L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia
Quarto incontro del ciclo 2007-2008
4 marzo 2008
Dall’inizio del cap. 17 abbiamo a che fare con le visioni relative alla caduta di Babilonia e di per sé, ancora, il testo che sta dinanzi a noi, il cap. 19, fino al v. 10, appartiene a questa sezione. Gli interi capp. 17 e 18 e fino al v. 10 del cap. 19: la caduta di Babilonia. Le visioni che stiamo leggendo in queste pagine si inseriscono negli ultimi versetti del cap. 16, là dove Giovanni ci parla delle sette coppe che vengono versate dai sette angeli. Ed è proprio nel momento in cui viene versata la settima coppa che viene annunciata la caduta di Babilonia la grande. In realtà se ne era già parlato precedentemente, ma ora, alla fine del cap. 16, la caduta di Babilonia è considerata da Giovanni in diretta connessione con l’avvento di una creazione nuova: “E’ fatto!” (cap. 16, v.17). L’Evangelo è il protagonista della fine. La storia umana è determinata nel suo svolgimento, fino al suo culmine, dalla vittoria dell’Agnello. La vicenda che si viene man mano delineando con tutti i suoi sussulti, con tutte le contrarietà, le fatiche di cui l’umanità fa esperienza, vengono contemplate da Giovanni come la progressiva attuazione di una gestazione faticosa, dolorosissima che pure giunge a un termine, alla pienezza: il parto di una nuova creazione. In quel contesto, quando è suscitata la novità che finalmente corrisponde all’intenzione originaria di Dio, si inserisce la caduta di Babilonia, la capitale dell’Impero. Leggevamo un mese fa i capp. 17 e 18 e ricordate, nel cap. 18, una sequenza di lamenti che manifestano lo scalpore, lo sgomento, l’angoscia degli uomini che vedono precipitare in modo così disastroso quel riferimento che ha costituito per loro il valore ideale in base al quale hanno impostato la loro vita, la loro attività, il loro discernimento morale che è allo stesso tempo un discernimento di ordine civile, sociale, politico. Babilonia è caduta. E quando (lo leggevamo proprio alla fine del cap. 18 nel contesto di quel lamento corale che raccoglie tutte le categorie umane, dal momento che tutti gli uomini sono coinvolti nella vicenda della città simbolo) Babilonia finalmente crolla, in essa fu trovato il sangue dei profeti, dei santi e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra: tutti gli sgozzati (v. 24 del cap. 18). A questo punto eravamo giunti il mese scorso e vi facevo notare che il verbo usato qui e tradotto con “uccisi” (io mi esprimevo con “sgozzati”) è lo stesso verbo adoperato a suo tempo nel cap. 5 a proposito dell’Agnello: l’Agnello sgozzato, l’Agnello in posizione eretta e trionfante, l’Agnello che è vittorioso. E’ evocato tutto quello che la storia umana ha prodotto nel suo svolgimento in modo tale da travolgere una innumerevole partecipazione di creature umane deboli e sprovvedute (in realtà sono tutte le creature umane che la storia ha macinato nel suo corso); per quanto quelle creature, nelle vicende in cui sono state coinvolte, possono anche avere assunto ruoli rilevanti, posizioni di potere o cose del genere, comunque la storia degli uomini le ha travolte, le ha macinate, nel contesto di una storia segnata dalla rinuncia a cercare e ritrovare quelle relazioni fraterne che furono tradite fin dall’inizio, dal tempo di Caino e Abele. Ed è proprio sul sangue della fraternità negata, tradita – a cui l’umanità ha rinunciato intenzionalmente, istituzionalmente per una motivazione che diventa strutturale nella storia umana – che è stata edificata Babilonia. Ed ora – quando Babilonia crolla – quel sangue è ritrovato. E’ ritrovato il fondamento, viene recuperata la fraternità in virtù della consanguineità che lega ormai ogni creatura umana nella comunione con l’Agnello. Ognuno è oramai vincolato all’Agnello immolato e vittorioso, in virtù di un’appartenenza che fa di ogni uomo di questo mondo il fratello che il Figlio di Dio ha voluto legare a sé, con cui ha voluto condividere la sua stessa carne umana. Ebbene, vedete: Babilonia cade e quando cade non abbiamo a che fare soltanto con la fine di una realtà mostruosa che ha occupato la scena del mondo con la presunzione dei propri adulteri e della propria idolatria; la grande Babilonia ha ottenuto successi strabilianti, ha attirato a sé l’interesse, la curiosità, un trasporto emotivo da cui generazioni e generazioni sono state segnate; il suo crollo non significa semplicemente la fine del mostro, significa che per la storia degli uomini è ritrovato il fondamento là dove era stato posto all’inizio dal Dio vivente che ha chiamato gli uomini in una prospettiva di comunione. Ed ora la comunione fraterna è ritrovata in virtù di quel vincolo di consanguineità che oramai è recuperato dal momento che l’Agnello è stato sgozzato ed è vittorioso; “il sangue di tutti coloro che furono sgozzati sulla terra” è ritrovato. Ed è ritrovato il senso della storia umana, che non è più la storia di Babilonia o di qualunque altro nome che possa essere assegnato al grande monumento mediante il quale gli uomini vogliono affermare il proprio protagonismo, esercitare il loro potere, dominare la terra e via discorrendo, ma è la storia della fraternità redenta, salvata, ritrovata, ridonata. Il sangue che fu versato non è più nascosto perché porta in sé la memoria di un fallimento tragico, ma è espressione di un valore definitivamente positivo: è il sangue della fraternità che gli uomini sono in grado di ristabilire nelle loro relazioni a tutti i livelli, in tutte le prospettive, con tutte le applicazioni e i coinvolgimenti, al di là di ogni previsione possibile, dal momento che è ormai dimostrata la consanguineità che fa di ogni uomo che muore un fratello del Signore Gesù.
