Incontri di discernimento e solidarietà
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03 dicembre 2019

Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi - seconda parte

A Tessalonica il Vangelo sta mettendo radici. Paolo è commosso e ringrazia Dio che possiamo chiamare 'Padre nostro'

Secondo incontro del ciclo 2019-2020


Dobbiamo proseguire nella lettura della Prima lettera ai Tessalonicesi. Abbiamo letto un capitolo e vediamo di fare un po’ di strada ancora questa sera. Forse ricordate quello che è successo: Paolo ha avuto modo di sostare a Tessalonica per circa tre settimane, come veniamo a sapere dalla lettura degli Atti degli Apostoli, e a Tessalonica ci sono quelli che hanno accolto l’Evangelo e questo per Paolo è motivo di commozione; oltretutto Paolo si è allontanato in fretta e furia da Tessalonica perché i giudei di quella sinagoga non gradivano la sua presenza; non si è trovato, in seguito ad alcune peripezie, ad Atene e poi da lì a Corinto e da Corinto in un contesto di profonda solitudine e anche problematica riflessione sul significato e sulla metodologia da attivare al servizio dell’Evangelo, che costituisce l’impegno dominante della sua vita ormai da diversi anni; ma ancora Paolo è apprendista in questa ricerca di una modalità di servizio da rendere a quella novità, di cui è stato protagonista il Signore, che si è presentato, che si è manifestato, che ha realizzato nella storia umana l’evento decisivo; è il mistero della paternità di Dio rivelatosi attraverso l’evento di Cristo che ha portato a compimento tutte le promesse del Signore universale: il kýrios.

Come potenza di Spirito Santo, l’Evangelo è questa novità che ha coinvolto la sua esistenza; è il motivo che lo ha reso testimone e non da solo, con altri già prima di lui, e altri accanto a lui.

Fatto sta che Paolo, nel corso del viaggio di cui ci parla Luca negli Atti degli Apostoli (fine del capitolo 15, poi 16, 17 e 18), è entrato in Europa frequentando le città nelle quali si sono venute costituendo e stanno crescendo delle chiese di cui si parla anche altrove nel Nuovo Testamento; pensate a Filippi, (ci sarà una lettera ai Filippesi); pensate a Corinto dove adesso Paolo si trova, (ci sarà una Lettera ai Corinzi), pensate a Tessalonica. Siamo nell’anno 50 dopo Cristo e, vi dicevo la volta scorsa, la Prima lettera ai Tessalonicesi è il testo più antico del Nuovo Testamento. Tutta la letteratura neotestamentaria si appoggia su questo fondamento, pietra angolare di tutta la ricchezza variegata di quel corpus letterario, pastorale, teologico che noi ricapitoliamo sotto il titolo di Nuovo Testamento. E dunque Paolo scrive da Corinto dopo che Timòteo, inviato per informarsi circa quello che è successo nel frattempo a Tessalonica, è ritornato e gli ha riferito che a Tessalonica quei tali ci sono ancora.

E Paolo si entusiasma, si commuove, si sorprende e resta incantato: guarda un po' ci sono ancora! ci sono dei cristiani, come li chiamiamo noi (così mi esprimevo un mese fa quando abbiamo iniziato questa lettera), ci sono dei cristiani nel mondo; Paolo non usa questo termine che tra l’altro è utilizzato pochissime volte nel Nuovo Testamento e con significati molto precisi. Sono discepoli del Signore, coloro che hanno accolto l'Evangelo e bisogna trovare un linguaggio adeguato a esprimere, testimoniare, trasmettere questa novità; un linguaggio che consenta di comunicare anche tra diversi (tra l’altro Paolo è un giudeo, un giudeo osservante, ma è in difficoltà nella relazione con quelli del suo popolo per tanti motivi); e quei tali che a Tessalonica hanno accolto l’Evangelo sono, se non proprio esclusivamente, prevalentemente provenienti dal paganesimo che è dominante e che tale rimane per molto tempo; e dunque si tratta di una cultura, un mondo, un clima, un retroterra mentale, emotivo che, allo stesso tempo, rinvia a tutto un impianto della vita personale e della vita sociale; un impianto riguardante le regole di comportamento civile e sociale, morale; tutto ciò che si deve fare col mondo dei pagani.

E Paolo scrive adesso a quelli di Tessalonica. Non è il caso che adesso torni indietro al capitolo primo; ricordiamo semplicemente il fatto che Paolo ringrazia Dio; è un’intonazione eucaristica quella che domina la prima parte della lettera, i primi tre capitoli, (in tutto sono cinque capitoli).

E da quell' inizio, di cui ci occupammo un mese fa, questo impianto eucaristico è dominante anche nelle pagine che seguono fino alla fine del cap. 3.

