Incontri di discernimento e solidarietà
 
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La pena capitale: no all’omicidio legalizzato, vicini ai condannati

Giuseppe Lodoli e Stefania Silva, del Comitato Paul Rougeau



Giuseppe Lodoli

La pena di morte, come e più ancora della schiavitù, dei sacrifici umani, della tortura e dei supplizi più raccapriccianti, ha accompagnato per migliaia di anni la storia dell’uomo sulla Terra.

Anche se in passato la pena di morte in alcuni paesi e in alcuni periodi non è stata applicata (per esempio in Cina per due o tre secoli intorno all’anno mille), l’idea ‘abolizionista’, cioè l’idea di abolire la pena capitale, come la intendiamo oggi, è un’idea moderna, recentissima, formulata nella seconda metà del ‘700. Allora la pena capitale era accettata e in vigore in tutto il mondo. Oggi, secondo i criteri adottati da Amnesty International, possiamo dire che la pena di morte sia stata superata in ben oltre la metà dei paesi del mondo: oltre 120 paesi, contro i 72 che la mantengono. Il 90% delle esecuzioni che avvengono in un anno si verificano in una mezza dozzina di paesi. Dei 72 paesi che hanno ancora in vigore la pena di morte solo 20 o 30 fanno almeno un’esecuzione l’anno. Per esempio nel 2005 si è saputo che sono state fatte esecuzioni in soli 22 paesi.


L’idea che la pena di morte fosse eticamente inaccettabile, e del pari inutile per il perseguimento degli scopi per i quali si diceva di volerla applicare, è fi­glia del movimento illuminista ed è stata enunciata chiaramente per la prima volta nel famoso libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” uscito nel 1764. L’interesse suscitato dall’opera di Beccaria fu impressionante e inaspettato dallo stesso autore. La discussione sorta a proposito della pena di morte portò il suo primo effetto pratico 22 anni dopo, quando il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo abolì la pena di morte rifacendosi pro­prio alle idee di Cesare Beccaria. Il processo abolizionista una volta iniziato ha cominciato a camminare, prima lentamente e poi sem­pre più rapidamente.

Oltre un secolo dopo alla prima abolizione, nel 1889, quando la pena di morte venne abolita nello stato unita­rio italiano con il codice Zanardelli, tre soli paesi avevano abolito la pena capitale per tutti i reati e definitivamente: San Marino, Costa Rica e Venezuela. Il processo abolizionista ha subìto una forte accelerazione nel dopoguerra, dopo la proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo avvenuta il 10 dicembre 1948.

Se non fosse per la forte resistenza nel mantenimento della pena di morte di pochi paesi (Stati Uniti d’America, Cina ed alcuni paesi islamici) probabilmente la pena capitale sarebbe già stata bandita dall’ONU e in via di estinzione.


Difendere i diritti umani significa proteggere la dignità della persona umana dalla violenza del potere. Non è sorprendente che la promozione del diritti umani abbia portato alla consapevolezza della necessità di abolire la pena di morte. La pena di morte è infatti la massima violenza che uno stato può compiere nei riguardi di un proprio cittadino.


L’articolo 3 della Dichiarazione Universale recita: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tra i diritti umani, il primo ad essere citato e tutelato è il diritto alla vita, diritto che costituisce un fondamento per tutti gli altri. Il pieno riconoscimento del diritto alla vita porta all’abolizione della pena di morte.


L’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo recita: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizione crudeli, inumani o degradanti”. Come ha osservato Amnesty International, la pena di morte rappresenta la peggiore forma di tortura, sia per le sofferenze che causa sul piano fisico sia per le ancora più grandi sofferenze che infligge sul piano psicologico.


I trattati internazionali riguardanti i diritti umani tendono a limi­tare sempre più il ricorso alla pena capitale “in vista di una sua auspicabile abolizione", come ha affermato l'Assemblea Gene­rale delle Nazioni Unite nel 1971. Principi fondamentali sono quelli della progressiva restrizione delle specie di reato capi­tale e della non reintroduzione della pena di morte negli ordi­namenti che l'hanno abolita. Vi sono poi categorie di per­sone che ven­gono esentate da subito dalla pena capitale, come quella dei minorenni all'epoca del crimine.

Vorrei ricordare che cosa dicono alcuni di questi trattati, firmati e ratificati dall’Italia e da pressoché tutti i Paesi europei.


Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 pone restrizioni per l’uso della pena di morte (tra i quali ad esempio la proibizione di infliggere sentenze capitali ai minorenni), per i paesi che non siano giunti ‘ancora’ alla sua abolizione, con ciò sug­gerendo “con forza che l’abolizione è auspicabile” in vista di un “miglioramento del go­dimento del diritto alla vita” (commento ufficiale del 1982 da parte del Comitato ONU per i Diritti umani).


Nel Sesto protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1983 viene affermato all’art. 1 che “la pena di morte deve essere abolita” e che “nessuno deve essere condannato a questa pena o giustiziato”. Gli stati contraenti che prevedano la pena di morte in tempo di guerra possono applicarla solo se fanno una esplicita riserva e solo in questa circostanza.


Nel Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1989, gli stati contraenti, dopo aver considerato che “l’abolizione della pena di morte contribuisce alla promozione della dignità umana e allo sviluppo progressivo dei diritti umani”, ed essersi orientati verso un “impegno internazionale di abolire la pena di morte”, si obbligano affinché “nessuna condanna a morte venga eseguita” al loro interno e venga abolita la pena di morte in ciascuna giurisdizione di loro competenza.


Il 13-esimo Protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, adottato dal Consiglio d’Europa nel 2002, proibisce la pena di morte senza alcuna eccezione.

Quello che recitano attualmente i trattati internazionali in materia di pena di morte è naturalmente il frutto del lavoro degli abolizionisti in tutto il mondo.

Il movimento attuale per l’abolizione della pena di morte riceve grande impulso dai volti del condannati a morte.

In Italia il movimento abolizionista finì di essere affidato soltanto alla buona volontà di alcune decine di attivisti di Amnesty International – che si incontravano e parlavano per lo più tra di loro – per diventare un tema ‘nazional popolare’ nel 1986. In quell’anno fu condanna a morte negli USA una ragazzina nera che si chiamava Paula Cooper. Paula aveva solo quindici anni quando si candidò alla sedia elettrica partecipando all’assurdo omicidio di una vecchietta per rubarle pochi dollari. Allora per salvare Paula si impegnarono gli scout, gli opinion leader della religione e della cultura – praticamente senza eccezioni - e moltissimi parlamentari. Scese in campo perfino Raffaela Carrà dagli schermi di “Domenica in”. Milioni di scolari e di casalinghe chiesero la grazia per la ragazzina di colore ed infine – praticamente assediato dai sostenitori di Paula – lo fece anche Giovanni Paolo II. Da allora in poi il Papa si comportò apertamente come un attivo ed autorevole ‘abolizionista’.

Paula si salvò nel 1989. Nel frattempo migliaia di Italiani avevano cominciato a lottare contro la pena di morte.


‘Pen pal per il Texas’, questo era il titolo di un trafiletto apparso sul numero di aprile ‘92 del Notiziario della Sezione Italiana di Amnesty International. Una mezza dozzina di detenuti del braccio della morte del Texas chiedevano disperatamente sostegno agli Italiani (divenuti famosi per la lotta combattuta in favore di Paula Cooper) e l’Italia fu subito in prima fila nel lanciare un ponte epistolare verso il braccio della morte di Huntsville. Molte centinaia di giovani fortemente motivati intrecciarono un solido rapporto affettivo con i condannati, dando un volto umano all’orribile istituzione della pena capitale. I detenuti, salvo eccezioni, si sforzavano di tirar fuori il loro lato migliore, ricambiando con tanto amore e alcune bugie l’appoggio morale – nonché gli aiuti concreti – forniti generosamente dai corrispondenti lontani. In quei mesi sorsero diversi ‘comitati’ di appoggio ai detenuti. Tra questi comitati ci fu anche il Comitato Paul Rougeau di cui Stefania ed io facciamo parte.


Il rilevante fenomeno dei ‘pen pal dal braccio della morte’ aprì nei primi anni novanta un nuovo fronte nella battaglia per l’abolizione della pena capitale. Con l’avvento di Internet, le occasioni di divenire ‘pen pal’ dei condannati a morte statunitensi si sono moltiplicate.