Finalmente un’offerta gradita a Dio
Cap. 19: “Dopo ciò, udii come una voce potente di una folla immensa nel cielo che diceva: «Alleluia!»”. Esplode il canto festoso di una folla di testimoni. Sono coloro che ormai vivono sullo sfondo del cielo; una folla immensa ormai appoggiata al definitivo, incastonata nell’evento pasquale che viene celebrato nella dimensione celeste, nella gloria del Dio vivente; e là coloro che già sono passati attraverso la grande tribolazione sono in grado di proclamare il canto dell’alleluia. Vi dicevo già la volta scorsa che qui, nel v. 1 del cap. 19, risuona per la prima volta in tutto il Nuovo Testamento “l’alleluia”; mai prima d’ora. Siamo alla fine dell’Apocalisse e adesso: “Alleluia”; è il canto che esprime la condizione nuova nella quale si trovano coloro che sono stati liberati. Così canta il popolo anticamente liberato dalla schiavitù dell’Egitto: “Alleluia”. Ed è quel canto che testimonia la libertà di coloro che si preparano ormai per quell’incontro che Dio stesso ha predisposto e che maturerà nella forma di un’alleanza, di una relazione stabile, di una comunione di vita. E’ il canto della folla dei testimoni ormai introdotti nella gloria del Dio vivente, là dove è perennemente celebrato il Mistero Pasquale.
“Salvezza, gloria e potenza
sono del nostro Dio;
perché veri e giusti sono i suoi giudizi,
egli ha condannato la grande meretrice
che corrompeva la terra con la sua prostituzione,
vendicando su di lei
il sangue dei suoi servi!”.
Vedete: la vittoria appartiene a Dio, che ha instaurato la sua opera redentiva in modo tale che ormai non ci sono più obiezioni possibili. Salvezza, gloria, potenzaappartengono al nostro Dio. E’ proprio lui, il Dio vivente, che si è manifestato mediante l’incarnazione del Figlio e mediante quella missione che il Figlio ha portato a compimento nella storia degli uomini fino a morire e risorgere. Là dove la grande meretrice – Babilonia – è condannata, non è semplicemente espulsa una presenza indegna, orribile, disgustosa, ma è dimostrata la vittoria del nostro Dio che rivendica il valore della vita umana e il valore di quella vocazione per cui gli uomini sono chiamati alla pienezza delle relazioni, alla pienezza della comunione. Qui, vedete, nel v. 2 dove leggiamo che la grande meretrice corrompeva la terra con la sua prostituzione, poi leggiamo che il nostro Dio ha vendicato su di lei. Correggiamo di poco la traduzione: rivendicando dalla sua mano ilsangue dei suoi servi. Quella mano che porgeva corruzione, come già in un altro momento Giovanni ce la descriveva, quella mano che porgeva dal calice colmo della prostituzione, quella stessa mano adesso porge il dono della vita; il sangue è potenza di vita e il sangue dei servi che fu versato adesso è realizzato nella sua positiva fecondità in vista della risposta al disegno del Dio vivente che ha chiamato gli uomini alla vita. Ed è la mano di Babilonia che porge il sangue dei servi di Dio. Dire servi di Dio significa qui alludere ancora una volta a coloro che sono stati liberati dalla schiavitù. E’ così che si esprime il Salmo 113 e altri, là dove i servi di Dio non sono più servi del Faraone o di qualunque altra pretesa di potere che voglia dominare la terra, il mondo, la storia umana. I servi di Dio sono coloro che cantano l’alleluia perché sono stati liberati; e il canto dell’alleluia, come già vi ricordavo, fa tutt’uno con la testimonianza della libertà acquisita. Chi loda Dio è un uomo libero; chi canta l’alleluia non è più schiavo di nessuno e, d’altra parte, canta proprio in quanto è stato liberato: “Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore… Alleluia”. E Babilonia oramai si presta come testimone, direttamente coinvolta a servizio di questa opera di liberazione che Dio ha realizzato secondo le sue intenzioni. Qui non soltanto Babilonia è distrutta, è sconfitta, è eliminata, ma Babilonia assume, in modo davvero inimmaginabile, la fisionomia di un grembo che era infernale e che adesso è reso fecondo. E’ grembo che è divenuto esso stesso strumento opportuno, necessario per la nuova nascita