07 febbraio 2017
Secondo incontro del ciclo 2016-2017
Abbiamo completato la lettura della Lettera di Tobia e da stasera prendiamo in considerazione la Prima Lettera di Pietro che negli anni (più di due decenni ormai) non è stata mai oggetto di attenzione fra di noi. Un paio d'anni fa abbiamo letto la Lettera di Giacomo, la Lettera di Giuda e la Seconda Lettera di Pietro in sequenza, accostandoci a quella raccolta di scritti che, nel Nuovo Testamento, va sotto il titolo di "Lettere cattoliche" e alla quale appartiene anche questa Prima Lettera di Pietro. In tutto sono sette scritti, i quattro già citati e le tre Lettere di Giovanni. Non riprendo le note introduttive di allora, ma vorrei ricordare che le "Lettere cattoliche" non hanno sempre la forma epistolare (e questo vale per i tre testi di cui ci occupammo a suo tempo); sono scritti che rientrano in un'attività pastorale di ampio respiro, che non ha come obiettivo determinato il coinvolgimento di interlocutori ben definiti. Solo tre di questi scritti hanno le caratteristiche proprie di messaggi inviati a destinatari ben identificati: la Seconda e la Terza Lettera di Giovanni che, in realtà, sono "biglietti" con tutte le caratteristiche di messaggi inviati a riceventi ben collocati nel tempo e nello spazio, e la Prima Lettera di Pietro che è una vera lettera. Lasciamo da parte tutte le questioni su cui hanno dibattuto e continuano a dibattere alcuni studiosi, pur se bisogna tenerne conto perché nelle introduzioni che leggiamo all'interno della Bibbia sempre compaiono richiami a ipotesi da essi formulate e nei confronti dei quali va mantenuto un atteggiamento sempre rispettoso. É anche vero che noi ci accostiamo al testo tenendo conto di un'esperienza di lettura che non dipende rigorosamente dall'opinione dei tecnici, ma che si inserisce in una tradizione ecclesiale che non è sprovveduta; se non raggiunge livelli accademici è comunque dotata di una sapienza di discernimento niente affatto trascurabile.
Una vera lettera che possiamo senz'altro attribuire a Pietro; non come la sua Seconda Lettera, che leggemmo due anni fa, che esprime una visione pastorale della figura di Pietro redatta da una maestro dell'adesione giudeo-cristiana che, diversi decenni dopo la sua morte, riflette sul valore di quel martirio e sull'eredità che Pietro, morendo, ha lasciato come testamento ai cristiani. La Prima Lettera di Pietro ha invece tutte le caratteristiche di una vera e propria lettera, che Pietro invia da Roma (che nella Prima Lettera di Pietro si chiama Babilonia; lo dice lui stesso: "vi scrivo da Babilonia" che è la capitale dell'impero, Roma). Qualche tempo prima dell'anno '67 d. C. (anno indicato per determinare l'evento del suo martirio), Pietro scrive una lettera indirizzata alle Chiese dell'Asia intesa come regione geografica; Asia è anche il termine che serve a indicare una provincia con la sua configurazione amministrativa ben circoscritta nell'ambito del grande Impero Romano, quella regione che oggi chiameremmo Turchia, il cui capoluogo è Efeso; sono Chiese che personalmente non ha frequentato. Ma scrive un documento che è destinato a circolare (è una primizia di quella che sarà poi la tradizione delle Lettere Encicliche) nel contesto di quelle chiese, quelle regioni, quelle province dell'Impero che risentono in maniera determinante di quello che è stato il lavoro missionario svolto da Paolo e altri suoi collaboratori che, nel corso degli anni e dei decenni, si sono succeduti. Sono chiese formate eminentemente, se non proprio esclusivamente, da pagani che hanno accolto l'Evangelo. Scrive da Roma a chiese che personalmente non lo conoscono, ma sanno di lui e hanno nei suoi confronti un atteggiamento di rispetto, di stima, di venerazione; e scrive in atteggiamento autorevole, ma senza assumere quel ruolo creativo che, per altri versi possiamo e