Paolo si rivolge a quelli di Tessalonica tentando di mettere a fuoco quali sono gli elementi caratteristici di questa vita nuova, che si si realizza come esperienza di straordinaria comunione con il Signore nostro Gesù Cristo. Gesù, il Messia d' Israele, è colui che ha portato a compimento le promesse, che è kýrios, Gesù il crocefisso, Gesù il maledetto che, appeso al legno, è morto; una condizione infame, ma Gesù è vittorioso, Gesù è glorioso; è vivente, è Kyrios, è Signore e noi siamo in una relazione con Lui che supera le distanze, anche se restiamo diversi da Lui, perché condizionati all' interno della logica dei sistemi di vita, dei limiti oggettivi della nostra condizione umana. Sì, noi siamo in comunione con Lui che è glorioso, con Lui che è vittorioso sulla morte, con Lui che è vivente; e Paolo riflette sulle modalità d’inserimento della nostra esistenza umana nella comunione con Cristo Signore. É proprio questa la novità che costituisce il fondamento per instaurare una nuova possibilità di comunicare, di intendersi, di condividere esattamente quella relazione fraterna su cui Paolo adesso insiste con particolare commozione, per cui siamo in grado di presentarci a Dio e di chiamarlo “Padre nostro!”.

Tutto quello che per noi è scontato, per Paolo e per gli altri di Tessalonica a cui si rivolge è invece esperienza di una novità straordinaria. Noi viviamo in relazione con il Vivente, che è vittorioso sulla morte con il mistero di Dio che a noi si è presentato attraverso l’incarnazione di suo figlio. Noi diciamo “incarnazione” (ancora questa terminologia non è in uso) che è effusione dello Spirito Santo. Il vissuto però è esattamente quello che vale come riferimento esemplare proprio il criterio che viene offerto per la prima volta, attraverso il testo letterario che adesso leggiamo, all' ascolto e in vista di un coinvolgimento e in vista di una occasione che consentirà ad altri di trovare il linguaggio opportuno per dare voce al vissuto, così come adesso si tratta di cercare un linguaggio per esprimere una novità misteriosa dove è possibile instaurare relazioni nuove, relazioni di vita, relazioni di intesa, di solidarietà, di vicinanza, tali da superare le distanze tra giudei e pagani, tra coloro che sono separati geograficamente, culturalmente, nel tempo; siamo così in grado di ritrovarci nell’appartenenza ad un’unica famiglia alla presenza di Dio Nostro Padre. Ma che cosa è successo a Tessalonica? E a Tessalonica ci siamo anche noi? Sì, perché noi a Tessalonica e in qualunque angolo del mondo siamo in grado di recepire il messaggio di Paolo che ci aiuta a renderci conto di quella che è la nostra presenza, la nostra collocazione, la nostra identità sulla scena del mondo nel corso della storia umana. É il mistero che ci avvolge a cui stiamo imparando a dare dei nomi; sono le relazioni tra di noi con tutte le altre creature di Dio, nel tempo e nello spazio. Stiamo imparando, anche in questo caso, a usare un linguaggio che sta prendendo i significati che esprimono una fecondità inimmaginabile, che supera comunque drasticamente, proprio in modo travolgente, i significati a cui eravamo abituati. Che cosa vuol dire parlare di vita? Che cosa vuol dire parlare del tempo e dello spazio? Che cosa vuol dire parlare di relazioni interpersonali. Che cosa vuol dire parlare di relazioni sociali; che cosa vuol dire parlare del mondo, e di stare al mondo.

Ecco, ma chi è Dio? Chi è? E qui, alla fine del capitolo primo, Paolo, riflettendo su quello che è successo a Tessalonica diceva: io mi sono reso di conto di quello che è cambiato nella vostra vita, ma voi vi siete resi conto di come il mio modo di presentarmi a Tessalonica è stato espressione, è stato strumento di una novità che non è mia. Anche se Paolo usa un’espressione che è “il mio” Evangelo, egli non vuol dire, che lo possiede; “mio” è nel senso che io non ho un altro riferimento che mi identifichi per quanto riguarda la mia esistenza in questo mondo che non sia la mia appartenenza all' Evangelo, che è stata la ragione per cui io mi sono presentato a Tessalonica; e voi avete colto la novità di quell' ingresso ( Paolo usa il sostantivo éisodos nel v.9); ingresso “come noi siamo venuti in mezzo a voi” è l’ingresso, il mio modo di entrare, il mio modo di presentarmi che è un modo di stare al mondo; ciò ha suscitato in voi la sorpresa, perché vi ha comunque attirato insieme non senza polemiche e avversità. Voi vi siete resi conto di una novità che si manifestava attraverso quel particolare modo di essere presente, io, un cristiano, (un povero cristiano di questo mondo, diremmo noi), che giunge in una città dove è sconosciuto da tutti e non conosce nessuno.

