Incontri di discernimento e solidarietà
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06 giugno 2017

Prima Lettera di Pietro - quinta parte

La vita comunitaria cristiana: pastori e pecore

Sesto incontro del ciclo 2016-2017


Stasera cercheremo di portare a conclusione il cammino, durato diversi mesi, leggendo il cap. 5 della Prima Lettera di Pietro. Si rivolge a cristiani che provengono dal paganesimo; ormai le chiese dell'Asia sono composte eminentemente da coloro che hanno accolto l'Evangelo provenendo da un mondo, una cultura e una religiosità pagana. Il fervore, l'entusiasmo, l'intraprendenza di quella svolta che ha segnato la loro vita corre, col passare degli anni, il rischio di una ricaduta, di un ripiegamento, di un processo involutivo che Pietro affronta in termini molto oggettivi, magistrali anche se la Lettera, come sappiamo, non sviluppa elementi dottrinali originali. Le Lettere di Paolo sono sempre creative; non è il caso di questa Lettera. Pietro si rivolge alle Chiese dell'Asia (un grande territorio che ormai si sta sviluppando in maniera da abbracciare il bacino del Mediterraneo) che sono chiese di fondazione o derivazione paolina, proponendo un insegnamento che ha il valore di un incoraggiamento; e la distanza tra Pietro e i destinatari di questo scritto favorisce l'oggettività della comunicazione e la messa a punto di spunti di carattere esortativo che diventano particolarmente efficaci anche in altri contesti, compreso il nostro.

La Lettera, come abbiamo visto, è composta da una benedizione introduttiva e cinque svolgimenti esortativi; ne abbiamo letti quattro; stasera leggeremo, nel cap. 5, il quinto e ultimo svolgimento. Ricordate sullo sfondo quell'immagine che è già, nella sua evidenza plastica, particolarmente eloquente: "Mi rivolgo a voi che siete stranieri in casa vostra. Dal momento in cui avete accolto l'Evangelo e avete avviato il cammino della Vita Nuova, avete sperimentato che cosa vuol dire essere stranieri in questo mondo che è pure il mondo di prima, di sempre, a cui siete abituati". Si è creata una situazione che si configura come una vera e propria novità che ristruttura dalle fondamenta tutto l'impianto della vita e delle relazioni con il mondo circostante, l'ambiente professionale, la vita familiare, in maniera tale per cui Pietro, a più riprese, ci tiene a valorizzare proprio il titolo di "forestieri in questo mondo": è una metafora importantissima e del tutto pertinente. I vari svolgimenti esortativi che si succedono hanno ripreso questa estraneità che bisogna considerare in rapporto a quel nuovo impianto, quel nuovo inserimento, al radicamento, all'avvenuto trapianto della vita di coloro che hanno accolto l'Evangelo e che adesso si trovano coinvolti in una relazione specialissima con il mistero di Dio che si è loro rivelato. Ciò non significa essere catapultati tra le nuvole; significa essere ristrutturati nella relazione con il mondo, le cose, gli avvenimenti, gli impegni; con tutte quelle esperienze esistenziali che sono le componenti della propria vocazione, missione, responsabilità nella concretezza di chi vive nel mondo.

Nel quinto e ultimo svolgimento esortativo, cap. 5, Pietro fa esplicito riferimento a quella che egli stesso chiama "la vita pastorale" di coloro che hanno accolto l'Evangelo e, dunque, la vita cristiana, la vita "nuova" in quanto assume connotazioni che sono proprie di un ambiente pastorale. Ed è un linguaggio pastorale quello a cui Pietro ricorre sempre per promuovere suggerimenti di carattere esortativo; è evidentissimo il richiamo alla vita comunitaria nelle comunità dei discepoli del Signore che Pietro riconduce a due figure che sono strettamente interdipendenti dalle quali non si può mai prescindere: i pastori e le pecore. Come constateremo, c'è un'interdipendenza tra le due figure che implica una circolarità di posizioni: un segnale particolarmente interessante.