di coloro che ormai sono liberati per cantare l’alleluia e per entrare in quella relazione che consente una risposta adeguata all’iniziativa del Dio vivente. Questo già valeva per come si esprimevano i fedeli del popolo di Dio in rapporto alla schiavitù in Egitto, e in altre situazioni analoghe che si sono riproposte nella storia della salvezza; la liberazione dall’Egitto non significa soltanto l’acquisizione di un dato positivo per coloro che ne son venuti fuori a danno dell’Egitto, ma significa che l’Egitto è trasformato da quell’inferno sepolcrale che imprigionava coloro che vi erano schiavi in grembo fecondo reso capace di generare per una vita nuova. E’ il motivo per cui il sepolcro è il grembo; è il motivo per cui tutto nella rivelazione fa capo a un sepolcro che è la testimonianza per eccellenza di quella fecondità nuova di cui Dio ha dimostrato di essere l’autore nella storia degli uomini. La liberazione da Babilonia comporta il riscatto di Babilonia e nel momento in cui Babilonia è radicalmente sconfitta, in quanto prostituta, Babilonia è intrinsecamente redenta perché resa capace di offrire la vita: è proprio una nuova creazione. “Rivendicando dalla sua mano il sangue dei suoi servi!”. Babilonia deve porgere dalla sua mano il sangue di coloro che sono servi di Dio, di coloro che sono liberi in obbedienza a Dio, ma la stessa Babilonia è coinvolta in questa opera straordinaria di cui Dio è l’autore in modo tale da divenire obbediente; e là dove nascondeva il sangue dei fratelli, adesso porge il sangue come garanzia di fraternità ritrovata. “E per la seconda volta dissero: «Alleluia! Il suo fumo sale nei secoli dei secoli!»”. Questo versetto rievoca quel che leggiamo nel libro del Genesi, cap. 19, riguardo a Sodoma e Gomorra; e nel libro di Isaia, cap. 34, riguardo a Edom. Testi che descrivono fenomeni catastrofici che dimostrano come l’opposizione a Dio nella storia degli uomini è sconfitta. Qui, nell’Apocalisse, là dove la sconfitta dell’iniziativa umana è finalmente esplicitata in tutta la sua drammatica evidenza, proprio qui “alleluia!”. E’ la storia degli uomini che acquista un significato nuovo, radicalmente, intrinsecamente, strutturalmente nuovo. In tutti questi versetti non abbiamo a che fare con il grido di entusiasmo di chi celebra il disastro per il disastro, la sconfitta per la sconfitta, la scomparsa di Babilonia perché… non se ne poteva proprio più. Qui il grido dell’alleluia rende testimonianza a quell’opera di Dio che fa della prostituta una madre; che della città demolita in modo così completo – per cui “soltanto un’esile filo di fumo sale verso l’alto” – fa una creatura finalmente obbediente che celebra la vittoria di Dio: “Il suo fumo sale nei secoli dei secoli!”. E’ il fumo che sta lì a dimostrare come Babilonia non esiste più; è il fumo che sta lì a dimostrare come tutto quello che in Babilonia si è consumato adesso sale verso l’alto come offerta finalmente gradita a Dio. “Allora i ventiquattro vegliardi e i quattro esseri viventi si prostrarono e adorarono Dio”. Conosciamo già il coro celeste (leggevamo i capp. 4 e 5) e dunque i rappresentanti della storia – i ventiquattro vegliardi – e i rappresentanti della creazione – i quattro esseri viventi –“si prostrarono e adorarono Dioseduto sul trono, dicendo:
«Amen, alleluia». Il coro celeste approva; la vittoria appartiene all’Agnello (questo era il canto che già udivamo nel cap. 5 dell’Apocalisse); il Mistero Pasquale è già celebrato nella gloria del Dio vivente e, adesso, v. 5: “Partì dal trono una voce che diceva (è una voce angelica, indirizzata al popolo cristiano che è ancora itinerante, siamo noi): «Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi!»”, voi che siete già in grado di testimoniare la libertà di cui godete, voi che già siete chiamati in qualità di servi a lodare il Signore, nostro Dio. Vedete: abbiamo avuto a che fare con la folla dei testimoni già incastonati nel quadro della pienezza definitiva; il coro celeste ha proclamato la propria approvazione, dal trono questo invito che adesso è indirizzato al popolo cristiano.