Il meccanismo è semplice: in appositi siti web vengono ‘pubblicate’ le richieste di corrispondenza dei detenuti, corredati da una breve autopresentazione e spesso da una foto. Coloro che approdano in tali siti, a volte decidono di scrivere una prima lettera ad un prigioniero…

Il flusso dei messaggi da e per i bracci della morte ha avuto ripercussioni nella società sia nei paesi in cui risiedono i corrispondenti, sia negli Stati Uniti. Sono venute alla luce le storie allucinanti dei detenuti, le sofferenze e i maltrattamenti subiti dai condannati nella vita civile e in carcere, le ingiustizie da essi patite nel corso dell’iter giudiziario. I risultati collaterali più evidenti sono stati l’invio di aiuti finanziari per la difesa legale dei detenuti - dall’Italia circa un miliardo di lire nei primi 8 anni - le massicce petizioni popolari per chiedere la grazia ai governatori, cui si sono aggiunti gli interventi dei governi e degli organi sovranazionali, ed infine il crescere dell’indignazione dei paesi civili nei riguardi dell’uso della pena capitale negli Stati Uniti.


Le autorità statunitensi non hanno mai nascosto il loro disagio e la loro antipatia nei riguardi dei pen pal. Questi sono stati finora sopportati a malapena in ragione di un tradizionale rispetto per la libertà di parola e di comunicazione. Ma il grande flusso di informazioni, di amicizia, di umanità che fa capo ai condannati a morte, è spesso entrato in conflitto con il generale consenso dei benpensanti americani per l’uso spietato della pena capitale, punizione inflitta a coloro che si ritiene abbiano perso il diritto di essere considerati esseri umani.


Il Comitato Paul Rougeau si adoperò allo spasimo nell’arco di due anni per evitare l’esecuzione di Paul Rougeau. Fu anche assunto a spese del Comitato un legale di fiducia che presentò un articolato ricorso alla competente corte federale di appello. Purtroppo l’appello fu respinto e Paul fu ucciso il 3 maggio del 1994.

Per volere dello stesso Paul, il Comitato ha proseguito la sua attività cercando di aiutare altri condannati a morte del Texas. Oltre ad aiutare direttamente i condannati nelle loro esigenze affettive, legali e materiali, il Comitato Paul Rougeau promuove numerose attività, spesso collegandosi strettamente con altre associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani.

Il Comitato Paul Rougeau, in collaborazione con Amnesty Internatio­nal, for­nisce informazioni, consigli ed assistenza a numerose piccole associazioni ed a singoli corri­spondenti dei condannati a morte degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti sono spesso disorientati, stressati e in preda a problemi di coscienza per quello che sentono di dover fare per i loro amici detenuti che, nella maggior parte dei casi, finiranno comunque uccisi.


Chiedendoli a noi (www.paulrougeau.org) o ad altre associazioni, è pos­sibile avere gli indirizzi di detenuti del braccio della morte che desiderano cor­rispondere con persone fuori dal carcere. Nel sito della Coalizione Canadese Contro la Pena di Morte (http://www.ccadp.org) si possono trovare oltre un migliaio di indirizzi di condannati a morte in cerca di ‘pen pal’. Occorre notare che qui le storie dei condannati – fornite da loro stessi – sono in genere edulcorate e tutte da verificare.

Scrivere ad un condannato a morte è un gesto di grande umanità che arricchisce in modo inaspettato prima di tutto noi che stiamo ‘fuori’. Un gesto da fare comunque con prudenza evitando di iniziare un carteggio per futili motivi, per semplice curiosità o magari per esercitarsi a scrivere in inglese.

Attualmente sono alcune migliaia gli italiani che corrispondono con condannati a morte soprattutto degli USA. Si tratta per lo più di giovani, in grandissima maggioranza donne. In Italia la Comunità di Sant’Egidio – molto impegnata contro la pena di morte - incoraggia questo tipo di corrispondenza cercando di allargarla ad altri paesi oltre agli Stati uniti d’America, per esempio ai paesi africani.

Che tipo di aiuto si più dare ad un condannato a morte? I tipi di aiuto sono parecchi, dall’assistenza legale al sostegno materiale dei suoi familiari, ad esempio. Ma il dono più prezioso che si può fare a loro, e insieme a noi stessi, si chiama ‘amicizia’.

A questo punto lascio la parola a Stefania Silva che ci vuole raccontare la sua esperienza di corrispondente con i condannati a morte.