Due paragrafi, 11 versetti, fino al v. 12. Poi c'è il congedo.


La pastoralità della Chiesa è in ogni credente. Il ministero della visita

Cap. 5, vv. 1-4. In questi versetti sono direttamente interpellati coloro che noi identifichiamo come pastori, ai quali Pietro si rivolge col titolo di "presbiteri": sono gli anziani; poi si rivolgerà a coloro che si collocano nella posizione delle pecore che Pietro chiama "neoteri", i giovani. Non è in questione l'età anagrafica, ma la posizione nel contesto di una vita pastorale che coinvolge la totalità del gregge e determina l'interdipendenza tra pastori e pecore, pecore e pastori.

"Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro (Pietro si presenta come con-presbitero) testimone delle sofferenze di Cristo (quella "passione d'amore" su cui abbiamo riflettuto a suo tempo) e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo". Subito c'è da notare che l'esortazione è rivolta ai pastori; ma il gregge è di Dio, non è dei pastori. È un richiamo collocato qui in maniera molto sobria, ma anche estremamente efficace. "Esorto gli anziani che sono tra voi": si rivolge ai presbiteri nel momento in cui sta dicendo qualcosa ad altri interlocutori: "voi" sottintende la presenza di una comunità; quel gregge, di cui parla espressamente subito dopo, le pecore. "Pascete il gregge di Dio". Ora parla direttamente ai pastori, ma, nel v. 1, si rivolge a coloro presso i quali i pastori esercitano la loro attività presbiterale e più esattamente notate che qui leggiamo: "Esorto gli anziani che sono tra voi": in greco dice "in voi" e questo particolare non è indifferente perché si rivolge a una presenza non ancora definita, ma che comprendiamo senza fatica: una comunità che si sta configurando in rapporto ai pastori che sono "in voi". Allo stesso tempo questa presenza dei pastori a cui fa riferimento sussiste in quanto è immanente nella vita interiore dei cristiani. "Esorto i presbiteri che sono in voi". Non si rivolge a quelli che comandano, governano, amministrano, insegnano, svolgono delle funzioni sacramentali di particolare qualità; si rivolge a coloro che sono "in voi". Sono presenze che costituiscono la rivelazione di un coinvolgimento interiore nella vita di tutti gli altri componenti di questa comunità. Questi pastori sono coloro che sono stati identificati, fin dall'inizio, come presenze che svolgono il proprio servizio e la propria funzione presbiterale in quanto costituiscono componenti della vita interiore degli altri, di tutti gli altri nella comunità.