La sposa si è preparata per le nozze con l’Agnello
Vv. 6-7-8: “Udii poi come una voce di una immensa folla simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano (questa è la folla del popolo cristiano che canta nelle forme liturgiche proprie della vita comunitaria di coloro che sono ancora itineranti sulla scena del mondo; ma è la voce del popolo cristiano che assorbe in sé tutte le voci della creazione). Qui percepiamo un’eco davvero complessa, dotata di una sonorità profonda e estremamente variegata: “una immensa folla simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano”. E’ il popolo cristiano che procede nel suo cammino tenendo conto non soltanto di quei momenti nei quali si ferma per celebrare una liturgia terrestre (la nostra liturgia così come la celebriamo noi), ma di tutto il suo modo d’essere che si esprime con il canto dell’alleluia anche quando esso non assume prerogative, intonazioni e modalità rituali caratteristiche della liturgia. E’ l’essere stesso del popolo cristiano che raccoglie nel suo cammino la partecipazione corale della creazione intera, di tutte le creature, comprese quelle invisibili, comprese quelle che restano mute: anche quelle creature partecipano al canto del popolo cristiano. E d’altra parte il popolo cristiano è esso stesso in grado di proclamare “l’alleluia” anche quando si esprime con il linguaggio del silenzio; il linguaggio muto dell’interiorità segreta e nascosta. Tutto è convogliato in questa risposta che esprime la libertà che oramai è conferita agli uomini per rendere finalmente a Dio la lode che egli merita: “Alleluia, alleluia”. Per quanto riusciamo a comprendere, giunti a questo punto della nostra lettura, una ricapitolazione davvero pregnante ed esauriente di tutta la storia umana: “Alleluia!”, anche là dove, ripeto, il popolo cristiano tace o non ha voce che possa essere udita nelle forme proprie del linguaggio sonoro; è comunque questa la ragione stessa per cui il popolo cristiano esiste, si muove, è presente nello spazio e nel tempo:
«Alleluia.
Ha preso possesso del suo regno il Signore,
il nostro Dio, l'Onnipotente.
Rallegriamoci ed esultiamo,
rendiamo a lui gloria,
perché son giunte le nozze dell'Agnello;
la sua sposa è pronta (è meglio tradurre “la sua sposa si è preparata”),
le hanno dato una veste
di lino puro splendente».
La “veste di lino” sono le opere giuste dei santi. Quel popolo cristiano che canta l’alleluia rende testimonianza alla regalità del Dio vivente ed è il “nostro” Dio, come leggiamo nel v. 6, nel senso che questa espressione esprime l’esperienza di una partecipazione interiore che allude a un’appartenenza intensa, affettuosissima: il Dio vivente è il nostro Dio; l’Onnipotente è il nostro Dio; tra Lui e coloro che cantano è instaurata una relazione che comporta l’esperienza di un’intimità totale. “Ha preso possesso del suo regno il Signore”: è il nostro Dio, è l’Onnipotente. “Rallegriamoci ed esultiamo”. La regalità del Signore, colui che ha preso possesso del suo regno, coincide con l’esultanza che prende dimora fino a traboccare nell’intimo della vita umana. “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria”. E’ il gusto ritrovato della vita. Qui naturalmente molteplici citazioni su cui non mi soffermo. Già in passato vi segnalavo questa deficienza che potrebbe essere anche grave della mia proposta, del nostro lavoro. Mentre leggiamo l’Apocalisse trascuriamo troppe citazioni antico testamentarie; d’altra parte non vedo come fare altrimenti. Semplicemente me ne scuso. “Rallegriamoci ed esultiamo” (questa è una citazione del Salmo 118, v. 24): “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso”. E’ il Salmo pasquale per eccellenza; tutta la settimana di Pasqua è attraversata dal Salmo 118. “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso”, “rendiamo gloria a lui” perché la regalità del Signore non è affermazione che ci rimanda alla sua trascendenza superlativa; la regalità del Signore è proclamazione di quella presenza che egli ha instaurato in modo tale da suscitare nell’intimo del nostro vissuto una gioia traboccante.
