Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Israele: motivi e percorsi possibili di pace

 (Giorgio Gomel)


Trascrizione della relazione svolta all’incontro del 17 giugno 2004. A seguire, un recente articolo dell’ autore (16 giugno 2004)] sulle speranze legate agli ultimi accordi di Ginevra e un’intervista con un rappresentante del movimento pacifista Ta'ayush (“vivere insieme” )



1 – RELAZIONE di Giorgio Gomel.


Quest’ intervento conclude il programma di incontri sulle culture della pace che si è aperto a gennaio scorso con la esposizione de1.P. Maurice Borrmans sulla spiritualità dei Sufi nell’ Islam. Collegandomi a questo richiamo, segnalo che un giovane rabbino di una sinagoga di Tel Aviv, partito da Roma 20 anni fa’, Roberto Arbib, guida in Israele incontri, con cadenza mensile,sul tema del misticismo, fra arabi israeliani sufi ed ebrei israeliani. Gli incontri approfondiscono il tema della mistica presente nel sufismo islamico e nella corrente mistica dell'ebraismo, il chassidismo e la Kabbalah, con lo scopo di approfondire gli elementi comuni all'interno delle due tradizioni. E veniamo al nostro tema.

Il protrarsi della guerra tra israeliani e palestinesi, che è guerra fra due popoli i quali hanno entrambi diritti legittimi a una terra e a uno Stato, va incrudendo sempre più la situazione. Nell’ultimo mese, la violenza ha assunto forme da “faida barbarica” nel linguaggio di A. Margalit, un insigne filosofo israeliano, con l’esibizione di brandelli di cadaveri degli israeliani uccisi nel campo profughi di Rafah; era la risposta ad un attacco israeliano che aveva provocato morti di terroristi armati di Hamas ma anche di civili innocenti. Si afferma così malauguratamente una «Logica dell’annientamento»., come ho scritto nell'ultimo numero di Confronti, . la rivista di formazione evangelica protestante e d’impronta interreligiosa dove, accanto al mio punto di vista, e cioè di un ebreo, è stata presentata la posizione di un musulmano contraria alla violenza.


“Nei giorni nefasti di. maggio in reazione all'uccisione di 13 soldati l'esercito israeliano uccide oltre 50 palestinesi; alcuni sono uomini armati della Jihad e di Hamas; altri, civili innocenti. Nella demolizione delle loro case nel campo profughi di Rafah intere famiglie spossessate cercano rifugio in zone vicine. Il conflitto tra i due popoli si va incrudendo sempre di più in un'orgia di brutalità. Si va trasformando in una guerra di annientamento reciproco. Il terrorismo ha scelto le stragi di civili israeliani come metodo di azione politica volto al fine della distruzione di Israele. I vertici politico-militari di Israele sono guidati sempre più spesso dall'anelito alla vendetta, alle punizioni collettive. Non si distingue più tra i mandanti del terrore e i palestinesi come popolo: questo è trattato come un nemico irriducibile, disumano, che non merita fiducia,che non può essere interlocutore di un negozialo, che deve essere domato con la forza delle armi. Una guerra insensata oppone i due popoli da oltre 3 anni, con 3100 morti fra i palestinesi, oltre 900 fra gli israeliani. Da un lato è vano affidarsi alla mera repressione militare del terrorismo senza offrire un negoziato di pace:[...] Dall'altro, l'illusione di piegare Israele con la violenza, imitando gli Hezbollah in Libano e riscattando l'impotenza dell'Autorità nazionale palestinese. [...] E’ solo quando la violenza cessa e si intravede una possibilità di pace che l'umore del popolo di Israele si dispone al compromesso e i moderati prevalgono sui massimalisti. È nell'opinione pubblica di israele.nella sua mobilitazione per la ripresa delle trattative e la fine dell'occupazione, e in un'azione energica della comunità internazionale che dobbiamo trovare ragioni di speranza. Ma anche qui in Italia, in Europa, dobbiamo noi ebrei e gli arabi che vivono vicino a noi unirci - le due Diaspore - e dire basta a questo strazio che ci angoscia, che alimenta contemporaneamente l'ostilità anti-ebraica e anti-islamica.” (Confronti, giugno 2004, p.8)

. .

Dallo scoppio della seconda intifada nell’ ottobre 2000, sono stati uccisi oltre 900 israeliani e 3100 palestinesi.E’ altissimo il numero di feriti gravi e invalidi permanenti. Un conflitto nazionale fra due popoli sta degenerando in una faida barbarica in cui la violenza dell’ oggi è reazione alla violenza di ieri dell’avversario, in uno stillicidio ininterrotto di brutalità reciproche.


Personalmente non mi considero un “pacifista” e penso che talvolta la guerra produce un risultato politico, pur con l’ orrore per tutte le violenze connesse.Ma questa è una guerra insensata. .Per l’economia della Palestina, la situazione è disastrosa, con tassi di disoccupazione del 50%.La gente vorrebbe emigrare per sopravvivere, ma non riesce; le frontiere con l’Egitto e con la Giordania sono chiuse.La stessa situazione si registra in Israele, dove il clima è di grande tensione e di regressione economica e sociale. L’economia del paese è in regresso da due anni per il collasso del turismo e il costo della guerra. Gli israeliani non distinguono più fra i palestinesi uomini bomba o terroristi e il normale cittadino estraneo al fanatismo. Il palestinese diventa in una valutazione metastorica il nemico irriducibile, disumano. E invece bisognerebbe distinguere e separare i terroristi dal resto della società piuttosto che rafforzare il legame fra terrore e società palestinese. Fra i palestinesi si consolida lo stesso errore; non si riesce a vedere che la società israeliana è una società complessa, divisa fra oltranzisti e moderati.