Pietro parla della vita pastorale della Chiesa non nel senso che ci sono i pastori dai quali derivano tutte le attività e le articolazioni di un impianto pastorale che coinvolgerà le pecore, ma ha dinanzi a sé la visione di una realtà comunitaria dove le diverse vocazioni sono interdipendenti, intrecciate e immanenti le une alle altre. Tanto è vero che subito dopo, nel v. 2 afferma: "pascete il gregge di Dio che vi è affidato": il "gregge di Dio" è in voi; la stessa espressione usata precedentemente per dire "i presbiteri sono in voi, le pecore del gregge sono in voi"; per Pietro non si tratta di entità che vengono gestite in modo oggettivo, ma sono presenze che appartengono al vissuto interiore dei presbiteri e questa immanenza vicendevole è la chiave di volta di questa teologia della vita pastorale della Chiesa. Questa interdipendenza di vocazioni, questa appartenenza vicendevole per cui la vocazione dei pastori sussiste nel vissuto interiore delle pecore; e, viceversa, la vocazione delle pecore sussiste, si realizza, prende la propria andatura sempre più matura e feconda in quanto è interna al vissuto dei pastori. È proprio a costoro che Pietro si sta rivolgendo: "pascete il gregge di Dio (che è in voi, come voi siete in loro). Nel v. 1 lo stesso Pietro si è rivolto ai presbiteri definendo se stesso presbitero; come è vero che i presbiteri appartengono a un vissuto interiore che riguarda la vocazione alla vita nuova e la sua articolazione; e la possibilità di realizzare quella vocazione è interna alla vocazione del popolo cristiano. E Pietro si presenta, facendo appello alla sua condizione di cristiano, testimone della Pasqua di Cristo, responsabile di una comunione escatologica. Sono "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe (la comunione nella pienezza del disegno finale, in modo corrispondente alla vittoria sulla morte di Cristo che è risorto e glorioso) della gloria che deve manifestarsi". Si presenta in quanto cristiano che è testimone di questa ristrutturazione della sua e della nostra vocazione alla vita in quanto ha partecipato alla Pasqua del Signore e tutta la sua esistenza è determinata da questa rigenerazione in continuità con la Pasqua di Cristo, morto e risorto glorioso. "Come voi siete accolti, riconosciuti, acquisiti come una presenza che è determinante nel vissuto interiore della vita cristiana di coloro che compongono il gregge, voi siete in me. E insieme, voi ed io, siamo identificati in quanto la vocazione di coloro che hanno accolto l'Evangelo della Pasqua del Signore diventa il contesto in cui la nostra presenza assume la sua identità autentica". Sono considerazioni un po' grezze, ma a me sembrano di fondamentale importanza perché è questa compenetrazione di chiamate, con funzioni che sono variamente caratterizzate in una comunità cristiana, che Pietro sta contemplando e che considera come il valore intrinseco dotato di una fecondità sacramentale inesauribile nella missione a servizio dell'Evangelo nella Chiesa. I presbiteri sono in noi e noi siamo in loro.

V.2: "... pascete il gregge di Dio che vi è affidato (che è in voi), sorvegliandolo...". Tradurre con "sorvegliare" richiama un'immagine un po' poliziesca; meglio tradurre con "visitare" perché l'episcopato è la visita; e questa pastorale, che sta tanto a cuore a Pietro, è una pastorale della "visita": un modo di essere presenti fino al punto di essere non soltanto accanto, ma addirittura presenze che diventano immanenti nella vocazione altrui, e viceversa; presenze che vengono accolte come componenti intrinseche della vocazione propria. D'altronde questo è scontato nella tradizione cristiana, nell'esperienza missionaria e pastorale della Chiesa nel corso dei secoli: il ministero che caratterizza in maniera inconfondibile, primaria e ineccepibile il vescovo è il ministero della visita: il vescovo visita; ed è sacramento che si pone in continuità con tutta la storia della salvezza che è la storia della visita di Dio. Il linguaggio episcopale della visita è ricorrente nella rivelazione antico-testamentaria e poi nel Nuovo Testamento. Pensate al Cantico di Zaccaria: "Benedetto il Signore perché ha visitato" e "perché verrà a visitarci"; quella "visita" che riguarda tutto del passato e già anticipa tutto del futuro. La storia dell'umanità è storia di salvezza in quanto è storia visitata da Dio. E noi siamo depositari di questa constatazione che non può più essere messa in dubbio; non ci sono più incertezze, la promessa è compiuta, la visita di Dio è realizzata, tutto del passato si ricapitola in rapporto a questa visita e tutto del futuro è da interpretare in rapporto a questa visita. È la storia della salvezza: Dio è il visitatore e il nostro episcopos; nella preghiera della liturgia bizantina ritorna costantemente questo titolo attributo al Figlio che Dio ha inviato: il nostro Visitatore. È colui che è venuto a visitarci e che, in quella visita, ha portato a compimento tutte le promesse che riguardano l'eredità di quanto sta alle nostre spalle, diventando il criterio interpretativo di quello che ancora la storia umana dovrà affrontare lungo le strade dell'avvenire. Dunque, la visita è un sacramento, un segno rivelativo; è la presenza pastorale della Chiesa nella storia umana; la stessa costituzione interna della comunità cristiana è pastorale; è questa interdipendenza di vocazioni che adesso assume questa ulteriore sfumatura, un modo di visitarsi e di essere visitati, di essere interpretati nella propria vocazione dalla presenza altrui e, viceversa, essere responsabili della vocazione altrui per come si è rivolti agli altri in quanto ci si dà premura di visitarli.

