Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Vittime della tortura: guarire e testimoniare

Andrea Taviani, di Medici contro la tortura



Una mattina di alcuni anni fa un anziano medico cardiologo, nel visitare un paziente nell’ambulatorio di un centro di accoglienza, lo vede alzarsi dal lettino, urlare, strapparsi gli elettrodi dai fili e tornarsene correndo alla sua camera. Questo collega non comprende la reazione, poi, preso dalla routine e dalle emergenze, ricomincia le visite e fà altri elettrocardiogrammi, come tutti noi volontari subissati dal lavoro. Passano diversi mesi quando un altro paziente, appena vede la macchina dell’elettrocardiogramma, getta a terra l’apparecchio, urla e comincia a inveire contro i presenti. Tutti pensano che sia un malato psichico, mentre il medico, invece, comincia a interrogarsi sul perché di questi comportamenti. Ne parla con gli interpreti e viene a sapere che appartengono entrambi alla stessa etnia: sono due curdi arrivati qualche anno fa dalla Turchia, dove erano stati torturati con delle scariche elettriche, e questo spiega la reazione che hanno avuto di fronte alle apparecchiature nell’ambulatorio del centro di accoglienza.

Questo medico – che oggi fa parte della nostra associazione – consulta diversi libri di medicina ma non vi trova le spiegazioni che cercava sulle conseguenze medico-psicologiche della tortura e solo su internet riesce a rintracciare qualche breve illustrazione su quel tema.

Ho ricordato questo episodio per darvi un’idea della difficoltà che spesso s’incontra nell’accorgersi che possono esserci vittime della tortura anche in mezzo, confuse nella moltitudine di extra-comunitari e in particolare in quel sottogruppo di immigrati che sono i “rifugiati”. Questi ultimi incontrano seri problemi perché l’Italia non ha ancora una sua legge organica sul diritto di asilo e su chi ne fa richiesta. Da noi queste persone non hanno una denominazione specifica e spesso sono detti semplicemente e impropriamente “clandestini, con una connotazione del tutto negativa per questa parola, quasi che si trattasse sempre di banditi e delinquenti, dimenticando che a rigor di termini erano clandestini anche molti dei partigiani che poi scrissero la nostra Costituzione. In realtà, i richiedenti asilo sono persone costrette a scappare da situazioni drammatiche e quando arrivano in Italia la prima barriera che trovano è quella della comunicazione, sia perché non c’è chi parli la loro lingua, sia perché nei centri di accoglienza è difficile trovare qualcuno che li sappia informare correttamente sui loro diritti e su che cosa devono fare per vederseli riconosciuti.


Comunque, se riescono a farlo, fanno domanda per essere riconsciuti come rifugiati. A quel punto scatta tutta una lunga trafila burocratica e bisogna aspettare non si sa quanto prima che una commissione li convochi per sentirne la storia personale. Prima la commissione era una sola, ora ne sono state istituite 7 o 8 sparpagliate per l’Italia nei luoghi dove arrivano i cosiddetti clandestini e cioè i rifugiati ( Puglia, Sicilia, Roma, ecc.).


Quelli che arrivano attualmente e fanno domanda, vanno incontro a tempi molto brevi, mentre gli altri avevano tempi di attesa lunghissimi, fino a due anni prima di poter essere ascoltati dalla commissione. Due anni! Senza sapere che fare, quale sarebbe stato il futuro, dove andare e dover rimanere qui solo con il permesso di soggiorno ma senza poter lavorare né potersi iscrivere ad un regolare corso di studi, salvo la possibilità di frequentarne qualcuno presso un’associazione di volontariato.

Adesso c’è il problema opposto. Quelli che arrivano, sono ricevuti dopo poche settimane, senza avere neanche il tempo di organizzarsi le idee e predisporre un minimo di documentazione. In più c’è la questione degli interpreti sui quali ci sarebbe parecchio da discutere perché non sempre si impegnano come dovrebbero, non conoscono bene la lingua da tradurre e a volte fanno sorgere il dubbio che facciano un doppio gioco, evitando di tradurre bene quello che il richiedente asilo sta raccontando alla commissione. E così questi nuovi arrivati, pur essendo dei veri rifugiati, si ritrovano con un decreto di espulsione in mano e con un diniego.