“Rendiamo gloria a lui (e qui vediamo il motivo) perché son giunte le nozze dell'Agnello; la sua sposa è pronta” (“la sua sposa si è preparata”). Ancora una volta è messa a nostra disposizione un’indicazione davvero molto significativa per quanto riguarda la re-interpretazione del senso della storia umana: una preparazione alle nozze. Questa è un’immagine che è già presente nell’Antico Testamento; ricorrente nella storia della salvezza; riemerge in pienezza nel nuovo Testamento ed ecco qui: le nozze dell’Agnello, laddove l’Agnello è lo sposo e la sposa che si prepara è l’umanità in cammino; il popolo cristiano svolge un ruolo per così dire di avanguardia, di testimonianza, un ruolo che assume anche aspetti eminentemente missionari; è, ancora una volta, un modo per riparlare dell’evangelizzazione. Che cosa ci sta a fare il popolo cristiano nella storia degli uomini se non per essere depositario di questo Evangelo che riguarda l’umanità intera? Questa è la notizia che spiega agli uomini il senso della storia nella quale sono coinvolti, è la sposa che si prepara per l’incontro con l’Agnello. “Le hanno dato una veste di lino puro splendente”. Notate che qui, v. 8, dice “fu data a lei”; non “le hanno dato”, ma “fu data a lei”; da chi? E’ uno di quei passivi che hanno come complemento d’agente (diremmo noi con la terminologia dell’analisi logica) Dio stesso: è Dio che le ha dato “una veste di lino puro splendente”; è la potenza dello Spirito Santo che è stato effuso in modo tale da conferire alla sposa quella veste che la rende presentabile. L’umanità giunge al termine del suo viaggio e, passata attraverso il grande travaglio di cui ci siamo resi conto, è rivestita in modo adeguato all’incontro con l’Agnello, carne di quella carne, ossa di quelle ossa, sangue di quel sangue. La sposa adesso si presenta in quanto dotata di un abito nuziale. E questo abito nuziale serve a raccogliere tutte le vicende della storia umana, tutti i linguaggi, tutte le espressioni, tutte le esperienze, tutto quello che nella storia degli uomini era stato sprecato come mostruosa avventura babilonica: tutto è recuperato come veste della sposa. E quel che a Babilonia era stato sprecato adesso è valorizzato come decorazione che rende presentabile la sposa allo sposo. La “veste di lino” – aggiunge il versetto – “sono le opere giuste dei santi”. E’ l’effusione dello Spirito Santo che raccoglie la creazione intera in modo tale da renderla decorazione di cui la sposa può dotarsi in vista dell’incontro con lo sposo. E’ l’umanità che può dotarsi in vista dell’incontro con lo sposo; è l’umanità che si presenta all’Agnello portando con sé il pregio della creazione in tutte le sue forme, la sua complessità, tutti i suoi linguaggi. E, d’altra parte, proprio qui è contenuta un’inconfondibile allusione alla libertà umana. La “veste di lino sono le opere giuste dei santi”. Lo Spirito effuso nell’universo conferisce alla sposa l’abito nuziale con il quale potrà presentarsi ed è la stessa libertà umana che è resa valido motivo per presentarsi. La sposa si presenta allo sposo nelle forme, con gli atteggiamenti, con la responsabilità che sono le note caratteristiche della libertà. La sposa è rivestita di tutte le creature? Gli abiti liturgici sono dei minuscoli emblemi di questa visione così ecumenica, così cosmica quale intravediamo in questi versetti: la sposa si presenta rivestita della propria libertà. Finalmente la libertà umana può essere motivo valido per presentarsi e non più motivo di disperazione. “La veste di lino sono le opere giuste dei santi”.
Beati gli invitati al banchetto nuziale
“Allora l'angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!». Poi aggiunse: «Queste sono parole veraci di Dio»”. Giovanni è incaricato di scrivere, come già in altri momenti del testo che stiamo leggendo: “scrivi perché questo è un messaggio che deve essere conservato”. “Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!”. Il popolo cristiano? E’ l’umanità intera. Il popolo cristiano non è invitato alle nozze dell’Agnello indipendentemente dal coinvolgimento dell’umanità intera: “Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!”. Questo è il senso della storia umana, dal momento che l’Agnello morto, risorto, disceso, risalito, sgozzato, Lui è lo sposo e l’umanità intera gli appartiene; può presentarsi a Lui, rivestita e finalmente in grado di porgere la propria libertà come risposta d’amore.
“Allora mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo, ma egli mi disse: «Non farlo! Io sono servo come te e i tuoi fratelli, che custodiscono la testimonianza di Gesù. E' Dio che devi adorare». La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia”. Giovanni è incoraggiato a impegnarsi nel suo particolare servizio in modo tale da edificare la comunità dei credenti, ma è esattamente quel servizio che coinvolge l’umanità intera: “Scrivi”. In forza di questo imperativo noi siamo in grado di leggere questo libro straordinario; è un servizio mirato a promuovere la testimonianza nelle generazioni future che si succederanno nel tempo, prolungando quella che è stata, in misura eminente e decisiva, la “martyria” di Gesù, la sua testimonianza, un evento redentivo. E dunque: “adora Dio”. E non c’è altra adorazione di Dio che non sia esattamente questa nostra immersione nell’evento pasquale; è in quanto noi siamo in comunione con il Signore Gesù, in quanto moriamo e risorgiamo con Lui che noi siamo adoratori di Dio. “E’ Dio che devi adorare”; e la testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia come già vi leggevo. Quella che è stata la martyria, l’evento redentivo, è custodito, celebrato, evangelizzato man mano che nel corso delle generazioni i discepoli del Signore accolgono lo Spirito profetico; man mano che ad esso aderiscono; man mano che da quello Spirito vengono plasmati, trasformati e in questa loro testimonianza, che diventa la loro stessa martyria, la loro stessa testimonianza, la fecondità dell’evento redentivo si prolunga, si proietta, si diffonde senza limiti nello spazio e nel tempo.