E ora Pietro indica in maniera sommaria tre modalità, dicendo "non", "ma" per tre volte: "non per forza ma volentieri secondo Dio (non forzatamente; ma volontariamente secondo Dio. Non c'è di mezzo una forzatura o esercizio di potere nel senso di un dominio gestito, ma volentieri secondo Dio); non per vile interesse, ma di buon animo (con generosità, gratuitamente. Non esercitando la forza ma obbedendo all'intenzione d'amore che è sempre liberante da parte di Dio; non per trarne un guadagno, ma gratuitamente); non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge" (questa visita pastorale non viene esercitata dominando sulle persone, sul territorio umano. Il clero ha a che fare con la ripartizione del territorio in spazi che vengono suddivisi tra le diverse tribù; sempre bisogna fare riferimento alla terra che era stata promessa e che, da Gesù in poi, viene abitata dalle tribù di Israele. Quel territorio che ora è un territorio umano, non è più un territorio di tipo patrimoniale o fondiario). Si rivolge ai pastori che sono tali non perché gestiscono un territorio, ma perché precedono il gregge nel cammino.

V. 4: "E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce". Il pastore supremo è il Signore glorioso che viene per instaurare il Regno e, dunque, questo servizio pastorale è mirato a raccogliere le pecore intorno all'"arci “pastore perché le pecore si raccolgono attorno a Lui; in questo contesto è più che mai evidente che i pastori stessi sono pecore in rapporto all'"arci “pastore come tutte le altre pecore del gregge che loro hanno visitato. E si tratta di imparare a riconoscere il vero pastore: insegnare, incoraggiare, sostenere la vita delle pecore perché si raccolgano attorno al vero pastore. E, d'altra parte, è anche importante constatare come, per Pietro, quando questo "arci “pastore verrà nella sua gloria, allora il particolare servizio svolto dai presbiteri troverà il giusto apprezzamento perché solo quel Pastore che viene, solo Lui sarà in grado di apprezzare il servizio dei presbiteri.


Farsi piccoli e condividere le prove dei fratelli

Vv. 5-9. Dal v. 5 Pietro si rivolge ai neoteri, i giovani: "Ugualmente, voi, giovani, siate sottomessi agli anziani". Questa sottomissione non si configura alla maniera di una sudditanza gerarchica, ma di una responsabilità pastorale, tanto è vero che Pietro ci tiene a caratterizzare e valorizzare questa posizione assegnata ai neoteri nel suo valore sacramentale: è un vero e proprio modo di essere presenti nella comunità cristiana che diventa segno sacramentale della presenza viva del Signore perché tutto il mistero cristiano è Mistero dell'incarnazione, della discesa e della risalita, di quella obbedienza di cui è stato testimone, una volta per tutte, il Figlio che, nella carne umana, si è fatto carico di tutte le debolezze e le miserie. In questo essere sottomessi Pietro non sta chiedendo alle pecore del gregge di obbedire e smetterla di belare in modo inopportuno, ma di radicarsi nella profondità, nell'intensità, nell'autenticità della loro vocazione di cristiani redenti; quelle creature umane che hanno incontrato il Redentore della loro vita in quanto Lui si è sottomesso a tutto e a tutti; in quanto Lui si è fatto piccolo. Pietro sta ragionando su un tema che per noi può diventare antipatico o preoccupante: "obbedisci perché c'è chi comanda". Non sta dicendo questo, ma sta dicendo: "vedi che in quella condizione che ti riguarda hai a che fare con la novità di Cristo che, nel suo sottomettersi a tutto e a tutti, nel suo farsi "piccolo" ha portato a compimento l'opera redentiva.

