Incontri di discernimento e solidarietà
 
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L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia


Primo incontro del ciclo 2007-2008

30 ottobre 2007


Il tempo dell’evangelizzazione



Ritorniamo alla lettura dell’Apocalisse che avevamo interrotto lo scorso mese di giugno, arrivando al v. 5 del cap. 14.

Le pagine che stiamo leggendo fanno capo al settimo squillo di tromba, quello che è risuonato alla fine del cap. 11. Settimo sintomo della fine, di quella crisi permanente che è componente costitutiva della storia umana. .Il nostro Giovanni, con il suo linguaggio teologico e pastorale insieme, ci aiuta a constatare come sia proprio la venuta del regno messianico a costituire il vero motivo della crisi in cui si trova la storia umana; questo è l’estremo e definitivo sintomo della fine: viene il Regno.

Settimo squillo di tromba (siamo alla fine del capitolo 11, là dove si apre il santuario di Dio): in quella visione dell’arca dell’alleanza, che appare quando il santuario si spalanca, prende fisionomia la presenza della donna. Cap. 12. E’ l’arca dell’alleanza, l’intenzione originaria del Dio vivente, il suo segreto che oramai si è manifestato in modo tale che nella storia degli uomini tutto si compie in obbedienza alla sua eterna volontà d’amore. L’arca dell’alleanza; la donna. E abbiamo avuto a che fare poi con la sequenza di visioni che si sviluppano a partire da questo segno grandioso che è la donna comparsa sullo sfondo del cielo. Abbiamo parlato a suo tempo di questa figura che ci ha condotto a considerare la realtà della chiesa impegnata nella sua missione nel tempo che ancora si svolge dopo la Pasqua del Figlio, colui che è disceso ed è risalito, colui che è morto ed è risorto, colui che ormai è intronizzato nella gloria, colui che ormai è vittorioso, colui che ha instaurato il Regno. Ed ecco, la donna nel deserto, impegnata nella missione affidata ai discepoli del Signore Gesù, il Figlio del Dio vivente che ha riportato la vittoria definitiva. Questa missione è aggredita, minacciata, contestata dall’avversario: il drago. Ricordate come il drago si dà da fare per opporsi a quella fecondità nella evangelizzazione; la fecondità della donna per quanto riguarda la vita nuova, la vita piena, la vita definitiva ed eterna a cui gli uomini sono chiamati e a cui gli uomini sono condotti in forza della comunione con il Figlio di Dio che è risorto dai morti. Ed è proprio nelle pagine seguenti, nel cap. 13, che, sempre guidati da Giovanni che ci descrive le sue visioni, siamo stati aiutati a precisare il senso e il dramma del combattimento attuale: nel corso della storia, che si svolge a partire dalla Pasqua del Figlio fino all’avvento finale che manifesterà la sua gloria, il drago incalza, si oppone, imperversa e si serve della bestia. La bestia: l’impero, il potere che viene ricercato e gestito dagli uomini come valore assoluto, sacro, divino, come principio di riferimento a cui ci si deve rivolgere in atteggiamento di adorazione. La prima bestia ricapitola tutte le forme della idolatria umana e alla prima bestia fa seguito la seconda bestia in quella prospettiva che ribalta la rivelazione del mistero trinitario di Dio, una trinità capovolta come abbiamo constatato a suo tempo. Dal drago la prima bestia, dal drago la seconda bestia che interviene sulla scena della storia umana come collaboratrice della prima bestia, anzi come quello strumento culturale che presta ossequio alla prima bestia e che attrae i sentimenti, i comportamenti, che provoca tutto un coinvolgimento degli uomini in modo che adorino la prima bestia e adorino il drago che ha inviato la prima bestia.

La seconda bestia: il falso profeta. Là dove la prima bestia raffigura l’impero, la seconda bestia sta a indicare l’attività della cultura intesa come capacità di ricerca, di ragionamento, di ispirazione sentimentale che viene strumentalizzata in modo tale da educare gli uomini nella obbedienza alla prima bestia e nella adorazione del drago. Una spiritualità – per dirla così – capovolta.