dobbiamo attribuire a un personaggio come Paolo che è sempre teologicamente effervescente; nei suoi scritti è possibile costantemente rintracciare uno spunto di originalità, un'intuizione brillante; affronta le questioni producendo dal vivo soluzioni teologiche che nessuno prima di lui aveva potuto elaborare. Pietro, da questo punto di vista, è dottrinariamente ormai ligio a quello che è l'insegnamento che appartiene alla catechesi attiva nelle chiese. Non siamo in grado di sviluppare un'affermazione del genere con documentazione adeguata, ma possiamo, comunque, almeno intuitivamente, renderci conto di quello che sta succedendo nel corso di quei primi decenni nei quali man mano nelle chiese vengono approntati strumenti utili per la catechesi di cui c'è bisogno per coloro che hanno accolto l'Evangelo, intraprendono il cammino della vita nuova e debbono essere accompagnati, sostenuti, illuminati, educati; e questa educazione non riguarda solo coloro che man mano lo accolgono e vi aderiscono, ma riguarda anche coloro che sono già impegnati nel cammino della vita nuova e hanno ancora molto da imparare. Una spinta catechetica che fa riferimento, ormai in maniera massiccia se non esclusiva, all'insegnamento paolino. Infatti, attraverso la Lettera di Pietro siamo rimandati, con molta competenza da parte di un personaggio che non è geniale come Paolo, ma teologicamente molto maturo, a quell'insegnamento che ormai è un patrimonio consolidato nella catechesi ecclesiale presente e praticata in una molteplicità di chiese; e, in particolare, in quelle chiese dell'oriente che risentono direttamente dell'impegno pastorale svolto a suo tempo da Paolo.
Nello scritto non c'è originalità dottrinaria, ma leggendo ci renderemo conto del fatto che, comunque, la densità del contenuto teologico ci colpisce e ci tiene sotto pressione. La lettera è caratterizzata da un'intonazione esortativa dominante; è scritta non tanto per istruire (si dà per scontato che la dottrina sia già acquisita, anche se questa dottrina è sempre appresa in maniera un po' approssimativa, con qualche scorciatoia nell'enunciato delle argomentazioni), quanto per intervenire per incoraggiare, perché questi cristiani delle chiese asiatiche sono in difficoltà. Sono passati ormai certamente anni - un paio di decenni - e succede quello che per noi, un paio di millenni dopo, è un'esperienza scontata: questi cristiani cominciano a manifestare segni di scoraggiamento, di afflizione, contrarietà impreviste, esperienze di solitudine, di amarezza, di sconfitta che non erano state, per quanto intraviste, acquisite nei termini propri del vissuto. Quante volte Paolo l'ha detto e altri hanno ripetuto: "andate incontro a dei guai"; soltanto che poi, quando i guai arrivano, essere stati informati non consola più di tanto. Pietro scrive perché deve incoraggiare e tutta la lettera è caratterizzata da questa intonazione parenetica o paracletica, esortativa. Tenete presente che il testo è stato motivo di imbarazzo per alcuni studiosi che hanno ritenuto che fosse impossibile attribuire a Pietro uno scritto del genere, perché il testo è redatto in un greco che suppone una competenza linguistica che l'opinione corrente tra gli studiosi non considera possibile attribuire a Pietro. Resta vero che lo stesso Pietro, alla fine della lettera (cap. 5, v. 12), dice: "mi ha aiutato Silvano", detto anche Sina, personaggio che compare alla fine del racconto degli Atti accanto a Paolo. Sono personaggi che sanno il fatto loro nell'utilizzo del greco; Paolo e i suoi collaboratori, Timoteo, Tito e Silvano che adesso è accanto a Pietro, a Roma e che, evidentemente, ha svolto un ruolo prezioso nella redazione definitiva di questo testo. Accanto a Paolo c'è quel maestro della lingua greca che è Luca, l'evangelista, autore del Vangelo che porta il suo nome e degli Atti degli Apostoli.