Il cavaliere sul cavallo bianco
Ed ecco diamo uno sguardo ad alcuni versetti ancora nel cap. 19. Dal v. 11 fino alla fine del capitolo Giovanni descrive a noi le visioni relative all’ultimo combattimento, di cui già si parlava nel cap. 16 (ricordate il combattimento che ha luogo in una località chiamata Armaghedòn – v. 16 – e quell’ultimo combattimento a cui si fa cenno nel cap. 17, v. 14: siamo sempre alle prese con il fatto definitivo, ossia la nuova creazione). E’ caduta Babilonia ed ecco come le nozze dell’Agnello ormai sono state proclamate; gli uomini sono invitati alla festa delle nozze; ed ecco come ormai la stessa Babilonia da prostituta che era è divenuta madre che genera uomini liberati per cantare l’alleluia.
V. 11: Giovanni dice così: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco…”. Dunque un cavaliere che monta un cavallo bianco. Si parlava già di questo personaggio all’inizio del cap. 6, all’apertura del primo sigillo (cap. 6, v. 2), “un cavaliere che monta un cavallo bianco”: è la parola di Dio; è l’Agnello vittorioso in quanto la sua presenza è operante nel corso della storia; intendetela così. Il cavallo bianco e un cavaliere che attraversa la scena: è l’Agnello già intronizzato? Proprio Lui; soltanto che qui, nella visione di Giovanni, viene contemplato nella sua operosità in quanto è presente e protagonista nel corso della storia umana che ancora coinvolge anche la nostra generazione. E, vedete: un cavallo bianco e adesso il cavaliere, da qui fino al v. 16, mediante quattro quadri che sono poi quattro prerogative di quel cavaliere; quattro funzioni storiche (proviamo a denominarle così) che è l’Agnello, che è il Signore Gesù in quanto esercita la sua opera redentiva nel corso della storia. A queste quattro funzioni svolte dal cavaliere corrispondono quattro nomi che sono poi quattro titoli di riferimento.
Il combattente
Vediamo di intenderci. V. 11, primo quadro: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava «Fedele» e «Verace»: egli giudica e combatte con giustizia”. Dunque prima prerogativa del cavaliere è il “combattente”; il combattente per eccellenza, per antonomasia; il combattente non per il gusto di menar le mani o di far man bassa dell’avversario, ma in quanto è colui che instaura quella giustizia che è qualità messianica inconfondibile (Is. Cap. 11, v. 4); è colui che si prende cura di custodire i deboli – la giustizia – (Salmo 45, vv. 4, 5, 6); la giustizia è attuata dal sovrano là dove egli mette a disposizione la sua povertà; quel sovrano che è espressamente identificato come lo sposo: esercita la giustizia perché offre la sua povertà come testimonianza inconfutabile della sua attrazione amorosa, della sua volontà nuziale. E’ il combattente che compare sulla scena stagliandosi sullo sfondo del cielo aperto (v. 11), là dove il cielo si apre (così come leggiamo nel libro di Ezechiale, nella grande visione introduttiva, in quella che è poi la vocazione di Ezechiale e la sua missione profetica; ma ricordate anche i racconti evangelici quando Gesù riceve il battesimo da Giovanni Battista). Quando il testo biblico si esprime in questo modo l’attenzione è puntualmente spostata verso lo spalancamento del cuore; l’apertura del cielo e l’apertura del cuore umano: una corrispondenza speculare. E qui, vedete bene, che il cavallo bianco è montato da quel personaggio che esercita la giustizia nel senso che combatte e vince perché apre gli spazi del cuore umano. Compare sotto il cielo là dove il cielo è aperto, anzi il suo nome è “Fedele”. E sapete perché il combattente è “affidabile”? Perché esercita la giustizia, perché porta a compimento la sua impresa in modo tale da infrangere la durezza del cuore umano e spalancare nell’intimo di ogni uomo lo spazio che corrisponde alla profondità del cielo. Perché porge a noi, come testimonianza della sua inesauribile capacità di combattimento, la capienza illimitata del suo stesso cuore. E’ “Fedele” il combattente che si presenta a noi in quanto porge lo spazio sconfinato del suo cuore come il luogo in cui la nostra realtà umana trova dimora.
