Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Diritti umani, diritto alla vita

Giuseppe Lodoli, del Comitato Paul Rougeau


Come avete visto dall’invito, le prime relazioni per questo ciclo di incontri 2006 saranno quelle di «Emergency» sulle vittime di guerra e l’altra, curata da un esperto della «Lega Ambiente», sulle

sciagure ambientali incombenti, che Paolo Tufari ha efficacemente chiamato ‘calamità innaturali’.

Siccome queste relazioni si inseriscono in un cammino cominciato già da qualche anno, che negli ultimi due anni si è focalizzato sui diritti umani e sui problemi della guerra e della pace, a me è stato dato l’incarico, non del tutto semplice, di collegarle alle tematiche che abbiamo trattato in precedenza e di cui c’è ampia traccia nel sito www.indes.info/lectiomundi


Parlerò di diritti umani, in particolare di diritto alla vita, rinviando lo sviluppo della discussione alle successive relazioni di Gegia Adinolfi per Emergency e di Massimo Serafini per la Lega Ambiente.

Vedremo che la tematica dei diritti umani è importantissima ma tutt’altro che conclusa e risolta. Più studiamo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e più cerchiamo di metterla in pratica, più ci accorgiamo che ci sono dei blocchi e dei nodi che ne ostacolano da una parte il completamento sul piano concettuale e dall’altra l’applicazione nella vita, nella vita di tutti, perché la Dichiarazione essendo universale si rivolge a tutti gli uomini in tutto il mondo.


La storia dei diritti umani è antichissima, si perde nella notte dei tempi. Possiamo dire che si è cominciato a parlare di diritti umani quando sono stati scritti i primi codici. I teorici vanno molto indietro, però le formulazioni moderne, simili a quelle che attualmente sono in vigore, risalgono alla seconda metà del Settecento. Fondamantale è un documento approvato nel Nord America al tempo della rivoluzione americana, il Virgina Bill of Rights del 1776, dal quale è stato preso un nucleo fondamentale che ha costituito la Dichiarazione di Indipendenza degli Statati Uniti d’America, firmata il 4 luglio 1776. Questa dichiarazione dice che: “sono verità evidenti di per sé che gli uomini nascono uguali, che il Creatore li ha dotati di certi diritti inalienabili, tra i quali vi sono la vita, la libertà, la ricerca della felicità”. Poi continua per una decina di righe affermando che “i governi sono stati istituiti per garantire questi diritti”.


Quindi non più il potere illimitato e i cittadini, ma i diritti e i governi, governi che sono stati istituiti per garantire i diritti. Questa è l’idea nuova, che poi ha avuto un seguito nella rivoluzione francese. In Francia il 4 agosto del 1789 viene abolita monarchia assoluta e il 26 agosto viene proclamata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che si rifà esplicitamente alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. La dichiarazione definisce alcuni diritti inalienabili e sacri “il più prezioso dei quali è la libertà” al quale conferisce un significato pieno l’uguaglianza. Quindi Liberté ed Egalité (e, in una successiva più ampia formulazione della Dichiarazione, anche Fraternité). Dunque i primi diritti umani ad essere dichiarati, sanciti e in qualche modo difesi sono i diritti civili e politici, che riguardano la libertà, la partecipazione alla vita politica, la libertà dall’arresto arbitrario e così via. Nell’Ottocento, e anche alla fine del Settecento, ai diritti civili e politici si vanno aggiungendo altri diritti, che poi sono stati chiamati diritti di seconda generazione: i diritti economici e sociali. Lo stesso Marx fa una critica molto serrata a documenti quali la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, affermando che questi documenti garantiscono soprattutto il diritto di proprietà che consente le prepotenze dei ricchi e lo sfruttamento dei poveri. C’e’ stata una contrapposizione tra diritti civili a politici da una parte e diritti economici e sociali dall’altra, finché si è arrivati soprattutto nel secolo appena trascorso ad una sintesi armonica tra i due tipi diritti.


La sintesi migliore, più ampia e più importante è stata fatta nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che fu approvata il 1° dicembre del 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dunque poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Nei quattro anni precedenti, a guerra non ancora conclusa, un’ampia e generalizzata riflessione sulle sciagure terribili e inusitate che avevano appena colpito l’umanità, si sforzò di porre le basi per un mondo diverso, cercando di trovare una struttura da una parte e dei principi dall’altra che consentissero al genere umano di proseguire il suo cammino senza incorrere in nuove sciagure, sciagure che tra l’altro si prefiguravano ancora più terribili di quelle subite, per gli armamenti nucleari sviluppati alla fine della guerra, per la contrapposizione di blocchi potentissimi.