I “diniegati”, come li chiamiamo noi volgarmente, hanno diritto a fare ricorso contro il diniego che hanno ricevuto. A questo punto però comincia tutta una trafila burocratica che dura almeno due anni, quando non tre, prima di poter comparire di fronte alla magistratura ordinaria ed esporre le loro ragioni per chiedere lo stato di rifugiati. Alcuni riescono ad ottenere questo riconoscimento, molti invece ricevono solo un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che è una via di mezzo tra lo stato di rifugiato e il diniego.Con quest’invenzione del “diritto umanitario” si cerca di far fronte al problema posto specialmente dagli eritrei e dai sudanesi che stanno arrivando in gran numero dai loro paesi per sfuggire alla persecuzione politica e ai conflitti armati nel loro paese di origine. Capita così che il governo italiano – per il quale il dittatore dell’Eritrea non è poi tanto dittatore, forse perché è amico di Paolo Berlusconi – concede agli eritrei solo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, il che viene vuol dire che passato un anno queste persone dovranno ritornare nella loro patria, dove già altri loro familiari sono stati arrestati e dove essi stessi verranno subito arrestati e quasi certamente torturati.


Questo per sottolineare quali sono i problemi dal punto di vista legale che bisogna affrontare nei confronti di questa particolare categoria di immigrati anche in relazione alle visite e alle cure mediche per chi non può accedere direttamente al Servizio sanitario nazionale. Esiste comunque l’S.T.P. che è un escamotage per consentire anche queste persone di ricevere la famosa ricetta rossa con la prescrizione dei farmaci e sottoporsi all’analisi del sangue. Per fortuna dal 2001 esiste una legge intelligente che vieta, sia alle autorità sanitarie come a qualsiasi medico che visita uno straniero bisognoso di cure, di comunicare i dati del paziente alle autorità di pubblica sicurezza, alzando un muro tra chi si occupa di salute e chi si occupa di ordine sociale. Questa disposizione è fatta apposta per evitare che uno straniero trascuri di curarsi per paura che un medico, un infermiere o una Asl trasmetta il suo nome alla polizia, con la conseguenza che un male, per sé non particolarmente grave ma non diagnosticato né curato in tempo, determina conseguenze molto negative per la salute dell’ammalato, per le persone che lo circondano e per lo stesso servizio sanitario nazionale che si trova esposto a spese molto maggiori sia di terapia, sia di degenza. Non pensiamo a malattie esotiche che possono colpire anche la popolazione circostante, ma ai casi, per fare un esempio, di un’ulcera gastrica che se non curata tempestivamente con i farmaci adatti, può risolversi in un’ulcera perforata con il conseguente ricovero di urgenza, trasfusioni, rianimazione, intervento chirurgico e così via. Alcune leggi buone esistono, il problema è conoscerle e farle rispettare.


Tra gl’immigrati regolari, i c.d. clandestini, i rifugiati riconosciuti come tali e quelli con permesso di soggiorno per motivi umanitari ci sono anche soggetti che sono stati vittime di torture. Conoscerli, però, non è facile ed aiutarli a riabilitarsi lo è anche di meno. Ma che cos’è la riabilitazione delle vittime della tortura?

Non sempre la scienza medica passa attraverso i canoni classici della ricerca scientifica. Non ci sono società scientifiche che si dedicano a individuare questo problema e a cercarne la terapia. Ma ci sono a volta strade insolite e impreviste e la tortura è uno di questi casi, un po’ come avvenne per i tossicodipendenti. Per la terapia di questi ultimi, trent’anni fa si pensava di curarli iniettando cocktails di farmaci, poi qualcuno, sia tra i laici come tra i religiosi, si è inventato il metodo comunitario e ha cominciato ad educare questi soggetti portandoli a vivere insieme in quelle che oggi si chiamano “comunità terapeutiche”. Osteggiata agl’inizi dal mondo accademico universitario, ora si sa che questa soluzione rappresenta l’unica vera cura per riprendersi ed uscire dalla tossicodipendenza. E la stessa cosa è successa per la cura e la riabilitazione dei torturati.