Un éisodos, un ingresso. Questo ingresso di Paolo a Tessalonica adesso è oggetto della riflessione che segue: quella di instaurare relazioni con chi ha accolto l’Evangelo; ecco, questo riflettere sull' entrare in scena di Paolo a Tessalonica è riflettere esattamente ancora una volta sull’Evangelo. Come funziona l’Evangelo? Come funziona questa novità per cui il mistero di Dio ci viene incontro attraverso gli eventi che passano in queste modalità così impervie, così periferiche, così apparentemente meschine e passano attraverso il vissuto di un essere umano che affronta il mondo? É nell’impatto con il mondo di quel minuscolo personaggio, (perché per quanto Paolo possa essere una figura grandiosa è pur sempre un povero essere umano).



Il coraggio di annunciare la novità del Vangelo, solo per piacere a Dio

Cap.2 vv. 1-4

Cap.2, leggiamo (v.1): “Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta” (qui ritorna esattamente il termine éisodos, la nostra venuta). Questo termine è imparentato con un altro termine che compare più avanti e che abbiamo incontrato domenica scorsa nel Vangelo della prima domenica di Avvento ed è “parusìa”, la presenza, la venuta, il farsi presente: è la parusìa (che compare per la prima volta nella Lettera ai Tessalonicesi). E il termine éisodos (ingresso) è imparentato con questo; c'è un modo di rendersi presente che ha un significato parusìaco, che è dotato di una fecondità che evangelizza e questa evangelizzazione provoca dei sussulti, provoca dei riscontri, provoca un coinvolgimento che cambia l’impianto della vita umana nei dati oggettivi di essa e nelle motivazioni interiori. Con questo modo di iniziare: “Voi sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata vana. (v.2) Ma dopo avere prima sofferto e subìto oltraggi a Filippi (apprendiamo qualcosa leggendo gli atti degli Apostoli nel cap. 16) come ben sapete abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi l'Evangelo di Dio in mezzo a molte lotte,” Paolo si è presentato a Tessalonica con la coda tra le gambe (e tra l’altro l’avevano bastonato a Filippi e la polizia romana non gli ha neanche consentito di mostrare i documenti che oltretutto Aveva in regola, tant' è vero che quei magistrati quando si rendono conto dell'abbaglio che hanno preso, sono preoccupati, (sparisci prima possibile perché non vogliamo grane!) e però l’hanno bastonato! E Paolo è una persona rispettabile, non uno qualunque, e però lo hanno bastonato, succedono queste cose a Filippi). Adesso Paolo è arrivato a Tessalonica. E dice: “Voi ben sapete (notate come insiste sul fatto che quelli di Tessalonica che si sono resi conto, è un atteggiamento di coraggiosa disponibilità ad affrontare una situazione nuova. Dice: abbiamo avuto il coraggio - la parresìa - abbiamo avuto il coraggio di annunciare anche a voi l’Evangelo di Dio”. Ecco, una libertà che nessuno ha potuto soffocare, ma una libertà disarmata. che si espone a tutte le contraddizioni, a tutte le avversità, in mezzo a molte lotte (polloì agones: grande lotta). Paolo a Tessalonica non è arrivato trionfalmente, non è arrivato attrezzato, già sapendo a quali ostacoli andava incontro, ma pronto a sgominare qualunque avversità. Ebbene quella mia presenza in mezzo a voi non è stata vana; l’Evangelo di Dio si è manifestato a voi attraverso di me, attraverso quel mio modo di presentarmi e voi ve ne siete resi conto e avete preso atto di una novità che ha coinvolto la vostra la vostra stessa vita.

E prosegue, (v.3): “E il nostro appello (in greco paràklesis, che di per sé vuol dire “consolazione”, (è un termine che serve anche a indicare quella che noi oggi chiameremo una predicazione, una modalità propria della predicazione che ha certamente una tensione di carattere esortativo, per incoraggiare, per consolare). “non è stato mosso” (e adesso qui lui riflette su quelle che sono state le modalità di comunicazione attivate senza particolari programmi antecedenti. Possiamo dare per scontato che Paolo è andato a Tessalonica in un atteggiamento di ricerca, esposto a tanti rischi, nella incertezza di chi, da qualche tempo, sta affrontando il mondo nuovo, perché Paolo viene dall' Oriente e affronta l'Occidente, è un asiatico, ed è in Europa, un clima culturale a cui non è naturalmente abituato; eppure, adesso, riflettendo e tornando indietro, quella sua maniera di presentarsi si è sviluppata lungo direttrici o secondo modalità di comunicazione che qui vengono ricapitolate con 3 richiami, circa quello che non è avvenuto. Adesso, invece, dal v.6, quello che è avvenuto.