A giugno del 1945 a San Francisco venne approvata la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite sono l’organismo che dovrebbe da una parte garantire i diritti e dall’altra assicurare la pace. La Carta, come si legge nel preambolo, si pone l’obiettivo di “salvare le future generazioni dalle tragedie della guerra che per ben due volte nel corso di questa generazione hanno portato indicibili afflizioni all’umanità” e riafferma che “la fede nei diritti fondamentali della persona umana e nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole” è la via per raggiungere questo obiettivo. Quindi la pace è considerata il risultato del rispetto dei diritti.


Questo è il concetto nuovo e fondamentale: i diritti vengono messi al centro e per di più sono dichiarati universali. E’ una rivoluzione copernicana. Fino ad allora i diritti venivano considerati come il privilegio costituzionale dei cittadini di un determinato stato. Il quale stato si riservava prima di tutto la facoltà di dichiarare guerra agli altri stati, magari usando delle formule e dei modi adeguati. Lo stato aveva come primo diritto quello di dichiarare guerra, per vari motivi e anche per conquistare un ‘posto al sole’, quindi anche per impossessarsi di territori. Invece con la Carta delle Nazioni Unite e con la successiva Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo i diritti vengono messi al centro e sono detti universali, cioè valevoli per tutti gli uomini. Non ci sono coloro che hanno i diritti protetti e gli altri che possono essere attaccati. Questa universalizzazione porta a qualcosa di veramente nuovo. Infatti se i diritti devono valere per tutti allora da una parte dovrebbero diminuire le probabilità di scatenamento di una guerra, dall’altra la stessa giustificazione etica della guerra viene messa in crisi. Quale può essere il motivo della guerra se a tutti devono essere assicurati i diritti da parte di tutti?


Tra la teoria e la pratica c’è un ampio divario. Dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, e da tutti i trattati che ne sono derivati, è conseguito un grosso passo in avanti per l’umanità. Anche il modo di pensare è cambiato. Però purtroppo se viene riconosciuto da tutti che alla base del diritto e della politica internazionale non ci sono altro che i diritti umani e il principio della solidarietà (quindi ufficialmente non c’è altro a fondamento delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli) la politica reale tende invece a conservare il vantaggio di pochi, di relativamente pochi: centinaia di milioni di persone. Questi pochi difendono i privilegi che hanno in termini di potere, di ricchezza, di consumi, e anche di pace, di diritti umani e di libertà.


E’ molto faticoso far avanzare la dottrina e la pratica dei diritti umani. C’è un lavorio continuo soprattutto nell’ambito delle Nazioni Unite dove vengono approvati sempre nuovi e più avanzati trattati internazionali sui diritti umani. Tali trattati hanno una loro funzione specifica, perché la Dichiarazione universale ha un immenso valore di principio e concettuale ma non obbliga gli stati sul piano legale, mentre i trattati obbligano gli stati sottoscrittori al rispetto dei diritti umani. Ce ne sono molti di trattati, alcuni sono trattati regionali, altri valgono per tutto il mondo. I due trattati più importanti sono i due Patti approvati il 16 dicembre 1966, il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici – che tutela i diritti di prima generazione - e il Patto Internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali – che tutela i diritti di seconda generazione.


Gli stati rispettano i trattati che hanno adottato? C’è un’accesa discussione in merito. Amnesty International ogni anno pubblica un grosso libro in cui sono elencate le violazioni dei diritti umani e quindi anche le violazioni dei trattati che li tutelano.


Il patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, come anche la Dichiarazione universale, parte da alcuni diritti molto elementari ma fondamentali. Vediamo che cosa dicono i primi tre articoli della Dichiarazione Universale. Il primo articolo afferma che gli uomini “nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”, che “sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In queste due righe vengono dette tante cose importanti. Il riferimento alla ragione implica per esempio che occorre agire in modo diverso da come suggerisce l’istinto, l’istinto di sopraffazione e di violenza, e bisogna sottoporre a critica i modi di pensare consolidatisi nel tempo. La coscienza implica che è necessario porsi dei problemi etici: quando si fanno le cose ci si deve domandare se sono giuste o non giuste, la fratellanza significa che i rapporti tra gli esseri umani devono essere basati sulla solidarietà. Il secondo articolo afferma il principio di non discriminazione nel godimento dei diritti; quindi tutti indistintamente devono godere dei diritti.