La constatazione di questo problema è stata fatta da psicologi - israeliani e palestinesi - che hanno a suo tempo lavorato insieme ed hanno constatato l’esistenza di questi stereotipi, specialmente fra i giovani. .Oggi è difficile lavorare insieme perché è diventato molto pericolo muoversi e praticamente non sono più consentiti i viaggi da una zona all’altra. Ma anni fa, in seminari congiunti, israeliani e palestinesi studiarono l’immagine dell’ altro nei bambini e adolescenti. L’ immagine prevalente era quella del nemico odioso - il terrorista e il soldato.

Questi valori si trasmettono nell’infanzia: il problema riguarda il futuro delle generazioni e non Sharon e Arafat che hanno tutti e due più di 70 anni..Il problema centrale è comprendere l’altro, accettare la necessità della convivenza; in caso contrario, non resta che la guerra di annientamento.


Sono tra i fondatori del “Gruppo Martin Buber - ebrei per la pace”. .Buber, ebreo tedesco, emigrò in Palestina negli anni ’20 e fu tra i fondatori dell’Università ebraica di Gerusalemme. Teorizzò e costruì un movimento per la pace con obbiettivo la costituzione di uno stato binazionale. L’idea restò minoritaria. Negli anni ’40, il movimento sionista optò per la nascita di uno Stato ebraico in parte della Palestina. Buber, pur sconfitto, restò, nello stato di Israele, un difensore del dialogo, giudicando essenziale l’intesa fra ebrei e palestinesi. Il nostro gruppo si occupa quindi di dialogo tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e arabi qui in Italia, di antisemitismo, di lotta al razzismo, di cultura ebraica in generale.


Per quanto riguarda le associazioni israeliane impegnate sul fronte della pace, queste sono di vario tipo:

-- i partiti oggi all’opposizione, il partito laburista, il Meretz oggi rifondato come Yachad, che ha dato vita agli accordi di Ginevra, il partito comunista;


-- i movimenti, come quello “pace adesso”, nato nel 1978, un po’ disorganico, fondato da soldati ; quando il presidente egiziano Sadat andò in Israele e parlò al Parlamento. Allora 300 militari fecero un appello al Primo Ministro per fare subito la pace; è il più importante movimento per la pace in Israele; il 15 maggio scorso vi è stata una grande manifestazione con 150.000 israeliani a Tel Aviv, con l’obbiettivo di uscire da Gaza ma trattando con i palestinesi, mentre la posizione del Governo è di ritirarsi da Gaza evacuando le colonie, senza trattare con i palestinesi ritenuti inaffidabili. La manifestazione è stata enorme se consideriamo la popolazione di Israele; di poco più di sei milioni. Questo è certo un grande motivo di speranza in una situazione molto difficile.


-- le associazioni culturali o religiose; queste strutture cercano il dialogo interreligioso o quello interculturale. Israele è già uno Stato multietnico, di cui 5.500.000 ebrei e 1.500.000 arabi israeliani, musulmani in gran parte, cristiani, drusi. I palestinesi nei territori sono sono 3.500.000 , di cui 2 milioni in Cisgiordania e 1.500.000 a Gaza. Una di queste associazioni è la “Open House”,casa aperta,fondata da un giovane Rabbino americano, Y. Landau emigrato in Israele venti anni fa. La storia nasce in una casa di Ramle vicino a Tel Aviv, da dove era fuggita una famiglia palestinese. Alla guida del gruppo di soldati che entrano nella cittadina c’era Isaac Rabin, futuro primo Ministro di Israele. Negli anni ’80, Israele concede ad alcuni palestinesi il rientro nel Paese. Un giorno Dalia Landau vede alcuni arabi che guardano la sua casa che una famiglia araba aveva a suo tempo abitato; inizia un dialogo con loro, il riconoscimento e la fondazione di una Casa aperta ai giovani, divenuta un centro di dialogo alla pace, dove si svolgono seminari in orari extrascolastici per ragazzi di 14-16 anni; l’attività è fondamentale per il futuro.


-- le associazioni per i diritti umani che fanno un grande lavoro di documentazione e di denuncia delle violazioni dei diritti: sono delle “Amnesty Internazionals” locali. Si tratta di un lavoro legale di difesa dei diritti dove sono lesi, specie nei confronti degli organi di Polizia, con iniziative giudiziarie;


-- le associazioni di vita in comune: sono le forme più radicali, come Nevè Shalom che è una comune di un centinaio di persone, ebrei ed arabi che vivono insieme, parlano la lingua dell’altro. E’ una esperienza molto limitata,ma simbolicamente molto interessante. Negli ultimi anni hanno fatto dei programmi rivolti ai giovani della zona; la seminazione è molto importante ma l’israeliano medio vede la cosa come un’utopia remota, idilliaca;

 

-- gli obiettori di coscienza. Un caso recente ha fatto scalpore, in quanto si trattava del giovane nipote di Netanyahu ex primo ministro del Likud. E’ più diffuso il rifiuto di servire nei territori occupati e nelle le colonie. Si tratta di giovani laici o religiosi e di quarantenni reclutati nella riserva, con una motivazione prevalentemente etica, il rifiuto, cioè, di obbedire a ordini che essi, dato il regime di occupazione e di oppressione, ritengono ingiusti e illegali. Fino alla guerra del 1967, le guerre degli israeliani sono state di difesa mentre i territori sono diventati ormai un problema: l’occupazione sta corrompendo gli israeliani, l’ umanesimo della tradizione ebraica e i principi della democrazia liberale.

