Incontri di discernimento e solidarietà

Dall’incontro del 20.1.03


La Pace come conclusione a un tempo naturale e impossibile dell’itinerario sulla laicità

(di P. Castelli)

1. Precisazione del tema: pace e profezia


Nel nostro itinerario sulla laicità abbiamo riscoperta dapprima la finalità "laica" della chiesa, vista come strumento di salvezza per il mondo, cioè della totalità dei valori creati, nel quadro del disegno di Dio. In questa luce abbiamo poi rivisitato alcune fondamentali realtà cristiane come grazia, preghiera, evangelizzazione, parola di Dio, Spirito Santo... E abbiamo infine cercato di reintegrare in questo ambito mentale le dimensioni di lavoro, cultura e politica: fu così che come termine del cammino siamo giunti a scorgere nella pace l'attuazione compiuta del progetto divino sull'uomo e sulle cose.


Ma di quale pace si tratta? E una pace, da noi intravista quale fine cosmico, come può venire effettivamente conseguita? Cioè, adesso di cosa parliamo e quali sono le esigenze di un comportamento coerente col nostro discorso?


E' bene, forse, fare un passo indietro per ricollegare più direttamente il nuovo termine “pace" con quello già illustrato di "laicità". Laicità, abbiamo detto, è profezia del popolo di Dio sul mondo, in quanto oggetto della salvezza di Dio; è compartecipazione dei salvati (figli di Dio) alla salvezza di persone e di cose che vanno aiutate ad accogliere nel loro intimo l’attività trasfigurante di Dio; è riscatto per condurre tutto nel Regno che il Cristo consegnerà al Padre come conclusione del processo di Dio iniziato con la creazione del mondo. Si vede allora facilmente come "pace" in questo contesto non può essere se non "pace messianica", quella profetata tra altri da Isaia (2,2 5 et alibi), quella attuata da Cristo quando ha vinto la morte, è risorto il terzo giorno, è salito al cielo per sedere alla destra del Padre, quella il cui compimento è nella profezia di Paolo ai Corinzi (I Corinzi 15,25 28) e nella visione dell'Apocalisse (21,1 22,5).


Questa pace appare da una parte ovvia conclusione del cammino della laicità e dall'altra come qualcosa di impossibile all'uomo: si vede bene, cioè, come essa non possa essere il frutto puro e semplice di un assiduo lavoro umano, di una tensione culturale intelligente, di una solerte organizzazione politica, ma implichi caratteri e dimensioni di profondità, di larghezza, di perennità che superano lo sforzo umano, sia pure inteso nel senso più vasto; per cui tale pace si presenta come gratuitissimo dono di Dio, origine e fine di ogni cosa e del complesso delle cose.


Per tutto questo, penso che dobbiamo riconoscere come il nostro cammino verso la pace, in qualsiasi vera accezione, parta necessariamente da una esperienza mistica più o meno esplicitamente avvertita di conoscenza per Cristo del Padre, il quale   come dice Paolo nella I Lettera ai Corinti (15,28)   vuole farsi “tutto in tutti”.


Pace è allora, in senso pieno, partecipazione dell'uomo, di ogni uomo, di tutti gli uomini, alla comunione trinitaria. Solo se assurgiamo a tale livello di comprensione, possiamo cogliere valore e senso di ogni pace creata analogamente a quanto della relazione di paternità afferma Paolo nella sua Lettera agli Efesini (3,15).


Da ciò consegue anche facilmente che non ci è possibile partire in questa esposizione dal dato, dal concetto, dall'approccio sociologico, o in qualsiasi modo condurre lo svolgersi del nostro pensiero dalla "terra" verso il "cielo". Ci è indispensabile invece partire da quella "pace" che Dio rivela nel cuore dell'uomo, cioè da quella pace che l'uomo attende, per istinto dello Spirito e senza la quale sempre "inquieto" rimane il suo cuore (cfr Agostino, Confessioni, cap. I). Questa “pace” è l'”analogatum princeps", da cui dipende appunto la comprensione di ogni pace a qualsiasi livello. E si badi bene che questa non è deduzione, ma processo induttivo, benché "sui generis", perché esperienza “sui generis" è il momento mistico in cui se ne è indicata l'origine.


