dio. Paolo subito ci mette un richiamo di soddisfazione, di approvazione: “e così già vi comportate”. Già siamo orientati in questa direzione. Questa è la dignità che caratterizza inconfondibilmente l'impianto operativo della nostra vita che ha accolto l’Evangelo; la nostra vita nel Signore Gesù (v.1), la nostra vita che è radicata ormai nella comunione con lui glorioso, con lui vittorioso sulla morte, con lui che è Kyrios, il Signore. A questo riguardo, aggiungere subito dopo “avete appreso da noi” è per Paolo il modo per ritornare al cammino compiuto nello svolgimento della sua attività missionaria, anche della sua permanenza a Tessalonica, ma è un cammino che ha delle idee e degli antefatti rispetto alla stessa missione nella quale Paolo è stato coinvolto. É il cammino che viene all'inizio dall'incontro con il Kyrios, con il Signore glorioso che ha vinto la morte, vivente perché risorto dai morti, l'incontro che ha trasformato la vita dei suoi primi discepoli, la prima chiesa, la chiesa madre, la Chiesa di Gerusalemme. Ed ecco l'Evangelo si è effuso lungo le strade del mondo, attraverso molteplici contatti, ha superato il limite del riferimento a Israele che è il popolo della Prima Alleanza, ormai ha coinvolto coloro che appartengono agli altri popoli e sono segnati da altre culture, un'eredità pagana oltretutto. “Avete appreso da noi”, avete ricevuto attraverso me quello che è l'Evangelo che proviene da quella radice originaria, da quell'impulso primigenio, da quell'incontro con il Signore risorto, da cui tutto è scaturito, fino a noi oggi. Anche la nuova evangelizzazione di cui si parla oggi è l’inserimento della nostra storia odierna, nelle sue molteplici ramificazioni, in quella radice. Ed ecco, si tratta di “far contento Dio”. “E così già vi comportate” dice Paolo, come se fosse scontato per lui, con un giro della frase che vuole subito assumere un tono consolante: già ci siamo, non c'è dubbio. Si tratta di crescere in questa prospettiva: “Cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. E voi conoscete infatti - v.2 – quali norme, quali indicazioni vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.”