Stefania Silva

Vi parlerò del mio ‘inizio’ con la pena di morte. Sono contraria da sempre a questa pena, che mi appare più un’infinita tortura, prolungata nel tempo, che una giusta punizione per delitti più o meno orrendi, ma fino a qualche tempo fa non avevo neppure pensato che fosse possibile scrivere a un detenuto, e comunque relegavo la questione in una parte ben nascosta dalla mia coscienza; probabilmente per l’angoscia astratta ma viva che mi prendeva al solo sentirla nominare… come quando senti un bambino che piange e ti senti assolutamente impotente.

Poi persone a me molto vicine, hanno cominciato a scrivere ad alcuni detenuti negli Stati Uniti, me ne hanno parlato come di una cosa “possibile”, hanno umanizzato il tema ai miei occhi… e poco tempo dopo ho cominciato anch’io.


Mi ricordo quando ho scritto la prima lettera a Kevin: matricola #999368. Maschio, bianco, nato il 4 marzo 1969, ha due anni meno di me. In carcere dal 2000 o meglio nel braccio della morte della Polunsky Unit, Texas. Due figli, oggi di 14 e 16 anni, che non vede da sei anni – da quando è stato condannato.

Ero emozionata e non sapevo bene cosa dire, scrivevo e mi fermavo con la sensazione di fare qualcosa di assurdo… poi ho vinto le resistenze e ho scritto una breve presentazione e una marea di domande… tutte a lui, tutte “per” lui, non per la sua pena e nemmeno per il suo delitto; quando ho cominciato a scrivergli non sapevo il motivo che l’aveva portato là dentro e non volevo saperlo. Allora perché pensavo che avrebbe potuto influenzarmi, poi perché ho profondamente compreso che sangue non lava sangue. Non ho voluto sapere niente per più di un anno, il che vuol dire che per molto tempo ci siamo scritti con un fantasma che aleggiava tra noi.

Ho deciso di sapere, solo quando pensavo di aver accettato Kevin, ben sapendo che lui non avrebbe mai affrontato l’argomento, forse per paura di perdere una delle poche persone che gli scrivevano, per paura del giudizio, e per contro, per me non avrebbe più fatto la differenza; avevo cominciato a conoscerlo come persona e basta.

Così un giorno, visto che lui non si decideva a dirmi niente, mi son messa davanti al computer e ho digitato il suo nome trovando decine di documenti, articoli di giornale, e persino il suo ricorso in appello; mi sentivo molto combattuta, e la sensazione era quella di qualcuno che si apprestava a spiare dal buco della serratura; in Italia abbiamo introdotto da poco una legge sulla privacy e invece di un condannato a morte negli Stati Uniti, trovi tutto su Internet, fotografia compresa!

Ho comunque deciso di leggere. Non nascondo che la mia prima reazione è stata di sgomento; mi sono sentita fuori posto; il pensiero più forte è stato: ma cosa ci faccio io in mezzo a tutto questo? Come faccio a corrispondere come niente fosse con una persona che si è macchiata di un delitto così efferato? E soprattutto: in quale contraddizione emotiva mi sono cacciata? Perché razionalmente, molti di noi sono capaci di essere contrari alla pena di morte, ma quando tocchi con mano il delitto, come fai a conviverci e a considerarlo solo uno degli elementi e non l’elemento?


Ho impiegato giorni cercando di calmarmi e razionalizzare, ma il risentimento era ancora lì; poi ho preso carta e penna e ho scritto a Kevin una lettera piena di rabbia, dicendogli che mi sentivo tradita, che mi sembrava impossibile che la stessa persona che mi scriveva in modo così gentile avesse commesso un crimine del genere, gli ho chiesto di spiegarmi, perché avevo bisogno di sentirmi dire che non era vero, che era innocente; tra l’altro gli ho scritto che visto che ormai sapevo non mi andava più bene che si mantenesse la nostra corrispondenza su un piano di assoluta formalità cordiale; lui è condannato a morte, e ormai stando alle statistiche, è a meno della metà della vita che ancora gli rimane da vivere… e noi stavamo ancora lì a far convenevoli, parlavamo di tutto tranne che dell’evento che l’avrebbe portato a finire la sua vita in prigione per iniezione letale.

Dopo aver spedito la lettera sono stata presa dal panico; e se avessi esagerato? E se avesse smesso di scrivermi? Se si fosse pentito di avermi accolto tra le persone “di famiglia”?