Per "pace" intendiamo qui allora, nella pienezza del senso uno stato di termine, o meglio una condizione di termine, perché non si tratta tanto di un momento d'arrivo, dopo il quale tutto resta fissato definitivamente senza alcun'altra acquisizione, bensì piuttosto della liberazione d'ogni remora al moto d'attrazione verso l'infinita perfezione del Padre: nella risposta, ormai senza alcuna riserva, alla chiamata del Padre sta la beatitudine della pace. "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" dà quale fine ai suoi discepoli il Cristo (Mt 5,48).


Ma a questa pace necessariamente corrisponde un cammino, che non può essere puro sviluppo, naturale, cioè espressione di potenzialità semplicemente umane, bensì lotta di liberazione da se medesimi, dai condizionamenti della società degli uomini, dalla sudditanza ad un potere malefico che ci supera e che la Scrittura qualifica potere delle tenebre, principe o dio di questo mondo, principati e potestà, spiriti del male sparsi nell'aria, ecc. (Gv 1,5; 14,30; 2 Cor 4,4; Ef 6,12 ecc.).


E' la lotta tra la "donna" e "la stirpe di lei" contro il serpente ingannatore (Gn3,15), che diventa tentazione di Satana contro Gesù nel deserto (Mc 1,12; Mt 4,1 11; Lc 4,1 13) e nell'orto (Mc 14,32 – 42; Mt 26,36 46; Lc, 22,40 46) e mentre pende dalla Croce (Mc, 15,29 32; Mt.27,39-44; Lc 23,35 37), e si rivela in tutta la sua ampiezza nella guerra senza sosta che il dragone muove alla donna, al suo figlio maschio, agli altri della discendenza di lei in Apocalisse 12. Giobbe paragona la vita dell'uomo sulla terra a un "duro lavoro", con cui s'intende un “servizio militare” (Gb 7,1).


Parlando agli uomini di questa pace e di questa lotta per la pace, rischiamo certo di dire cose incomprensibili ai nostri eventuali interlocutori. Ma l'"inquietum cor nostrum donec requiescat in te" di Agostino (Confessioni, I), a cui già sopra abbiamo fatto riferimento, è purtanto comune esperienza di grazia che può aprire chiunque s'impe­gni a riflettervi seriamente ad un inizio di comprensione di questo messaggio misterioso. E proprio solo nella luce di questa pace e di questa lotta che ci superano possiamo capire che cosa siano nei loro aspetti più intimi pace e lotta nelle realtà umane che ci toccano nel quotidia­no, sia quello ovvio sia quello straordinario.


Di più, parrà forse strano o singolare che non si possa parlare di pace senza far cenno alla lotta per conseguirla. Pace e lotta sembrano e forse anche sono realtà in opposizione, pur tuttavia è anche evidente che nella nostra condizione umana la pace non può essere se non il compimento ultimo di una lotta: sarà da vedere quale tipo o quali condizioni di lotta possano in verità dirsi produttori della pace, di quella pace di cui sopra abbiamo discusso.


Il tipo di lotta e le condizioni in cui la lotta deve mantenersi non possono infatti apparire ed essere disomogenei nei confronti di quella pace a cui mediante la lotta si vuole arrivare. Così se la pace come l'abbiamo sopra descritta deve considerarsi puro dono di Dio, anche la lotta per questa pace deve essere vista come operazione gratuita di Dio; è la vera guerra santa, violenta solo della violenza dello spirito, anzitutto contro se stessi, e tale da respingere ogni violenza della carne. E' lotta profetica che si esprime soprattutto in un rischio mortale da correre e in un costo da accettare. La “pace messianica” appella allo "scontro messianico", che è quello stesso che Cristo ha accettato, in particolare, nel deserto, nell'orto degli ulivi, sulla croce. Come la "pace messianica" è "analogatum princeps", così unico punto di riferimento analogico per ogni giusta e vera lotta è lo "scontro messianico". Alla luce di questo va giudicata la rettitudine o meno di ogni competizione umana.


L'analogia a cui abbiamo fatto ricorso dice assieme diversità e somiglianza: è tuttavia discorso reale e non metaforico. Per smascherare le contraffazioni della “pace” e della lotta per la pace, dobbiamo ricercare la diversità e la somiglianza delle singole paci e delle varie lotte per tali singole paci, rispetto alla pace e alla lotta per la pace in senso profetico, messianico, escatologico.