Diamo uno sguardo alla Lettera e, man mano, passiamo in rassegna le diverse tappe di questo itinerario che si intravede come un percorso mirato a recuperare l'autenticità piena, matura e consolante di quella radicalità evangelica che certamente sta all'origine della vita cristiana di coloro che vi hanno aderito e hanno ormai un po' di anni di esperienza, ma, nel frattempo, sono in difficoltà per come la loro vicenda personale e comunitaria li mette seriamente, qualche volta anche in modo molto aspro, alla prova. Pietro non si sbizzarisce nell'inventare soluzioni teologiche di stratosferica genialità, ma usa la pazienza puntuale, la fermezza coerente, metodica, solenne per intervenire con autorità incoraggiando questi cristiani là dove non è in questione la soluzione di problemi particolari, occasionali o di ordine pastorale e intellettuale, ma piuttosto la radicalità della vita nuova, il suo valore intrinseco che è il motivo per cui il cammino prosegue attraverso contrarietà di ogni tipo; anzi avviene che le difficoltà nella vita cristiana non contraddicono l'Evangelo ma lo rendono esplicito e vissuto con tutta la fecondità che l'Evangelo porta in sé e che diventa motivo di progressiva, sempre più intensa, capillare trasformazione del nostro modo di stare al mondo.
La lettera si apre con il saluto che è premessa tipica, inconfondibile all'inizio di uno scritto epistolare, e l'indirizzo nei primi due versetti. Dal v. 3 al v. 12 ha inizio un'introduzione, una benedizione di apertura che imposta il quadro comunicativo all'interno del quale si inseriranno poi i cinque svolgimenti esortativi che seguono (dal v. 13 in poi).
Ai fedeli cristiani, stranieri in casa loro; innestati nel mistero trinitario; liberati e salvati
Cap. 1, vv. 1-2: " Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell'Asia e nella Bitinia (sono i nomi delle province dell'Impero), eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza". È un avvio che non ricorre a formulazioni ampollose, però, certamente, è un avvio impegnativo. Pietro si presenta come apostolo di Gesù Cristo, in quanto inviato che ha ricevuto proprio da Gesù, il Messia, l'incarico di svolgere un servizio che lo autorizza a rivolgersi a coloro che appartengono a Cristo: da Pietro, in quanto inviato di Cristo, a coloro che a Cristo appartengono, i cristiani, identificandoli - lui, apostolo di Gesù Cristo - nei "fedeli dispersi" nelle province d'oriente "eletti secondo la prescienza di Dio Padre". Sono i cristiani "forestieri della diaspora"; è un modo di qualificare al primo impatto, la vita, la condizione, la presenza cristiana nel mondo, che per noi diventa molto istruttivo perché Pietro dà per scontato che la presenza di cristiani nel mondo comporti un'esperienza di estraneità, di sradicamento. Sono "forestieri della diaspora" dispersi ai quattro venti. Molto probabilmente i destinatari di questo scritto sono quei cristiani che abitano in quelle regioni, inseriti in quelle comunità sorte e cresciute in seguito all'evangelizzazione avvenuta ad opera di Paolo e di altri suoi collaboratori; sono coloro che hanno sempre abitato in quelle regioni, eppure sono "stranieri". Pietro li qualifica così, come se fosse la condizione normale della vita cristiana: coloro che sono segnati da un'esperienza di sradicamento, di diversità rispetto a quello che pure è e rimane l'ambiente in cui si è svolta e continua a svolgersi la loro esistenza quotidiana, familiare, professionale. Credo che noi capiamo bene quello che Pietro pone nell'incipit del suo scritto come una precisa identificazione che attribuisce ai suoi interlocutori, cioè a noi che ora stiamo leggendo la lettera. Per Pietro questa condizione di estraneità, di sradicamento è l'effetto di un'azione di Dio; questi cristiani sono diventati "stranieri in casa loro" per come sono stati sradicati e trapiantati nella relazione con il mistero di Dio che si rivela. Tanto è vero che qui subito, in termini estremamente sobri, ma anche efficaci, ci parla di questo trapianto dell'esistenza umana che è estratta da quel contesto nel quale dal punto di vista pratico continua ad essere inserita, e impiantata nel mistero stesso di Dio che si è rivelato: il mistero della vita trinitaria. Questi forestieri sono degli "sradicati" che vivono in quanto sono impiantati nella partecipazione alla vita stessa di Dio e alla vita della comunione trinitaria nel mistero di Dio. Infatti dice: "secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo". Sono espressioni sobrie, essenziali. L'iniziativa è del Padre ed è operosa, coinvolgente, vivificante, generativa; mediante "la santificazione dello Spirito" (lo Spirito Santo), la corrente di vita che proviene dal grembo della paternità divina e che diventa struttura portante, consacrante, vivificante, santificante di quell'esistenza che