E siamo arrivati all’inizio del cap. 14 laddove nella sua visione il nostro Giovanni ci invita a contemplare la realtà del combattimento che è in corso per scoprire come la scena della storia umana è già dominata dalla presenza dell’Agnello. Accanto a Lui, la presenza di un popolo fedele, un popolo che resiste, che è già in grado di testimoniare la vittoria che compete al Figlio morto e risorto, la sconfitta del drago e la ricapitolazione di tutta la vicenda, dall’inizio alla fine, in obbedienza all’iniziativa di Dio. Nel contesto di quel combattimento, c’è già un popolo di discepoli impegnato nella sequela dell’Agnello che rende testimonianza in modo maturo, autentico, esemplare.

Diamo uno sguardo rapidissimo ai primi versetti del cap. 14, dove eravamo giunti a suo tempo e poi proseguiamo.

Dal v. 1 al v. 5: “Poi guardai e vidi l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo”. Centoquarantaquattromila è la cifra che già è comparsa nel testo del nostro libro per indicare la realtà del popolo di Dio mentre è in marcia, di tappa in tappa, nel deserto, che rappresenta è il tempo e le vicissitudini della storia. Coloro che appartengono a Dio, e sono ormai sigillati nella comunione con il mistero trinitario del Dio vivente, sono un punto di luce, e questa loro luminosità, insieme a quella dell’Agnello ritto sul monte Sion, si fa sempre più intensa, efficace, significativa in modo tale da attirare a sé l’attenzione.

Udiiuna voce che veniva dal cielo come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono”. C’è una liturgia che viene celebrata alla presenza del Dio vivente e Giovanni è in ascolto del coro angelico che partecipa alla celebrazione della liturgia celeste. E’ importante constatare che quella voce era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe. Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra”. Ritorniamo a quel numero simbolico di coloro che già celebrano, nel corso della storia umana, una liturgia che è sintonizzata con quella celeste, che è in continuità con la celebrazione che si svolge in maniera compiuta e definitiva alla presenza del Dio vivente. E’ il popolo dei redenti. I redenti della terra: coloro che, mentre sono su questo mondo e avanzano di tappa in tappa nel corso della storia umana, sono coinvolti in una relazione di obbedienza totale alla intenzione che il Dio vivente ha, da parte sua, rivelato e portato a compimento. Sono coloro che, mentre si muovono sulla scena del mondo impegnati nel grande viaggio, all’interno di quel conflitto, così drammatico che abbiamo constatato, già fanno eco al cantico nuovo. E’ il cantico del coro celeste, in celebrazione dell’opera della salvezza realizzata da Dio, che risuona sacramentalmente nelle voci dei centoquarantaquattromila che hanno appreso quel cantico. Qui avevamo fatto una correzione: il verbo “comprendere” va sostituito col verbo “apprendere”, che è quello proprio del discepolato. Il cammino dei redenti si svolge in modo tale da coincidere con una celebrazione liturgica che corrisponde in modo sacramentale alla liturgia della salvezza pasquale che è celebrata dinanzi al Dio vivente, là dove l’Agnello è già intronizzato.

Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque va”. Vedete: coloro che sono estranei all’idolatria hanno il segno della verginità e “seguono l’Agnello dovunque va”. Sino in fondo, laddove l’Agnello li precede e non c’è luogo sulla scena del mondo, non c’è momento nello sviluppo della storia umana che, per i redenti, non sia motivo opportuno per riconoscere l’Agnello e per seguirlo dovunque egli va. E’ un itinerario pasquale, di morte e di resurrezione, che si apre per loro sempre e dappertutto. “Seguono l’Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia”.


Tutto questo per dire che sulla scena della storia umana, là dove è in corso il combattimento, là dove il drago insidia la donna e invia la bestia e poi la seconda bestia per contrastare la missione della chiesa, il popolo dei redenti, che ha riconosciuto il proprio pastore, assume una fisionomia che è sempre più luminosa e coerente con la radicale appartenenza all’Agnello.


Cap. 14, dal v. 6 fino al v. 20: la visione di Giovanni diviene per noi un aiuto, come sempre molto sapiente, pertinente ed efficace, a riscontrare le note caratteristiche dell’evangelizzazione in corso, che è un altro modo per parlare di quel combattimento di cui ci siamo occupati precedentemente perché il tempo del combattimento, di momento in momento, durante la storia umana, è il tempo della evangelizzazione.

