Laura Lagi, della Cooperativa Parsec; avv. Pietro Bognetti
Avv. Pietro Bognetti
Il termine schiavitù viene spesso usato in senso estensivo – la schiavitù della droga, dell’alcol, del gioco d’azzardo... – ma la condizione più reale, più tragica e in continua espansione anche in Italia è sicuramente quella delle giovani e delle bambine finite nella rete della criminalità organizzata e avviate con gravissime minacce alla prostituzione. La “liberazione” di queste vittime è un lavoro psicologicamente difficile e socialmente rischioso, ma diverse associazioni hanno scelto questo campo, a difesa dei diritti umani. Sul piano normativo, l’Italia sta cercando di adeguare la sua legislazione ai gravi problemi connessi all’espansione e alla gravità di questo fenomeno.
Sono Laura Lagi, lui è Gianluca Taras. Lavoriamo per la cooperativa sociale “Parsec” nel Progetto ProHins - io come coordinatrice e Gianluca come formatore - che rientra nella rete progettuale del servizio “Roxanne” del V° Dipartimento (Comune di Roma) per le azioni contro la tratta delle persone straniere, rete nata a partire da una delibera comunale dell’8 marzo 1999. La rete si occupa in particolare della tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale ma agisce anche rispetto alla prostituzione libera.
Il nostro servizio, cominciato nel 2000, è diretto a donne di 18 anni o più, quindi noi della cooperativa Parsec non ci occupiamo direttamente di minorenni.
Nei circa sei anni della nostra attività il fenomeno della prostituzione di strada – che si evolve rapidamente - è cambiato, così come la popolazione cui ci rivolgiamo.
“Le Robustine”, il documentario che vedremo tra poco, è stato realizzato tra il 2003 e il 2005; attesta il lavoro fatto fino ad un anno e mezzo fa. Vedremo ed ascolteremo, in maniera più approfondita, la storia vera di cinque ragazze, dal paese di origine fino all’inserimento nella realtà romana (altre ragazze straniere hanno recitato al loro posto per motivi di privacy) e vedremo come agisce questo progetto/servizio comunale attuato da diversi enti e associazioni tra cui la Cooperativa Parsec di cui facciamo parte.
Negli ultimi due anni ci sono stati alcuni cambiamenti, non nel tipo degli interventi che si fanno ma nelle caratteristiche del fenomeno cui ci si rapporta. L’età delle donne avviate alla prostituzione si è notevolmente abbassata e sono diventati molto importanti i servizi per le minorenni.
Questo documentario non tratta di altri aspetti del fenomeno della tratta di esseri umani: sfruttamento di minorenni a fini di accattonaggio, prostituzione maschile, induzione alla commissione di reati, vendita di neonati ecc. Anche questi altri aspetti vengono tuttavia contemplati dalla legge del 2003 sulla tratta degli esseri umani. Prima di allora in Italia non vi era una legge apposita e ci si rifaceva ad una serie di norme europee e ad altre leggi, in particolare all’articolo 18 del Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 che prevedeva l’avvio di programmi di protezione sociale, attuati da soggetti privati insieme agli enti locali, tra i quali vi sono i percorsi che noi realizziamo per le donne che escono dalla tratta.
[proiezione del documentario “Le Robustine”]
Interventi
Domanda – Da quali esigenze e da quali norme precedenti deriva la legge specifica del 2003 sulla tratta, di cui lei ha parlato?
Lagi – La presa di coscienza del fenomeno, diventata molto forte, ha prodotto la legge del 2003 peraltro preparata dal già citato articolo 18 del Testo Unico del 1998 sull’Immigrazione, prima norma del genere in Europa, che ha permesso alle donne sfruttate di fruire di percorsi di uscita sia tramite la denuncia degli sfruttatori, sia – in casi particolarmente complessi con rischio serio – di uscire senza fare denunce (di casi in cui è stato riconosciuto un rischio serio a Roma ce ne sono stati pochissimi, a Palermo molti di più). Tale norma ha permesso di censire il fenomeno sul versante delle vittime, di fornire degli aiuti e di attivare importanti procedimenti giudiziari. In precedenza c’era solo la legge Merlin – tuttora in vigore – che non considera la prostituzione un reato di per sé, abolisce le case chiuse e contempla i reati di favoreggiamento e di induzione alla prostituzione. Da vent’anni a questa parte, con la forte pressione migratoria che si è creata dopo il 1989 quando la caduta del muro di Berlino ha causato una serie di dissesti nell’Europa dell’est, si è formata una rete di appoggio all’immigrazione clandestina, con il forte incremento del traffico degli esseri umani, non solo per la prostituzione ma anche per lo sfruttamento dei minori, le adozioni illegali ecc. Dopo il mercato delle armi e quello della droga, questo è diventato il terzo mercato illegale. Negli ultimi 15 anni si è organizzato potentemente il traffico di esseri umani che peraltro ha trovato qui in Italia una domanda fortissima soprattutto di prestazioni sessuali femminili (ma anche maschili.) La domanda si è spostata progressivamente verso persone sempre più giovani.