continua ad avere quelle caratteristiche di ordine fisico, psichico, empirico, sociale che noi definiamo secondo i criteri della nostra comune esperienza umana. E poi ci prospetta una sequela, un cammino di obbedienza a Gesù Cristo. È una contemplazione più che mai sintetica del mistero di Dio per come si è rivelato, per come la vita intima di Dio si è aperta, spalancata: il Padre, lo Spirito, il Figlio. E la vita cristiana, afferma Pietro in pochissime righe, è impiantata, trapiantata, in quanto vita di forestieri che sono stati sradicati, non in un altro luogo o in un altro tempo, ma nella vita stessa di Dio per come Dio si è rivelato (qui è la novità), protagonista della vita a cui chiama gli uomini. La vita cristiana è esattamente questo: l'inserimento, la partecipazione a quella fecondità inesauribile che è il segreto dell'intimità divina. La prescienza del Padre, l'iniziativa del grembo, la consacrazione dello Spirito; un itinerario che è tracciato nelle misure di spazio e di tempo che sono le misure dell'incarnazione, le misure del Figlio, Parola fatta carne: così si è presentato a noi, ha percorso le strade del mondo, ha aperto un varco e ha lasciato dietro di sé un tracciato; e noi siamo in cammino dietro di Lui.
Nei due versetti che abbiamo letto Pietro, con un'essenzialità di linguaggio sobria, spoglia, non pretende una formulazione letteraria di prestigiosa qualità; eppure fa riferimento a quella che è la struttura fondamentale della vita nuova tenendo conto di quella teologia della salvezza che è presente e viene man mano formulata, illustrata, interpretata attraverso tutta la storia della salvezza e tutta la rivelazione biblica; una teologia della salvezza che è il prodotto di un'avventura faticosa, che è passata attraverso tutti gli eventi di quella storia e che, man mano, ha preso forma, ha assunto un linguaggio, è diventata un documento e i Libri della rivelazione biblica. Ci sono due termini che sono testimonianza evidentissima per noi di questo richiamo a tutta la teologia della salvezza; due termini che hanno un valore ricapitolativo e didattico esemplare. Nel v. 1 compare il termine "eletti": quando si dice "elezione" si intende la salvezza come evento di liberazione. La liberazione dalla schiavitù in Egitto fu il caso esemplare; ecco la salvezza, l'evento che ha determinato quel passaggio dalla condizione di schiavitù alla libertà di quella gente che poi affronta il grande viaggio. Salvezza vuol dire questo, ma non basta: la salvezza è instaurata nella sua piena e definitiva fecondità mediante il rapporto di Alleanza. Coloro che sono stati tirati fuori dall'Egitto sono stati liberati (eletti), però non sono ancora il grado di condurre la vita in tutte le sue componenti, espressioni, articolazioni in un contesto di libertà. Ricordate il quadro classico, che viene ripreso e commentato in tanti modi lungo tutto il percorso della liberazione antico-testamentaria: coloro che sono stati sottratti alla schiavitù in Egitto vengono condotti al Sinai dove il Signore spiega, tramite Mosè: "ti ho portato qui (popolo di Israele), ti ho liberato perché voglio fare Alleanza con te". Ẻ allora che la salvezza diventa una relazione stabile; non è soltanto un episodio, un evento grandioso, sensazionale, spettacolare, ma vuol dire Alleanza. E questo significa che sempre e dappertutto circola una corrente di vita che sigilla il popolo nell'appartenenza al Signore. "Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo"; e quindi l'Alleanza è costruita secondo procedure che rendono valido questo proposito di instaurare una relazione stabile. Noi qualche volta usiamo il termine "salvezza" senza considerare adeguatamente questa duplicità di significati: un conto è la "salvezza" come episodio, un conto è la "salvezza" come stato di vita. In ogni modo quando si dice "salvezza" c'è sempre di mezzo il ritorno alla sorgente della vita. La salvezza non è un fenomeno superficiale aggiuntivo alla vita, ma, nella rivelazione biblica, è la strada che si apre per la conversione alla vita che è la conversione fondamentale, per eccellenza, come la vocazione fondamentale è la vocazione alla vita; tutte le altre vocazioni sono interne alla vocazione alla vita. E per essere rieducati alla vita, riportati alla vita gli uomini devono essere salvati. Ecco la "salvezza" che è ritorno, viaggio, itinerario che non necessariamente ha bisogno di documentazione geografica; le tappe, nel tempo, possono essere variamente misurate, ma è il ritorno alla sorgente, alla pienezza della vita, Queste sono le due grandi sfaccettature di quella teologia della salvezza cui accennavo: l'evento e la relazione stabile; la elezione e l'alleanza; l'esodo e il Sinai con tutto quello che avviene; il dono della legge, le procedure relative alla capacità di corrispondere, il culto e così via.