E’, appunto, un altro modo per parlare di quel che avviene nel corso della storia così come essa si svolge dalla Pasqua del Figlio fino all’avvento glorioso del Signore che ritornerà.

Nei versetti da 6 a 13 una sequenza di visioni che ci aiutano a mettere a fuoco forme, espressioni, dinamiche che sono nient’altro che le sfaccettature di quell’Evangelo che in modo sempre più evidente acquista la fisionomia del protagonista della vicenda umana. La storia del combattimento è la storia dell’Evangelo, è l’evangelizzazione che diviene il criterio decisivo per interpretare il senso di quel che sta avvenendo. Tutto sempre fa capo a quella donna che è in viaggio attraverso il deserto; tutto fa capo a quel settimo squillo di tromba: il regno che viene. Tre immagini, qui adesso, ci aiutano a focalizzare le caratteristiche dell’Evangelo in corso e queste tre immagini sono contemplate e proposte a noi da Giovanni in relazione alla comparsa di tre angeli, l’uno di seguito all’altro, collegati tra loro in modo tale da darci esattamente l’immagine di una corsa che continua nel suo sviluppo; sono in continuità; è la corsa missionaria che il popolo dei redenti affronta, la sequela dell’Agnello, ed è una continuità articolata, capillare in modo tale che esattamente assume la fisionomia della presenza che fa da protagonista.


Un vangelo eterno, universale, definitivo

Primo angelo, v. 6-7: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo. Egli gridava a gran voce:

"Temete Dio e dategli gloria,

perché è giunta l`ora del suo giudizio.

Adorate colui che ha fatto

il cielo e la terra,

il mare e le sorgenti delle acque».


Vedete: un altro angelo. La stessa espressione verrà usata successivamente anche quando la nostra traduzione se ne dimentica, come nel versetto 8 e 9, a conferma di quel che già vi suggerivo: qui gli angeli compaiono come sfaccettature di un’unica realtà che si svolge in modo continuo, in modo articolato. E questo primo angelo vola in mezzo al cielo (come quell’aquila di cui ci siamo occupati a suo tempo) e porta con sé un Evangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra, ad ogni nazione, razza, lingua, popolo. Una novità definitiva che è valida universalmente. Qui sono indicati in modo sommario, ma inconfondibile, tutti i tempi, tutti i luoghi, la varietà degli eventi, la molteplicità delle culture e dei linguaggi. Ed ecco nel v. 7 come Giovanni descrive per noi il contenuto di quel messaggio, di quell’Evangelo eterno: “Temete Dio e dategli gloria…”. E’ l’ora della “crisis”, è l’ora del giudizio. L’Evangelo porta con sé questa critica definitiva della storia che raccoglie la presenza, la partecipazione dell’umanità intera, una generazione dopo l’altra e nella molteplicità dei luoghi che sono gli ambienti nei quali la vicenda umana è in corso. E’ l’ora della “crisis”. Qui Giovanni, in ascolto dell’Evangelo proclamato da quell’angelo, ci parla di un’adorazione dedicata a colui che ha fatto il cielo e la terra, il mare e le sorgenti delle acque. Vedete che questo è esattamente il linguaggio con il quale è impostato il precetto del sabato nel decalogo. Basterebbe andare a rileggere nel libro dell’Esodo, cap. 20, il v. 11. Colui che ha fatto il cielo e la terra è colui che ha operato per sei giorni, ma poi viene il sabato. E’ il sabato in cui il Santo ha riposato per compiacersi della bellezza delle sue creature. L’Evangelo viene qui proclamato e descritto come quell’annuncio che ormai proclama l’avvento del sabato; il sabato pieno, definitivo, nel quale il creatore si compiace della bellezza che egli stesso ha conferito alle sue creature; è l’ingresso nel riposo sabbatico. E, quindi, tutto un processo di rieducazione che riguarda i sentimenti, la consapevolezza della vocazione che è stata donata a ogni creature umana, tutto un ripensamento circa la dignità della creatura umana che è condotta a entrare nel riposo del Dio vivente, laddove Egli, creatore dell’universo, si compiace della bellezza di ogni sua creatura. Un Evangelo eterno: è l’evangelizzazione in corso. E’ l’Evangelo che determina l’ora della crisi; questa è la motivazione della crisi che stringe tutto della storia umana perché tutto del passato, del presente, dell’avvenire viene ricondotto a quel sabato del Dio vivente nel quale il Santo ha voluto riposare per rallegrarsi, per ammirare la bellezza delle sue creature. L’evangelo eterno. Questa è la predicazione che mette in crisi tutto e tutti, sempre, dovunque perché tutto quello che è nel tempo e nello spazio viene ricondotto al riposo sabbatico del Creatore.