 

In uno dei libri più straordinari sul conflitto - In terra di Israele - pubblicato da Marietti nel 1983 con prefazione di Lucia Annunziata, l’autore Amos Oz tratteggia con grande sensibilità la condizione ebraica di “vittima” che ancor oggi segna in profondità la psicologia di Israele: Oz dice che la storia ebraica è la storia di una grande utopia, quella di fondare una civiltà senza uno Stato, senza la forza delle armi. Questa è stata la storia ebraica della Diaspora. Gli ebrei hanno fortemente creduto a questa concezione, nonostante le avversità e le tante persecuzioni. I sionisti furono una minoranza fino alla seconda guerra mondiale e al genocidio nazista..Gli ebrei assimilati in Germania, in Italia,erano contrari all’ idea di uno Stato ebraico; gli ebrei comunisti erano contrari perché puntavano allo Stato socialista; gli ebrei religiosi perché solo nell’ era messianica vi sarà il ritorno alla terra promessa. L’ idea dello Stato ebraico è stata dichiarata dal movimento sionista come suo obbiettivo ufficiale solo nel 1942, nel pieno della guerra mondiale, mentre gli ebrei fuggivano dall’ Europa e le navi inglesi costringevano i natanti pieni di ebrei ad andare a Cipro, in campi profughi,o peggio in Europa, votando gli occupanti alla cattura e ai campi di sterminio. Sono storie tristissime.Dopo tutto questo, la lezione è l’ urgenza di uno Stato come per gli altri popoli. Dice Amos Oz: abbiamo dovuto scegliere la forma-stato perché ce lo ha imposto il mondo; adesso però abbiamo esagerato, imbevuti da un furore nazionalista dopo la vittoria insperata del 1967, in una guerra che sembrava preludere all’ annientamento di Israele. Questa condizione di “vittima” è molto sentita in Israele; può apparire contraddittoria perché la forza militare di Israele è schiacciante ma è accompagnata dall’ angoscia per l’ insicurezza di vivere in mezzo a un mondo arabo pervicace nel suo rifiuto. Israele è forte e debole allo stesso tempo e il terrorismo suicida ha acuito questo stato di angoscia e di senso dell’ isolamento.



Nel rispondere ad alcune domande, osservo che nella dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele del 1948 si statuisce che non vi è alcuna distinzione di razza, di religione,nello Stato.Di fatto, i cittadini arabi israeliani, pur godendo dei diritti civili e politici, sono discriminati sul piano socio-economico. Sono circa il20% della popolazione ed hanno circa il 15% per cento di parlamentari perché alcuni elettori votano per partiti “ebraici”. Vi sono diversi partiti oggi: vi è anche un partito islamista. La disparità economica degli arabi israeliani è evidente, per la natura irrisolta del conflitto; non possono servire nell’esercito e sono quasi loro vietati alcuni lavori, per esempio nelle industrie militari.


I termini della soluzione del conflitto sono quelli discussi negli ultimi anni, dagli accordi di Oslo del 1993 ai cosiddetti “parametri di Clinton” del 2000, agli accordi di Ginevra del 2003, come ho illustrato in un mio recente articolo su L’Unità del 7 gennaio scorso. L’intesa di Ginevra è molto dettagliata, è un vero trattato di pace, con un impianto assai articolato. Prevede che Israele debba ritirarsi nei confini del 1967, tranne alcune zone intorno a Gerusalemme che sarebbero incorporate in Israele, con scambio paritario di territori alla Palestina nel deserto del Negev. Gerusalemme sarebbe fondamentalmente capitale condivisa dei due stati,la zona ebraica capitale di Israele, la parte araba alla Palestina; la zona vecchia con i luoghi sacri sarebbe divisa fra le due parti e vi sarebbe una forza multilaterale di pace, dell’Europa e della Nato. Servono osservatori internazionali, soldati e risorse finanziarie per la ricostruzione e la salvaguardia della pace.


2 – ACCORDI DI GINEVRA. UN APPIGLIO PER LA SPERANZA di Giorgio Gomel

Da L’Unità, 7 gennaio 2004..