La tortura è stata da sempre molto praticata e lo è tuttora. Mentre, però, per il passato c’è una ricca documentazione storica, nel mondo contemporaneo invece pochi se ne erano occupati prima che Amnesty International prendesse l’iniziativa di richiamare l’attenzione su questo problema con una campagna mondiale agl’inizi degli anni Ottanta, rivolta specialmente ai professionisti della salute. Contro la versione ufficiale dei governi che quasi sempre negano di ricorrere a questi metodi, Amnesty invitò i medici a certificarne la pratica, a studiarne le conseguenze e a indicarne i rimedi.

È così che in questi ultimi decenni sono nati i centri di riabilitazione per le vittime della tortura. Il primo è stato quello della Danimarca, il T.R.C.T- di Copenhagen, di cui si può consultare anche il sito, molto ricco di dati statistici, documenti e indicazioni. suggerimenti. Poi sono venuti altri centri, in Francia, Inghilterra, in Inghilterra e via via tutti gli altri, così che oggi sono circa 200 i centri e le associazioni sparse nel mondo che si occupano di tortura. Emblematico quello operante in piena Santiago sotto il regime poliziesco di Pinochet, camuffandosi come Cincas, Centro di riabilitazione vittime dello stress.

Oggi sono numerosi i gruppi di medici e psicologi che si occupano delle vittime della tortura. Qui a Roma la nostra attività è cominciata negli anni ’80 prima come medici di Amnesty International e successivamente come associazione autonoma. I primi casi segnalati furono quelli di latino-americani torturati sotto le dittature militari di Cile e Argentina. Poi a mano a mano il campo si è allargato attraverso le segnalazioni dei vari centri di accoglienza per immigrati dove confluiscono moltissime persone che fuggono dai loro paesi e chiedono asilo in Italia per evitare altre torture per sé e per i propri familiari nei rispettivi paesi di origine, in massima parte dal Corno d’Africa e dall’Africa sub equatoriale. Negli anni scorsi i Paesi di destinazione dei rifugiati erano principalmente Germania, Svezia, Norvegia e Danimarca. Ora però sono moltissimi anche quelli che arrivano in Italia, grazie anche alla sensibilità che si è andata diffondendo su questo tema fin da quando andavamo a parlare con i medici della Caritas impegnati negli ambulatori per l’assistenza sanitaria agli immigrati, compresi quelli privi di regolare permesso di soggiorno. Fu così che cominciammo ad avere le prime segnalazioni di torture da parte di questi medici che visitando i pazienti cominciarono ad avere il dubbio che si trattasse di veri e propri casi di tortura.


Il medico che comincia la visita già con questo dubbio è molto più attento ad osservare i possibili segni dell’avvenuta tortura e così parecchi casi vengono alla luce che invece sarebbero passati inosservati e diversamente diagnosticati. Ora molte segnalazioni cominciano ad arrivarci non solo da operatori sanitari ma da altri immigrati che si trovano a convivere o a dividere la mensa con persone che sono state vittime di tortura. E in più, noi stessi abbiamo cominciato a prendere l’iniziativa di recarci nei luoghi dove vivono centinaia di immigrati in condizioni abominevoli e perfino peggiori di quelle riscontrate nei centri di accoglienza temporanea. E voi sapete di che sto parlando, avendo voi stessi visitato i due capannoni esistenti fino all’anno scorso nell’area della stazione Tiburtina – uno detto Kartoum, per i sudanesi, e l’altro Asmara, per gli eritrei. Noi stessi ci siamo occupati di questa situazione, con primi interventi di medicina generale ma cercando allo stesso tempo di individuare quei casi di particolare sofferenza che potevano nascondere i segni e gli effetti delle torture subìte. Dopo questo primo contatto in loco – l’Hotel Africa come era stata giornalisticamente battezzata questa convivenza forzata – portavamo queste persone o presso l’ambulatorio dei diritti sociali che ci ospita o presso un altro centro a Via Catania per attività di secondo livello, come psicoterapia di gruppo, fisioterapia e anche alfabetizzazione.