Ci resta, appunto ora, da precisare gli aspetti propri dell'analogia, nel confronto con i vari concetti di pace che troviamo nella vita corrente e nella storia. Ciò è da fare sia nel negativo sia nel positivo.


2. Lineamenti della pace nel quotidiano terrestre e nella condizione di termine


A. Primo approccio generale


Giova anzittutto cogliere alcuni aspetti propri del concetto analogico di pace, che si ritrovano in un modo o nell'altro in qualsiasi tipo di pace. Ne scopriamo tre:


  Pace suppone una molteplicità di elementi e funzioni e ogni pace si esprime nei confronti di questa pluralità di fattori;


  tale pluralità appella ad un ordine, che ponga ciascuno di quegli elementi al posto che possa dirsi suo proprio, in modo che ne risulti un'armonia di tutte le parti in cui consiste appunto la vera unità;


  tale unità permane esplicitandosi in una tensione di molti verso la ricerca di un bene comune, cioè di un bene che sia bene per tutti, perlomeno in una certa sufficiente misura e sotto certi essenziali aspetti.


Ricordiamo che la definizione classica di pace è proprio "tranquillitas ordinis". Il detto poggia probabilmente sull'espressione isaiana "opus  justitiae pax” (Is 32,17).


B. Le paci di cui si parla nel quotidiano terrestre


Cerchiamo ora di individuare una fenomenologia di situazioni qualificate come di "pace", nell’esistenza quotidiana terrestre, per evidenziare quanto tengano dell’“analogatum princeps” e quanto invece se ne discostino.


Partiamo dalla situazione che probabilmente si manifesta come la più lontana dalla pienezza della significanza della parola "pace". E' la pace effetto di una violenza che si manifesta nella costrizione. E' la pace che, secondo l'annuncio del generale russo allo zar, “regna a Varsavia": pace frutto di repressione e che si mantiene per la minaccia di morte, deportazione, prigionia. Dallo spontaneo sentimento di ribellione che sorge in noi stessi dinanzi a questo tipo di pace si scopre facilmente che la vera pace dev'essere libera, cioè una cosciente scelta dell'uomo esente da costrizioni di qualsiasi genere.


Ma lontana appare anche quella pace che risulta quale frutto di rapporti di forza e relativa debolezza in un senso più generale, in cui la costrizione più sottilmente si attua con la pressione economica, culturale, classista: è la pace imposta dal più forte o dalla categoria sociale più agguerrita o dalla nazione più evoluta, a spese di chi soffre per la penuria o la fame o il mancato sviluppo civile. E' pace non "opus justitiae", ma conseguenza imposta di una cattiva distribuzione delle risorse e delle opportunità e dei pesi sociali.


Per cui si vede come una vera pace esiga che ogni valore cosa venga posposto al valore uomo, cioè richiede giustizia verso l'uomo in quanto tale: ossia ricco propriamente della sua sola umanità. La vera pace è anche per gli ultimi che non hanno difesa.


E dalla esigenza che la pace sia pace anche per il povero, cioè per l'uomo in quanto tale, ricco soltanto della sua umanità, si è presto indotti a comprendere come la pace per essere vera pace debba attuarsi nella universalità. Cioè non è pace quella pace che è tale solo per uno strato più o meno sottile della società e non è pace quella che rimane ristretta ad una o ad alcune nazioni, che magari traggono vantaggi dallo stato di guerra in cui altre si trovano. La pace vera è comunicativa, una pace che non si comunica non è vera pace, anzi pace vera non è se non nella comunicazione di tutti i beni di cui è ricca la natura ad ogni livello. In definitiva dove c'è egoismo e particolarismo e avidità non può fiorire la pace: la pace è si opera di giustizia, ma fondata sulla carità.

Di qui si può ancora dedurre come non sia vera pace quella di cui oggi normalmente ci si accontenta, cioè l'assenza di guerra guerreggiata da due popoli o coalizioni di popoli in armi. Non è pace l'equilibrio del terrore, l'attenzione e la paura che l'avversario potenziale faccia la prima mossa... Perché la pace ha una sua dimensione interiore, essa anzi consiste essenzial­mente in questa dimensione interiore, che è rinuncia alla volontà di offesa (anche se si può farla franca o pagare poco), è liberazione dall'atteggiamento di diffi­denza (si vis pacem para bellum), è superamento della paura, non mediante la massimazione della capacità offensi­va, bensì come disposizione interiore di fiducia nell'avve­nire dell'uomo.