Gli accordi firmati a Ginevra il 1° dicembre scorso tra esponenti israeliani e palestinesi offrono un barlume di speranza in una condizione che sul piano diplomatico è da tempo fossilizzata in un inane status quo e sul terreno resta disperata. Dopo oltre tre anni dallo scoppio dell'intifada e uno stillicidio quotidiano di morti, lutti, reciproche brutalità, le due società sono spossate. Israele è provata dalla crisi economica, dal crescere della disoccupazione, dalla spinta all'emigrazione di molti giovani. Il suo diritto a esistere come nazione "normale", come stato accettato nella sua legittima integrità nel Medio Oriente, è messo in forse dalla follia perversa e militarmente invincibile del terrore suicida. Lo è nei fatti, per il pericolo quotidiano che incombe sulla vita dei suoi abitanti e impedisce la normalità del vivere civile; lo è per il senso di insicurezza psicologica che questa condizione infonde in loro, l'angoscia di un Israele forte ma al tempo stesso debole, occupante ma anche assediato. La società palestinese è disintegrata nel suo interno; politicamente sempre più frammentata in fazioni; impoverita dall'occupazione israeliana, dalle chiusure imposte dall'esercito, dal protrarsi dello stato di guerra, dal disfacimento delle strutture civili dell'Anp e del tessuto economico. L'ideologia islamico- fondamentalista che glorifica l'omicidio di ebrei come atto di "martirio", l'illusione di piegare Israele con l'azione terroristica, riscattando l'impotenza delle generazioni più vecchie, la mancanza di speranza in un futuro normale corrompono i più giovani, spingendoli sulla strada nichilista e impotente del terrore suicida.

Così nell'uno e nell'altro campo dettano legge coloro che pensano sciovinisticamente solo al proprio punto di vista, senza riconoscere in alcun modo le ragioni dell'altro. Quella forma di "autismo" morale che Amos Oz trenta anni fa individuava e condannava nel suo "La terra di Israele". L'estremismo, la violenza nei due campi si alimentano e rinforzano a vicenda. Un regresso profondo dalla filosofia degli accordi di Oslo, il cui presupposto era il riconoscimento reciproco dei diritti dei due popoli e del fatto che il diritto dell'uno poteva realizzarsi solo nel rispetto di quello dell'altro: il diritto alla pace e alla sicurezza per Israele, il diritto a uno stato indipendente degno di questo nome per i palestinesi. I principi ispiratori di Oslo, che trovano compimento dieci anni dopo nelle intese di Ginevra, riflettevano invece la pragmatica presa di coscienza che l'unica soluzione possibile per evitare il reciproco annientamento fosse un accordo che spartisse la terra contesa - Eretz Israel o la Palestina storica - e consentisse un minimo di convivenza pacifica fra i due popoli. Due stati, quindi, in rapporto di buon vicinato o almeno di reciproca diffidente sopportazione.

D'altra parte se non si giunge rapidamente a questa spartizione concordata, la stessa nozione di "due popoli, due stati" rischia di evaporare nel .mondo astratto dell'utopia. I massimalisti in campo palestinese restano votati alla distruzione di .Israele e alla riconquista di una Palestina "arabo-islamica". Gli oltranzisti israeliani prospettano un futuro in cui Israele, con l'annessione di fatto di parte rilevante dei territori, diventerebbe intorno al 2020 uno stato binazionale a maggioranza araba, a meno di un'espulsione di massa dei palestinesi - una pulizia etnica memore dei Balcani -, oppure un regime di apartheid qualora ai palestinesi fossero negati i diritti civili e politici. Israele cesserebbe di essere uno stato ebraico e democratico.


Gli accordi di Ginevra

Gli accordi del dicembre scorso sono quindi importanti perché in questa congiuntura politica e psicologica così diffìcile offrono alle opinioni pubbliche delle due parti, incrudite da un ciclo ininterrotto di violenza e disperate circa il futuro, un appiglio di speranza, di raziocinio pragmatico, contro la stupidità del fanatismo in campo palestinese e l'illusione "militarista" del governo di Israele che ritiene di potere "vincere la guerra", ossia di costringere i palestinesi a uno stato permanente di soggezione.

Osserva Amos Oz in un articolo recente; "II principio fondamentale di Ginevra è che noi poniamo fine all'occupazione e i palestinesi alla loro guerra contro Israele. Noi rinunciamo al sogno della Grande Israele, e loro a quello della Grande Palestina araba. Loro ottengono uno stato degno di questo nome, non un insieme di cantoni o di enclave frazionate e circondate dalle colonie e dall'esercito, e noi assicuriamo a Israele un futuro di stato ebraico e democratico. Il problema dei rifugiati del 1948 che è cruciale per la nostra sicurezza di nazione è risolto interamente al di fuori dei confini di Israele e con vasto sostegno internazionale. Nel documento, i palestinesi accettano contrattualmente e irrevocabilmente di non avere più alcun futuro diritto da accampare contro Israele".