Pietro dice: "voi che siete eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue". Questa espressione contiene una citazione di quel che leggiamo nel cap. 24 del Libro dell'Esodo. Il popolo è accampato ai piedi del Sinai, Mosè sale, scende, reca la Legge sulla quale è fondata l'Alleanza tra il Dio vivente e un popolo che, appena uscito dall'Egitto (cap. 15, il canto della vittoria dell'Esodo) già protesta; non ne possono più, si stava meglio in Egitto; solo tre giorni dopo. La salvezza è quell'evento? Quell'evento lascia un popolo di peccatori nella condizione miserabile in cui è stato trovato. Però l'evento è avvenuto ed è grandioso, poderoso, straordinario. Ma come è possibile una relazione di alleanza? Il Signore lo dice chiaramente (cap. 19 del Libro dell'Esodo): "Ti ho portato qui perché voglio fare alleanza con te": un'alleanza consacrante, che implica una circolazione di quella corrente che è la vita stessa di Dio. "Ti dono la Legge, costruisco io un ponte per superare la distanza tra te e me e questa Legge che dono a te è la strada che puoi percorrere verso di me". Se funziona il circuito l'alleanza diventa il quadro di comunione all'interno del quale per davvero la vita ritorna alla sua pienezza originaria. Su questa base la relazione è impostata: "ho fatto un passo verso di te, ho costruito un ponte; tu adesso puoi percorrere la strada verso di me". E il circuito si chiude. E vero che poi ci sono altri problemi che subentrano, ma Pietro sta dicendo che adesso l'alleanza funziona; che adesso noi, che siamo stati strappati (è l'evento pasquale), siamo instaurati in una relazione stabile, in una comunione di vita matura, feconda, indissolubile: l'alleanza. Nel cap. 24 del Libro dell'Esodo, dopo che la Legge è donata al popolo, ecco il sacrificio che sancisce l'alleanza: l'altare, il popolo, la vittima del sacrificio; metà del sangue viene versata sull'altare, l'altra metà sul popolo. Questa aspersione del sangue è il sacrificio che sancisce l'alleanza. E Pietro sta dicendo che quella relazione stabile verso la quale era orientata tutta la storia della salvezza (questo cammino di conversione fino alla pienezza della vita) è instaurata. E lo è proprio là dove il sangue asperso su di noi è il sangue di Gesù Cristo, che nella sua condizione umana, nella sua carne umana, nella Pasqua redentiva di morte e resurrezione, ha tracciato quel percorso lungo il quale noi adesso siamo incamminati e siamo in grado di rispondere alla Parola creatrice del Dio vivente che ci chiama alla vita. E quindi: "grazia e pace a voi in abbondanza"; "... in abbondanza": una prospettiva di crescita. Ricordate come in tante pagine del Nuovo e dell'Antico Testamento il popolo di Dio è contemplato peregrinante, in marcia. La vita cristiana è sempre in crescita e il cammino del popolo cristiano è sempre proiettato verso mete ulteriori, perché ormai la vita piena e definitiva è individuata senza possibilità di fraintendimento o deviazione. Pietro scrive a cristiani in difficoltà perché vuole incoraggiarli a rendersi conto che la vita è nuova; che è veramente nuova e che quell'esperienza di estraneità che li fa soffrire, li disturba, li mette a disagio è una componente immancabile di una vicenda che fa di loro nientemeno che gli interlocutori aperti, pronti, solleciti, corrispondenti alla sorgente della vita che si è messa a nostra disposizione, là dove Dio si è rivelato nel suo mistero di comunione e mistero della vita trinitaria.