Ci siamo così abituati a recarci noi nei luoghi di maggiore bisogno. Attualmente ci rechiamo sulla Collatina dove c’è un grosso stabile occupato. Si tratta di un edificio in apparenza anche bello, ma dichiarato inagibile perché costruito su terreno franoso. Una parte di quest’edificio è stata occupata da un gruppo di sudanesi provenienti dalla Tirburtina (non tutti, perché altri sono andati in un centro di accoglienza gestito dal Comune a Via Scorticabove) mentre in altri locali si ammassano diverse centinaia di persone: prima 300, poi 400, ora tra i 6 e i 700. Quando si entra in quell’ambiente bisogna scavalcare persone che stanno sdraiate nei corridoi e anche gli spazi comuni sono pieni di sacchi a pelo e materassini buttati a terra. La nostra comunità mobile va lì ogni settimana e non si limita solo a visitare e curare gli ammalati ma fa anche opera di orientamento sul Servizio sanitario Nazionale, sui diritti riconosciuti ai migranti, e quando pensiamo di trovarci di fronte a persone che sono state vittime di torture, le portiamo nella nostra sede, per visitarle più accuratamente e predisporre un trattamento di riabilitazione appropriato, sia medico, sia psicologico.


Grazie a questo nostro lavoro di avvicinamento delle vittime nei luoghi dove il più delle volte trovano rifugio ma garanzie soprattutto alle informazioni che le stesse vittime ci forniscono su quanto hanno dovuto subire, ora ne sappiamo molto di più sulla pratica della tortura nel mondo contemporaneo e sulle sue conseguenze. Questo fatto è importante perché la tortura è una realtà che si cerca di nascondere, non solo da parte di chi la infligge ma anche da parte di chi la subisce. Per la pena di morte, gli Stati dichiarano apertamente se sono favorevoli o contrari al suo mantenimento e c’è una discussione aperta, sia in ambito Onu che sui mezzi di informazione. Per la tortura invece tutte le nazioni dichiarano di essere contrarie, tutte dicono di aborrirla, ma intanto sappiamo che più di 150 nazioni l’utilizzano sistematicamente, per non parlare delle altre che quando è necessario la praticano, come ha fatto l’Italia al G8 di Genova nella famigerata caserma di Bolzaneto.


Lavorando con e per le vittime, ora si è fatta più luce su questo lato così oscuro e tragico della convivenza umana. Sappiamo per esempio che, contrariamente a quanto si crede, non si tortura solo per estorcere un’informazione ma anche per distruggere la personalità del prigioniero. I carnefici potrebbero uccidere le loro vittime, ma invece le lasciano sopravvivere perché servano di monito vivente a tutta la popolazione e più immediatamente agli oppositori del regime. Rimettere in circolazione una persona che prima era dinamica, vivace, trascinatrice e che ora è completamente abbattuta, sofferente e taciturna, genera una tremenda paura nei confronti della tortura e di chi è in grado di infliggerla. Con questo sistema un regime dittatoriale cerca e molte volte ottiene lo scopo, di tenere soggiogata la nazione. Soprattutto quando viene rimessa in circolazione una vittima distrutta nello spirito e nel fisico, e che prima della tortura era un leader politico, un sindacalista di primo piano, un giornalista, un medico, un avvocato. Sono gli stessi torturatori che scelgono che deve morire e chi no. Per un torturatore questa scelta può risultare particolarmente critica. Per questo, i servizi segreti addestrano i loro aguzzini a reggere alla prova per un tempo relativamente limitato, tra le 6 e le 24 ore, il tempo necessario per ottenere dalla vittima le informazioni che vogliono sul suo gruppo di appartenenza e su i suoi piani. Si sa che sotto tortura tutti o quasi tutti parlano, e quando uno di questi viene rimesso in libertà è preso da un senso di colpa che l’accompagnerà per tutta la vita, ed è proprio questo che la tortura si prefigge.