Gli elementi principali degli accordi sono i seguenti: -1 palestinesi rinunciano al diritto al ritorno dei profughi del 1948. Alcuni rifugiati resteranno nei paesi in cui risiedono, altri saranno assorbiti dallo stato palestinese, altri da paesi terzi, altri ancora riceveranno indennizzi finanziari. Un numero limitato di rifugiati potrà insediarsi in Israele, ma ciò non configurerà un diritto al ritorno. - I palestinesi riconoscono Israele come stato del popolo ebraico;

simultaneamente Israele riconosce il diritto del popolo palestinese al proprio stato. - Israele si ritirerà sui confini del 1967, ad eccezione di alcuni scambi di territorio definiti nell'accordo. - L'assetto di Gerusalemme, di cui è riconosciuto l'universale significato storico, religioso, spirituale e il suo carattere sacro per l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam, dovrà rispettare la libertà di culto e l'attuale divisione di funzioni amministrative che regola la coesistenza fra fedi diverse. La città sarà capitale dei due stati. Vi sarà una forma di coordinamento fra le due municipalità. I quartieri arabi di Gerusalemme Est diverranno parte dello stato palestinese; quelli ebraici della zona nord della città, insieme con gli insediamenti di Givat Ze'ev, Maaleh Adumim e la parte storica di Gush Etzion, tranne Efrat, saranno parte di Israele. La città vecchia, in virtù della unicità del suo retaggio culturale protetto dall'Unesco, sarà sottoposta al controllo di un "Gruppo internazionale di verifica" che disporrà di una forza di polizia che collaborerà con quelle israeliana e palestinese per garantire la sicurezza dei luoghi. I quartieri armeno, cristiano, mussulmano saranno sotto giurisdizione israeliana; quello ebraico, sotto giurisdizione palestinese. - La Spianata delle Moschee sarà sotto sovranità palestinese, ma una forza multinazionale di pace, sotto la potestà del "Gruppo internazionale di verifica" (art.5), garantirà pieno accesso ai fedeli di ogni religione. Data l'importanza religioso-culturale del Monte del Tempio per il popolo ebraico, non saranno permesse opere di scavo o costruzione sulla Spianata, se non approvate dalle parti. Il Muro del Pianto resterà sotto sovranità israeliana. - Gli insediamenti di Ariel, Efrat, Ofra, Kiryat Arba, Beit El, Har Homa e altri saranno ceduti allo stato palestinese. Inoltre, Israele cederà zone del Negev adiacenti a Gaza , in cambio delle aree della Cisgiordania che otterrà dai palestinesi. Un corridoio stradale e infrastrutture elettriche, telefoniche collegheranno la Cisgiordania con Gaza. -1 palestinesi si impegnano a combattere il terrorismo, porre fine all'incitamento all'odio, disarmare le milizie. Lo stato sarà smilitarizzato, dotato solo di una forza di sicurezza, con limiti concordati per le armi di cui disporrà. Una forza multinazionale si dispiegherà sul territorio dello stato di Palestina, allo scopo di proteggerne l'integrità territoriale e di prevenire attacchi esterni contro i due stati. Israele conserverà una limitata forza militare per un lungo periodo nella Valle del Giodano e due stazioni di "early warning" in Cisgiordania. Il controllo dei confini esterni dello stato palestinese (con Egitto e Giordania) sarà esercitato dalla forze di sicurezza palestinesi, sotto la supervisione della forza multinazionale. I luoghi di transito sui confini, così come gli aeroporti e i porti, saranno sotto amministrazione congiunta dei palestinesi e della forza multinazionale. - L'accordo sostituirà tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite così come i precedenti accordi fra le parti.

Quali dunque le principali concessioni che le due parti negoziali hanno fatto nel giungere all'intesa?

Da parte palestinese, si tratta dell'ammissione realistica di una sconfitta storica, quella del "rifiuto" arabo di riconoscere Israele nel 1948 e di accettarne da allora l'esistenza legittima nel Medio Oriente. Negli accordi, Israele è riconosciuto come stato del popolo ebraico (preambolo); gli insediamenti contigui a Gerusalemme diventano parte integrante di Israele (art. 4); si sancisce la rinuncia al diritto al ritorno dei profughi palestinesi (art. 7).

Da parte israeliana, si da attuazione al principio, affermato dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, del ritorno ai confini del giugno 1967, con uno scambio paritario di territori; si accetta che il controllo dei confini esterni dello stato palestinese (con Egitto e Giordania) così come di Gerusalemme sia demandato a una forza internazionale; si accetta il passaggio della Spianata delle Moschee alla sovranità palestinese.


Limiti e meriti dell'accordo

L'accordo di Ginevra è virtuale, in quanto non impegna ovviamente i rispettivi, legittimi governi; ma non è, perciò, fittizio ne puramente simbolico.

In primo luogo, per il rilievo politico dei firmatari, pur nella evidente asimmetria tra le parti. Da parte palestinese vi sono Yasser Abed Rabbo, Nabil Kassis, Hisham Abd el Raziq - ministri e ex ministri dell'Anp; Kadoura Fares e Mohammed Khourani, esponenti di primo piano dei Tanzim, la formazione militante legata ad Al-Fatah; Zohair Manasra - capo della sicurezza preventiva in Cisgiordania.

Da parte israeliana, vi è lo schieramento dell'opposizione al governo Sharon: Yossi Beilin, ex ministro e artefice dei negoziati di Oslo, e Taba; Amram Mitzna, Avraham Burg e Yuli Tamir; Amnon Lipkin, ex capo di stato maggiore nei governi Nethanyahu e Barak; diversi generali o alti ufficiali della riserva come Shlomo Brom, Shaul Arieli, Giora Inbar; Menachem Klein, ex consigliere di Barak e negoziatore a Camp David e Taba, David Kimche, ex dirigente del Mossad.

Non quindi un cenacolo di intellettuali progressisti, ma un segmento rilevante dell'establishment politico-militare di Israele.