La vera pace coinvolge il cuore, che al là del singolo si esprime in una cultura di pace, in una politica di pace, in una collaborazione per costruire la pace con pazienza e costanza a tutti i livelli. Si pensi come la convivenza umana sarebbe diversa se le massime potenze dirigessero i loro sforzi a mantenere e promuovere la pace nel pianeta, invece di moltiplicare gli armamenti e di approfittare o stimolare guerre limitate, dove sperimentare sul vivo le loro potenzialità offensive e difensive.


Siamo nel "sogno"? Oppure è proprio questo il vero realismo che ci è richiesto negli ultimi tempi, affinché l'uomo vinca la tentazione apocalittica del proprio universale suicidio! E' davvero impossibile trovare un consenso che si esprima in una organizzazione di obbedienze a livello mondiale? E' la proposta di un ordine internazionale promosso e garantito da una autorità supernazionale quale è espressa chiaramente dalla Pacem in terris. Ma ancor qui, mentre l'attesa e il desiderio umano si manifestano con evidenza nei tentativi sempre rinnovati alla fine di ogni grande conflitto di costituire una organizzazione internazionale efficiente, appare allo stesso tempo l'impossibilità radicale dell'uomo e dei popoli a darsi gli strumenti adatti per la propria salvezza.


Occorrerà riconoscere che non l'uomo ma un altro è il principe di questo mondo (Gv 14,30)? Ma allora non resta che affidarsi a colui che nella notte antecedente al suo sacrificio ha detto: "Confidate, io ho vinto il mondo" (Gv 16,33).


C. Pace come condizione di termine e suo influsso nell'oggi


I generi di pace finora descritti   è stato facile mostrarlo   non sono la vera pace, anche se intendiamo pace a livello umano, terreno. Per risolvere radicalmente il problema della eliminazione della guerra e della instaurazione della pace, sia pure a livello terreno, dobbiamo aprirci a una realtà più alta, accettare la prospettiva di uno scontro più grande di noi, il cui superamento non rientra nelle forze dell'uomo. Dovremo anzi riconoscere che, senza la presenza in qualche pur nascosta dimensione di una pace totalmente altra, neppure potrebbero aversi quelle paci parziali che abbiamo sopra descritte. Per cui quanto ora diremo sulla pace come condizione di termine non appare un semplice sogno ininfluente sul reale e neppure un puro ideale bello ma insignificante sul piano pratico, bensì una realtà che, per quanto impalpabile e misteriosa, è in ogni caso operante nel vissuto profondo della società umana generale.


Un primo passo al di là della serie delle paci possibili all'uomo è quella pace che è amicizia tra gli uomini e il mondo, degli uomini tra loro, degli uomini come società col principio di ogni amicizia che è il Padre, il Figlio e lo Spirito nella comunione trinitaria. Questa pace è reale e già in atto nel Cristo, principio dell'ordine nuovo della seconda e definitiva creazione; è misteriosamente presente nei credenti che si affidano per Cristo al Padre, opera nel mondo per scalzare il dominio di Satana, attraverso la fede sofferta dei giusti, per cui viene applicata nei secoli la vittoria già avvenuta di Cristo. A livello operativo politico tale fede si esprime nella concreta azione di pace, oltre ogni speranza, nel campo dei rapporti internazionali e nonostante la presenza di blocchi ideologico militari o tecnico economici contrapposti. Si pensi alla corsa agli armamenti, a cui viene condizionata ogni cosa; si pensi alla relazione tra fame e abbondanza in opposte grandi regioni del mondo... E' davvero insperabile arrestare, ad esempio, la vendita di armi ai paesi della miseria per eliminare perlomeno la guerra tra poveri che arricchisce o salva l'economia dei popoli ricchi?