Vv. 3 e 4: quello che non è avvenuto: (v.3): “E il nostro appello non è stato mosso” da volontà di inganno, né da torbidi motivi,abbiamo usato frode alcuna; (v.4) ma come Dio ci ha trovato degni di affidarci l'Evangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori”. Qui Paolo, dunque, sta dicendo che non ha mai fatto ricorso in alcun modo all' inganno, (‘plane’ in greco), che poi sarebbe come dire che in nessun modo ha elaborato messaggi inventati artificialmente per imbrogliare gli animi; dice no, voi sapete bene che questo non è avvenuto. E poi dice: “non da torbidi motivi”. (v. 3) (‘akatharsìa’ in greco): il mio modo di comunicare con voi non è stato in nessuna maniera espressione di un atteggiamento interiore, quando si dice impurità si intende esattamente la motivazione che riduce il comportamento umano alle misure della soggettività che si rinserra in se stessa, che poi significa una soggettività umana che rifiuta la propria vocazione alla vita, perché la vocazione alla vita sta nelle relazioni; quando la soggettività umana si rinserra in se stessa si riduce a misure di soffocamento ed è inevitabile preludio di morte. Ebbene, queste motivazioni impure non c'erano, né si sono manifestate, né voi ne avete potuto registrare la negatività; intenzioni di ripiegamento su interessi miei personali, soggettivi, individuali. Di tutto questo non c'è stato traccia nel mio modo di comunicare con voi. Dopodiché, dice ancora: “né abbiamo usato frode alcuna” (il dolos) e quando parla di frode allude a strumenti, gesti, eventi, forse anche qualche messa in scena un po' spettacolare, per strumentalizzare l'attenzione. Dice: questo non è avvenuto. E aggiunge ancora, (e qui già ci avviciniamo alle motivazioni positive del suo comportamento, v.4) “ma come Dio ci ha trovati degni di affidarci l'Evangelo così noi predichiamo” (è quello che Paolo ha ricevuto da Dio e di cui è testimone in maniera trasparente); dice: “non cercando di piacere agli uomini ma a Dio che prova i nostri cuori”. É interessante questo suo modo di mettere in gioco la trasparenza del vissuto e in modo tale che esso sia manifestazione di quella iniziativa che viene direttamente da Dio É Evangelo di Dio che passa attraverso la prova dei cuori, il filtraggio dei cuori, un “esame” che ha determinato il discernimento radicale del cuore umano di Paolo che parla di queste cose senza insuperbirsi, tutt' altro; si mette in gioco, si è presentato così con un cuore aperto per constatare come Dio è all' opera nel cuore di tutti, “non per piacere agli uomini ma per piacere a Dio che prova i nostri cuori”. Guardate questo: “per piacere a Dio, per far contento Dio”, facciamolo contento! Anche questo linguaggio è originale, vero nell' Antico Testamento, la volontà di Dio, certo è la volontà di Dio, farlo contento. L'Evangelo, dice, funziona così, da cuore aperto a cuori che si aprono e l'Evangelo è di Dio che in questo dimostra il suo compiacimento; in questo passaggio di una comunicazione misteriosa più che mai per cui da un cuore che è aperto e disarmato ed è consegnato nella sua miseria radicale, ecco che è possibile instaurare una relazione di gratuita comunione che celebra in sé la potenza di una vita nuova, che corrisponde esattamente al piacere di Dio, per far contento Dio, da cuore a cuore in questa scoperta di una immanenza vicendevole.

Voi vedete che per Paolo parlare dell’Evangelo bisogna parlare di una dottrina e a questo riguardo lui è grande maestro ed è protagonista nell' impresa pastorale che rimane fondamentale nella storia della vita cristiana, nella storia delle chiese. Ma parlare dell’Evangelo significa parlare di questa scoperta di come i cuori si aprono e si aprono in relazione a un cuore che nella sua povertà e nella sua debolezza si presenta scoperto, spogliato, filtrato, sbriciolato. Dunque, la potenza di Dio si manifesta in quella dimostrazione di gratuità assoluta per cui una corrente di comunione di partecipare a una conversazione tra di noi che supera tutte le distanze, tutti gli impedimenti e tutte le incomprensioni: stiamo facendo contento Dio, ma guarda un po'! Come si è rivelato Dio a noi? Con un insegnamento dottrinario, una sentenza teologica, appeso alle nuvole un festone con uno slogan finalmente originale perché non se ne poteva più di tutte le chiacchiere che si sono tramandate nel corso delle generazioni passate. Si è rivelato a noi laddove la nostra vita umana spogliata di tutte le sue forme di presunzione, sovrastrutture abusive e artificiali, si consegna nel contesto di una dinamica di relazioni gratuite e nuove, Paolo ce lo diceva precedentemente, ci consentono di presentarci davanti a Dio e di chiamarlo “Padre”.

Farlo contento, e chiamarlo “Padre”, significa appartenere a una famiglia, significa appartenere a quella grande famiglia che abita in una casa e il mondo è la casa e la creazione in terra è una casa, una casa che ha una storia, ha un passato e un futuro. L’Evangelo.