Un altro punto che abbiamo capito è che i metodi di tortura sono sempre gli stessi in tutte le parti del mondo. Ci sono molte analogie, anche di dettaglio, tra le torture degli anni Settanta e Ottanta in America Latina e quelle più recenti praticate in Turchia, in Medio Oriente e nel Corno d’Africa, quasi che ci fosse una sorta di multinazionale dei torturatori, una trasfusione di dati e di tecniche non solo tra i vari apparati di polizia e ma fra gli stessi servizi segreti che per altri versi si fanno una concorrenza spietata e si combattono tra loro. I militari italiani che sono stati condannati per aver preso parte alle torture in Somalia, già sapevano come dovevano operare, come usare la batteria elettrica per le scosse, come evitare che a qualcuno restassero i segni delle ustioni, quanta acqua far trangugiare alla vittima. Certamente c’è una professionalità per non dire una “cultura” del torturatore e questi metodi tendono a raggiungere una raffinatezza tecnica nel senso che da un lato il carnefice cerca di infliggere il massimo della sofferenza fisica e psichica mentre allo stesso tempo fa di tutto per non lasciare traccia delle crudeltà che ha inflitto alla sua vittima, e tutto questo allo scopo di rendere meno credibile la vittima quando, una volta liberata, dirà – se pure avrà la voglia di dirlo – che è stata torturata.


Questa difficoltà a parlare della pena subìta è uno dei lati peggiori della tortura ed è proprio quello che il torturatore cerca di ottenere. Come ogni vera sofferenza, questa in particolare è tanto peggiore quanto meno è credibile e più è incomunicabile. Lo scopo del carnefice è quello di erigere un muro di incomunicabilità tra la vittima e la società che poi l’ accoglie, che sia quella del proprio paese o un’altra, com’è adesso per molti anche l’Italia. Noi stessi non siamo portati a credere ai racconti che può farci magari una colf venuta da lontano o un lavavetri e pensiamo che siano soltanto delle “storie” mentre in molti casi sono vere. Ecco stiamo cercando in tutti i modi di dar voce alle vittime.


Un’altra scoperta è stata quella che esistono medici torturatori. Si tratta di sanitari che danno ai torturatori le giuste informazioni per trovare i punti deboli delle vittime, in modo da aumentare quanto più si può la sofferenza e nasconderne i segni esterni; medici che poi si prestano a redigere falsi certificati per attestare che si tratta di traumi accidentali. Non dimentichiamo che ultimamente sono stati rinviati a giudizio alcuni medici italiani che avevano certificato il falso per proteggere i poliziotti che avevano torturato alcuni dei fermati durante i disordini del G8 a Genova. Questa è solo una spia che però deve indurre a tenere gli occhi aperti sull’eventualità che questa abominevole violazione dei diritti umani possa esistere e continuare a svilupparsi in una democrazia di tipo occidentale, non esclusa l’Italia.


Quanto al nostro lavoro, il prendersi cura dei torturati non vuol dire soltanto occuparsi degli aspetti medici, psicologici e fisioterapeutici, ma significa anche preoccuparci a tutto campo dei loro bisogni sociali e delle loro garanzie legali, sapere dove dormono e come possono, perché non avrebbe senso limitarsi a un’assistenza di tipo psicoterapeutico nei confronti di una persona costretta a dormire sotto i ponti e a vivere in “clandestinità” perché priva del riconoscimento dello status di rifugiato e senza neppure un permesso di soggiorno. Capita così che a volte facciamo di tutto meno che i medici, nel tentativo di capire i loro problemi quotidiani e le loro esigenze più profonde. Per esempio, una delle cose che facciamo alla prima visita è quella di fornire una piccola somma di denaro perché l’immigrato possa mettersi in comunicazione con i suoi familiari che non sente da mesi e mesi, da quando cioè è dovuto scappare dal suo paese sotto la minaccia di imprigionamento e di chissà che torture se non di una condanna a morte. È inutile cominciare una psicoterapia con una persona che vive in questo stato d’incertezza e isolamento, e una delle prime cose da fare è aiutarlo a trovare un recapito telefonico che in qualche modo lo rimetta in contatto con i suoi e dargli, com’è ovvio, anche il denaro sufficiente per fare questa telefonata. Occuparsi di queste prime necessità vuol dire creare le condizioni perché si possa avviare un vero percorso di cura e riabilitazione.