L'eredità del Padre, che ci fa rinascere
Nei vv. da 3 a 5 troviamo la benedizione di apertura come se Pietro avvertisse subito il bisogno di ringraziare per la salvezza, termine che ricorre nelle tre strofe di questo canto di benedizione. Tre strofe che possiamo attribuire alle Persone divine, secondo la terminologia teologica maturata nel corso dei primi Concili: il Padre, il Figlio e lo Spirito. Infatti quella vita nella quale siamo stati impiantati (ce lo ricordiamo sempre: siamo stati battezzati e ci segniamo, più o meno, ogni mattina nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo) è innestata, trapiantata lì.
Prima strofa: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati (è il verbo che subito serve a qualificare la Persona del Padre: colui che ci ha rigenerati, che ci ha rivelato la sua paternità mediante la figliolanza del Figlio, Gesù Cristo ed è mediante quella figliolanza di Gesù che la paternità di Dio si è manifestata a noi come fecondità che ci ha fatti rinascere) mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi". Dio Padre è benedetto perché - dice Pietro - ci ha fatto rinascere e questa nostra rinascita va a incastonarsi là dove il Figlio, Gesù Cristo, ha portato a compimento la sua missione nella storia umana; c'è di mezzo la resurrezione, tutto l'itinerario redentivo, la sua discesa e risalita, la sua vittoria sulla morte. E al Figlio spetta a pieno titolo il riconoscimento della signoria: è il Signore nostro Gesù Cristo. E la signoria di Cristo, risorto dai morti, è rievocata e contemplata da Pietro come dimostrazione del fatto che Dio vuole riconoscere noi figli ed eredi. Ha riconosciuto e conferito il titolo di Signore a quel Figlio che, nella carne umana, è morto e risorto vittorioso. Questo è il segno dimostrativo di quella volontà generativa per cui, nel grembo del Dio vivente, noi siamo chiamati a rinascere; dal grembo riceviamo questo impulso che ci riconduce alla pienezza della vita perché siamo riconosciuti come figli ed eredi in riferimento a quel Figlio che, ormai vittorioso sulla morte, è intronizzato nella gloria. Questa eredità di cui Pietro ci parla è stata ormai depositata, conservata per noi; quell'eredità che coincide con il corpo glorioso del Signore Gesù, il corpo risorto, crocefisso e vittorioso sulla morte. Noi siamo figli in rapporto a quell'eredità; in quanto figli siamo eredi perché quell'eredità è ormai acquisita come motivo per cui noi siamo qualificati e costituiti nella figliolanza. "... egli ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva". Quando parla di speranza indica un respiro nuovo, un'attesa viva: noi siamo animati ormai da questo respiro che ha come suo riferimento vitale l'eredità gloriosa del Figlio intronizzato; respiriamo a misura di quella pienezza realizzata nella sua vita vittoriosa sulla morte per una speranza viva, di vita. "... per una eredità che non si corrompe": questa eredità è incorruttibile; è il corpo glorioso del Signore che "non si macchia, non marcisce". L'eredità nessuno può più contestarla, nessuno può più disturbare questa procedura testamentale che è depositata al suo posto; nessuno potrà più subentrare, è per noi. É il Figlio glorioso risorto dai morti e noi respiriamo già in rapporto a quella pienezza di vita di cui è protagonista il "kyrios", il Signore Gesù Cristo; e quell'eredità "è conservata nei cieli per voi (per noi), dalla potenza di Dio". "Dynamis", potenza, è uno di quei termini inconfondibilmente attribuito all'attività dello Spirito Santo; siamo già in un contesto trinitario: il Padre, il Figlio, lo Spirito. È la potenza di Dio che ci custodisce mediante la fede, fa di noi dei credenti. È quello Spirito che, dinamicamente, fa di questa nostra esistenza umana, adesso e qui, quel cammino che, puntualmente, continuamente, sistematicamente, universalmente, capillarmente, è il cammino della nostra risposta alla vocazione che ci è stata donata. È la potenza di Dio che fa di noi dei credenti; siamo custoditi mediante la fede, dove "credenti" non vuol dire essere iscritti nel registro dell'anagrafe battesimale, ma itineranti lungo il percorso che ci consente di corrispondere all'iniziativa di Dio. C'è un "respiro" di mezzo, e determinante è quel dinamismo che lo Spirito stesso di Dio, il respiro del Dio vivente suscita e promuove in noi. E, quindi, "siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi". Questo è l'orientamento fino all'attuazione finale che già è efficace nel corso del cammino e nella nostra condizione attuale di itineranti che stanno imparando a respirare con un ritmo nuovo, con una potenza di adesione, di corrispondenza, di penetrazione nell'intimità della vita di Dio che va crescendo.