Santità di vita e rispetto delle altre persone

Vv. 3-5

Il passaggio di Paolo a Tessalonica, nello svolgimento dell'attività missionaria che lo impegna ormai da anni, si inserisce nel flusso di quella corrente che porta in sé l'impulso che Dio stesso ha introdotto nella storia umana attraverso la missione svolta dal Figlio che è disceso, risalito, che è morto, che è risorto, che è vivente! Ed ecco, avete ricevuto l'Evangelo, Gesù il Kyrios. É questo impulso che ha investito l'esistenza di quei tali a Tessalonica come tanti altri in giro per il mondo, conferendo alla loro vita una nuova configurazione. Paolo su questo si espone in prima persona e adesso vuole insistere: quali sono gli elementi caratteristici di questa dignità qualitativa che caratterizza la vita cristiana (cioè la vita nuova, la vita secondo l’Evangelo)? Tutto ciò Paolo, a modo suo, lo dava per scontato, invece ora ritiene che su questo sia necessario tornare, fermando ancora una volta l'attenzione, in maniera più diretta, più precisa, proprio su quei segnali che già aveva illustrato, nei giorni del suo passaggio a Tessalonica, anche se tutto quello che ha da dire si riduce a pochissime righe. Ci sono due direttrici fondamentali della vita nuova: “perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (v. 3), ecco l'espressione a cui si accennavo poco fa, “la volontà di Dio”, “thelema tou Theou”, cioè “farlo contento”, è “la vostra santificazione”. “Santificazione” traduce il greco “aghiasmos”. Su questo adesso ci soffermiamo un momento. Scivolando tra le righe ed arrivando al v. 9, si legge: “Riguardo all'amore fraterno”, l’“amore fraterno” è la “philadelphia”. Soffermiamoci su questi due termini, “haghiasmos” e philadelphia”. Aghiasmos” è tradotto sulla mia Bibbia con santificazione, si potrebbe anche intendere come consacrazione, come appartenenza al Santo, da cui consegue l'amore fraterno, ovvero la “philadelphia”. Non abbiamo a che fare con parole incomprensibili, che sfuggono alla nostra capacità di ascoltatori del messaggio nel nostro mondo odierno. Si parla dell’amore di Dio e l'amore del prossimo. Da quando abbiamo fatto il catechismo da bambini, ci è stato detto che la vita cristiana cammina lungo queste due direttrici che sono poi rigorosamente, inseparabilmente, intrecciate tra di loro: la santificazione (questo è il linguaggio di Paolo), l'appartenenza al Santo, la consacrazione a Dio e l’amore fraterno. La prima direttrice per Paolo è sintetizzata dal termine “aghiasmos”, che deriva da “aghios”, parola il cui significato propriamente è “santo”, e tutto quello che ha a che fare con la santità ha a che fare con la vita nel linguaggio biblico (ne abbiamo parlato tante altre volte leggendo altri testi). Questo conviene non dimenticare mai: il Santo è il Dio vivente, è il protagonista della vita, è la sorgente inesauribile della vita, è la comunione e la molteplicità inesauribile delle relazioni che danno forma alla vita nella sua sorgente inesorabilmente feconda ed esplosiva, il mistero del Dio vivente. Il santo non è uno che sta in vetrina. Il santo è colui che vive, che sta nelle relazioni che si sviluppano senza limiti e impedimenti. Nella condizione di coloro che hanno accolto l'Evangelo, l'appartenenza a Dio, la comunione con il Santo, si riscontra questa corrente di vita che irrompe nelle strutture della nostra esistenza umana e ci ristruttura in modo corrispondente alla vocazione originaria alla vita: quella vocazione per la quale siamo stati creati e rispetto alla quale noi siamo deficitari, siamo in contraddizione. É l'effetto del peccato, siamo in esilio dalla vita, siamo separati dalla vita, siamo incamminati lungo strade che ci allontanano dalla sorgente fino alla morte. É la storia umana in quanto segnata dal peccato e dalle conseguenze di esso. Il peccato è sempre una scelta di morte, è sempre un rifiuto della vocazione alla vita, un rinnegamento della vita, un tradimento della vita. Soltanto che adesso in questa nostra vicenda umana, che porta in sé le conseguenze del peccato fino alla morte, ha fatto irruzione l’Evangelo di Dio, la volontà di Dio, che fa di questa nostra storia di chiamati alla vita che precipitano nella morte, una storia di ritorno alla vita, di salvezza, e la salvezza è la strada che si apre per ritrovare il contatto con la sorgente della vita, la pienezza della vita per la quale Dio ci ha chiamati dall'inizio.

E allora Paolo, con un linguaggio molto schematico, con parole scarne ma molto pregnanti, propone due applicazioni di questa prospettiva (la santificazione) che noi stiamo constatando essere tale da illustrare la qualità della nostra esistenza umana come non più prigioniera della morte, ma ricondotta alla sorgente della vita, al Santo. Stiamo imparando di nuovo a vivere e dunque ecco due applicazioni sintomatiche di quello che per altri versi noi chiameremo l'amore di Dio, l'amore che ci consacra a Dio, che ci rende partecipi della vita di Dio.

La prima applicazione (v.3): “che vi asteniate dalla impudicizia”. Attenzione al termine tradotto con “impudicizia”, che è “porneia”, termine che in greco ha un significato molto più ampio di quello che forse le sillabe che adesso pronunciavo suggeriscono alle nostre orecchie. “Porneia” è tutto ciò che costituisce un abuso, un disturbo, un'aggressività, una violenza, una strumentalizzazione nella relazione tra persone. É la relazione interpersonale che è compromessa e questo in molteplici situazioni, manifestazioni di quello che inevitabilmente è il cammino di ogni esistenza umana che passa attraverso il contatto con altre presenze umane. Ed ecco la relazione interpersonale strumentalizzata. Che “porneia” abbia a che fare anche con la strumentalizzazione di ordine sessuale non c'è dubbio, ma non è esclusivo né determinante questo richiamo; questo è vero già nell'Antico Testamento quando il testo è tradotto in greco e si usa questo termine. “Porneia” è la relazione interpersonale che è ridotta a forme di abuso da parte di chi è più forte non solo in senso fisico, ma anche in senso più ampio e forse anche in base a una certa cultura che dà un orientamento alla società umana, dal Giardino in poi, da quando i progenitori avvertono la necessità di rivestirsi (erano nudi, si rivestono). Il vestito nel mondo antico, ma questo può valere anche per noi oggi, è uno strumento di potere. Lo schiavo è nudo, il padrone è vestito! Magari vestito soltanto con un perizoma. Lo schiavo è nudo, il vestito è come il segno di un potere che diventa modalità aggressiva, ma anche difensiva: ci si veste per difendersi, ma anche per aggredire. C'è tutta una teologia del vestito che passa attraverso un’intera rivelazione biblica: dai progenitori nel Giardino (Genesi, cap. 3) fino a quando Paolo dice “quando siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo”, fino al vestitino che ci hanno dato quando siamo stati battezzati.