Il Re Sacerdote
Secondo quadro, v. 12: “I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui”. Qui vedete il “sovrano”. Era il combattente nel primo quadro; nel secondo quadro viene segnalata la regalità del Messia. Il tratto che viene messo in rilievo è quello degli occhi fiammeggianti. Il volto, con tutte le sue capacità espressive, dimostra la sua volontà di comunione. In questo esercita la sovranità: nell’instaurare relazioni universali, una comunione indefettibile, inarrestabile. “I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco”: vedete, una capacità di irraggiamento che non incontra più ostacoli in grado di impedirgli l’esercizio della regalità. Più esattamente ancora: “ha sul suo capo molti diademi”, dunque tutto ciò che riguarda la sovranità, tutti i diademi, la totalità delle prerogative regali. Sì, ma notate bene: la corona posta sul capo del sommo sacerdote è caratterizzata (richiamo all’Antico Testamento) da un’incisione o anche, se si capisce bene, dall’applicazione di una scritta o di un simbolo che le viene affisso sopra. Dunque: il Santo, il Dio vivente e dico questo perché qui dove noi osserviamo il cavaliere che monta il cavallo bianco e riconosciamo come egli detenga la potestà del sovrano, noi siamo immediatamente condotti a considerare come egli eserciti tutte quelle funzioni mediatrici che sono proprie del sacerdozio; è la sorgente della vita che, attraverso di Lui, è raggiunta e messa a disposizione degli uomini; esattamente quella sorgente della vita che è la santità del Dio vivente a cui si rivolge la mediazione sacerdotale. “Porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui”. Appunto: il nome santo del Dio vivente che nessuno può pronunciare. E’ il nome che conosce Lui e solo Lui, ma è la sorgente della vita, è il segreto del Dio vivente che adesso noi siamo in grado di raggiungere perché il cavaliere attraversa la scena, perché il sovrano svolge in pienezza la mediazione sacerdotale.
Il Maestro
Terzo quadro, vv. da 13 a 15 (prima metà): “E' avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti”. Notate bene che qui il cavaliere viene segnalato tenendo conto delle sue prerogative didattiche o magistrali: è il Maestro, è colui che insegna in quanto usa il linguaggio del mondo, il linguaggio della carne umana. Questo mantello intriso di sangue ci rimanda a testi famosi dei Libri del Genesi (cap. 49, v. 11) e di Isaia (cap. 63, v. 1). E’ il linguaggio della condizione umana che il Maestro è in grado di modulare, di valorizzare in maniera tale da raggiungere l’umanità intera quale che sia la diversità di idioma, di cultura, di civiltà a cui gli uomini appartengono. Gli è assegnato il nome “Verbo di Dio”, “logos”: Maestro. Il v. 14 accenna a questi “eserciti del cielo (che)lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro.” Ed è un’immagine che allude a quella prerogativa che tutti siamo soliti riconoscere proprio della nostra vita cristiana, ossia il discepolato perché Lui è il protagonista dell’evangelizzazione: “Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti”. Questa spada affilata è esattamente l’evangelizzazione che colpisce, nel senso che è quell’arma in grado di penetrare fino ai segreti più reconditi dell’animo umano in modo tale da liberare il linguaggio che è proprio delle diverse culture umane così come si sono configurate nel corso della storia. Le genti. E’ l’evangelizzazione in atto ed Egli è il protagonista in quanto è Lui il Maestro e si trascina dietro una moltitudine di discepoli, tutti al servizio di questa sua opera didattica che penetra fino ai segreti della coscienza e, dall’interno, discerne il linguaggio degli uomini: a pieno titolo gli compete il nome di Verbo di Dio.
Il Pastore
Quarto quadro. V. 15 (seconda metà) e v. 16: “Egli le governerà(in realtà qui il testo greco si rifà a quella che è la traduzione in greco del Salmo 2: Egli le pascolerà. E’ importante qui cogliere la presenza del verbo “pascolare” perché – quarta prerogativa del cavaliere che sta attraversando la scena del mondo – la funzione storica dell’Agnello è la sua pastoralità: è il pastore con tutto quello che noi possiamo ben apprezzare per quanto riguarda la premura con cui si dedica a raccogliere e custodire la moltitudine delle pecore di un gregge che è in fase di costituzione)con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell'ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori”. E dove qui leggiamo di uno scettro di ferro è lo strumento del pastore e “pigerà nel tino il vino dell'ira furiosa del Dio onnipotente” (siamo già abituati a questo linguaggio): si intende con questa immagine l’espressione di un’urgenza appassionata di Colui che in tutto e sempre cerca il valore definitivo; è il Pastore puntuale, metodico, sistematico, incalzante, che non dimentica nessuno, che non si stanca mai e in tutto e sempre cerca nelle creature, disperse sulla scena del mondo, il valore definitivo che fin dall’inizio è stato assegnato ad esse per il fatto che sono creature amate da Dio. “Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori”: è un nome che leggiamo una volta che lo vediamo di spalle. Interessante questo v. 16. Il cavaliere che attraversa la scena; restiamo frastornati al suo passaggio, non riusciamo a rendercene conto e, una volta che è passato, ecco, lo vediamo di spalle e sul mantello, sul femore porta scritto “Re dei re e Signore dei signori”. Ricordate che in Esodo, cap. 33 c’è un momento in cui Mosè può vedere solo di spalle il Signore. Perché? Perché è già passato. Vedete, è il pastore instancabile, il pastore che sempre ci precede, sempre ci scavalca e noi lo vediamo di spalle. Ed ecco il nome: è il “Re dei re e Signore dei signori”. Questa è una citazione del Salmo 136, il grande Hallel, v.1: “Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia”.