"Rivestitevi ("annodatevi il grembiule") tutti di umiltà (in greco il sentimento della piccolezza) gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi,

ma dà grazia agli umili" (Libro dei Proverbi). "Lasciatevi ridurre alla piccolezza", quella piccolezza che acquista un valore pastorale perché diventa il segno sacramentale di quel sentimento che costituisce il principio dell'opera redentiva compiuta dal Figlio di Dio nella carne umana. Quel sentimento della piccolezza di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi: "Rivestitevi tutti dei sentimenti di Cristo che si fece piccolo...". Pietro non sta dicendo niente di nuovo: il farsi piccolo che nel cuore di Cristo è diventato la rivelazione per noi di quello spazio che nel suo vissuto passato attraverso la carne umana fino alla morte, è divenuto così capiente per contenere tutto e tutti; tutto del tempo, del cosmo, dell'ordine della creazione. Gli stessi sentimenti che furono nel cuore di Cristo: il sentimento della piccolezza. Ne parlavamo anche in altre occasioni: è quella piccolezza che Francesco d'Assisi chiamava la "minorità" come un modo di stare al mondo che apprezza il dono che è presente in ogni creatura di Dio anche nelle situazioni avverse, incerte, problematiche. Ogni creatura di Dio porta con sé un dono rispetto al quale è debitrice, sempre. Ma l'opera redentiva si è compiuta nel momento in cui il Figlio di Dio si è fatto piccolo non perché si sia rattrappito, ma perché gli si è aperto il cuore in misura così spalancata che tutto del mondo ha trovato dimora in Lui. Per questo, dice Paolo, è Signore dell'universo e della storia umana; è il cantico cristologico nella Lettera ai Filippesi. Per questo è il Signore; non gli sfugge niente, nessuno, non si perde più nulla del passato e del futuro. Si è fatto piccolo e qui lo riprende: "rivestitevi tutti di quel sentimento di piccolezza che costituisce un valore di riferimento nella catechesi corrente". Pietro non sta inventando qualcosa di straordinario: sta scritto nel Libro dei Proverbi: "Dio resiste ai superbi, manda grazia ai piccoli". "Umiliatevi dunque (lasciatevi ridurre in piccolezza, dice il v. 6) sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi". Questa disponibilità al servizio rivestendo il grembiule, adesso viene ulteriormente illustrata come quel cammino nella vita che, attraverso una sempre più intensa, profonda, radicale esperienza di piccolezza, nello spalancarsi del cuore diventa un cammino di liberazione rispetto a tutte quelle che sono le preoccupazioni, gli affanni (citazione del Salmo 55: "Gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi"). Lasciarsi ridurre in piccolezza diventa un modo autentico per rendere testimonianza alla mano potente di Dio a cui ci si consegna; a quella mano potente che solleva i piccoli perché li esalti e li rialzi al tempo opportuno. "Si fece piccolo. Per questo Dio lo ha esaltato, lo ha sollevato", dice Paolo nella Lettera ai Filippesi; "gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome". Non è il nome anagrafico, è il modo di essere in relazione con tutto, con tutti per cui è il Signore dinanzi al quale ogni ginocchio si piega in cielo, sulla terra, sotto terra e ogni lingua proclama Gesù Cristo a gloria di Dio Padre. Tutto, per Pietro, è veramente nella vita cristiana modalità di testimonianza sacramentale all'evento di Cristo. Si è rivolto ai pastori, poi alle pecore e a noi ma sono modalità complementari da intendere alla maniera di quel circuito cui accennavo inizialmente per cui tutto fa costantemente riferimento all'evento redentivo di Cristo che si è fatto piccolo e che in questo modo è diventato nel suo cuore aperto il Signore a cui la nostra esistenza umana appartiene. E dovunque: nella diversità delle strade, nella complessità degli eventi, con tutte le contraddizioni del nostro vissuto umano noi ci troviamo alle prese con le vicissitudini di questo mondo e troviamo dimora nel cuore di Cristo. La vita pastorale nella Chiesa funziona così, per Pietro.