Venticinque anni fa la prima migrazione nigeriana verso l’Italia ha stabilito le prime connessioni con l’Italia non solo dei grandi centri della Nigeria ma anche dei villaggi. Un rete commerciale ben precisa reclutava le ragazze in Nigeria (ci sono moltissime donne nigeriane ma non ce n’è quasi nessuna proveniente da altri paesi africani). Le prostitute in arrivo godevano degli appoggi logistici di una rete che si era formata in Italia per questa immigrazione. Il fenomeno era assai diverso da quello successivo e più duro che si è originato dall’Est europeo.
Domanda – Quali sono i risultati in termini quantitativi dell’azione di contrasto prodotta da queste leggi?
Lagi – In confronto alla vastità del fenomeno i risultati sono piccolissimi, anche se stando sul campo, per esempio partecipando alle unità di strada, si possono rilevare dei risultati. Le unità di strada a Roma hanno realizzato circa 3500 contatti all’anno. Abbiamo più di 200 percorsi di uscita dallo sfruttamento sessuale. Le strade però nel frattempo si sono molto popolate e in aggiunta si è sviluppata una rete di prostituzione al chiuso – negli appartamenti, nei locali – meno controllabile.
Domanda – C’è un reato specifico di riduzione in schiavitù?
Lagi – Sì, è contemplato nella nuova legge sulla tratta del 2003, legge che è conseguita ad un grosso lavoro di analisi di ciò che era avvenuto sotto le leggi precedenti. Il reato di riduzione in schiavitù è stato definito in quanto tale. Sono stati modificati alcuni articoli del Codice penale prevedendo pene proprio per il reato di riduzione in schiavitù. E’ aumentata di circa 12 anni di carcere la pena per questo tipo di crimine (sono ora infatti previsti dai 9 a i 20 anni di reclusione). E’ stato introdotto l’importante principio che l’aver prestato un consenso esplicito non è un motivo per far decadere l’accusa di riduzione in schiavitù. Si è riflettuto sul fatto che le forme di assoggettamento e di costrizione psicologica e fisica sono assai diversificate e raffinate. Ciò è molto importante in sede giudiziaria. Il precedente articolo 18 – una norma eccellente che ci invidia tutta l’Europa – aveva permesso che si accumulasse una massa di conoscenze e si sedimentasse una cultura anche giuridica riguardo al problema. Ci sono ora sia dei magistrati che degli avvocati che sono veramente addentro a queste questioni ed hanno delle specificità anche culturali sul fenomeno e sulla sua evoluzione.
Per esempio, all’inizio, quando il fenomeno riguardava più che altro le Nigeriane, nessuno credeva seriamente alle storie di assoggettamento tramite riti Vodoo, che pure circolavano. In seguito alla perquisizione delle case da cui venivano liberate le donne, al ritrovamento di tutto un armamentario magico e all’accumularsi delle denunce delle vittime, ha acquisito credibilità anche sul piano giudiziario la pratica di assoggettare le donne tramite artifici superstiziosi.
Il parlamento italiano, prima di varare la penultima legge sull’immigrazione (quella precedente alla Bossi-Fini), ha consultato approfonditamente commissioni comprendenti esperti e studiosi, ha fatto un egregio lavoro di ricognizione delle realtà di base che si erano occupate di immigrazione. Allora emerse che circa il 3,5% della prostituzione era collegata a fenomeni di schiavitù (percentuale comunque inferiore al dato dell’11-12% stimato precedentemente). Tenendo conto di ciò, all’interno dell’articolo 18 della legge fu previsto che quando la persona sfruttata poteva dar prova - anche tramite gli operatori sociali – di una condizione recente di assoggettamento, essa aveva diritto di chiedere alla questura uno speciale permesso di soggiorno, detto di ‘protezione sociale’, di sei mesi più sei mesi, e di entrare in programmi di protezione attuati dagli enti locali. Questa norma era unica in Europa. Uno dei vantaggi della norma – che permette innanzitutto alla donna di scegliere se rimanere in Italia o usufruire di forme di rimpatrio assistito - è quello di aver fatto collaborare gli operatori sociali con le forze dell’ordine. La “maternità”, diciamo così, dell’articolo 18 è di Vittoria Tola, presidente della Commissione Pari opportunità, che nel 1998 – dando un’audizione seria ai soggetti che lavorano sul territorio – ha sollecitato e difeso l’inserimento di questo articolo.