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Babilonia è caduta; l’idolatria è smascherata

V. 8: «Un altro angelo, il secondo,lo seguì gridando:

"E` caduta, è caduta

Babilonia la grande,

quella che ha abbeverato tutte le genti

col vino del furore della sua fornicazione».


Un’altra immagine che serve a descrivere l’evangelizzazione che è in atto. Qui vedete l’Evangelo viene descritto da Giovanni come l‘annuncio di una liberazione ormai piena, definitiva; una liberazione che fa tutt’uno con la caduta di Babilonia. Ossia la caduta di quella falsa grandezza di cui Babilonia si è ammantata. Parleremo ancora più avanti di Babilonia. Qui è dato l’annuncio in modo così semplice e solenne citando peraltro testi profetici dell’Antico Testamento. E’ la cultura dell’idolatria che ormai è sbugiardata, è la grande prostituzione che oramai è stata dichiarata nella sua pretesa di contaminazione universale: “Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione”. Babilonia, la grande, ha coltivato sentimenti inebrianti nell’animo umano ed ora proprio quell’ebbrezza viene sperimentata come inesorabile condanna a sprofondare nelle conseguenze di una collera a cui non si può sfuggire. Era stata l’ebbrezza di un entusiasmo che era ritenuto dagli uomini garanzia di grandezza superlativa. Ed ecco diventa l’ebbrezza che provoca uno stordimento inguaribile: “Babilonia, la grande, è caduta”. Vedete, è un altro risvolto dell’evangelizzazione in corso: dopo l’annuncio relativo all’instaurazione del sabato, in modo corrispondente alle intenzioni originarie del Creatore, adesso l’annuncio relativo alla caduta di Babilonia, allo svuotamento, alla disintegrazione, allo sgretolamento dall’interno di quel progetto velleitario che infettava la scena del mondo con l’ebbrezza di una capillare idolatria. E’ caduta Babilonia.


Il tormento infernale di chi adora la bestia

E ancora, vv. 9-10-11: un altro angelo, il terzo (anche qui bisogna aggiungere “altro”) «Poi, un altro angelo, il terzo, li seguì gridando a gran voce: “Chiunque adora la bestia e la sua statua (la statua è la seconda bestia, come ricordate, che è specialista nel far parlare i fantocci, le immagini con tutto quel marchingegno spudorato e massimamente inquinante di cui ci siamo resi conto a suo tempo) e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il vino dell'ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell'Agnello…». Di che cosa sta parlando qui Giovanni? Questo “altro” angelo ancora grida a suo modo, nel senso che dà voce all’evangelizzazione che è in corso; più esattamente, adesso, l’Evangelo viene descritto come quell’energia che ormai attraversa la scena del mondo (naturalmente c’è di mezzo la donna, c’è di mezzo il popolo dei redenti, c’è la testimonianza dei discepoli dell’Agnello fino al martirio, come ben sappiamo). Ebbene: l’evangelizzazione in corso acquista qui la caratteristica di una presenza che svela come l’inferno abbia invaso, abbia occupato la realtà di questo mondo. Non l’inferno come una meta ipotetica che sta al termine del percorso, ma l’inferno come la condizione nella quale fin da adesso gli uomini si sono rintanati per il fatto che Babilonia domina, che la bestia impera, che il drago vuole imporre la sua iniziativa in radicale ribellione all’iniziativa del Dio vivente. Giovanni ci aiuta a constatare come la condizione degli uomini che sono sottoposti al marchio fa di loro dei tormentati e questo tormento invade, sconvolge, brucia, devasta la vita degli uomini facendo di loro dei condannati a morte in anticipo. Questo disagio assume aspetti spettacolari: «…”Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome”». Il tormento a cui gli uomini sono condannati per il fatto di aver adorato il drago, di aver assunto il marchio della bestia: è la condizione infernale che ci tormenta, propria della condizione umana nel tempo della storia. Di tutto questo ci rendiamo conto perché l’Evangelo è in atto. E’ l’Evangelo che spiega, illustra, ci fornisce i criteri opportuni, mette in crisi ogni cosa in modo tale da chiarire quello che sta succedendo: stiamo all’inferno, stiamo male, è in atto il tormento. E’ proprio il passaggio dell’angelo terzo che attraversa il cielo a spiegare tutto questo; è l’evangelizzazione che è operante all’interno della storia umana che ci libera da Babilonia, ci sottrae a quella condizione di vita infernale nella quale ci siamo imprigionati da noi stessi perché abbiamo accettato il marchio della bestia.