L'amore per il Figlio, Gesù, che ci dà gioia e salvezza
Seconda strofa, vv. 6-9. Pietro si sofferma a valorizzare quella vocazione e identità filiale che ci compete in quanto siamo coinvolti in un rapporto di comunione con Gesù Cristo, il Figlio; siamo figli in quanto eredi e, dunque, siamo inseriti nella famiglia; è una parentela tale con Lui per cui la Sua eredità è la nostra. E Pietro si sofferma a considerare il valore di questa nostra condizione filiale nella comunione con Gesù Cristo e parla della gioia. Sono versetti che, nella loro sobrietà, che sempre dobbiamo riconoscere a questa lettera, sono entusiasmanti. "Perciò siete ricolmi di gioia (non dice "cercate di essere meno tristi"; la gioia è prerogativa intrinseca della vita nuova, della vita filiale), anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove (è esperienza comune, universale, non mancano guai più o meno seri e impegnativi e ciascuno sa di essere interpellato), perché il valore della vostra fede (la fede è, come dicevo, quella risposta alla vocazione che ci chiama come figli per cui siamo già intestatari di quell'eredità depositata per noi), molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo (questa condizione di vita festosa trasfigura dall'interno ogni nostra afflizione. Ogni prova, dice Pietro, conferma il valore di quella fede che ci struttura in corrispondenza a quella che chiama la "manifestazione gloriosa di Gesù Cristo". Questo essere relativi a Lui vittorioso, manifestato, svelato, glorioso, significa, per Pietro, essere ormai abilitati a realizzare una comunione d'amore. Tra le righe sta emergendo anche tutta una serie di spunti relativi a quella che poi diventa la teologia delle virtù teologali, la speranza, la fede, la carità): voi lo amate, pur senza averlo visto (una relazione d'amore che, nella invisibilità anticipa la meta finale, la salvezza. Speranza, fede nella prospettiva di una corrispondenza che aderisce e ora dice "amore". "Voi lo amate": è una connessione diretta tra la gioia festosa, che sembra una prerogativa coreografica della vita cristiana; in realtà non è una pura espressione esterna di giovialità, ma una prerogativa intrinseca di questa novità affettiva per cui noi amiamo colui che non vediamo); e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate (questa è l'esultanza della Madonna nel Magnificat; è la manifestazione di una letizia che affiora sul volto di una persona che sorride. Questa gioia è indicibile; supera, travolge, travalica tutte le possibilità di verbalizzazione; è inesprimibile, per cui posso essere così contento che mi viene da piangere) di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede (il cammino della fede nella corrispondenza che è già, dall'interno, esperienza di una comunione nella gratuità che fa esplodere di gioia la nostra povera esistenza umana, che pure rimane quella povera esistenza che era; non cambiano i connotati esterni), cioè la salvezza delle anime". Le anime non sono svolazzi di fumo che divagano nell'aria: sono la vita.