Domanda – Vi sono prove che una parte delle persone giovani o adolescenti soggette a sfruttamento in Italia siano state reclutate all’uscita delle carceri o dei riformatori dei paesi di origine?
Lagi – A me non risulta che ci sia un particolare reclutamento delle persone da sfruttare nell’ambiente para carcerario, almeno per quanto riguarda le giovani donne da avviare alla prostituzione. Invece nei paesi dell’Est europeo un grosso business viene fatto reclutando ragazze in uscita dagli orfanotrofi al compimento del diciottesimo anno. Attualmente ciò avviene soprattutto in Romania. Con l’abbassarsi dell’età media delle donne avviate alla prostituzione aumenta il reclutamento all’uscita degli istituti e degli orfanotrofi, tanto è vero che diverse associazioni, anche italiane, anche cattoliche, lavorano in Romania per proteggere le giovani che vengono dimesse da tali istituzioni.
Domanda – In strada vi sono prostitute che hanno meno di 18 anni?
Lagi – Sì molte. Il progressivo abbassamento dell’età media delle donne che entrano nel giro della prostituzione ha portato a immettere sul ‘mercato’ adolescenti che hanno dai 14 ai 16 anni. Sono ritornata per strada a Roma quest’anno dopo tre anni che non ci andavo e ho trovato ragazze giovanissime, anche di 13 anni.
Domanda – Immagino che nella fase processuale che segue alla denuncia degli sfruttatori, le donne ‘liberate’ abbiano bisogno di mediatori linguistici e culturali che le aiutino a comunicare e a farsi comprendere. Dico questo perché nel caso degli ex torturati o dei richiedenti asilo il ruolo dei mediatori culturali si è rivelato fondamentale.
Lagi – Sicuramente, sicuramente. Le ragazze che entrano nelle case protette, nei centri di accoglienza, nelle vie di fuga, sono costantemente assistite lungo tutto il percorso. La fase processuale può essere molto lunga e complessa. E’ vero che anche l’attesa dei richiedenti asilo è stressante (fino a poco tempo fa, prima dell’istituzione delle Commissioni territoriali, era anche molto lunga), ma almeno per questi c’è un iter ben definito con un preciso punto di arrivo: la concessione (o la negazione) dello status di rifugiato.
Alle ragazze offriamo una serie di appuntamenti di appoggio. Durante la fase processuale viene assicurato un servizio di intermediazione e di interpretariato. Poi c’è un grande lavoro di sostegno durante il processo fatto dagli avvocati, dalle avvocatesse, insieme agli operatori sociali di riferimento. Noi abbiamo collaborato molto con gruppi di avvocati particolarmente sensibili e insieme a loro abbiamo cercato di costruire dei percorsi adatti, anche perché all’inizio non c’era ancora una consuetudine processuale. Anni fa i magistrati non sapevano come valutare alcune cose, per cui è stato molto importante avere delle buone difese, avere delle buone argomentazioni delle storie, sostenere molto bene le ragazze durante i processi anche perché – a differenza dei richiedenti asilo - dovevano confrontarsi e rispondere di fronte all’imputato, che poteva essere lo scalzacani ‘fidanzatino’ ma anche un esponente di una rete criminale ben organizzata.
Domanda – A parte lo sforzo lodevole che fate voi ed altre organizzazioni per far uscire le persone sfruttate in percorsi di salvezza, ho l’impressione che negli anni il circuito principale sia stato quello delle espulsioni. Ho visto più volte sparire improvvisamente tutte le prostitute dalla via Salaria e dopo alcuni giorni apparirne altre e diverse. E poi magari dopo qualche mese risparivano tutte e ne comparivano ancora altre. Quindi ho pensato che queste persone venissero spedite periodicamente a casa loro, rovinate, con grandi difficoltà di reinserimento in patria… A Roma ogni volta il numero delle prostitute sembra crescere esponenzialmente nel disinteresse delle autorità. All’improvviso, forse per una sollevazione di quartiere o per un servizio in TV, si decide di fare ‘pulizia’.
Lagi – Certamente. So ad esempio che alcune compagnie aeree organizzano dei voli dedicati per il rimpatrio forzato delle ragazze nigeriane. Ci sono due grossi fattori di ricambio su strada. Da una parte ci sono le retate della polizia. Dall’altra ci sono le organizzazioni che hanno imparato a far girare nella città le ragazze. Le ragazze vengono spostate anche attraverso l’Italia e in Europa. Può succedere che una ragazza lavori un anno in Spagna, un anno e mezzo in Italia, due anni in Germania… Gli sfruttatori spostano le ragazze anche perché hanno capito che ci siamo noi. Per quanto piccolo sia il disturbo che possiamo dar loro, da quattro anni a questa parte ormai ci sa benissimo che una possibilità di uscita, per cui si sono organizzati.