In secondo luogo, per il suo valore pedagogico. L'accordo dimostra, infatti, che la pace è possibile e che vi sono interlocutori per una soluzione negoziata. Demitizza il falso argomento della destra in Israele, per cui i popolo palestinese è il nemico assoluto e irriducibile, votato alla distruzione di Israele, un tutt'uno metastoricamente indistinto con gli ideologi e gli organizzatori del terrorismo, con il quale il mero trattare equivarrebbe a cedere alla minaccia terroristica. Ma, parimenti, demolisce presso i palestinesi il mito di un Israele occupante, votato all'espansione coloniale e animato dalla volontà di soggiogare per l'eternità il popolo palestinese, privato della dignità di uno stato sulla sua terra.

In terzo luogo, i termini dell'accordo non nascono in vacuo, e non sono del tutto una novità, bensì riprendono i risultati acquisiti con i "parametri" di Clinton del dicembre 2000 e nei negoziati di Taba all'inizio del 2001. Vanno assai oltre Oslo in quanto mirano a definire lo status finale, cioè, una composizione definitiva del conflitto. Sono inoltre coerenti con la "roadmap" predisposta dal Quartetto e approvata dal governo Sharon e da Arafat: saltano gli stadi intermedi e anticipano il terzo ed ultimo stadio che nelle clausole della roadmap si sarebbe realizzato nel 2005.

Pertanto, gli accordi possono offrire un quadro di riferimento essenziale per futuri negoziati effettivi fra i due governi in causa, che speriamo forieri di successo.

Infine, gli accordi giungono in un momento in cui il dibattito politico interno a Israele è ripreso con vivacità, anche in reazione alla mancata iniziativa politica di un governo ingessato da una coalizione dove la destra estrema - il Partito nazional-religioso, l'Unione nazionale e la frazione radicale del Likud - si oppone ad ogni apertura verso i palestinesi, al ritiro dai territori e all'ipotesi di uno stato palestinese. Lo testimoniano i dissensi espressi dallo stesso capo di stato maggiore Yaalon contro la strategia di mera repressione militare del terrorismo e le vessazioni devastanti che questa impone alla popolazione civile, l'appello di quattro ex capi dei servizi di sicurezza per il ritiro da Gaza e da altri insediamenti, la proposta del vice primo ministro Olmert per un ritiro unilaterale da buona parte dei territori e di Gerusalemme Est. Lo stesso piano enunciato di recente da Sharon - un disimpegno unilaterale che comporterebbe di evacuare solo un numero limitato di insediamenti isolati, remoti, e la cui protezione ha un costo intollerabile, rafforzando al tempo stesso il controllo militare nella valle del Giordano e nei dintorni di Gerusalemme - rivela il tentativo di rispondere in qualche modo all'iniziativa dei promotori di Ginevra dinanzi a un'opinione pubblica israeliana che nei sondaggi conferma di volere una ripresa della trattativa, lo sgombero di parte degli insediamenti, la creazione di uno stato palestinese. La reazione veemente dei partiti di destra, le accuse di "tradimento" ai firmatari di Ginevra nascondono il disagio e lo sconcerto rispetto alla novità e portata degli accordi. Come sostiene A. B. Yehoshua "... l'accusa di sostituirci al governo è un'affermazione ridicola, strumentale, prodotto di una cattiva coscienza. Tutte le persone coinvolte in questa iniziativa conoscono bene le regole della democrazia e nessuno pensa di sostituirsi al governo, anche se non concorda con il suo operato. D'altronde la nostra è solo una delle iniziative proposte e nessuno in Israele ha il monopolio sulle idee se sono legali e nessuno può censurarle se non sono di suo gradimento, nemmeno il governo".


Le prospettive

Quali le chances effettive di attuazione degli accordi? È diffìcile dirlo in questo frangente. Due mi sembrano le condizioni principali: il consenso delle opinioni pubbliche delle due parti, l'azione di pressione esterna. Circa il primo, i sondaggi svoltisi in Israele dopo la stipula degli accordi indicavano che il 31% degli intervistati era in favore, il 38% contrario. È in corso una campagna d'opinione e di informazione capillare presso la popolazione israeliana: circa 3 milioni di copie del testo di Ginevra sono state recapitate direttamente nelle case e si stanno organizzando incontri locali, nelle città, nei villaggi, nelle università, per divulgare le idee di Ginevra. E essenziale un lavoro di lunga lena di educazione, di convincimento della gente, per sollecitare un consenso dal basso, così come per l'iniziativa detta "Voice of the people" promossa da Ami Ayalon e Sari Nusseibeh che ha trovato il sostegno di molti israeliani e palestinesi. Discernere gli umori fluttuanti della società israeliana non è un esercizio agevole. Gli stessi sondaggi, che rivelano un pubblico apertamente in favore della ripresa della trattativa ai fini della costituzione di uno stato palestinese, confermano però un robusto sostegno per il governo Sharon (il 57% ritiene che il governo non abbia perso alcuna opportunità di rinnovare il negoziato con i palestinesi, il 60% ritiene che quando Sharon dice di voler negoziare anche al prezzo di dolorose, concessioni intende davvero quello che dice). Sulla questione di Gerusalemme, per esempio, il pubblico è molto rigido: il 61% non accetta il trasferimento dei quartieri arabi della città alla giurisdizione palestinese ne Gerusalemme Est come capitale dello stato di Palestina.