E ancora lo stesso Salmo, v. 3: “il Signore dei signori”. E’ il grande Hallel. Un versetto dopo l’altro, sempre il ritornello “perché eterna è la sua misericordia”, “perché eterna è la sua misericordia”, “perché eterna è la sua misericordia”. Ecco, vedete: è il pastore che corre dappertutto, che è presente dovunque, che è premuroso verso ogni creatura, che ha uno sguardo, un pensiero, un gesto, una delicatezza per tutte le pecore del gregge per quanto disperse siano, per quanto piagate, ferite, per quanto ribelli siano “perché eterna è la sua misericordia”.
Fino al v. 16, vi dicevo: l’ultimo combattimento è in corso perché questo cavaliere che monta il cavallo bianco sta attraversando la scena e noi riusciamo a intravedere e a riconoscere il combattente, il re santo e sacerdote, il maestro, il pastore.
La sconfitta della bestia e del falso profeta
Corrispondentemente a questo suo passaggio che è sempre attuale, nei versetti che seguono Giovanni ci invita a contemplare la sconfitta della bestia. La prima bestia e poi l’altra bestia. E’ caduta Babilonia; è la sconfitta della bestia; è la fine dell’impero.
Diamo solo uno sguardo a questi versetti e poi ci fermiamo. Ripartiremo da qui, se Dio vuole, tra un mese.
V. 17: “Vidi poi un angelo, ritto sul sole, che gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano in mezzo al cielo: «Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio»”. Dunque, gli uccelli del cielo invitati al grande banchetto; questa è un’immagine che incontriamo nel primo Libro di Samuele, cap. 17, vv. 44-46 (ricordate il combattimento di Golia e Davide: gli uccelli del cielo convocati per il banchetto in occasione di quell’avvenimento nel quale Golia, tracotante fino all’inverosimile, viene poi sconfitto da Davide). “Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei capitani, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi”. Il cavaliere che attraversa la scena è disarmato ma vittorioso. Il banchetto ormai è imbandito e la scena assume una fisionomia un po’ macabra (ma siamo abituati a non impressionarci per queste cose). Questo banchetto è lo stesso che era stato annunciato per le nozze dell’Agnello; ad esso partecipa l’umanità intera che è divenuta essa stessa cibo: i commensali sono invitati a mettersi a disposizione e potersi finalmente offrire come cibo imbandito sulla mensa. “Venite, radunatevi”.
Vv. 19-21: “Vidi allora la bestia e i re della terra con i loro eserciti radunati per muover guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu catturata(notate che non c’è nemmeno combattimento, non c’è il conflitto, non c’è una vera battaglia, la bestia è catturata senza che ci siano strascichi di conflittualità residua, è catturata e basta) e con essa il falso profeta (la seconda bestia) che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevan ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva di bocca al Cavaliere (la Parola, l’Evangelo); e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”. Ripeto, questa immagine non deve disgustarci. E’ esattamente così che Davide commenta la vittoria su Golia nel testo che citavo poco fa. Gli uccelli del cielo sono i rappresentanti di tutta la creazione che oramai partecipa a questo avvenimento che è la vittoria del cavaliere. La creazione prende atto di come gli uomini si sono rappresentati nel corso della storia, con le loro posizioni di ostilità e di ribellione, e con tutto lo strazio che hanno generato in obbedienza tragica alla loro cattiveria, trasformando la libertà in rifiuto del dono dell’amore che avevano ricevuto. Ebbene: tutto quello che nella storia umana le creature di questo mondo hanno sciupato, sprecato, brutalizzato, inquinato, devastato, tutto adesso si ricapitola in un’offerta finalmente utile e benefica, finalmente un modo per esser presenti sulla scena del mondo così da consolare gli uccelli del cielo. La libertà a cui accennavo precedentemente è riconoscibile qui, in questi ultimi versetti del capitolo, in questa umanità trasformata in cibo imbandito sulla mensa per la sazietà degli uccelli celesti. E’ esattamente l’immagine che serve a Giovanni per illustrare questa novità finale per cui là dove il cavaliere riporta la vittoria, ecco che le creature umane sono in grado di offrirsi, di presentare se stesse come offerta positiva e feconda per il bene del mondo. Notate che le due bestie vengono gettate nello stagno di fuoco: una piastra incandescente al di là della quale noi non penetriamo. Che ne sarà di queste due bestie una volta sprofondate oltre la superficie di questo stagno infuocato innanzi al quale noi ci arrestiamo con il nostro sguardo? Noi non sappiamo; quello che è certo è che anche le due bestie vengono assorbite all’interno di una vicenda che lascia a noi la commozione di chi è testimone di una epifania di bellezza.