Domanda – Quali sono gli itinerari percorsi dalle donne nigeriane che arrivano in Italia per essere sfruttate sessualmente?
Lagi – Fino a qualche anno fa, come ha raccontato la ragazza nel documentario, il percorso preferenziale era un viaggio in aereo fino in Russia a di lì con mezzi di fortuna, o a piedi, si arrivava da noi. Perché fino a Kiev o a Mosca si poteva giungere molto facilmente con passaporti anche falsi. Adesso invece, come gli altri emigranti, le donne percorrono la via del Sudan e poi attraversano il Sahara a piedi con viaggi lunghissimi e faticosissimi. Si è creata una rete nell’Africa subsahariana per i flussi di emigrazione illegale che passano per il Sudan, l’Eritrea e l’Etiopia andando verso la Libia e poi, per mare, verso l’Europa.
Domanda – Mi sembra che le prostitute africane o comunque di colore siano ora confinate in provincia e nelle campagne, nelle grandi città si vedono quasi esclusivamente Europee dell’est.
Lagi – Da due anni e mezzo a questa parte noi lavoriamo quasi esclusivamente con ragazze rumene, con alcune Nigeriane e con pochissime donne dell’ex Unione Sovietica di età più adulta.
Come dicevo all’inizio, il fenomeno di cui trattiamo cambia rapidamente nel tempo, sia per quanto riguarda la provenienza delle persone sfruttate, sia per quanto riguarda la nazionalità degli sfruttatori.
Nel 2001 vi erano grosse organizzazioni albanesi-italiane che gestivano le prostitute, organizzazioni dedite anche ad altri traffici come quello delle armi. Inoltre c’erano organizzazioni di giovani, di ragazzi, che erano le più dure e violente. Queste si dedicavano allo sfruttamento della prostituzione come primo e principale lavoro.
La prostituzione nigeriana era organizzata prevalentemente al femminile. Si appoggiava ad una rete composta da uomini che si occupava più che altro delle questioni logistiche, di acquisto di appartamenti, di coperture ecc. Erano soprattutto gli uomini che si incaricavano di stabilire contatti con gli italiani.
Ultimamente si sono molto organizzati i Rumeni, con modalità diverse. C’è tutta una gamma di organizzazioni anche molto piccole e rudimentali. Ci può essere una famiglia rumena che è riuscita ad avere un paio di ragazze rumene da sfruttare. Ci può essere il ‘fidanzato’ che sfrutta una sola ragazza. Sta crescendo il fenomeno preoccupante di giovani rumeni che vengono qui e reclutano sul posto le ragazze da sfruttare.
C’è infine un segmento di traffico di minori. Adesso sta arrivando un gran numero di minori di etnia rom da alcune città o regioni specifiche in Romania. Tra un anno potremo trovarci a lavorare con ragazze di etnia rom.
Domanda – Sono molti i gruppi di volontari e le organizzazioni istituzionali che lavorano in favore delle prostitute? La loro consistenza è in aumento?
Lagi – Il numero di volontari è aumentato, o meglio: per un certo periodo è stato in aumento. Le organizzazioni sono molte, anche di emanazione istituzionale. Quando ci sono fondi pubblici tutti si mettono in moto. Ci sono organizzazioni istituzionali, ci sono grandi associazioni che lo fanno da molto tempo, ci sono piccoli gruppi, ci sono anche alcune parrocchie che hanno organizzato unità di strada.
Domanda – C’è solidarietà tra voi?
Lagi – Una solidarietà… augurabile, che non c’è sempre. Il coordinamento tra tutti questi soggetti a volte lascia a desiderare. Per esempio ieri sera a Piazzale Ostiense eravamo in quattro organizzazioni (io in quel momento lavoravo nella UdS rivolta ai minori cui partecipano il Comune di Roma, la Caritas, Save the Children e la Casa dei Diritti Sociali). C’era la Croce Rossa che distribuiva pasta, c’erano due organizzazioni che davano i panini e noi che facevamo una cosa un po’ diversa perché eravamo lì per accompagnare al commissariato due minorenni afghani che avevano chiesto una tutela ed un’assistenza legale. Noi di solito non distribuiamo cibo, semmai qualche volta un po’ di tè caldo, ma ci occupiamo di altri aspetti. Eravamo tutti là mentre sappiamo che alcune zone di Roma sono totalmente scoperte. Sarebbe augurabile un accordo tra tutte le organizzazioni e non solo tra le tre o quattro un po’ simili tra di loro che si incontrano e si parlano con una certa regolarità. Siccome l’unità di strada è una metodologia molto specifica ed efficace di riduzione del danno, in molti casi l’unica possibile, e forse anche l’unico canale attraverso cui si può chiedere aiuto, sarebbe augurabile che ci fosse un tavolo cittadino in cui confluissero tutte le esperienze. Devo dire che il Comune di Roma ha avuto il grande merito di costringere a lavorare insieme volontariato, cooperative laiche, strutture cattoliche e forze dell’ordine. Ha sempre tenuto fermo questo punto.