Beati i santi: la loro morte è pienezza di vita

E, vedete, adesso i vv. 12 e 13 che fanno da intermezzo dopo queste tre immagini dei tre angeli che ci hanno aiutato a cogliere diverse e complementari sfaccettature dell’evangelizzazione. E’ l’Evangelo eterno, è il protagonista della storia umana l’Evangelo. Viene colto e raffigurato qui come il vero soggetto e protagonista della storia umana là dove l’Agnello è colui attorno al quale il popolo dei redenti si raccoglie; è l’Agnello il pastore che conduce i discepoli in modo tale che lo seguono dovunque egli va. L’Evangelo: il fatto nuovo, la novità piena, definitiva, che ha un valore universale; è la presenza che assume in pienezza il ruolo del protagonista nella storia che è in corso.

E qui, dicevo, un intermezzo, vv.12-13: appare la costanza dei santi che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù. Questa è l’ora della vita cristiana, del Vangelo vissuto (per dirla in modo un po’ banale, se volete, ma perfettamente comprensibile da parte nostra). Questo è il momento, il tempo nel quale si manifesta la fedeltà e la pazienza del popolo di Dio; dall’Antico Testamento fino alla pienezza della rivelazione che si è compiuta a nostro vantaggio mediante l’incarnazione del Figlio. Qui appare la costanza dei santi che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù. E’ l’ora della vita cristiana con quanto adesso leggiamo nel v. 13: «Poi udii una voce dal cielo che diceva: “Scrivi: Beati d'ora in poi...”. Questa è l’ora della beatitudine. E’ l’ora della vita cristiana. Notate che poche righe prima ci parlava del tormento infernale; adesso è l’ora della beatitudine. Che cosa significa questo? “Scrivi: beati d’ora in poi i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”». Vedete, questo è il tempo nel quale i cristiani oramai sono in grado di godere di un riposo pieno; al di là di ogni obiezione, di ogni contestazione è un riposo che rende beata la vita degli uomini non perché viene esclusa, accantonata, rimossa la prospettiva della morte, ma proprio in vista della morte che diventa garanzia di comunione con il Signore; questa prospettiva, che orienta la vita cristiana alla pienezza della comunione con il Signore, conferisce alla morte un valore di pacificazione riposante, beatificante. Questo dice lo Spirito: “riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”. Vedete come Giovanni ci parla qui della vita cristiana mentre è alle prese con gli impegni della propria itineranza. E’ un’itineranza che affronta tutte le responsabilità che ci riguardano tenendo conto delle particolari misure di tempo, di spazio che definiscono la vocazione di ciascuno di noi e di tutti insieme. Ebbene: la fatica lascia dietro di sé frutti di edificazione, di carità, di benedizione che non sono rimossi dall’impatto con la morte, ma proprio in vista della morte acquistano un valore definitivo. “Riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”. Questo, vi dicevo, è il tempo della beatitudine per coloro che nella vita cristiana si stanno consumando nell’esercizio di quella carità che trova non impedimento ma consacrazione nella morte. “Beati d’ora in poi i morti che muoiono nel Signore”.