Adesso non è più così, perché la relazione interpersonale è per Paolo vissuta in una nuova modalità di incontro, di riconoscimento, di accoglienza, di affidamento, nella gratuità della relazione che contiene le diversità di ogni creatura umana all'interno di un disegno che corrisponde alla santità di Dio così dall'inizio.

E poi ancora: “che vi asteniate dalla porneia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto”. Qui l'attenzione adesso si concentra in modo più preciso sulla relazione interpersonale tra l'uomo e la donna, che evidentemente è un caso nel contesto amplissimo e massimamente variegato delle relazioni interpersonali: diversità di generazioni, di sesso, di cultura di appartenenza sociale. Quando troviamo “il corpo”, si usa un termine (“skeuos” in greco) che serve a indicare la donna, non il corpo; qui l'attenzione è un po' deviata dal nostro traduttore in una direzione che non coglie il valore essenziale di questa indicazione, che riguarda il rispetto per la presenza di quell'altra creatura che è donna, in un contesto in cui evidentemente la figura maschile assume un rilievo di particolare prestigio. Il corpo di cui qui si parla è il corpo della donna. “Con santità e rispetto”: l'onore sacro che viene riservato alla presenza di quell'altra creatura che è la donna per l'uomo, viene inteso da Paolo come un vero e proprio atto di adorazione rivolto al vero Dio, un vero sacramento, rivelazione di come Dio si rivela. “Con santità e rispetto”: non come oggetto di passione e libidine come i pagani che non conoscono Dio, con quello scatenamento dei desideri che sono interni a tutti i casi di “porneia” che possiamo considerare, a tutti gli abusi, a tutte le pretese di approfittare della debolezza altrui o comunque della diversità altrui a proprio piacimento, per la soddisfazione di interessi, gusti, vantaggi che riguardano la soggettività che vuole affermarsi. In questo modo non si accoglie il valore della relazione nella gratuità corrispondente all'intenzione originaria del Dio vivente, nella gratuità dell'altra persona e nella gratuità del proprio essere relativo in quanto essere umano, relativo all'altra persona, alle altre persone. Questo scardinamento della pretesa di essere nella nostra soggettività degli enti assoluti è uno scardinamento radicale che, Paolo dice, ci investe proprio laddove altrimenti noi siamo e ricadiamo nel mondo dei pagani, nella cultura dei pagani, nel modo di stare al mondo, in quel modo di camminare sulla scena del mondo che è proprio dei pagani che non conoscono Dio. In realtà il mondo pagano è un mondo molto religioso, un mondo in cui si parla molto di Dio, anzi insistentemente si parla di Dio in modo pagano. Non è un mondo ateo! Il fatto è che si tratta di un abuso mistificante e per così dire idolatrico nel nome di Dio per approfittare nelle relazioni interpersonali di certe prerogative che riguardano l'uno o l'altro soggetto a danno degli altri, vicini o lontani, a danno del prossimo. Questa consacrazione a Dio ci rimanda necessariamente all'amore per il prossimo. Paolo, in questo testo così antico, quando sta esplicitando gli elementi essenziali della vita, ce ne dà una testimonianza esemplare: che ciascuno sappia mantenere l'altra persona, che la sappia custodire che lo sappia valorizzare, che le dia onore sacro, “con santità e rispetto”, non come oggetto di passione, libidine, come i pagani che non conoscono Dio. Quindi, delle due applicazioni di quella consacrazione a Dio di cui si parlava prima, la prima applicazione è questa: il rifiuto della “porneia” e la restituzione delle relazioni interpersonali all'economia del gratuito, nella relatività del soggetto rispetto alla presenza altrui, e viceversa nell'accoglienza, nella presenza altrui come elemento costitutivo della vocazione alla vita di ogni soggetto.