In questo cammino, il primo ostacolo da superare è il silenzio. Il silenzio è il nemico da vincere, ma non è un lavoro facile. Viviamo in una società che non facilita la comunicazione, specialmente con gli estranei e con persone molto diverse da noi. Ma la prima e vera difficoltà sta nella persona stessa del torturato, che non è portato a parlare di quello che ha subìto, sia perché ha paura, sia perché parlarne significherebbe rinnovare ricordi angosciosi, paure e sofferenze, sia perché si è convinto che parlarne non serve a niente, visto che quando ha cercato di raccontare la sua odissea, molto spesso non ha trovato che un muro di molta diffidenza e incomprensione.


Dar voce alle vittime è un compito difficile.Vi racconto a questo proposito quanto mi è capitato diversi anni fa quando ancora ero nel gruppo di Amnesty International. Una sera mi trovavo insieme ad altri medici nei locali dell’associazione a Viale Mazzini e parlavamo di questi problemi. C’era anche qualcuno di una organizzazione di volontariato che voleva prendere contatto noi, un argentino che s’era fatto accompagnare dalla moglie. Eravamo andati avanti a parlare per quasi un’ora e mezza, quando a un certo punto la signora ci ha detto che voleva raccontarci qualcosa che non aveva mai raccontato a nessuno tranne che a suo marito: in Argentina questa signora era stata torturata e si trovava in Italia da almeno 10 anni, eppure aveva sempre taciuto con tutti di questa sua sofferenza, fino a che si era finalmente decisa a parlarne essendosi trovata quasi casualmente tra persone che avevano dimostrato di comprendere il vero dolore delle vittime e di sapersene occupare con grande solidarietà. Questo per dirvi che cosa può significare per una vittima avvertire che si trova in un ambiente amico perché chi è passato per questo genere di esperienza non dà facilmente fiducia al primo che capita.


Un altro scoglio che dobbiamo superare è quello della mediazione degli interpreti. Le nostre forze di polizia si servono di interpreti presi senza criterio, mentre la funzione di questo mediatore è importantissima. Per noi l’interprete è come un terapeuta perché bisogna immagina che cosa possa significare per una vittima raccontare ad un’altra persona il perché e il come lui è stato torturato, sperando che l’interprete riesca a tradurre il suo racconto in buon italiano da una lingua poco familiare, come l’arabo, il tigrino o l’aramaico. L’interprete dev’essere una persona non linguisticamente ben preparata ma anche molto sensibile, capace di cogliere il senso di alcune diversità culturali anche da certe espressioni idiomatiche e da alcuni sottintesi. Noi abbiamo selezionato un gruppo di mediatori linguistico-culturali che ormai lavorano con noi da molto tempo e che sono diventati nostri amici e amici anche di molti dei nostri ex assistiti.


Per quanto mi riguarda, la prima cosa che faccio quando incontro qualcuno da assistere è di presentarmi: chi sono, di che mi occupo e che cosa è il nostro gruppo di volontariato o, meglio, che cosa non è questo gruppo che non ha niente a che fare con il governo, non fa parte della commissione che valuterà la loro domanda d’asilo, non siamo poliziotti. A noi questo genere di presentazione sembra chiaro, come lo è anche per un latino-americano che sa che cosa vuol dire il “volontariato”; ma come tradurre il significato di un termine come questo a un africano, come fargli capire che non ci paga nessuno, che non lo facciamo per essere pagati e che dopo aver ricevuto le loro confidenze non le andremo a raccontare in giro come fanno tanti giornalisti di mestiere e magari qualche spia. Senza l’aiuto del mediatore culturale non ce la potremmo fare.