Il terzo è il primo degli articoli che enunciano diritti e afferma che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Pertanto – come accadeva nelle dichiarazioni precedenti – il diritto alla vita è il primo ad essere enunciato e difeso. E’ considerato fondante e prioritario alla fruizione di tutti gli altri diritti. In parole molto semplici: se non gli lasci la possibilità di vivere a questo povero essere umano, come fai ad assicurargli gli altri diritti?


Anche il Patto internazionale dei Diritti Civili e Politici, tra i primi diritti indica il diritto alla vita, dedicandogli un lungo articolo. L’articolo 6 recita: “Il diritto alla vita è inerente alla persona umana, questo diritto deve essere protetto dalla legge”, e poi aggiunge: “nessuno può essere arbitrariamente privato della vita”. A differenza di quanto avveniva nella Dichiarazione, in questo trattato che vincola gli stati sul piano del diritto, compare l’avverbio ‘arbitrariamente’ che in qualche modo relativizza il diritto alla vita. E subito dopo, nella prosecuzione dello stesso articolo, si dice quali sono le eccezioni che per lo meno temporaneamente possono essere accettate. E si comincia parlare di pena di morte, sia pure per limitarla e chiedere di usarla nel modo più prudente possibile. Si fanno dunque delle eccezioni anche se si indica una strada verso il rispetto possibilmente assoluto del diritto alla vita. L’affermazione del diritto alla vita con eccezioni ricorre anche nel nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica in cui si afferma in modo assoluto soltanto il diritto alla vita della persona ‘innocente’. Qui c’è un aggettivo che introduce una relativizzazione, lì c’è un avverbio.


In effetti il diritto alla vita è un diritto molto ‘difficile’ che pone subito dei grossi nodi, nodi che sono lì ancora tutti serrati. Faccio tre esempi. Intanto c’è un insieme di temi sui quali il diritto alla vita avrebbe un grosso impatto, sono i temi che Piero Fassino ha definito una decina di giorni fa ‘temi eticamente sensibili’, tra i quali vi sono ad esempio i problemi di bioetica. E’ questo un campo in cui la materia rimane del tutto irrisolta ed anche poco affrontata perché le conseguenze del diritto alla vita su questi temi non è stato valutato e chiarificato. Un altro tema che rimane aperto è la pena di morte. Molti trattati internazionali che difendono i diritti umani attaccano la pena di morte, tendendo ad abrogarla o a limitarne l’uso, in vista di una sua abolizioni universale. Perché questa è la tendenza come ha anche affermato l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1971. Tuttavia perdura una grossa discussione su questo punto. Una ventina di paesi almeno, tra cui alcuni importanti e altri meno, tutti gli anni presso il Comitato ONU per i Diritti Umani obiettano che no la pena di morte non è una questione di diritti umani, ma è solo una questione di giustizia criminale.


Un terzo nodo è quello della compatibilità della guerra con la fruizione del diritto alla vita, con il godimento di tutti i diritti ma in particolare del diritto alla vita. Anche questo è un problema aperto. Un problema che nella nostra modesta ricerca in dodici incontri negli ultimi due anni più volte ci siamo trovati di fronte. Su cui più volte ci siamo trovati a discutere, in disaccordo tra noi. Vi leggo ad esempio una frase di Marco Bertotto presa dalla trascrizione di uno degli incontri: “Non penso che Amnesty debba essere un movimento pacifista. Ma non significa incentivare le forza, significa accertare che nella guerra i diritti umani non vengano violati. Tutti siamo contrari alla guerra, posso condividere un’idea pacifista come ideale, come utopia, ma a fronte di situazioni in cui la violenza viene usata su larga scala, il pacifismo rischia di mettersi in una condizione di astrazione rispetto alla storia”. Può darsi. Però è innegabile che in ogni guerra vi è un mare di violazioni dei diritti umani, sia collettivi che individuali. E’ possibile porsi l’obiettivo di salvaguardare rigorosamente i diritti umani in situazione bellica? La domanda rimane secondo me apertissima.