Amorevoli in mezzo a voi come una madre e come un padre

Vv. 5-12

V. 6, sempre a proposito di quello che è avvenuto a Tessalonica. Paolo qui insiste nel ribadire quello che “non” è avvenuto, atteggiamenti che lui non ha mai assunto, qualcosa di importantissimo già ci diceva. Adesso aggiunge (v.5): “Mai infatti abbiamo pronunciato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone”. (questo è un giuramento!). “E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere una nostra autorità di apostoli di Cristo”. Dunque, comportamenti che Paolo non ha mai assunto, dice: io non ho mai usato un linguaggio “lusinghiero”, parole di adulazione, kolakeia, di lusinga; no, dice, non è mai successo questo, e poi dice non sono ricorso a sotterfugi determinati dall' interesse per il guadagno né pensieri di cupidigia. Questo “pensieri”, in realtà, vorrebbe dire proprio sotterfugio, conosciamo bene di che cosa Paolo sta parlando, come si riesce a impostare un discorso che serve, in realtà, soltanto a coprire e a mascherare il vero obiettivo di una comunicazione impostata per ricercare dei vantaggi di ordine oggettivo, tecnico, economico o vantaggi di potere. Dice: no, non è

stato un mio comportamento in nessuna maniera; e addirittura qui c’è un giuramento; e poi aggiunge (v.6): “E neppure abbiamo cercato la gloria umana”; cioè la ricerca di riconoscimenti relativi al prestigio umano, come il titolo di apostolo di Cristo; “non ho cercato la gloria umana né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo”; è vero.

V.7, Quelli che sono stati invece i comportamenti assunti da lui e che non sono semplicemente riferimenti di carattere autobiografico o di carattere agiografico: i comportamenti assunti da Paolo proprio là dove, da parte sua, lui non ha altro da porgere se non la testimonianza di quello che attraverso di lui l’Evangelo di Dio realizza nel mondo, e in questo pezzo di mondo che si chiama Tessalonica, e con quella povera gente che ha incontrato a Tessalonica con tutti i loro problemi e le loro contraddizioni che non mancano mai. Paolo non fa riferimento a miracoli o a prodigi straordinari

Attenzione, dice (v.7):Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi” questa è l'affermazione fondamentale, “ipioi”; è la positiva benevolenza del tratto, un povero uomo che si presenta in un ambiente dove nessuno lo conosce, dove lui non conosce nessuno, ed ecco mette a disposizione se stesso senza ombre, senza ripiegamenti, senza pretese, senza ingannare nessuno, amorevole nel tratto. C'è un problema che riguarda la lettura critica del testo per cui in molti codici invece di “ipioi”, si leggeva “nepioi”; il testo critico più importante oggi tende a tradurre così, poi mette in nota che precedentemente gli estensori del testo critico ragionavano diversamente; comunque nepioi vuole dire bambini. E questa amorevolezza - chiamiamola pure così - adesso viene illustrato secondo due modalità complementari e in primo luogo dice: “come una madre” e poi dice “come un padre”; non riferimenti ai miracoli, amorevoli sì “come una madre che nutre e ha cura delle proprie creature”. (v.8) Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.” Come una madre, e qui fa riferimento a tre prerogative che Paolo considera tipicamente materne: il nutrimento - quando dice “ha cura” - in realtà è calore e serve a indicare la cova di quell'essere vivente che svolge una funzione materna, che normalmente è un animale, un volatile, è la madre che riscalda e poi quell' affetto primario e viscerale che conduce la madre fino a mettere a disposizione la propria stessa vita. Ecco, come una madre che nutre, che riscalda; e che nell’immediata intensità di un affetto viscerale, non soltanto dà l’Evangelo di Dio, ma mette in gioco la sua propria vita, “tanto ci siete diventati cari”; che in qualche modo è come dire: io vi ho trasmesso l’Evangelo di Dio quando vi ho trasmesso il calore di madre. Il calore della madre è proprio l’Evangelo di Dio; normalmente nessuno di noi viene al mondo senza passare attraverso il calore di una madre, niente di più normale, di più nuovo, originale e straordinario. Mi sono presentato a voi così; e poi adesso dice: come un padre.

Ed ecco quindi il v.9: “Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio:” Queste sono espressioni che rinviano alla attività tipica del padre; non sempre è così, non sempre le cose vanno alla stessa maniera, in tutti i luoghi, in tutti i tempi, ma non importa, basta che intendiamo quello che Paolo vuole dirci. La fatica, l’affanno del lavoratore (lui forse ha una visione un po' antiquata delle cose per cui la mamma sta in casa e il papà invece è in giro per il mondo perché lavora). E allora dice, ecco: “la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno”; è il padre e Paolo effettivamente è un lavoratore, abituato, tra l' altro, a usare le mani perché fa di mestiere il tessitore e dovunque si trova si impiega in quella che è una delle attività più diffuse in tutto il mondo antico; (gli ebrei se la sono portata dietro quest' arte in giro per il mondo). Ed ecco: fabbricatori di tappeti, azienda di famiglia tipicamente orientale; Paolo ha vissuto per anni a Tarso, impegnato nella preghiera, nello studio, sempre, e nel lavoro, nella fabbricazione di stuoie, tende e tappeti. E dice: “io ho lavorato notte e giorno per non essere di peso ad alcuno e così abbiamo annunziato l'Evangelo di Dio”. É l’Evangelo di Dio annunciato a quelli di Tessalonica.