Rapporto non proprietario con le cose

Vv. 6-8

La seconda applicazione è il riferimento all’economia del gratuito nel rapporto con le cose, che poi è imprescindibile anch'esso come il rapporto interpersonale: noi non stiamo al mondo senza rapporto con le cose, come non siamo al mondo senza rapporto con le altre persone. La nostra vocazione alla vita è nella relazione con le persone, ma anche con le cose. “Che nessuno offenda e inganni in questa materia” (v.6). Qui c'è un problema di traduzione. Paolo dice pochissime parole, evidentemente non ha tempo da perdere come noi, d'altra parte usa un linguaggio che ha un suo retroterra in tutto il percorso antico testamentario, e quando qui parla di offesa, di inganno, in questa materia, del proprio fratello, sta parlando della “pleonexia (da cui il verbo “pleonektein”, tradotto con “ingannare”), un termine che compare nel greco antico testamentario la cui traduzione è “avarizia”, ma qui serve a indicare quel rapporto con le cose del mondo che allarga smisuratamente la pretesa della nostra soggettività umana. Ci risiamo, ora in rapporto alle cose, non più in rapporto alle persone, anche se cose e persone sono presenze ineliminabili e necessarie, imprescindibili nella vocazione alla vita di ogni essere umano. Qui ci parla di un abbattimento dell'avarizia, della “pleonexia”, e ce ne parla non semplicemente come di un comando dall'alto, perché dobbiamo assumere un atteggiamento ascetico, ma ce ne parla nella certezza che il valore delle cose con cui abbiamo a che fare sta nel dono che esse rappresentano in quanto sono creature di Dio. E infatti qui dice: “Nessuno offenda e inganni in questa materia.

“In questa materia” è nell'originale greco “en to pragmati” (dativo di “pragma”: fatto, azione). Una traduzione migliore potrebbe essere “negli affari”, per cui si parla di imbrogli negli affari, essendoci di mezzo delle cose. Non è qui tanto in questione un'aggressione nei confronti di un altro essere umano, ma è in questione il modo di accaparrarsi certi titoli di proprietà, di sovranità, di autonomia, di competenza rispetto alle cose, negli affari. “Nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello - ritorna termine fratello (v.6) - perché il Signore è vindice di tutte queste cose”: il Signore, il Kyrios, rivendica il valore delle cose perché sono sue, tutte queste cose sono sue, valgono in quanto sono donate da Lui e in quanto è attivo questo discernimento che accoglie nella gratuità il dono del mondo che ci circonda. Ecco che noi stiamo camminando nella vita nuova in quella consacrazione a Dio, perché Lui non parla a noi attraverso una sentenza dottrinaria appesa alle nuvole nel cielo, ma parla a noi attraverso le persone, attraverso le cose. Essere consacrati a Dio significa essere coinvolti in questa nuova modalità di cammino nel mondo che passa attraverso tutte le relazioni in un costante riconoscimento di come siamo oggetto di una attenzione gratuita, di come siano coinvolti in una inesauribile corrente di doni, per cui veniamo coinvolti, attraverso le persone, attraverso le cose e noi stessi, in questa corrente in modo tale da essere noi stessi donati alle persone e alle cose nel mondo.