E’ l’ora in cui l’Agnello miete

Proseguendo nel nostro cap. 14, ora si aggiungono due immagini (nei vv. da 14 a 20) di quella crisi che è in corso. E’ l’evangelizzazione che fa di questo tempo l’ora della crisi, come leggevamo poco fa. Due immagini: diversi momenti di una contemplazione che è intimamente coerente. Da diversi punti di vista, con diversi approcci, è sempre la stessa realtà che Giovanni sta contemplando: il fatto nuovo per cui nella storia degli uomini è presente il popolo dei redenti, è presente la vita cristiana, è presente quella novità che fa della nostra vita – ancorché condizionata, schiacciata, mortificata, esposta a tutti gli urti e a tutti gli ostacoli – un’epifania dell’Agnello vittorioso. Senza perdersi nelle ipotesi un po’ fantasiose, ma proprio nella concretezza più umile e più capillare del nostro vissuto, là dove è la nostra vita cristiana, nel tempo e nella spazio della storia che si sta consumando in una obbedienza d’amore, per un servizio d’amore, per una offerta d’amore. E’ proprio così che la regalità vittoriosa dell’Agnello esercita la sua signoria che è di ieri, di oggi e per sempre. Qui, vv. da 14 a 16, una prima immagine: la mietitura. La seconda immagine dal v. 17 al v. 20: la vendemmia. Sono figure presenti nel linguaggio apocalittico tradizionale, come pure in quello delle parabole. «Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d'uomo; aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata(“Figlio d’uomo”: è la profezia di Daniele; il sovrano vittorioso, colui che viene sulle nuvole del cielo. Dan. cap. 7). Un altro angelo uscì dal tempio (il tempio qui è il naòs,il santuario, è il santo dei santi, è l’intimità profonda, il segreto del Dio vivente)gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube(il Figlio dell’Uomo): “Getta la tua falce e mieti; è giunta l'ora di mietere, perché la messe della terra è matura”.Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta». Vedete: il tempo del raccolto e il Figlio dell’Uomo, sovrano, è colui che garantisce il significato radicalmente positivo della storia, perché è nel corso del suo svolgimento che si prepara il raccolto. Il tempo del raccolto si presenta oramai in virtù di una maturazione a cui non si potrà sfuggire. Sono immagini che, come accennavo, ritornano anche nelle parabole evangeliche.

E’ un criterio fondamentale in base al quale Giovanni ci aiuta ad interpretare la crisi sempre attuale della storia umana, da comprendere in relazione alla evangelizzazione che è sempre in atto. Ebbene: è una vicenda critica la nostra, là dove tutti gli aspetti di quel combattimento di cui ci siamo resi conto rispuntano con fastidiosa petulanza, ecco, questa è la storia della maturazione che conduce indefettibilmente gli eventi verso il raccolto e verso la mietitura. Il Figlio dell’Uomo che è il Signore non è qui citato e contemplato come colui che è asceso ed ora attende, ma è colui che è attento, sorveglia e garantisce la maturazione della messe fino al raccolto.