Paolo adesso sta ricordando, sta rievocando, sta ricostruendo i fatti; quell’Evangelo è passato attraverso l’impegno pedagogico del padre che dà l’esempio e che è premuroso nei confronti dei figli a cui deve trasmettere le proprie motivazioni, anche se di fatto poi è fuori casa perché impegnato notte giorno, faticando chissà dove e chissà in contatto con quali figure estranee. Ma qui sta dicendo (v. 10):Voi siete testimoni e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti;” usa tre parole in greco qui, l' impegno pedagogico rivolto a ciascuno di voi in vista di quella che subito dopo chiama una vocazione e dice: quelle che da parte mia voi avete recepito come le motivazioni, i valori (noi diremmo forse oggi, - un termine che non piaceva al padre Pio) - i valori di riferimento del mio modo di stare al mondo, di lavorare, di faticare, di dedicarmi alle relazioni sociali. E in primo luogo parla di santità e di pietà, poi parla di giustizia, poi parla di irreprensibilità cioè di trasparenza, e la pietà è tutto quello che ha a che fare con il mistero di Dio e la relazione con la presenza dell’Onnipotente; la giustizia e la relazione interpersonale in un contesto dove si è responsabili di una edificazione sociale; l’irreprensibilità ha a che fare con la dignità personale di chi si radica nella propria identità come un valore ricevuto

gratuitamente e rispetto al quale non si può transigere; la relazione con il mistero, la relazione interpersonale in un contesto sociale, la dignità della coerenza personale. Ecco il padre che lascia l'eredità: lui che lavora, lui che fatica, lui che è affannato nei travagli: “Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti;” Quel modo di stare al mondo che fa di voi dei credenti. E fa di voi dei credenti non perché vi ho insegnato a ripetere il credo, fa di voi dei credenti per come io sono vissuto nella relazione con il mistero di Dio, nel rispetto della presenza altrui e di ogni altra persona in questo mondo e nella continuità della coerenza alla mia dignità personale. E adesso voi credenti: (v.11)e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarsi in maniera degna di quel Dio che vi chiama (ecco la vocazione) al suo regno e alla sua gloria”.

Qui usa tre verbi: vi abbiamo incoraggiato, vi abbiamo ammonito, vi abbiamo scongiurato; sono verbi che Paolo considera come prerogativa della responsabilità pedagogica di cui il padre è testimone nei confronti dei figli, affinché vi rendiate conto di quale dignità vi è conferita perché siete figli chiamati da Dio: non ha detto siete figli miei; siete figli chiamati da Dio, Dio che vi chiama e che vi chiama al suo regno e alla sua gloria. Siete chiamati da Dio per la sua gloria, per questo mi sono comportato come un padre in mezzo a voi; come una madre e come un padre.

L'amorevolezza non è semplicemente avere a che fare con qualche carezza ogni tanto e neanche con qualche sgridatina ogni tanto, ma io, Paolo, in mezzo a voi mi sono presentato così: tramite dell'Evangelo che passa così, penetra così, raggiunge così, coinvolge così: E l’Evangelo è di Dio che si rivela così, è la novità di Dio che fa di questa nostra avventura, di generazione in generazione, la storia dell'umanità redenta, riconciliata che è in grado di presentarsi, condividendo la dignità filiale di Gesù, il Signore nostro.



É l’ascolto della Parola di Dio che fa di voi dei credenti; per questo siete perseguitati

vv. 13-16

E adesso Paolo prosegue (v. 13), arriviamo fino al v.16, seconda sezione. “Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio”. Ringraziamento che, come vi dicevo, è intonazione dominante di tutta la prima parte della lettera. Leggiamo ancora: “ringraziamo Dio, continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta”. Il ringraziamento è rivolto a Dio perché voi l’avete accolta; è il motivo della meraviglia che abbiamo constatato fin dall' inizio, la sorpresa, l'incanto, la commozione di Paolo. La parola di Dio è stata ricevuta da voi attraverso la conversazione che è passata nella forma di una comunicazione di parole umane, ma è passata la parola di Dio; “avete ricevuto da Lui la parola divina, l’avete accolta non quale parola di uomini, (tra di noi ci siamo scambiati parole umane), ma come veramente quale parola di Dio che opera in voi che credete”. É questo ascolto della parola di Dio che ha instaurato in voi la novità della fede; ed è una parola energica quando leggo qui, alla fine del v.13, “che opera in voi”, quell' opera in voi (dal greco ‘energein’), dunque, è l'energia della Parola creatrice che fa la novità della vita umana ; e questa parola è giunta a voi, l' avete accolta, fa di voi dei credenti, ha dato l' impostazione di questa nuova ristrutturazione della vostra esistenza umana , perché quelle parole che ci siano scambiati tra di noi, che sono le parole della madre, parole del padre , sono parola di Dio.