I doni dello Spirito, che ci introducono alle profezie e al Vangelo
Terza strofa, vv. 10-12: "Su questa salvezza (termine che ritorna in tutte e tre le strofe) indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo". Il Padre ci ha generati nella comunione con Gesù Cristo, nostro Signore; la gioia dell'amore puro che esplode; e ora la nostra immersione nella gratuità di quella corrente che passa attraverso la storia umana: è lo Spirito Santo, che governa questa economia che ricapitola lo svolgimento dei tempi e il passaggio tra generazioni e tutte le relazioni che stanno a monte del nostro vissuto e che, attraverso di noi, diventano relazioni aperte a quelli che verranno. Pietro rintraccia questa corrente nell'attività degli antichi profeti che hanno svolto il loro servizio nelle diverse epoche, con diversi linguaggi e modalità in vista dell'evento messianico: Cristo. Questo loro servizio, ministero, mandato profetico era mosso, sostenuto, dinamizzato dallo Spirito, che ha fatto sì che tutta quella avventurosa, farraginosa, complessa vicenda storica, che pure siamo in grado di ricostruire, fosse mirata verso l'evento decisivo: l'incarnazione. Il Figlio si è presentato a noi nella condizione umana, attraverso le sue sofferenze, la Sua gloria di Risorto vittorioso sulla morte. Vedete come i doni profetici che lo Spirito di Dio ha effuso nel corso della storia della salvezza (per Pietro c'è di mezzo la storia universale) sono presenti e operanti senza bisogno di particolari riconoscimenti. Lo Spirito Santo è operante in una dimensione di illimitata libertà, gratuità, capillarità, intensità, profondità e tutti i doni confluiscono verso l'evento messianico: la Pasqua di passione e di gloria del Figlio. Quel dinamismo che lo Spirito Santo ha espresso nel passato adesso è il dinamismo che è giunto fino a noi attraverso l'Evangelo che, attraverso di noi, è rilanciato a coloro che verranno. Noi siamo inseriti, immersi (l'immersione battesimale) nella gratuità di questa corrente che è mossa dallo Spirito Santo di Dio e che confluisce in quell'evento in cui tutto è ricapitolato per quanto riguarda l'intenzione originaria del Padre. E il Figlio che, nella sua Pasqua redentiva, nella sua carne umana, è morto e risorto è quella potenza, quel dinamismo, quella corrente, operante dall'interno, che adesso si manifesta attraverso i percorsi dell'evangelizzazione. E noi, dice Pietro, siamo in continuità con lo stesso Spirito; quello Spirito che operò nei profeti è lo stesso che opera in noi. Questo è anche il motivo perché noi possiamo leggere le scritture. E' un grande tema teologico: l'ispirazione dei testi sacri, che non è un problema teologico relativo agli antichi scrittori e basta; è relativo allo Spirito che consente a noi, oggi, di leggerli. Gli scritti sono ispirati quanto è ispirata la nostra lettura. Non siamo alle prese con una biblioteca di libri, siamo alle prese con il dinamismo dello Spirito che fa di noi dei lettori che ascoltano.
Pietro dice nel v. 12: "E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi erano i ministri". Loro hanno svolto quel servizio, quell'annuncio, quel messaggio dove tutte le profezie convergono nella visione di Cristo che tutto patisce, non per loro stessi; per voi erano ministri di quelle cose che vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato l'Evangelo. Accogliere l'Evangelo significa accogliere quella potenza dello Spirito Santo che ha costruito tutta la storia del passato e costruisce tutta la storia umana. Accogliere l'Evangelo non significa uscire dal mondo, significa entrare nel mondo in pieno, nel cuore della storia umana dove è la totalità degli eventi che l'Evangelo trasmette come energia vitale che adesso, dice, "passa anche attraverso di voi, di noi, di me". E la vita cristiana è vita che si inserisce in questo quadro che più ecumenico di così non potrebbe essere. E questo è un particolare veramente interessante: Pietro si rivolge a coloro che sono "stranieri" perché sono cittadini del mondo: "siete sradicati perché ormai l'Evangelo vi conferisce quella identità che porta in sé il fervore, l'intensità, la libertà dei molteplici relazionamenti che aprono a quel disegno che è nell'intenzione originaria di Dio e che Dio stesso ci ha rivelato; quell'intenzione che riguarda la ricapitolazione e la riconciliazione di tutto nel mondo e nella storia secondo il cuore di Dio".
"...cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo". Queste sono cose che gli angeli non conoscono; sappiamo più degli angeli. La Chiesa che evangelizza sa qualcosa che gli angeli non sanno, non conoscono; sono stati informati dopo. Ma la missione a servizio dell'Evangelo porta con sé questa capacità di reinterpretare e finalmente illustrare dall'interno il senso della storia umana nella sua complessità e il senso del creato in tutte le sue componenti, dal di dentro, con un'ampiezza di partecipazione alla vita stessa di Dio per cui gli angeli, a questo riguardo, sono invitati come collaboratori esterni. Quel che è certo è che Dio si è fatto uomo, non si è fatto angelo!