Anche la vendemmia è matura

Seconda immagine, dal v. 17: “Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, anch'egli tenendo una falce affilata. Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, uscì dall'altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata”. Notate questo secondo angelo ha potere sul fuoco; se ne parlava nel capitolo 6 e qui – non ci possiamo più confondere – c’è di mezzo la preghiera. Ricordate la brace sulla quale viene bruciato l’incenso; la preghiera che sale verso il cielo e che poi è sparsa sulla scena del mondo (cap. 6). Vedete: questo altro angelo è colui che ha potere sul fuoco ed è colui che sta qui a raffigurare il ritmo che è conferito alla storia dell’umanità per il fatto che in essa è presente e operante la preghiera. Alla scuola della preghiera, nel respiro della preghiera e anche nell’arsura della preghiera, nell’incendio che la preghiera reca con sé, il primo angelo, quello che porta la falce affilata riceve questo incarico: “Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le sue uve sono mature”. La spremitura viene suscitata e adesso i grappoli della vigna debbono essere vendemmiati e le uve mature devono essere pigiate nel tino e spremute. “L'angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio. Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di duecento miglia” (che sono, poi, in realtà 1600 stadi). Immagini che lì per lì possono sorprenderci. A dire il vero giunti alla fine del cap. 14 dell’Apocalisse non dovremmo più sorprenderci di nulla e in ogni modo, vedete, come qui il mondo viene contemplato da Giovanni sotto la figura di un’unica vigna che diviene un immenso tino, là dove tutta l’uva vendemmiata viene spremuta. Quindi il vino come sangue, il sangue come vino. E’ un modo ancora una volta per rievocare lo svolgimento della storia umana con tutto ciò che in essa è motivo di straziante dolore, un’effusione di sangue che assume aspetti alluvionali come Giovanni ci dice. E d’altra parte tenete conto di quella osservazione su cui insistevo poco fa: questa vendemmia è da comprendere finalmente nel respiro della preghiera. E allora succede che quella corrente di dolore che raccoglie una quantità di sangue versato di cui non riusciamo neanche a calcolare la misura, si trasforma dall’interno in una unica grande opera di comunione, di riconciliazione; tutto si fonde in questo disegno di obbedienza all’ira di Dio, alla collera di Dio. Obbedire alla collera di Dio è obbedire alla sua volontà originaria che è più forte di tutte le contraddizioni che ha incontrato. E ora è proprio l’intenzione originaria del Dio vivente che trasforma la storia del dolore – là dove il sangue è stato effuso in misura torrenziale – in storia della riconciliazione, della comunione. E’ la storia che prepara la festa della vendemmia e dunque la delizia del vino spumeggiante.

Il tino fu pigiato fuori della città”: questo è un accenno inconfondibile all’evento pasquale. Il crocefisso è stato inchiodato fuori della città: una scenografia che è universale. In pochi tratti Giovanni ancora ci sorprende proprio per la sua capacità di visione ecumenica: il passato, l’avvenire, il presente senza dimenticare nulla di quella realtà oggettivamente drammatica con cui gli uomini devono fare i conti. Ebbene: questa scenografia viene messa in relazione con l’evento che si è compiuto fuori della città. Ecco il tino pigiato ed ecco come quella alluvione di sangue è ricomposta come vendemmia che conduce la storia umana alla festa piena in modo da corrispondere finalmente alla intenzione originaria del Dio vivente. Notate bene che questo linguaggio che a noi può sembrare un linguaggio feroce, preoccupante, angosciante, come se addirittura qui fossimo esortati a compiacerci di tutte le stragi che si sono succedute nel corso della storia umana o qualcosa del genere; vedete come questo modo di vedere è un modo di raccogliere veramente tutto in maniera tale che non si perda nulla di quello strazio che è stato patito dagli uomini. Naturalmente ci sono di mezzo responsabilità, ci sono di mezzo fallimenti, c’è di mezzo il peccato, c’è di mezzo l’orrore della ribellione; ebbene: quel sangue è tutto ripreso ed è tutto riproposto a noi, adesso, come il frutto di una vendemmia che ridà valore a tutti i momenti, a tutti gli aspetti, a tutti i disastri, a tutti gli orrori della storia umana. Questo sguardo sulla crisi attuale della storia umana si illumina in continuità in armonia con la preghiera e in obbedienza all’Evangelo che la chiesa ha ricevuto e che ancora oggi e qui annuncia e testimonia sulla scena del mondo.


Volevo dare uno sguardo anche al cap. 15, ma penso che possiamo fermarci in modo tale che la volta prossima proseguiremo da qui. In ogni caso se riuscite ad approfittare dei fascicoletti che vengono preparati sui nostri incontri, rileggendo e ritrovando il filo conduttore della nostra ricerca… tanto meglio.



Qui, dove siamo giunti adesso, l’evangelo è protagonista della storia umana. Questo ci sta annunciando Giovanni ed è un annuncio che fa tutt’uno con la sua profezia. E’ questo annuncio, esattamente, la sua profezia fino al martirio. Ma questo è l’annuncio della chiesa fino al martirio: l’Evangelo è protagonista della storia umana e adesso, andando avanti, è l’Evangelo che già dimostra come la fine della storia umana obbedisce al suo protagonismo.