Il secondo passo, al di là dell'eliminazione dello sfruttamento comunque camuffato (magari da aiuti internazionali), è la comunicazione dei beni: risorse naturali, lavoro, cultura, pace politica... L'amicizia non è infatti solo evitare di nuocere, ma soprattutto comunione di tutto quello che si ha nella sfera materiale e spirituale. L'ideale o meglio la promessa e la prospettiva di partecipare alla comunione trinitaria dà la spinta alla generosità senza limiti nei contenuti e senza barriere tra persone. Se tra organizzazioni statuali diverse tutto ciò è utopico o impensabile, non lo è altrettanto come spontanea manifestazione dei popoli; le urgenze determinate dalle varie catastrofi naturali si sono rivelate spesso occasioni per dimostrarlo.


Il terzo passo non è più un passo su terreno noto od ignoto, ma è piuttosto un tuffo nel mistero. Si tratta di un mistero che dà senso profondo al nostro parlare di amicizia, perché è un mistero appunto d’amicizia: quella del Padre verso il Figlio nello Spirito Santo. Il mistero trinitario si rivela necessario alla comprensione di ogni rapporto che in cielo o sulla terra possa qualificarsi veramente amichevole. Se in Dio non vi fossero le tre persone, Dio stesso non potrebbe avere esperienza di una relazione d'amicizia al suo proprio livello, sicché la parola amicizia riferita a Dio sarebbe solo una metafora tratta dall'umano, e, se l'amicizia umana è tanto difficile tra persone e tanto più tra popoli, non troveremmo per descriverla o credervi nessun punto d'appoggio sicuro: solo la fede che in Dio le persone sono tre ci dà questa garanzia che l'amicizia vera, fondamento della vera pace, in qualche luogo pur esiste. Un mistero a prima vista così astruso diventa sorgente di chiarezza nella concezione e nella realtà della vita d'ogni giorno. Il monoteismo non trinitario non offre questa sicurezza e questa illuminazione.


3. Il “costo” della pace


Il riconoscimento dell'esistenza, nella nostra attuale condizione terrestre, di varie paci limitate e per ciò stesso insufficienti, e, d'altra parte, della realtà di fede di una pace sorgiva, operante nel profondo del credente, tesa a raggiungere l'universalità degli uomini e cose, illimitata sia nei soggetti sia nello spazio e nel tempo, ci introduce alla riflessione sulle caratteristiche e le esigenze di un cammino per la pace.


Dall'"analogatum princeps" del termine "pace" passiamo così all'”analogatum princeps" del termine "lotta per la pace". Vogliamo cogliere il costo di questo cammino prima nel suo atto finale e poi in alcune sue possibili tappe.


Consideriamo perciò anzitutto il costo della lotta messianica, “analogatum princeps" , che riassume in sé ogni altro costo di ogni altra qualsiasi lotta per paci parziali e magari disapprovabili, perché fondate sull’ingiustizia. Gesù Cristo, ingiustamente crocefisso ne è il simbolo reale: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siate miei amici” (Gv 15,13-14). Morendo sulla Croce Gesù assume totalmente su di sé il costo della sua pace: è il costo di tutte le sofferenze di ogni creatura, umana o anche no, che geme nel mondo in attesa della sua redenzione (Rm 8,22). L’immolazione sacrificale di Gesù sulla croce, le rende accette al Padre e gli attribuisce valore corredentivo, cioè efficace, per Cristo, di riscatto. E’ assioma antico patristico che niente vada perduto di ciò che Cristo ha assunto: e Cristo ha assunto il dolore di ogni sua creatura per farne “il sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, ossia il “culto spirituale” di cui nella Lettera di Paolo ai Romani (Rm 12,1).


Non illudiamoci che per l’uomo e, attraverso di lui, per la creazione tutt’intera possa esistere altra strada che conduca alla pace: quella appunto universale, stabile, insorgente dal profondo, di cui è in cerca il cuore dell’uomo.


In questa lotta, in cui viene espresso il conto della pace totale, Cristo non promette l'immediata vittoria, se non nel senso che le forze che oppongono a tale indefettibile pace "non prevarranno" (Mt 16,18; cfr Gv 1,5). Si tratta di un costo che da Cristo capo si propaga in Cristo membra, cioè attraversa il corpo dell'umanità, anche nei soggetti solo implicitamente credenti, per raggiungere tutti, anche i dispersi figli di Dio. Così dal livello della lotta messianica (Salmo 2) si passa a quello delle lotte e dei costi parziali, anche delle false paci opera di violenza.