E Paolo non sta dicendo: adesso Dio ordina così a voi! sta dicendo: ecco, come una madre e come un padre; e voi avete ricevuto la Parola di Dio. E Paolo ringrazia Dio perché si commuove, guarda un po'; Paolo si trova alle prese con l’Evangelo che gli scivola tra le mani, gli passa attraverso il cuore; non è lui che gestisce l'impresa. Quello che Paolo qui sta dicendo è fondamentale nella storia dell'evangelizzazione che passa attraverso le generazioni e i secoli, fino ad oggi; si parla di nuova evangelizzazione si parla della Prima lettera ai Tessalonicesi, non si parla di altre scemenze, sennò lasciamo stare le scemenze, si può parlare così semplicemente di imbrogli, di inganni, di fantasie e di illusioni. Gli è passato tra le mani, attraverso il cuore e voi avete accolto la parola di Dio; ci siamo scambiati parole umane e voi avete accolto la parola di Dio, ed è Lui che è contemplativo nel riscontrare come il cuore di quei cristiani a Tessalonica si è aperto in relazione a questa iniziativa dalla quale non si può può prescindere, è passato attraverso la presenza dimessa di quel personaggio appena espulso da Filippi, che è giunto a Tessalonica per curarsi le ammaccature.

Ecco, e allora dice (v. 14): “Voi infatti, fratelli, (ci mette un bel vocativo, voi fratelli,) siete diventati imitatori delle chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea,” è in questi versetti che Paolo tiene a rilevare la continuità tra quella che è stata l' esperienza ed è tuttora l'esperienza dei Tessalonicesi, che hanno accolto l'Evangelo; la continuità rispetto a quello che è avvenuto a Gerusalemme nella prima chiesa, che poi è sempre vero: laddove l'Evangelo è annunciato, laddove l'Evangelo è accolto è sempre ancora un' esperienza originaria della prima chiesa, la chiesa madre di tutte le Chiese, quando per la prima volta l' Evangelo è stato accolto, quando i primi discepoli del Signore hanno incontrato lui il Maestro vivente, vittorioso sulla morte, glorioso, il Kyrios, il Signore. Da quell' incontro è derivato tutto quello che ne è conseguito: la prima chiesa, il grembo fecondo che ha generato tutte le altre chiese e così la crescita dell'Evangelo che adesso già nel corso dei primi decenni, quando Paolo scrive son passati circa due decenni dalla Pasqua del Signore; quindi un periodo di tempo minimo per quanto riguarda i nostri criteri; eppure, in questi due decenni già l'Evangelo sta crescendo e sta coinvolgendo in modo sempre più importante e sempre più massiccio coloro che provengono dal paganesimo. Ma quello che è capitato a voi sta in diretta continuità con quello che capitò fin dall' inizio ai primi: “Le chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei,” Dunque, è capitato a voi e qualcosa del genere adesso evidentemente è successo anche a Tessalonica e Paolo ne ha avuto notizia tramite Timòteo; insomma, gli è capitato qualche guaio, niente di strano, ma esattamente quello che a Tessalonica vi ha messo in difficoltà nel rapporto con i vostri connazionali, gli altri Tessalonicesi che, ripeto, sono nella grandissima maggioranza di origine pagana e loro dalla parte dei Giudei, i primi che erano tutti i Giudei; i discepoli della prima chiesa a Gerusalemme hanno patito contrarietà che qui Paolo descrive usando un linguaggio anche molto drammatico, una vera e propria persecuzione. Quello che avviene nel primo periodo con tutta una serie di passaggi di cui ci parla Luca negli Atti degli Apostoli; Paolo stesso, a questo riguardo, è stato oggetto di una avversione piuttosto vivace; arriverà il momento, un po' di anni dopo, in cui Paolo sarà arrestato e processato e, d’altra parte, in quanto cittadino romano poi gli verrà riservato il diritto di essere giudicato a Roma. Ma adesso sta dicendo così: quelli che all'inizio soffrirono, come adesso è capitato a voi a Tessalonica da parte dei giudei, dice Paolo (v.15): “i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi;” una storia vecchia questa, che peraltro mette Paolo in particolare difficoltà perché Paolo è un giudeo. Arriverà il momento in cui nella Lettera ai Romani discuterà la questione con una passione teologica veramente lucidissima; proprio coloro che sono i primi destinatari dell' Evangelo l' hanno rifiutato; e dico loro in quanto popolo, perché poi singolarmente la prima chiesa non per niente è composta esclusivamente da giudei tutti circoncisi; lo stesso Paolo è un giudeo, altri si sono impegnati sulle strade del mondo, giudei anche loro, ma il popolo in quanto tale – perché è il popolo destinatario delle promesse: - è il popolo che è stato chiamato per accogliere e non ha accolto. E Paolo dice: ma