A Lui la potenza nei secoli. Amen!

Già dal v. 8 al v. 11, troviamo un'ulteriore esortazione indirizzata ai neoteri: "Siate temperanti, vigilate (un incoraggiamento orientato a rimarcare la necessità di questa vigilanza). Il vostro nemico, il diavolo (nel tempo della debolezza l'esposizione a contrarietà, contestazioni, prove di ogni genere, è da prevedere), come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare". L'espressione "il ruggito del leone" ricorre più volte nel Salterio. È l'avversario. Il diavolo è il divisore, vuole separare, disperdere; la sua è un'attività incalzante; vuole approfittare della debolezza umana, un assedio che sfrutta la paura che può incutere provocando motivi di dissesto nel contesto di quella vita pastorale che Pietro, in tutti i modi, vuole invece valorizzare. Bisogna parlarne senza restare sgomenti perché "Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi". Per Pietro questa resistenza a cui chiama tutte le pecore del gregge, compresi i pastori in questo contesto, è fondata sulla certezza di condividere un'unica storia "patetica", di un amore appassionato con una moltitudine di fratelli sparsi per il mondo; la resistenza diventa nel proprio vissuto personale un momento di comunione aperto all'incrocio con i momenti nei quali si svolge il cammino della vita cristiana di una moltitudine di altri discepoli in giro per il mondo. Riemerge in questi versetti una citazione del Salmo 22 con il quale Gesù ha pregato, moribondo, stando alla Passione secondo Marco e Matteo: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?"; tutto il Salmo, e nel v. 23: "Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli". Non è la preghiera di un disperato, è la preghiera di un moribondo che chiede aiuto e non lo trova: è solo. C'è solo Dio. Il "Tu" è la paternità di Dio. "Ma io sono un verme e non un uomo, sono schiacciato, rifiutato, disprezzato come un verme; non c'è più nessuno disposto a prendermi in considerazione e ad accettarmi". Tu, Mio Dio! "Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli": se Tu sei Padre per me lo sei anche per la moltitudine umana, là dove gli uomini sembrano schiavi di qualcosa che viene dalla terra e ritorna alla terra e dove i vermi imperversano, Tu sei Padre. Il Salmo 22 acquista una straordinaria potenza di evangelizzazione: "Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli"; questo versetto viene ripreso anche nel Nuovo Testamento; il Salmo si conclude con una visione di un'assemblea di fratelli di una comunità che si allarga per cerchi concentrici fino a diventare l'umanità di coloro che sono morti, quelli che non sono nati, tutti "miei fratelli": è la paternità di Dio. "Ti compiaci di un verme come sono io"; per tutti gli uomini, per quanto ridotti alla misura di vermi, la tua paternità ormai è dimostrata. "Questa è l'opera del Signore": il Salmo si conclude con un grido. Gridando ad alta voce Gesù spirò; ha recitato il Salmo per intero secondo le due Passioni a cui ho accennato.

V. 10: "E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria (è proprio la vocazione alla vita che noi abbiamo ricevuto, ciascuno e tutti insieme), eterna in Cristo (questo è ormai il tempo della rivelazione riguardante la paternità di Dio), egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza (è quel percorso di vita che si viene realizzando come luogo penoso, dove le amarezze, le difficoltà, le contrarietà si succedono fino a morire; e, d'altra parte, è proprio in questo percorso di vita che si viene impregnando di una passione d'amore) vi confermerà e vi renderà forti e saldi. A lui la potenza nei secoli. Amen!". In contrappunto a questo passione d'amore è un quadruplice manifestarsi della fedeltà di Dio. Pietro non ama andare a ipotizzare eroismi particolarmente significativi, grandiosi che poi la geografia del futuro celebrerà; eroismi inutili. Si tratta di stare aderenti al dono e alla grazia ricevuta, a quella vocazione che ci identifica come figli ormai che passano attraverso tutte le pene della nostra condizione umana. Ma sono pene d'amore; e, allora, vedete l'operare di Dio. Quattro verbi: "vi ristabilirà, vi confermerà, vi renderà forti, vi renderà saldi"; quattro verbi, un crescendo. C'è anche un ritmo particolare nel testo in greco che non è un'opera letteraria pregevolissima, però, certamente Pietro si è fatto aiutare, come registriamo leggendo il congedo della Lettera, da qualcuno che la sapeva più lunga di lui. Questo succedersi di ben quattro verbi: "vi ristabilisce, vi conferma, vi rende forti, vi radica su un fondamento incrollabile e un'irruzione dossologica: "A lui la potenza nei secoli. Amen!" Una dossologia che aveva già avuto un riscontro precedentemente, nel corso della Lettera e siamo poi rimandati alla grande benedizione introduttiva nei primi dodici versetti.