Lui invece, ha capito il senso delle mie parole e la mia difficoltà e ha intuito, prima di me, che non l’avrei più lasciato, che ero disposta ad affrontare la parte “nera” del nostro avere a che fare e da quel momento si è aperto: ho avuto proprio la sensazione “che mi aprisse la porta” siamo finalmente entrati in contatto, e ha cominciato a raccontarmi dei figli, di sua mamma, del suo stato d’animo e delle condizioni inumane in cui vive. Per esempio gli orari che scandiscono la sua giornata:

Ore 03.00 di notte: colazione

Ore 10.00: pranzo

Ore 16.00: cena

Ore 24.00: cambio della biancheria

Ad ogni cambio di turno le guardie fanno l’appello.

Non può parlare con gli altri detenuti se non attraverso una piccola feritoia nella porta della sua cella; non può lavorare; vive in una cella di due metri per tre con una branda di ferro, un water di ferro fissato al muro, una mensola su cui poggiare i pochi averi, una feritoia orizzontale vicina al basso soffitto dalla quale può scorgere il cielo solo alzandosi in punta di piedi.

E’ praticamente impossibile dormire più di due ore consecutivamente (di notte fanno gli appelli, consegnano la posta, accendono le luci…), difficile mangiare il cibo – già pessimo – della prigione (nel quale si può trovare di tutto: dallo scarafaggio alla coda di topo), servito freddo in vassoi di plastica; devono farsi la doccia e la barba tutti i giorni; se si comportano bene hanno diritto a due ore di ricreazione solitaria fuori dalla cella per cinque giorni la settimana (due ore settimanali su dieci possono essere passate ‘all’aperto’: cioè in uno stanzone che al posto del soffitto ha una rete attraverso la quale si può vedere il cielo); vivono in isolamento perenne; non sono permesse visite con contatto fisico (nemmeno per i condannati a cui sia stata comunicata la data di esecuzione); durante i colloqui sono separati dai loro amici e parenti da un vetro e parlano attraverso un citofono.


Kevin, in particolare (come un’altra ventina di detenuti a Polunsky Unit) vive in un regime ancora più duro: deve cambiare cella ogni due settimane perché considerato a rischio di fuga. Per evitare che stringa rapporti di amicizia con i vicini, che potrebbero aiutarlo nell’intento, ogni due settimane una guardia entra nella sua cella, gli sequestra tutti i suoi averi (stipa tutto in una piccola cassa di legno: tutto l’eccedente viene gettato), lo perquisisce accuratamente e lo sposta; pochi mesi fa, per mancanza di celle disponibili è stato addirittura trasferito nel “death watch” – il reparto in cui i condannati attendono l’esecuzione quando viene loro fissata la data.

Ma tornando a Kevin, nella risposta a quella lettera, mi ha raccontato il momento della lettura della sentenza e il suo ingresso – il giorno seguente – nel braccio della morte di Polunsky Unit, il viaggio verso la prigione in un blindato, la perquisizione corporale “per controllare che non nascondesse niente di pericoloso….” (e dove?!), la sensazione mostruosa che ha provato quando gli è stato letto che 12 persone avevano deciso, a sangue freddo, che doveva morire, che per lui non c’era possibilità di riabilitazione, che la sua vita, passata, presente e futura era considerata un errore della società, un cancro da estirpare.

Mi ha scritto: “in quel momento ho capito esattamente cosa significa sentirsi raggelare il sangue, mi sono sentito come se mi avessero infilato un pugnale nel cuore e mi ricordo ancora l’ultimo abbraccio ricevuto da mia madre, che si è attaccata a me, come se fossi l’unica cosa solida rimasta sulla Terra…”.


In questo momento corro il rischio di “santificare” un omicida, ma non è assolutamente il mio intento; voglio solo dire che “loro” sono persone, che hanno un vissuto di cui dover tener conto e che probabilmente se non fossero stati condannati a morte avrebbero la possibilità di riabilitarsi e di scontare giustamente la loro pena; troppo spesso noi stessi pensiamo di non essere “quel tipo di persona” e forse in parte è vero… ma io non saprei dire cosa e come sarei diventata se fossi nata in una società spietata, che considera la povertà come una colpa, come un inconfondibile segno di abbandono da parte di Dio, e mi considerasse la figlia indesiderata di un mondo nel quale teoricamente tutti partono dalla stessa linea, tutti hanno le stesse possibilità di riuscita…leggendo attentamente le statistiche delle condanne a morte, però, ci si rende conto che questa è la leggenda del Nuovo Mondo.