Ritorniamo a quello che aveva sottolineato prima, alla messa al centro dei diritti e dei diritti di tutti gli uomini, all’affermazione solenne che la politica deve servire ad assicurare i diritti a tutti e non solo ad alcuni, non solo agli Americani, agli Italiani… ma a tutti, e tutti i diritti, sia civili e politici che sociali ed economici. E’ possibile conciliare questi ideali altissimi – che tra l’altro sono emersi dalle sofferenze terribili delle vittime della seconda guerra mondiale – con la prassi della politica, con quello che oggi fa effettivamente la politica?


La politica reale, espressione dei più forti, è incline a tollerare, e spesso anche a promuovere, intanto l’accumulo degli armamenti e la crescita senza limiti del loro potere distruttivo, le guerre e le violazioni dei diritti umani non tanto al centro quanto alla periferia, ma poi finisce per consentire vari tipi di aggressioni all’ambiente. Questo ha molto a che fare con il diritto alla vita.


Giustamente Paolo Tufari nel tracciare lo schema dell’incontro di oggi ha indicato tra le minacce del diritto alla vita sia la guerra, che è una minaccia esplicita, sia le aggressioni all’ambiente che non sembra influiscono direttamente ma sono suscettibili di influire massicciamente sul diritto alla vita, anzi sul diritto alla sopravvivenza, che viene ancor prima del diritto alla vita considerato nella sua pienezza. Questo approccio non è molto comune ma costituisce uno dei filoni di sviluppo della dottrina sui diritti umani. Si parla infatti dei ‘diritti ambientali’ tra i cosiddetti diritti di ‘terza generazione’. Alle affermazioni dei diritti ‘di prima generazione’ (i diritti civili e politici) e di quelli di ‘seconda generazione’ (i diritti economici e sociali) molti vedono seguire le affermazioni dei ‘diritti di terza generazione’: il diritto allo sviluppo, i diritti ambientali e il diritto alla pace. Diritti emersi per ultimi ma da intendersi quali pre-condizioni per il godimento di tutti gli altri diritti.


Dice in maniera molto ottimistica la Dichiarazione universale all’articolo 28: “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale ed internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa dichiarazione possano essere pienamente realizzati”. Altro che diritto all’ordine sociale ed internazionale: al giorno d’oggi non c’è neanche il diritto alla sopravvivenza. Naturalmente non qui in Italia ma in varie parti del mondo colpite dalla guerra. Oltre ad essere oggi negata, da una politica miope ed egoistica, la sopravvivenza in tante parti del mondo, vi è il rischio che si scatenino nel giro di alcuni decenni – e forse ancor prima in ambiti regionali – catastrofi che mettano a rischio la sopravvivenza di intere popolazioni se non della specie umana. Dunque come minaccia alla specie umana non c’è soltanto la guerra totale o nucleare ma ci sono anche la minacce all’ambiente.

Lascio la parola a Gegia Adinolfi di Emergency, che parlerà delle vittime di guerra e cercherà di rinfrescare la nostra memoria. E’ vero cha a noi, che viviamo nella cittadella dei privilegiati, le notizie sul resto del mondo arrivano, ma arrivano censurate. Queste notizie le percepiamo, ripetutamente, ma le possiamo rimuovere in continuazione. Possiamo rimanere nella nostra pigrizia e nel nostro egoismo e continuare a pensare che le cose tutto sommato vadano bene così, per lo meno per noi. Però se le immagini in arrivo dalle zone di guerra fossero un poco più esplicite e un poco più vere, verrebbe messa in moto, se non la nostra ragione, la nostra sensibilità.


Le vittime di guerra sono tante. Sono per lo più persone del tutto innocenti. Sono combattenti e non combattenti. A volte i combattenti sono più innocenti degli altri. Pensate alla prima guerra del golfo quando i tank americani seppellivano i militari iracheni nelle loro trincee. Ad essere seppelliti erano i Curdi che erano stati obbligati da Saddam a schierarsi in prima linea per difendere le trincee in Kuwait, per altro impossibili da difendere. Quelle sono state vittime di guerra. Erano militari combattenti. Quindi benissimo, giustissimo. Non si sa quanti ne furono uccisi. Diecimila? Forse di meno, forse molti di più. Quanto erano colpevoli della politica di Saddam? Per nulla.

Quindi vittime di guerra, colpevoli e innocenti, militari e civili. Civili: uomini, giovani, vecchi, donne e bambini, tanti bambini.