Quello che il Papa diceva molto bene nella sua famosa enciclica “Laudato si′” è per molti come se fosse cascato dalle nuvole. Per molti, certi discorsi sembrano parole bizzarre di personaggi un po' strampalati, come San Francesco nel Medioevo o adesso papa Francesco nel nostro secolo, da mettere da parte al più presto. In realtà questi discorsi provengono da tutta la rivelazione di Dio. Il Signore è vindice, rivendica il valore delle cose che sono sue: la terra è sua, il mondo è suo, la creazione è sua! É proprio lo scardinamento di quella avarizia che coincide con l'idolatria, parallelismo che si ripropone insistentemente nell’Antico e Nuovo Testamento. Le cose vengono minimizzate ed assolutizzate in rapporto a quella pretesa di valore assoluto che il soggetto umano attribuisce a se stesso come padrone del mondo, come padrone degli altri, attraverso meccanismi sociali che consentono di far valere titoli, prestigio, cultura superiore, competenza più raffinata: un protagonismo idolatrico. “Il Signore vindice per tutte queste cose come già vi abbiamo detto e attestato”: Paolo sta dicendo quello che è normale, scontato, ovvio, per coloro che hanno accolto l'Evangelo. Noi a volte caschiamo dalle nuvole di fronte a questa ovvietà. “Come abbiamo detto e attestato Dio non ci ha chiamati all'impurità”, adesso sta ricapitolando: l’impurità, la “akatharsia”, è quella modalità di inquinamento che è proprio di relazioni senza gratuità, che contraddice, nel linguaggio sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, il valore autentico delle relazioni vitali, che porta alla rinuncia a vivere se assunto come principio, diritto, valore di protagonismo che strumentalizza tutto e tutti, le persone, le cose, porta alla rinuncia a vivere. Il termine impurità viene usato spesso in contesti molto limitativi, molto circoscritti. Qui l'impurità è proprio la caratteristica di un'esistenza umana che ha rinunciato a vivere, ad aprirsi alle relazioni nella gratuità che rende autentica la vita, che restituisce alla vocazione alla vita, alla sua santità originaria. “Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione”: incontriamo di nuovo l’“aghiasmos”, che è la consacrazione a Dio, nella nostra condizione di creature umane, nella relazione con ogni altro essere umano e nella relazione con le cose, che sono anche misure di spazio, di tempo, le cose in piccolo in grande. Poche parole bastano per parlare di tutto quello che ci riguarda nella nostra condizione umana laddove determinante è questa immersione in quella corrente che dall'inizio ha strutturato l'universo e ha dato alla nostra vocazione alla vita l'impulso originario nell'economia del gratuito: è la volontà di Dio! Ritrovarci inseriti in questo snodo dove ogni creatura è portatrice di un dono che mette a disposizione, in una trasmissione continua di doni ricevuti e conferiti, ogni creatura è inserita nel contesto di un circuito immenso che si allarga, che si intreccia smisuratamente, con al centro di tutto la persona umana che è proprio lo snodo qualificato, consapevole e maturo nella responsabilità rispetto alla gestione di questa inesauribile girandola di doni ricevuti e trasmessi: tutto ciò è quello che si chiama “benedizione”. Imparare a benedire è quindi imparare a vivere, imparare a stare nell'economia del gratuito. “Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito” (v. 8): l'impurità si verifica nel rapporto interpersonale, nel rapporto con le cose, il mondo, le situazioni, i dati empirici di cui abbiamo bisogno per vivere, respirare, mangiare, bere, da cui dipendiamo. Nel racconto originario (Genesi cap. 1 e 2) la creatura umana è benedetta, come ogni altra creatura vivente, nel momento in cui le viene offerto il cibo e la bevanda di cui ha bisogno per vivere, ma mangiare e bere per vivere significa dipendere dalle cose. Per vivere io dipendo dall'aria che respiro, dal cibo che mangio, dalla bevanda che bevo. Dipendo dalle cose e in quella dipendenza c'è una benedizione. Rifiutare la dipendenza significa sprofondare in un abisso di maledizione, perché tale rifiuto è un abuso di potere, è una presunzione di onnipotenza, tant'è vero il primo peccato ha a che fare anche con una questione di alimentazione, ma diventa voracità scombinata o anoressia anch’essa sconfinata. Quindi in quella dipendenza c’è una benedizione, e rifiutare la dipendenza, farsene vanto come protagonisti che tutto possono strumentalizzare a proprio piacimento, significa ritrovarsi in quella maledizione di cui parla Genesi nel cap. 3, dove le parole di condanna da parte del Signore Dio non sono espressione del fatto che si è arrabbiato e adesso punisce: la maledizione è intrinseca al peccato che è rifiuto della benedizione, della vocazione alla vita che sta nella relazione gratuita con la complessa articolazione dell'universo che è donata da Dio come rivelazione della sua volontà d’amore. E allora chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso che vi dona il suo Santo Spirito, che vi ha chiamato fin dall'inizio a entrare in quella inesauribile corrente di doni, dalla creazione nella sua origine, come creature responsabili nella benedizione. Ciò riguarda tutte le creature, ma la creatura umana è consapevole, ha coscienza di questa vocazione, è responsabile, e nella creatura umana si sintetizzano tutte le vocazioni delle altre creature, tutti i doni valorizzati nella loro gratuità. Benedite tutte le opere del Signore il Signore! Il suo Santo Spirito!