Ecco un esempio: in molti villaggi islamici c’è un medico – akim, in amarico – che ogni venerdì visita gratuitamente e così per spiegare che cosa è il volontariato a qualcuno dei nostri assistiti provenienti da quella zona, il mediatore culturale gli ha detto che noi stavamo facendo il venerdì, perché questo termine da noi così comune, in Iran e in Medio Oriente non esiste. Se non si superano queste trappole linguistiche, la comunicazione si fa difficile e la fiducia reciproca diventa più problematica.


Un altro aspetto da non sottovalutare è la diversificazione che c’è tra noi fra i vari campi di specializzazione rispetto ad altri paesi dove esiste un solo tipo di medico. Da noi un medico generico che ti manda per una visita specialistica da un ortopedico, non è uno che non ti vuole curare e ti caccia via ma è solo uno che sta cercando l’aiuto di un altro specialista. Ma chi è abituato a trattare con un solo medico può interpretare male questo rinvio e prenderlo per un rifiuto. Per noi tutto questo è semplice, ma spiegarlo in un contesto delicato come è quello del rapporto medico-paziente può risultare difficile e dare origini a molte incomprensioni, e questo è un altro esempio di quanto possa essere non solo utile ma insostituibile il compito del mediatore culturale.


In ogni caso non bisogna dimenticare che chi è stato vittima di tortura non è un paziente come gli altri. Già il semplice accesso al corpo presenta qualche problema. Quando noi andiamo dal medico mettiamo già in conto che dobbiamo spogliarci, ma la vittima di torture l’ultima volta che ha dovuto farlo non è stato per farsi curare da un medico ma per essere torturato da un carnefice. La visita naturalmente dovrà esserci, non al primo incontro, però, ma dopo un primo e un secondo colloquio con il paziente. Basti pensare a quanto deve essere farsi visitare per una donna che ha subito violenza carnale, anche se si procede con tutta la delicatezza possibile e si ricorre soltanto a personale femminile. Per uno che è stato torturato con gli elettrodi o nella bocca, la sola prospettiva di fare un elettrocardiogramma e un encefalogramma o di affidarsi alle cure di un dentista può rievocare antiche sofferenze ed essere traumatico. Perciò anche il cardiologo e il dentista devono essere sensibili a situazioni come queste, dedicare un paio di sedute a una semplice conversazione per passare poi in un secondo momento all’uso delle apparecchiature necessarie per la diagnosi del caso e della cura.


Che modello organizzativo ci siamo dati per svolgere questo lavoro? Distinguiamo tre livelli di intervento per venire incontro a un tipo di popolazione che varia continuamente, tra chi viene in contatto con noi e poi sparisce e chi invece è più assiduo.


A un primo livello, sostenuti da una rete di persone che collaborano con noi, assicuriamo le visite mediche, comprese quelle specialistiche, eventuali esami del sangue e radiografie. In più diamo un piccolo aiuto in denaro per il vitto e le telefonate alla famiglia, e, quando ce lo chiedono, redigiamo i certificati necessari per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato. Vengono certificate le lesioni, sempre che si tratti di lesioni visibili e documentabili; in più, con gli psicologi si fa una certificazione a due mani che si è dimostrata molto utile, sul danno psichico riportato dalla vittima a causa delle torture.


Il secondo livello riguarda le persone che ci frequentano più regolarmente e delle quali riusciamo a farci carico con maggiore completezza. Queste persone vengono indirizzate a piccoli gruppi di psicoterapia o di fisioterapia. In più, da un paio di anni abbiamo istituito anche un corso (non mi piace chiamarlo scuola) di alfabetizzazione, o meglio, un laboratorio linguistico integrato dove operano non solo chi svolge la funzione propria dell’insegnante ma anche psicologi e psicoterapeuti per svolgere insieme un tipo di lavoro che proprio per questo chiamiamo “integrato. Abbiamo infatti constatato che in un ambiente di alfabetizzazione si crea più facilmente un clima di rilassatezza e di fiducia dove le vittime della tortura avvertono che c’è qualcuno sinceramente pronto ad ascoltarle e trovano perciò meno difficoltà a raccontare le atrocità che hanno dovuto subire. Tutto questo è molto positivo sotto il profilo terapeutico. Il laboratorio serve perciò al doppio scopo, di istruire socializzando e di curare, che sono poi le due facce di un unico percorso. .