Domanda– Penso che ogni gruppo affronti il problema secondo una sua idea, con la sua ideologia.
Lagi – Alla prostituzione non ci si avvicina mai in maniera neutra, anche i metodi che si utilizzano risentono dell’ideologia di chi interviene. Il modo in cui ti avvicini alla prostituzione dichiara che cosa ne pensi.
Domanda – Se poteste fornirci un po’ di dati sul fenomeno della tratta, sulla prostituzione e sull’assistenza prestata da voi e dagli altri sarebbe interessante per una valutazione quantitativa…
Per quanto riguarda l’estensione e l’efficacia degli interventi che si riescono a fare nel campo della prostituzione, forse accade qualcosa di analogo a quanto avviene per il carcere. Per esperienza so che l’assistenza che i volontari e le organizzazioni istituzionali riescono a dare ai detenuti rappresenta solo una goccia in un mare di bisogni. Parlo di assistenza all’interno delle prigioni ed anche di supporto a coloro che vogliono uscire, per esempio usufruendo di opportunità di lavoro esterno in regime di semilibertà. Ci sono detenuti che per anni cercano senza successo di trovare un lavoro e sono costretti a rimenare in prigione anche in presenza di norme che consentirebbero loro di cominciare a reinserirsi nella vita civile.
Lagi – Penso che la situazione del carcere, di cui in questo periodo comincio ad avere un’esperienza, sia proprio una vera emergenza.
Domanda – Eppure, nonostante questo, i vari attori – volontari, associazioni, cooperative - che operano in favore dei carcerati si sentono abbastanza soddisfatti. Dal loro punto di vista le cose vanno piuttosto bene perché magari lavorano al massimo delle proprie possibilità. Però se ci si mette dal punto di vista dei detenuti non si intravede una luce. A parte i casi sporadici di pochissimi fortunati o raccomandati. A fronte delle esigenze del mondo carcerario la risposta globale offerta dalla società civile è di un’entità veramente risibile.
Lagi – La stessa cosa si verifica nel mondo della prostituzione. E’ uguale, veramente.
Domande
– Il tempo è passato. E’ passato benissimo ma è passato. Avviandoci alla conclusione mi domando se in un prossimo incontro si potesse parlare del problema dei minori sfruttati. Rimanendo sempre fermi sul reato di riduzione in schiavitù, che è un problema che riguarda i diritti umani.
Sorprende il fatto stesso che sia ritornata la necessità di definire la riduzione in schiavitù, una violazione che si pensava fosse seppellita nel passato. Per la violenza psicologica esercitata, la schiavitù odierna si presenta forse in forme addirittura più perverse e più devastanti che non la vecchia schiavitù. E’ una schiavitù vera e propria, non una schiavitù analogica come ad esempio quando si dice che uno è schiavo del gioco d’azzardo. La persona è ridotta in stato di dipendenza assoluta con tecniche perverse di coercizione psicologica e fisica.
– E’ una schiavitù non riconducibile solo agli sfruttatori propriamente detti ma, come fenomeno generale, è il prodotto di una cultura anche a livello globale che ha dei momenti molto espliciti e disturbanti per noi sulla Salaria o a via Anelli…
– Non si può processare la società quindi si processano e si puniscono quelli che sono immediatamente responsabili dei reati anche perché, per esempio, noi personalmente non abbiamo la stessa colpa. Non esiste legge che non comporti la definizione di un reato e quindi una sanzione, altrimenti rimaniamo nel campo della morale.
Nei precedenti incontri che abbiamo fatto sui diritti umani è stata messa in rilievo la figura del mediatore culturale ma anche del difensore legale. Perché c’è la mediazione tra la legge, il magistrato e la vittima. In questa parola onnicomprensiva di ‘volontariato’ che finisce per non definire niente perché una cosa è dare una minestra calda in una notte d’inverno ad un barbone e altra cosa è il volontariato degli avvocati o, come abbiamo appreso in un precedente interessantissimo incontro, dei medici che si occupano delle vittime della tortura, che mettono a disposizione una professionalità specifica. C’è tutto lo spazio delle professioni esercitate per motivi che non sono semplicemente quelli dell’esercizio retribuito delle proprie competenze.