Siamo fratelli per dono di Dio: vivere in pace; prendersi cura del mondo, che è casa nostra; lavorare con lena

Vv. 9-12 Cerchiamo di arrivare rapidamente al v. 12, perché bisogna dare uno sguardo adesso a quello che Paolo dice a riguardo della “philadelphia”, l’amore fraterno. In realtà, già quando Paolo ci ha parlato dell’amore di Dio ci ha parlato dell’amore del prossimo, non c'è distinzione. Adesso ce ne riparla da un altro punto di vista. Infatti, dice (v.9):Riguardo all' amore fraterno (“la philadelphia”) non avete bisogno che ve ne scriva”; non c'è bisogno che aggiunga altro, però poi le 4-5 righe che seguono comunque hanno il loro peso. Ecco: “Voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri - v.10 - e questo voi fate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia.” Tessalonica è capoluogo della provincia di Macedonia, già ci sono relazioni con altre realtà comunitarie che hanno accolto l'Evangelo. Dunque, è una relazione donata da Dio. Notate questo linguaggio che fa appello alla fraternità, perché i fratelli non si scelgono, come sappiamo tutti benissimo. Scegliamo gli amici, il fratello me lo ritrovo. Se sono il primogenito, mi capita che qualcuno ad un certo momento compaia dicendo “sono tuo fratello”, anche se è un incidente di percorso. Oppure a un certo punto io nasco e sono già fratello di qualcuno ma io non lo sapevo, non lo volevo, non ci ho pensato, non l'ho scelto io. I fratelli sono già costituiti all'interno di una relazione che è irrevocabile indipendentemente dalla loro scelta. Il linguaggio della fraternità viene usato in questo contesto, nel senso che la nostra relazione è fondata sulla iniziativa di Dio in modo del tutto incondizionato. D'altra parte, è una relazione che diventa consapevole alla scuola di Dio. “Avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri e questo voi fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. É una relazione che diventa determinante, costitutiva della nostra identità. In quanto la subiamo perché ci è imposta? In quanto ci è donata. Si sta quindi parlando della presa di coscienza di come quella condizione che ci inquadra all'interno di una relazione di fraternità è donata. E qui risiamo a quella serie di indicazioni che Paolo ci forniva precedentemente, ma partendo da un altro punto di vista, perché prima è partito dalla consacrazione a Dio per arrivare alle persone e alle cose; adesso parte dalla relazione tra di noi per arrivare alla scoperta di come apparteniamo a Dio, di come siamo debitori nei confronti dell'iniziativa sua che gratuitamente ci viene incontro attraverso la presenza di quel tale che io non ho scelto. Attenzione, perché adesso (v.10) dice di farlo ancora di più: “Ma vi esortiamo però, fratelli, a farlo ancora di più. Dunque, già sapete di cosa si tratta, ma qui c'è una prospettiva di crescita; d'altronde questo lo sappiamo benissimo anche noi che nell'amore del prossimo o amore fraterno non c'è limite, non c'è confine: la crescita è sempre prospettiva che si apre dinanzi a noi. Qui l'attenzione si concentra su un una caratteristica particolare, ma comunque sempre presente nella nostra esistenza umana, che è l'impegno del lavoro. Il lavoro per noi significa un contratto magari anche solo a tempo determinato, con riferimenti sindacali più o meno rispettati o anche più o meno disattesi. Invece qui si parla del lavoro nel senso amplissimo che si trova nelle pagine che stanno all'inizio del libro del Genesi, quando la creatura umana, in un contesto di comunione interpersonale, è collocata nel giardino che è affidato al lavoro umano. É la creazione il lavoro, ma in un senso molto più ampio e molto più aperto al coinvolgimento di tutto quello che è l'espressione della operosità umana: dal bambino che cresce, va a scuola e si intrattiene nei suoi ambienti di solidarietà e di condivisione, all’adulto, alla persona anziana: il lavoro come operosità! Al v.11 si legge: “e a farvi un punto d'onore. Si incontra qui verbo interessante: “philotimeisthai”. Quell'onore che è prerogativa della creatura umana, come traspare dalla sua presenza nel giardino descritta poc'anzi (Genesi al cap. 2, ma già nel primo racconto della creazione nel capitolo primo), è la relazione operosa della creatura umana che è chiamata alla vita nel mondo, in modo da mettersi in gioco (come dicevo: noi viviamo perché dipendiamo dalle cose). Adesso c'è qualcosa in più, c'è una responsabilità operativa, c'è una competenza che poi nel corso delle vicende umane cresce, si sviluppa, si esprime in molteplici forme, più intellettuali, più manuali, forme più organizzate: tutto quello che la storia umana ha documentato, in un contesto peraltro che porta in sé sempre le conseguenze del peccato. Ma l'onore della operosità alla quale è chiamata la creatura umana, nel racconto del giardino, adesso viene restituito rispetto alla vita corrotta degli uomini. “Adesso fatevi un punto d' onore. Paolo ci dà tre segnali in maniera veramente lapidaria, a proposito di questo onore ritrovato per quanto riguarda la operosità della nostra vocazione alla vita nelle cose del mondo, nelle relazioni che ormai sono determinate da quella benedizione che ci ha ricondotti alla economia del gratuito così come era impostata all'origine dal Creatore.