Circa la pressione esterna, come nel caso della roadmap, un'azione energica e concertata da parte degli Stati Uniti e della Ue sulle parti in causa è vitale. A questo fine gli incontri delle due delegazioni con Powell, Blair, Solana e altri e l'appoggio offerto ai promotori di Ginevra da molti paesi sono un viatico importante. L'impegno internazionale che Ginevra prefigura sarà molto oneroso, sia per la composizione di una forza multilaterale di verifica degli accordi sul campo sia per il sostegno economico alla riabilitazione dei profughi palestinesi. L'intervento internazionale per risolvere il conflitto resta quindi un elemento cruciale.


3 - PACIFISTI DI GERUSALEMME. I RAGAZZI DEL GRUPPO TA’AYUSH

Dal volume La bandiera nera, edito dalla Rivista mensile di interviste, «Una Città», 2003.

(Per informazioni:sull’editore: unacitta@unacitta.it; sul gruppo, v. i siti web alla voce Ta’ayush)


La casa di Samuel Freed è in una palazzina bianca tra le strade ombrose e curate che affacciano sul grande parco Rehavya, l'anfiteatro naturale che abbraccia Gerusalemme Ovest e già scorge, appena al di là di una collina, i tetti del villaggio palestinese di Gilo, avanguardia della vicinissima Betlemme. La terrazza è un volo d'uccello su un pezzo di storia di questa città, a 90 gradi guarda la Knesset, il museo nazionale di Israele arrivando fino al quartiere ebraico di Giyyat Shaul, lì dove prima del '48 sorgeva DirYassin, un paese palestinese dal quale gli abitanti furono cacciati in una delle pagine più sanguinose del primo conflitto arabo israeliano. Tra i vasi di fiori e le piccole sculture in vetro lavorato sventola una bandiera nera col teschio e le ossa incrociate. «E' il vessillo dei pirati fa Samuele, 35 anni, esperto di computer col talento delle opere in vetro e visto che in occasione della festa d'indipendenza tutti hanno esposte le bandiere israeliane anche io ho messo la mia. Perché, mi duole dirlo, la pirateria è una pratica illegale secondo le convenzioni internazionali, e allo stesso modo pirata è un paese che dal 1967 se n'è infischiato delle leggi e delle risoluzioni dell'Onu, violando la legge e diventando criminale»


Israeliani e palestinesi insieme Samuel è un attivista di Ta'ayush, un'organizzazione pacifista fondata da ragazze e ragazzi israeliani e palestinesi circa un anno fa, un gruppo attivissimo e forse il più trasversale sia nel riunire giovani arabi ed ebrei che in termini puramente politici. Gli aderenti a Ta'ayush, età media 20 30 anni, non hanno una sede fissa, non amano stemmi e bandiere, comunicano soprattutto con internet e telefonini e precisano subito che «per quanto molti di noi possano essere militanti o simpatizzanti di sinistra noi non siamo assimilabili a nessuna forza politica. Ta'ayush è un gruppo che si impegna nell'aiuto concreto a chi ne ha bisogno pur non avendo una piattaforma politica precisa. «Non abbiamo ripartizioni né una struttura verticale, non siamo né religiosi né antireligiosi. Partiamo dall'idea dei diritti umani, dalla convinzione che ogni essere umano ha diritto al cibo, alla libertà, e questo ha già un grande significato politico. In ogni modo partecipiamo anche a manifestazioni, meeting e eventi, ma lo decidiamo di volta in volta senza dimenticare il nostro obiettivo principale».

Si ritrovano un po' dove capita, non sono tanti ma ben organizzati e in continua espansione: «Saremo circa 500 in tutto, ma sembra che stiamo conquistando popolarità». Nella riunione alla quale assistiamo saranno una trentina, seduti in cerchio, intervengono uno ad uno con disciplina monumentale mentre biscotti e palatine passano di mano in mano, finché ce n'è. Ordini del giorno il bilancio di una manifestazione di qualche giorno fa al check point di Kalandia, dove Ta'ayush ha avuto qualche problema, in particolare per la reazione violenta della polizia, ma anche per la presenza di alcuni gruppi palestinesi i cui slogan, inneggianti al "partito di Dio" Hizibullah, non sono piaciuti ai pacifisti. All'assemblea si parla in ebraico, del resto i componenti sono quasi tutti figli della borghesia israeliana o palestinese, molti gli studenti della locale università. Gli interventi si alternano, qualcuno si lamenta per la poca organizzazione dimostrata al check point Kalandia: «Avevamo detto di venire vestiti tutti di bianco e di mettere le donne in prima fila», un'altra stigmatizza la presenza di «troppe bandiere palestinesi che sembrano uno schierarsi netto, con l'effetto di allontanare le persone che si avvicinano al gruppo per la prima volta». «E poi che dire, spiega un ragazzo che la prende a ridere, io il vestito bianco ce l'avevo ma faceva talmente freddo che ho dovuto chiedere un cappotto in prestito». Anche a Kalandia tuttavia è andata bene, i camion con gli aiuti sono passati, l'operazione è andata a buon fine. Oggi, al mattino, partiranno per Jenin con un altro convoglio, l'appuntamento rilanciato in internet è, «per chi non ha una macchina», alle 9 alla bus station..