L’associazione Medici Contro la Tortura si basa quasi esclusivamente sul volontariato, mentre loro svolgono principalmente un servizio pubblico…
Lagi – Sì, la nostra è una cooperativa sociale che ha visto questo progetto cofinanziato dal Comune e dal Governo attraverso il Dipartimento Pari Opportunità. Poi ci sono collaborazioni con strutture di volontariato.
La riduzione in schiavitù è un delitto espressamente previsto e sanzionato nel nostro ordinamento e fa parte della più ampia classe dei reati contro la persona – che comprende omicidio, rissa, violenza, ecc. – ed è previsto dall'art. 600 c.p. e si accompagna ad un gruppo di reati consimili: art. 601 c.p. (tratta degli schiavi ), art. 602 (acquisto ed alienazione di schiavi. Una volta seguiva a questi articoli ed ipotesi di reato il "plagio”, previsto dall’art. 603 c.p. dichiarato poi illegittimo con sentenza della Corte Costituzionale 8 giugno 1981, n. 96.
Come si può notare, questi articoli sanzionano tipi di reati simili fra loro, ma tuttavia mantenuti distinti in modo tale da far perdere la pazienza a chi per la prima volta s'accosti al loro esame e più in generale allo studio del diritto penale, tanto appare eccessiva e cavillosa la distinzione, fatta apposta, si direbbe, per offrire scappatoie ai birbanti ed ai loro avvocati. Il motivo di tanta meticolosa distinzione ha proprio a che fare con l’annoso problema del garantismo e dello stato di diritto che ci affligge fin dai tempi dell’illuminismo, della rivoluzione francese, di Napoleone e di altri fatti e personaggi contrari alla natura generosa di chi impiccherebbe senza tante storie un delinquente.
Si ritenne allora, insomma, che non si potesse condannare una persona per qualcosa che non fosse espressamente previsto come reato (nullum crimen sine lege poenali, consacrato dall'art. 25 della nostra Costituzione: la frase è latina, ma non ci viene dai Romani ).
Non è possibile condannare un imputato molto simile ad un perfetto farabutto motivando che quanto ha fatto corrisponde all’incirca ad un certo reato. Infatti, nei paesi retti da codici di derivazione napoleonica, non si può applicare, a danno dei rei, l'analogia, cioè una norma prevista originariamente per un reato ma applicata ad un altro, diverso, ma con alcuni clementi in comune (art. 1 cod. pen., art. 14 disposizioni sulla legge in generale).
Per non offrire una troppo facile via di fuga il codice penale appronta, quindi, accanto ad una figura di reato estrema o centrale, altre ipotesi di reato consimili. Perciò abbiamo, ad esempio, il furto variamente aggravato ed accanto l’appropriazione indebita. Nel caso della schiavitù, la condizione analoga, prevista in un articolo separato, è il plagio. In questo modo, lo stesso fatto criminoso, può esser sanzionato mediante il suo inquadramento in diverse previste fattispecie criminose diligentemente elencate e distinte; per dirla in termini più tecnici, il reato può esser diversamente rubricato, servendosi appunto di diverse fattispecie, che fanno da contorno alla figura centrale.
Nel caso specifico, accanto alla riduzione m schiavitù, c'è, nello stesso art. 600 c.p., la condizione analoga alla schiavitù ed un tempo, come s'è detto, il plagio: tutte figure criminose che prevedono e prevedevano la medesima pena. Il plagio - (art. 603 c.p.: "Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindci anni”) era, al tempo della sua vigenza l'ipotesi residuale rispetto alla riduzione in schiavitù ed alla condizione analoga.
Questa "costellazione" di articoli consente di avere una concezione giuridica dei fenomeno criminoso non ristretta al singolo reato e di poter procedere così ad una interpretazione estensiva letterale della norma, sia pure con prudenza, ma senza ricorrere alla vietata analogia.
Un difetto di questo metodo è quello stesso del fariseismo di biblica memoria: lettera che uccide o rischia di uccidere lo spinto. Per quanto ci si sforzi di rendere la costellazione ampia e completa, qualcosa resta sempre fuori ed anzi, più ampia è la casistica, più facile diventa l’interpretazione cavillosa ed elusiva. E per reazione facilmente si formano le istanze giustizialiste che piegano il senso letterale della norma alle esigenze di giustizia di fatto, con esiti altrettanto gravi della cavillosità farisaica.