Primo: “vivere in pace”. In greco tale espressione è resa con solo un verbo: “esuchazein”. Cosa vuol dire vivere in pace? Forse farsi gli affari propri e così stare tranquillo? “Esuchazein” è il verbo che serve a indicare l'esercizio del riposo sabbatico che è il riposo di chi si immerge nel riconoscimento della bellezza che è stata conferita dal Creatore alle sue creature: nel settimo giorno il Creatore riposò perché era tutto molto bello. E il riposo sabbatico è esattamente esercizio di questo gusto ritrovato per ammirare la bellezza del creato. Ma qui non si tratta ovviamente del sabato come il settimo giorno che ritorna di settimana in settimana. Il riposo del settimo giorno è un modo di stare al mondo che è intrinsecamente contemplativo, è un modo di operare nel mondo, è la fatica del lavoro di chiunque, del bambino, dell'anziano, del pensionato, del malato, intesa come costante testimonianza di ammirazione per la bellezza del creato. É imparare a lavorare, imparare a operare. L'amore fraterno è adesso considerato come questa particolare applicazione all'operosità della vita nel giardino ritrovato a cui siamo ricondotti non con un'acrobazia rocambolesca che ci lascia tali e quali, ma che ci restituisce dall'interno nientemeno che in primo luogo questa competenza contemplativa che si ripropone poi in tutti i livelli, in tutte le dimensioni, in tutte le attività, in tutti gli impegni, in tutte le responsabilità operative della nostra condizione umana.

Secondo: “attendere alle cose vostre. Nemmeno qua si consiglia di farsi gli affari propri come potrebbe sembrare. Nell'originale greco è: “prassein tà idia”. “Tà idia” è un'espressione che indica una realtà domestica, la casa. Quando nel vangelo secondo Giovanni, in seguito alle parole “Ecco tua madre!” dette da Gesù sulla croce e rivolte alla madre e all'amico, si dice che “l'amico da quel momento la prese in casa sua”, si usa proprio “tà idia”. “Prassein tà idia” vuol dire che ormai c'è un modo di prendersi cura, in maniera operosa, attiva, efficace, impegnativa, del mondo e delle cose di questo mondo, perché il mondo è casa nostra. Vuol dire intendere il mio impegno nelle cose del mondo, il mio operare, sempre come attuazione di quell'impegno, di quella dedizione, di quell'attenzione, di quella responsabilità che dedico alla mia casa, perché la mia casa ormai è il mondo. Vedete che poi questo è anche il linguaggio dell'enciclica del Papa che ho citato precedentemente.