Salutatevi con bacio di carità

Vv. 12-14. Siamo arrivati al congedo. "Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano (ecco l'aiutante, Silvano che ha collaborato anche con Paolo e adesso è accanto a Pietro a Roma), fratello fedele per esortarvi (la Lettera di Pietro è stata scritta proprio a questo scopo) e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi!". È il valore della vita nuova, della vita cristiana - a cui questi ex pagani hanno aderito e che ormai li identifica in maniera inconfondibile - che deve essere valorizzata adeguatamente. Questa conferma fa tutt'uno con l'esperienza sempre più intensa del discernimento interiore di quali rapporti di fraternità collegano coloro che hanno accolto l'Evangelo in diversi contesti di vita, in diversi ambienti geografici, culturali, sociali. Tra l'altro Pietro scrive da Roma e si rivolge a chiese con le quali personalmente non ha avuto a che fare; però la relazione fraterna è dotata di un'efficacia tale per cui supera tutte le distanze.

E insiste: " Vi saluta la comunità (adesso c'è di mezzo la Chiesa che sta accanto a Pietro e che si trova a Babilonia, cioè a Roma) che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio (tutto fa pensare che sia Marco, l'evangelista). È il popolo cristiano convocato per collaborare tutti e ciascuno, nel contesto pastorale di cui ci parlava poco prima, al servizio dell'evangelizzazione). Salutatevi l'un l'altro con bacio di carità. Pace a voi tutti che siete in Cristo!". Un bacio di carità, di agape. Questo significa che circola un unico respiro. il bacio come comunione di un soffio vitale che viene condiviso; è quell'unico respiro che circola superando tutte le distanze geografiche, temporali, le posizioni culturali, sociali, istituzionali di ogni persona. C'è un unico respiro. Questo modo di salutarsi, qui, come altrove e sempre nel Nuovo Testamento, fa riferimento all'evangelizzazione; c'è un modo di salutarsi che si chiama Evangelo e questa è la prerogativa per antonomasia della Madre del Signore che riceve l'annunzio dall'Angelo e diventa annunziatrice: è evangelizzata e diventa evangelizzatrice; è salutata e diventa "salutatrice" (se così si può dire) perché si presenta alla cugina Elisabetta e la saluta e il saluto provoca il sussulto nel grembo di Elisabetta e di quel bambino che porta da sei mesi. Il Magnificat, il cantico che ne consegue, è l'espressione primigenia, magistrale dell'evangelizzazione. Maria evangelizzata, salutata, annunziata diventa evangelizzatrice. Nella tradizione orante della Chiesa il Magnificat non manca mai al tramonto del sole; quando viene il buio e le ombre si allungano; il cuore comincia a battere pensando a chissà in quale abisso siamo intrappolati e viene il saluto: è l'Evangelo vittorioso sulla notte.

Salutatevi l'un l'altro con bacio di carità. Pace a voi tutti che siete in Cristo!".

Lectio divina


Incontri 2016-2017 - Ciclo


  • 06 giugno 2017
    Prima lettera di Pietro - quinta parte
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