Negli USA, per essere condannato alla pena capitale, è preferibile essere povero, possibilmente nero, magari analfabeta, anche se in certi momenti l’essere bianco può giocare a sfavore: in periodo di campagna elettorale per esempio, per controbattere alle accuse di razzismo, il Governatore in carica può decidere di negare la grazia a un bianco con una giustificazione in più….

È principalmente l’avvocato – insieme al detective e alla giuria – a fare la differenza; chi non ha soldi per pagarsene uno bravo (e sono la maggioranza o praticamente tutti) deve accontentarsi di un avvocato d’ufficio che troppo spesso non ha i mezzi e forse nemmeno la voglia di lavorare duramente, guadagnando, indipendentemente dall’esito del processo, pochi dollari l’ora… sempre che durante le udienze riesca a stare sveglio, non sia ubriaco o drogato e che semplicemente abbia letto attentamente i capi di imputazione e le carte processuali.

In Texas sono pochissimi i bianchi condannati a morte per l’omicidio di un nero e nessuno di loro è mai stato “giustiziato”. I neri negli USA sono: il 12,6% della popolazione, il 50% della popolazione carceraria (ci sono più giovani neri in prigione che al “college”), il 50% delle vittime di omicidio; eppure sono l’80% dei detenuti già “giustiziati” per l’omicidio di un bianco. Questo è un sistema che garantisce giusta e uguale pena per tutti? E’ un sistema giusto e non arbitrario, così come ci sia aspetterebbe che debba essere, vista la natura definitiva della pena di morte?

Ho letto di recente un’intervista a una delle guardie che si occupa delle esecuzioni in Texas; a parer suo “…non c’è niente di immorale nell’uccidere un uomo senza averne la sensazione, ovvero se ci fosse stata ancora la sedia elettrica non sarei mai stato in grado, ma con l’iniezione letale non si vede la morte in faccia…è tutto così chirurgico…”

Sono assolutamente convinta che la pena di morte moltiplichi le vittime senza placare il dolore di nessuno.


Dall’inizio della mia esperienza ho letto molti libri, articoli, ho incontrato persone meravigliose che sono state fondamentali sia dal punto di vista umano, sia per la conoscenza più approfondita delle procedure, in me si è fatta strada l’idea che scrivere a un detenuto in attesa di esecuzione, firmare appelli per chiedere la grazia, chiedere ad amici e conoscenti di darmi una mano in questo, non fosse sufficiente; ho cominciato a pensare che occorre agire nel modo più incisivo possibile per ottenere l’abolizione della pena di morte e che la parte emozionale dovesse rimanere un aspetto privato, tra me e Kevin e tutti gli altri che via via si sono aggiunti, e se vi ho parlato delle emozioni che ho provato quando ho scoperto il perché della condanna di Kevin e vi ho raccontato della sua lettera, è stato solo per dare un volto a un caso di pena di morte. Solo per far capire che dietro ogni numero di matricola c’è un uomo. Scrivere ai condannati a morte, mi ha costretto a misurarmi con sentimenti in forte contraddizione, con la mia idea di legalità e giustizia, il pensiero per le vittime del crimine, con l’affetto per le persone a cui scrivo; ho dovuto fare i conti con l’idea di società giusta e di progresso, non solo economico ma soprattutto sociale.


Mi sono misurata con i miei limiti umani; passare dalla teoria alla pratica, per me è stato difficile e doloroso e talvolta lo è ancora. Ci sono momenti in cui mi sento di dover prendere le distanze per ritrovare un mio equilibrio, non riesco a rispondere a tutte le istanze dei miei corrispondenti, non posso impedire che vengano fissate date e eseguite le sentenze, però so che il problema della criminalità non è avulso dall’abbandono scolastico, dalla povertà, dal ghetto dall’essere neri o poveri.

In sintesi, mi sento di poter dire che non può esserci giustizia senza giustizia sociale e che la pena di morte è una falsa soluzione ad un enorme problema.



Lectio mundi

Volontari per i diritti umani nel mondo 2006