Contro barriere e divisioni La loro storia è un cercare di superare diffidenze e divisioni con le quali in questa terra si vive fin da bambini, abbattere il muro dell'incomunicabilità, cercare di mettersi nei panni degli altri, anche a costo di sentirsi accusati di «tradimento». Ma per Samuel non sono tanto le accuse dei suoi concittadini israeliani a pesare nel senso quotidiano della vita, «quanto la guerra, la situazione che sta precipitando, il mio paese che mostra alcuni tratti di fascismo e che è già uno Stato con forti connotazioni razziste». «Presto me ne andrò lontano, probabilmente in Italia, mi piacerebbe Venezia, dove si fa il vetro e dove la vita non si divide in ebrei, non ebrei e arabi, dove se compri una casa perlomeno sai che non è terra rubata ad altre persone».

Apartheid, razzismo, due parole pesanti peri il paese nato dalla diaspora e dall'Olocausto: «Ti faccio un esempio, visto che parliamo di case. In Israele il 93% della terra si acquista sotto forma di leasing, insomma è in affitto. Il proprietario è lo Stato, o meglio l'agenzia chiamata Managers of Israel Land, la quale decide anche chi abbia o meno diritto ad averla. E una casa si può acquistare solo se si è compatibili con la "legge del ritorno", ovvero solo essendo ebrei. Questa legge non solo esclude gli stranieri, ma anche gli stessi cittadini arabo israeliani». Per Samuel, cresciuto da una famiglia "normale" che oggi lo considera un po' estremista, la differenza l'ha fatta «un mio compagno di scuola. Ero un buon sionista, poi questo amico ha iniziato a farmi domande, e interrogandomi ho iniziato a non vedere solo le cose come ce le insegnano qui. In Israele di solito pensiamo a noi stessi prima come israeliani, quindi come esseri umani. Ma se inizi a percepire tè stesso prima come umano e poi come israeliano ed ebreo vedi quanto profondamente razzista è questo paese». Mentre parliamo qualche sirena strilla per la strada, solo due ore fa l'ennesimo attentato terroristico, a due passi da qui. «E' orribile e assurdo che abbiano colpito proprio oggi (ieri, ndr), con la visita di Powell e tutto il resto. Personalmente credo che i terroristi siano la mano destra di Sharon, del resto le agende politiche degli estremisti dell'una e dell'altra parte coincidono quasi sempre: entrambi vogliono la distruzione totale degli altri».


Un domani che non arriva I giovani di Ta'ayush cercano sempre la comunicazione, ingrandirsi è un obiettivo dichiarato, e se gli chiedi se credono alla formula "due popoli due Stati" spiegano che «il gruppo non ha una posizione ufficiale anche se molti la ritengono l'unica soluzione veramente possibile». Per Samuel è giusta anche la proposta di "Gerusalemme città aperta":

«Penso che se arriverà mai una soluzione per queste terre non verrà dalla gente di qui. Siamo andati troppo lontano ormai. Oslo è fallita, gli errori sono stati tanti anche da parte palestinese, e non mi riferisco alla falsa pace proposta a Camp David. E' chiaro però che la gran parte dei palestinesi è più disposta ad accettare il compromesso, in fondo anche nella questione del ritorno dei profughi non chiedono certo di cambiare situazioni irreversibili. Certo, c'è chi ci vorrebbe buttare tutti gli ebrei a mare, ma la richiesta della maggioranza è solo un riconoscimento dei loro diritti, della dignità di esseri umani, e magari anche le scuse di Israele: mi sembra un prezzo tutto sommato economico per la pace. Gli israeliani invece sono vittime della loro paranoia, di una storia di due millenni di sofferenze le cui colpe non ricadono però sugli arabi. Gli israeliani non si rendono nemmeno conto che abbiamo rubato per anni la terra ai palestinesi, vedono solo le proprie sofferenze, nel "non ebreo" c'è già un potenziale antisemita. Ma ti dirò, in cinque anni vissuti all'estero ho incontrato una sola persona veramente antisemita, ovviamente senza ragioni ma solo per ignoranza. Penso che la non eliminazione delle nostre paranoie sia il più grande fallimento del sionismo, che ha voluto creare per gli ebrei uno Stato nazione sul modello europeo senza avere una terra per farlo. Israele è l'unico paese dove si viene attaccati in quanto ebrei, e non per un antisemitismo come quello che c'era in Europa, soprattutto dell'Est, prima della Seconda guerra mondiale. Invece di alcune cose ci si dimentica in fretta: durante la guerra la Danimarca è stato il Paese che ha fatto di più per salvare gli ebrei, è stato davvero un grande esempio rispetto al resto d'Europa. Ma poiché ultimamente ha chiesto ad Israele di cambiare, un ambasciatore famoso perle sue posizioni estremiste ho sentito gente dire "i danesi stiano attenti, non ci siamo dimenticati di quello che hanno fatto durante la guerra". Siamo andati troppo in fondo, alla cieca, con comportamenti autistici. Io sono un ottimista, dico sempre che domani ci potrebbe essere la pace. Ma ormai sono due anni che dico domani».