Il terzo è: “lavorare con le vostre mani”. Si accenna alla manualità, che poi è un coinvolgimento totale delle nostre capacità personali, di incontro, di relazione con le cose, con gli altri. Poi può anche darsi che le mani siano fiacche per tanti motivi, può darsi che ci sia un modo di operare che è più o meno mediato dal linguaggio nelle sue varie articolazioni. Paolo qui considera come pericoloso o addirittura quasi fastidioso un modo di operare (lavoro nel senso ampio, che fa spazio a tutta una gamma di attività e di impegni) in cui la nostra essenza umana viene dispersa in prospettive, lungo rivoli di impegno, di contatto, di coinvolgimento che sono espressioni di una frantumazione della nostra vocazione alla vita. Qui invece il coinvolgimento è totale, è un'unificazione che peraltro apre alle innumerevoli possibilità di incontro, a una gratuità illimitata nell'accogliere, trasmettere doni ricevuti e custoditi per essere restituiti. Un certo senso di disgusto manifesta qui Paolo rispetto al fatto che qualcuno possa pensare che la fatica della sua vita sia dedicata a una finalità particolare che deve soddisfare non so quale gratificazione ed il resto non conta. Coinvolgimento totale: alle mani, all'uso del linguaggio, al cuore, un’intenzione profonda che dall'interno anima la vocazione alla vita di ciascuno di noi. Conclude dicendo che quella operosità così impostata come ammirazione per la bellezza sabbatica del creato, come cura operosa del mondo che è casa propria, come coinvolgimento totale della persona senza più dispersioni, frantumazioni, parcellizzazioni che disintegrano il valore della vocazione alla vita, è rivolta (v.12) “al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei (prima finalità) e di non aver bisogno di nessuno (seconda finalità).” La prima finalità consiste in un segno pubblico, in una vita che è ordinata sempre al bene di tutti, anche quelli di fuori, quelli che sono estranei a quel particolare ambiente comunitario, a quel particolare cammino, che è un modo di stare al mondo. Quell'amore fraterno su cui Paolo ci sta intrattenendo in queste poche righe, è davvero un amore aperto a una famiglia che coinvolge anche fratelli dimenticati, sconosciuti, dispersi, ignorati, senza casa, senza famiglia, senza patria, senza padre. La prima finalità è questo modo di essere operosamente presenti nella propria vocazione alla vita, è questa dimensione di fraternità che ci rende responsabili verso gli estranei. La seconda finalità, “non aver bisogno di nessuno”, non va intesa, di nuovo, nel senso che non bisogna curarsi degli altri (come se si dicesse: il primo che incontro per la mia strada, una scrollata di spalle, chi s'è visto s'è visto, non importa più niente di nessuno, che vada in malora tutto il grande convoglio della storia umana, se non stanno alle mie condizioni, non ne vogliono sapere, peggio per loro). Bisogno è in greco “chreía”, che si potrebbe tradurre anche come “utile”. Per intenderci meglio, val la pena di fare riferimento a quella piccola parabola che leggiamo nel cap.17 del Vangelo secondo Luca, in cui quel tale che, tornato a casa, ordina al servo “adesso preparami da mangiare e bere”, e il servo, dopo che aveva dato da mangiare al padrone, risistema tutto quanto e fatto quello che doveva fare, soltanto dopo mangia, e poi dice: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Ricordatevi che “inutile” è in greco “achreía” (senza “chreía”). Che cosa vuol dire “servo inutile”? Qui c'è un fraintendimento che è un po' preoccupante per noi. Verrebbe spontaneo pensare: ma come, quel servo lavora così tutti i giorni! Non essendoci ancora i sindacati, non poteva nemmeno rivolgersi al giudice del lavoro! Altro che inutile, più utile di così. Una cosa di questo tipo è massimamente ingiusta anche se l'ha detta Gesù! Gesù in quel contesto sta dicendo che sono servi che non hanno più un utile proprio. Pensiamo ad una serie di parabole: quando quel servo ormai è così entrato nella casa, è così partecipe della vita di quella casa, è così sintonizzato con i pensieri, desideri, sentimenti del padrone, che quella è casa sua! Non ha più da rivendicare un utile suo, un vantaggio suo, un guadagno suo, un patrimonio suo, perché è nella casa! Allora i servi inutili non sono inutili perché si può fare a meno di loro, non servono a niente, sono inutili perché non hanno più da rivendicare niente per sé, perché sono pienamente sintonizzati con il padrone. Ricordate quello che dice il padre al figlio nella parabola del figliol prodigo al cap. 15: “Figlio, tutto quello che è mio e tuo in questa casa, non hai ancora capito, perché vuoi restare fuori e perché protesti, non hai ancora capito che tutto quello che è mio è tuo in questa casa?” Quel servo che è senza utile suo è tale perché è entrato nella casa, perché è dentro la casa, perché ormai condivide tutto, quello che è del padrone, è tutto suo. Ci metterà tutta la sua fatica fino a consumarci, ci metteremo tutta la nostra fatica fino a consumarci, ma siamo nel giardino di Dio. E allora qui non trarre utile da nessuno significa esattamente l'opposto di quello la traduzione ci lascia intendere, cioè non strumentalizzare niente e nessuno per un vantaggio particolare, perché non abbiamo più da rivendicare interessi personali, dettati dal nostro gusto, dalla nostra pretesa di gratificazione, ma siamo nel giardino di Dio.

Lectio divina


2019-2020 - Lettere ai Tessalonicesi


  • 04 febbraio 2020
    Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi - quarta parte
    Raccomandazioni e incoraggiamenti di Paolo ai Tessalonicesi