L’ art. 600 c.p. del codice Rocco configura autonomamente la riduzione in schiavitù, come reato distinto dal plagio e la sanzionava così come ipotesi estrema di reato: “chiunque riduce una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito....”. Nell’ ordinamento attuale questa sanzione vige tuttora ma, come vedremo, l’articolo in questione è stato profondamente rinnovato.
Quando nel 1931 fu varato il codice Rocco la schiavitù esisteva ancora in alcuni paesi come condizione di diritto (in Etiopia ad esempio) che quindi poteva valere come punto di riferimento estremo nell’interpretazione della norma. Essendo il reato di plagio la fattispecie residuale e minima, 1a condizione analoga alla schiavitù era individuabile come quella che aveva un di più del plagio e qualcosa in meno della schiavitù vera e propria.
Successivamente, dichiarata incostituzionale la norma, sul plagio, scomparsa da anni la schiavitù come status giuridico, divenne più ardua l'individuazione della schiavitù come condizione analoga ad essa. Perciò l’interpretazione della norma relativamente al passo “condizione analoga alla schiavitù" doveva esser condotta in modo da non contraddire (almeno non troppo) le leggi che vietano l'analogia.
Una sentenza della Cassazione Penale ( sez.V, 20 marzo 1990, n. 3909 ) affronta per la prima volta questo problema: il significato giuridico odierno della schiavitù e della "condizione analoga".
Ecco il fatto concreto da cui erano scaturite le sentenze di merito ed infine la sentenza della Cassazione: un gruppo di zingari malfattori s'era procurato nel periodo 1981-1986 dei bambini provenienti dalla ex Jugoslavia (soprattutto dalla Macedonia) facendoseli cedere per un certo periodo di tempo – dietro compenso e spesso con una quota di partecipazione agli utili – dai loro genitori, con un contratto verbale e tuttavia reso in una forma solenne e ritualizzata di barbarica tradizione. I bambini, introdotti clandestinamente in Italia, erano tenuti dai loro "cessìonari" nella condizione di "argat" (parola macedone che significherebbe operaio) e venivano mandati in giro, per i paesi del Milanese a rubare e ad elemosinare. I bambini (nel caso avevano 8 o 9 anni) non possono essere arrestati, processati, condannati, anche se commettono reati molto gravi, ma possono essere fermati dalia polizia, che indaga per sapere chi siano i loro genitori, tutori ecc.. Un avvocato corrotto faceva il giro dei commissariati quando qualcuno dei piccoli nomadi non si ripresentava all'accampamento e faceva in modo che fossero rilasciati, suscitando però sospetti fino a che l’intera vicenda non arrivò davanti alla magistratura.
I giudici di merito, cioè i giudici della Corte d'Assise di Milano, avevano condannato gli organizzatori di questa associazione a delinquere per vari reati: concorso pluriaggravato nei furti, violenza e minaccia, ma avevano ritenuto che ci fosse dell'altro, che ci fosse cioè il reato di condizione analoga alla schiavitù e che questo reato doveva esser contestato sulla base del fatto in cui s'erano trovati i bambini e non del loro status o condizione giuridica.
La causa era arrivata in Cassazione - cioè alla suprema corte che non giudica il fatto ma esamina la legittimità della sentenza di merito impugnata - e quindi. procede ad un esame secondo criteri di astrattezza giuridica, che possono anche apparire sconcertanti a "coloro che hanno fame e sete di giustizia". Dalla lettura della sentenza possiamo ricavare quale fosse la difesa degli imputati e, quindi, la natura degli ostacoli da superare per un'applicazione più sicura del merito nel merito dell'art. 600 c.p..
La difesa degli imputati riteneva che quando si parla di condizione analoga alla schiavitù, come anche della schiavitù, si deve far riferimento a situazioni di diritto La difesa eccepiva che si può parlare di condizione analoga alla schiavitù solo quando sia individuabile lo status proibito a cui il reo aveva ridotto le sue vittime, viceversa gli imputati avrebbero dovuto essere riconosciuti innocenti, quanto meno rispetto a questo capo di imputazione.
La difesa si richiamava agli articoli 3 e 25 della Costituzione. L’art. 3 dice che tutti sono eguali di fronte alla legge e su questo non si può non essere d’accordo, almeno in linea di principio. Ma l’art. 25 al comma 2 dice: "Nessuno può esser punito se non in forza d’una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, cioè nullum crimen sine lege poenali. Naturalmente era prevista dal codice penale la proibizione di riduzione in schiavitù e nella condizione analoga, ma questo status, pur vietato, non era definito da alcuna norma. La schiavitù non esiste più in Italia dal tempo degli antichi Romani e anche nei paesi extraeuropei, per quanto se ne abbia notizia, è un istituto ormai scomparso. Come si è accennato, in precedenza il reato di plagio forniva una norma di chiusura, ma dichiarazione di incostituzionalità rispetto a questo reato aveva creato uno squilibrio nell’ordinamento facendo della schiavitù e della condizione analoga una nozione confusa e quindi inapplicabile.