hanno perseguitato anche noi ed essi non piacciono a Dio, sono nemici di tutti gli uomini. É una affermazione dolorosissima per Paolo, ma questo è privilegio che caratterizza inconfondibilmente Israele, privilegio a cui Paolo, in nessun modo, vuole dimostrare misconoscimento, anzi quel privilegio è reale e tale rimane. Eppure, il rifiuto di una novità che è rivelazione piena di quella volontà d' amore di Dio non è stata apprezzata e questo è un modo di vivere nel tentativo di mantenere le distanze, di separarsi, di distinguersi. Paolo di tutte queste cose ha un'esperienza diretta e ne è particolarmente angustiato e dice: hanno impedito a noi di predicare ai pagani; Paolo per questo poi verrà considerato come un traditore. Predicare ai pagani perché possano essere salvati anche loro; un orizzonte ecumenico che si amplia smisuratamente; in tal modo essi colmano la misura dei loro peccati. Ma quello che è avvenuto all'inizio, laddove il popolo, interpellato e, in quanto tale, non ha accolto si inserisce all'interno di un disegno che è rivelazione di una fecondità d' amore immensamente più larga, più capiente, tant' è vero che proprio da quel rifiuto è dipesa la crescita dell' evangelizzazione oltre i confini che distinguono Israele in maniera così marcata rispetto agli altri popoli; verso tutti i popoli, verso le nazioni del mondo, verso i pagani; ed è in questo contesto che si inserisce proprio l' attività pastorale di Paolo che è arrivato a Tessalonica dove gli è capitato di soffrire in maniera analoga a quella dei primi, ma in questo modo siete ancora una volta confermati nella continuità con quella evangelizzazione che dall' inizio si è espressa e sta crescendo e continuerà a crescere, passando attraverso quelle opposizioni che diventano motivo per provocare, per straripare, per irrompere sulla scena del mondo in dimensioni sempre più ampie, anzi in dimensioni ecumeniche, in tal modo che si colma la misura dei loro peccati. Ma ormai l’ira è arrivata al colmo sul loro capo, attenzione a queste ultime parole perché non sono esattamente una maledizione, ma in questo modo, questo rifiuto accelera la fine: l’ira è arrivata al colmo , al compimento, alla fine; l’ira è la collera di Dio (se ne parlava alla fine del capitolo primo), laddove nel v.10 del capitolo primo leggevamo: “vi siete allontanati dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e così attendete dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che libera dall' ira ventura”. La storia umana non è circoscritta entro l’orizzonte di una collera che manifesta la condanna, ma è la stessa collera di Dio che oramai è dimostrazione di come la sua misericordia sbugiardi questa storia nel suo intrinseco inquinamento; questa è storia che obbedisce alla signoria di Gesù. La collera di Dio non è per la condanna, ma è per sbugiardare l'inquinamento prodotto dal peccato ed è anche quello che è successo all' inizio a Gerusalemme o quello che è il motivo su cui Paolo poi ritornerà successivamente con le sue puntualizzazioni di ordine teologico per cui Israele, in quanto popolo, non ha accolto, anzi contesta me Paolo come altri che siamo al seguito dell'Evangelo per i pagani e anche per voi a Tessalonica. Quello che è successo allora rientra nella rivelazione della collera di Dio che non è per la condanna, ma per sbugiardare il peccato, per obbedire alla sovrabbondante ricchezza della misericordia di Dio stesso che piega anche i rifiuti che subisce dalla ingiustizia, dalla ribellione e dalla prepotenza che gli uomini manifestano come loro iniziativa di una libertà abusata e corrotta. Ecco, questo rifiuto è ridotto in obbedienza a una fecondità, nella gratuità dell'amore che raggiunge orizzonti sempre più remoti e penetra sempre più in profondità nel cuore umano.

Quanto a noi fratelli” (v.17), adesso comincia una terza sezione. Paolo ritorna al racconto dei fatti: che cosa è successo quando io sono arrivato a Tessalonica? Dice: che cosa è successo dopo, quando sono partito? Sono stato espulso, costretto a scappare, proprio dai giudei di una piccola sinagoga. Hanno prezzolato alcuni facinorosi raccolti in piazza perché volevano picchiarmi, ma sono andati a picchiare invece quello che li ospitava in casa sua, un poveraccio che non c'entrava niente. Ecco, questa è la storia di un grande apostolo.

E ci fermiamo qui. Riprenderemo dal versetto 17.

Lectio divina


2019-2020 - Lettere ai Tessalonicesi


  • 03 dicembre 2019
    Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi - seconda parte
    A Tessalonica il Vangelo sta mettendo radici. Paolo è commosso e ringrazia Dio che possiamo chiamare 'Padre nostro'