Il terzo livello è rappresentato dalle persone che riusciamo ad integrare pienamente nella società trovando loro un lavoro sufficientemente retribuito ed una casa. Purtroppo quest’obiettivo si raggiunge in pochi casi, ma è questo è il livello a cui miriamo e a mano a mano che si procede in questa direzione assistiamo comunque alla rinascita delle vittime, vediamo persone che passano a poco a poco dal chiuso di una inesprimibile sofferenza interiore alla fiducia nel dialogo, persone che riacquistano forza, e forti dell’esperienza vissuta diventano gli “esperti” in grado di smascherare e denunziare quei meccanismi di potere, nazionale e sovranazionale, che continuano con estrema malvagità a sostenere e praticare la tortura. Queste persone passano dall’essere aiutati ad aiutare gli altri che arrivano dopo di loro sulla via della riabilitazione.


Io uso con difficoltà la parola “cura” perché non si guarisce mai completamente dalle lesioni fisiche e morali della tortura. Si impara però a conviverci; si esce dal tunnel, ma non si può dimenticare tutto. Ma più che all’idea di guarigione, nel caso della tortura rifacciamoci piuttosto a quella di trasformazione. Una persona, che i carnefici hanno fatto di tutto per distruggere, trova la forza, aiutato dagli altri, a riprendersi e a lottare, per i diritti umani e per la piena dignità delle persone, sotto qualunque regime e in qualsiasi parte del mondo.


Noi cerchiamo di stare a fianco di queste vittime lungo tutto il loro cammino, direttamente ma anche cercando, per quanto ci è possibile, di sensibilizzare l’ambiente. A noi capita di andare a parlare di questa problematica, nelle facoltà di medicina, nei licei, nei corsi per infermieri, ma sarebbe molto opportuno estendere questo lavoro di sensibilizzazione a molti altri ambienti perché se non si rompe il muro del silenzio e della non-conoscenza, c’è il rischio tutt’altro che ipotetico di continuare a vedere nella tortura solo una pratica lontana e un ricordo di altri tempi, mentre purtroppo è prassi più diffusa di quanto si pensa e per certi versi ancora più crudele delle stesse esecuzioni capitali. La vittima della tortura è vittima due volte, di chi gli fa violenza e di chi non gli dà ascolto. Ma il livello di attenzione anche in Italia va cambiando verso il meglio, anche se, come spesso capita, a macchia di leopardo e lentamente. Pensiamo per esempio a come si è andata evolvendo positivamente ma faticosamente la società meridionale dopo la rivoluzione culturale dell’ultimo trentennio di fronte ai casi di violenza carnale subìto dalle donne; ora se ne parla e la solidarietà con la vittima va insieme quasi sempre con l’aperta condanna, giuridica e morale, della vittima.


Non dimentichiamo però che, per quanto possa suonare paradossale, le vittime della tortura che riescono a fuggire dai loro paesi e arrivano in Europa si devono considerare fortunati. La vera tragedia è di chi resta in balìa di un tiranno crudele (pensiamo agli sciiti e ai curdi sotto Saddam Hussein) o di un’etnia maggioritaria e spietata, come in Sudan o in Eritrea, per non parlare degli afghani e degli iracheni reclusi a Guantanamo in un regime carcerario che è già per se stesso una forma di tortura spietata e ininterrotta per mano di una Amministrazione che si dice democratica ma che non accetta né verifiche né condanne sul mancato rispetto dei più elementari diritti umani verso i nemici in guerra e i prigionieri.