Per non mandare assolti degli schiavisti, i giudici di merito prima e della Cassazione poi dovevano trovare un fondamento all'accusa definendo il concetto di schiavitù e di condizione analoga con riferimento a una precisa norma giuridica e senza ricorrere all'analogia.
Ciò fu possibile rinviando alla convenzione di Ginevra che il 25 settembre del 1926, approvata con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, definiva cosa fosse la schiavitù: “lo status e la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi”. Inoltre il supplemento del 7 settembre Ì956, ratificato con legge 20 dicembre 1957 n. 1304, vi includeva la condizione analoga e cioè "quella condizione in cui sia socialmente possibile per prassi, tradizione e circostanze ambientali, costringere una persona al proprio esclusivo servizio”.
La Corte si riferiva quindi alla convenzione internazionale, ma in quanto era stata ratificata da una legge interna allo stato italiano e cosi poteva integrare il concetto di schiavitù, che non discende dal fatto che un soggetto sia posto in un particolare status giuridico, ma che, in fatto, sia trattato come una cosa e quindi oggetto di contratti di diritto reale (acquisto in proprietà, cessione, affitto, etc.). La condizione analoga era la situazione di fatto che consiste nell'“esclusivo servizio” di una persona.
La chiara e semplice definizione della convenzione di Ginevra consente non solo di definire la schiavitù come applicazione ad una persona umana di vincoli giuridici previsti per una cosa, ma anche di colmare la distanza tra il concetto di schiavitù e quello di condizione analoga. Tra l’una e l’altra non c’è differenza perché entrambe sono caratterizzate dalla pratica delittuosa di applicare alla persona umana i diritti sulla cosa, in misura più o meno intensa. Il concetto stesso di schiavitù è riconducibile ad una situazione di fatto e si differenzia da quello di condizione analoga solo da un punto di vista quantitativo, consistendo quest'ultima nella limitazione di aspetti specifici, ma particolarmente significativi, della libertà individuale, tali da comportare una complessiva menomazione dello status libertatis del soggetto, equiparabile, sul piano normativo, alla schiavitù in senso stretto.
La reificazione del soggetto è dunque lo stato che caratterizza tanto la schiavitù come la condizione analoga, giacché l’assoggettamento a totale servizio di un’altra persona è proprio dell’animale (che però è pur sempre nel nostro ordinamento una “res” tutelata perché non può essere maltrattata, ma che viene comprata, venduta e vivisezionata al servizio della salute umana).
La Corte aggiunge che tali fenomeni di reificazione e di assoggettamento a servizio devono risolversi in una complessiva menomazione dello status libertatis (diversamente, per fare un esempio, da quanto accade per i lavoratori subordinati che possono essere ceduti ad altre aziende e per certi versi possono risultare soggetti a qualche fenomeno di reificazione). Perciò la condizione analoga alla schiavitù non è un fatto che viene accertato con il metodo analogico, ma con lo stesso metodo con cui definisce la schiavitù e chi è accusato a questo titolo non può lagnarsi di venir giudicato in base a una fattispecie di reato non definita dal nostro ordinamento.
Tuttavia la definizione di schiavitù, come rappresentata dal codice Rocco, finì per apparire insufficiente, non solo a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale sul plagio, ma anche per l’insorgere di nuovi fenomeni sociali che hanno portato con la legge 11 agosto del 2003, n. 228, art. 1, ad una profonda riforma dell’art.600 c.p., come pure degli articoli seguenti 601 e 602 del codice penale sulla tratta e sul commercio degli schiavi.
In particolare, l’art. 600 diventa lunghissimo e straordinariamente circostanziato e accoglie nel primo comma la definizione dì riduzione in schiavitù della convenzione di Ginevra, ma più in generale, la riduzione a stato di soggezione continuativa totale, collegata allo sfruttamento lavorativo o sessuale o accattonaggio. All'art. 600 seguono gli articoli 600 bis, ter, ecc. fìno al 600 septies, che rappresentano altre ipotesi di reato a tutela dei minori: prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, turismo sessuale ecc Si tratta di ipotesi di reato non necessariamente collegate alla riduzione m schiavitù ma che si verificano spesso assieme a quest' ultima e che comunque si muovono all'interno delle medesime logiche di reificazione e di grave limitazione dello status libertatis.