La considerazione sul “princeps analogatum” ci consente di avanzare un’ipotesi provocatoria: Gesù Cristo povero quanto può essere povero un crocefisso paga il costo della pace messianica, non sarà questo l’annuncio che la pace viene ora sempre, in definitiva, pagata dai poveri? Un esame a tale proposito delle paci parziali sopra ricordate ci porterà ad una risposta affermativa.


I poveri pagano la pace opera d’oppressione: la costrizione non solo viene esercitata sui poveri, ma anche crea poveri su cui esercitarsi. Mediante la violenza militare e politica, il forte umilia il debole, lo piega ad accettare l’ingiustizia, a subire l’ingiusto castigo che può essere il togliergli la vita, il tenerlo in prigionia, il deportarlo, il porgli sulle spalle pesi che lo schiacciano… L’oppressione economica, culturale o classista impone a chi è costretto a sopportarla dipendenza, ignoranza o limitazione del sapere, segregazione sociale e psicologica: anche qui tutto questo si esercita su poveri oppure crea i poveri su cui esercitarsi.


E i poveri pagano effettivamente anche la pace come assenza di guerra (per lo meno tra paesi che contano). Questo tipo di pace esige l'equilibrio delle armi; e non si tratta di un equilibrio statico, ma di un equilibrio in continuo aggiustamento in una corsa al progresso dei mezzi di distruzione e di difesa che asciuga i tempi, gli spazi e le ricchezze che potrebbero essere orientate alla soluzione dei problemi della fame, della malattia, dei conflitti parziali appunto tra paesi che non contano o contano poco o sono poveri... I poveri, in altre parole, pagano la corsa agli armamenti dei paesi più ricchi, per ciò che i paesi ricchi non danno o non fanno e anche per quello che acquistano in materie prime o di base e vendono sia in armi sia in prodotti per cui i termini di scambio sono a loro favorevoli.


Appare così che solo riconoscendo la presenza operante di una dimensione escatologica possiamo darci in qualche modo ragione del fatto, di per sé inaccettabile, che il costo della pace gravi sul povero. E ciò che è di fatto scandaloso diventa allora partecipazione di grazia. Dice Paolo: "Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Dio infatti ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio! Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, affinché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" (2 Cor 5,18 21).


La vittoria della pace, nell'attuale fase storica in cui l'uomo è chiamato a operare, sta nella realtà, che possiamo cogliere solo nella fede, di un rapporto sociale d'amicizia misterioso e segreto tra tutti i figli di Dio, dispersi presso tutti i popoli: questi sono da riunire in uno sforzo di pace affidato alla forza irresistibile, per chi crede, dello spirito (cfr Gv 11,52). Una strategia della pace che si fondi sulla realtà di simile rapporto dovrebbe considerare diversi livelli.


Primo livello è quello della resistenza direttamente visibile, fisica (anche se non violenta), contro le armi fisiche finalizzate alla distruzione materiale dell'avversario.


Secondo livello è quello della resistenza morale contro le armi della distruzione morale di quello che viene considerato l'eventuale nemico. Sono il rifiuto di comprendere le ragioni dell'altro, l'ampliamento dei torti ricevuti, il rispondere ad essi con l'ingiustizia, la diffusione della calunnia, il fomentare una atmosfera di diffidenza e simili.


Terzo livello è livello di resistenza spirituale mediante l'esercizio della libertà interiore, della coerenza, della sopportazione dell'impopolarità e degli altri disagi cui va incontro chi agisce contro corrente per rimanere fedele a una visione d'avvenire.


A un quarto livello troviamo l'atteggiamento interiore dell'animo che i cristiani chiamano carità e che si attua operativamente nella accettazione del rischio d'amare anche i nemici: non solo nella sfera personale, ma anche a livello del gruppo, della categoria, del popolo... Ciò porta in definitiva a riconoscere che non è tanto l'uomo a porsi come nemico dell'uomo, ma è il principe di questo mondo, con il corteo di potenze che gli obbediscono, ad usare strumentalmente uomini contro uomini per la distruzione totale dell'uomo. A tale ultimo livello l'uomo, in quanto tale, è chiamato a liberarsi, mediante la fede nel Cristo, da un dominatore, intimo tiranno, al quale in principio si è dato.


La pace costa il sangue di Cristo, costa la sofferenza di tutta l'umanità che, mediante la fede, partecipa all'azione sacrificale salvifica di Cristo. E' così che la pace si rivela resurrezione.