In un recente volume dal titolo Le seduzioni della guerra1Joanna Bourke ha passato in rassegna gli atroci crimini compiuti dagli eserciti durante la I e la II guerra mondiale e nella guerra del Vietnam. Violenze d’ogni genere dalla soppressione dei prigionieri, alle sistematiche torture inflitte ai civili e soprattutto agli stupri indiscriminati riservati alle donne. Emerge nella ricerca un quadro complessivo che smaschera, definitivamente, le mistificazioni della retorica militare, mettendo in luce nella strategia omicida di tutti gli eserciti la volontà del totale annientamento del nemico e la spietata logica in grado unicamente di moltiplicare i cimiteri. Le guerre esaminate dalla Bourke sono, purtroppo, soltanto esemplificative, poiché tutto il secolo appena concluso può essere definito come un lungo tempo di esercizio al massacro di esseri umani con ogni mezzo. Pur se spesso coperto dall’apparente legalità dell’azione politica o militare, questo massacro mostra l’indissolubile legame tra guerra e crimine. Come scriveva Lanza del Vasto riferendosi alla II guerra mondiale:
«Dopo questa guerra abbiamo fatto l’enorme pantomima di giudicare i criminali di guerra. Chi li giudicava? Coloro che hanno distrutto Berlino e Amburgo con delle bombe incendiarie, coloro che hanno gettato la bomba a Hiroshima, dei criminali di guerra come tutti coloro che fanno la guerra. Ah! Fare la guerra senza crimine? Allora non è più la guerra. Non so più quale capitano del XV secolo diceva “guerra senza incendi è come salsiccia senza mostarda”»2.
Per chi poi avesse corta memoria o fosse abituato a frequentare esclusivamente la manualistica storica ufficiale o diari e memorie di generali in buona salute sarà sufficiente sfogliare un doloroso dossier come Crimini di guerra3 che potrebbe a buon titolo sostituire molti inutili e noiosi libri di testo di storia in adozione nelle nostre scuole italiane. Tali crimini, la cui efferatezza è nota in minuscola parte, hanno prodotto nella loro ripetitività una sorta di assuefazione che è arrivata a provocare una generalizzata indifferenza. Per quello che riguarda l’Italia questa situazione è ampiamente dimostrata sia dalla diffusa percezione della nostra presenza in Africa – ancora avvolta nell’immagine mitologica di una benefica assistenza, immagine che è il risultato di un mancato dibattito al limite dell’omissione rispetto ai crimini delle imprese coloniali italiane4, sia dalle vicende ormai rimosse delle torture inflitte al popolo somalo dai paracadutisti italiani della Folgore durante la recente missione Ibis 2, pomposamente denominata di pace.
In questa condizione divisa tra la smemoratezza e l’ignoranza non è agevole parlare in Italia di quel lungo e sanguinoso conflitto generalmente denominato guerra d’Algeria, nemmeno riferendosi a quell’ultima parte di esso relativa alla fine degli anni ’50. Eppure quella guerra rappresenta la prova che le logiche che avevano condotto l’umanità nel baratro della II guerra mondiale non erano davvero uscite sconfitte dopo il 1945, che anzi la violenza istituzionalizzata e giustificata, sotto altro nome e con altri mezzi, continuava la sua azione di sterminio. La strage di Sétif, proprio la città nella quale era stato elaborato il Manifesto del popolo algerino5 e si erano aggregati gli Amici del Manifesto e della Libertà, fu quella dove la repressione francese, coinvolgendo poi altre città, uccise utilizzando marina e aviazione un numero imprecisato di migliaia di algerini (forse 40.000 secondo il console degli Stati Uniti) in festa per la fine della guerra e che avevano osato sventolare qualche bandiera algerina. Quella strage, motivata dall’azione di un gruppo di agitatori che ad arte provocarono una sommossa e dei tumulti nella manifestazione, è indicativa del clima violento della colonizzazione francese dell’immediato dopoguerra e dell’opposizione a qualsiasi rivendicazione di autonomia, ed è ad un tempo anticipazione della lunga guerra che comincerà dal novembre del 1954. A quella guerra si giungerà a causa del fatto che «il governo francese aveva lasciato passare invano tutte le occasioni che dal 1945 gli si erano presentate per convogliare le riforme verso l’autodeterminazione anziché verso i privilegi della minoranza europea come chiedevano i francesi d’Algeria»6. Una prova di questa ferrea logica di totale indisponibilità a considerare le ragioni del popolo algerino è autorevolmente rappresentata dalle parole dell’allora ministro François Mitterand: «L’Algeria è la Francia. Dalle Fiandre al Congo, una sola legge, una sola nazione, un solo parlamento […] questa è la nostra volontà […] la sola negoziazione possibile è la guerra»7. Una colonizzazione che aveva eretto l’ingiustizia a sistema riducendo quel popolo nella condizione di una schiavitù senza catene, ma che negava diritti civili e politici, sottoponendolo alle vessazioni e alla miseria, affermando nei suoi confronti i principi discriminatori del razzismo e utilizzando la tortura e le sistematiche violazioni della legge come prassi diffusa dell’azione di polizia già prima dello scoppio della guerra8. Al popolo algerino era stato imposto un colonialismo che aveva promosso una politica ispirata all’assimilazione, travestita da integrazione9, e alla cancellazione dell’identità. Un colonialismo che lo aveva asservito ad un doppio regime di sudditanza, infatti l’Algeria si era «trovata sottoposta a due poteri, uno de jure, quello di Parigi, e uno de facto, quello di Algeri»10. Convivevano, quindi, in Algeria due mondi totalmente separati dal principio dell’ineguaglianza sociale legalizzata: quello della minoranza europea padrona di una percentuale di beni elevatissima – soprattutto in ordine ai terreni coltivabili – e l’universo del popolo algerino al quale erano concessi i terreni meno produttivi e in quantità palesemente insufficiente rispetto ad una popolazione largamente maggioritaria e in continua crescita. Il confronto sul reddito medio annuale alla fine del 1955 non abbisogna di commenti: tra i 33.000 franchi degli algerini e i 208.000 dei colonizzatori vi era un abisso tale da segnare un solco incolmabile di discriminazione e distanza, una insuperabile barriera di classe11 confermata anche da una democrazia sbilanciata che attribuiva una rappresentanza di tre quinti degli eletti alla ridottissima minoranza francese attraverso elezioni – secondo quanto affermava Lanza del Vasto – «forzate e truccate come possono vedere tutti»12.
La guerra senza nome
La produzione storiografica contemporanea o appena successiva al conflitto è imponente. Analisi complessive, dossier, rapporti, denunce, una sterminata biblioteca di materiali, numerosissimi dei quali furono offerti in traduzione al lettore italiano. Quei testi danno un quadro agghiacciante di una lunga colonizzazione sfociata con una persecuzione senza quartiere e senza limiti, iniziata nella sua ultima fase dopo il 1° novembre del 1954 e che si trasformò nel volgere di pochi anni in una guerra contro la liberazione del popolo algerino tanto da provocare complessivamente circa un milione di vittime13. Una guerra dove i protagonisti dei crimini delle SS trovarono ancora possibilità operative attraverso l’arruolamento nella Legione Straniera che svolse in Indocina e in Vietnam prima, e in Algeria poi un ruolo di importanza primaria14. Questa presenza massiccia di ex nazisti aiuta almeno in parte a comprendere le modalità della repressione francese nelle colonie15. Repressione che nella guerra algerina coinvolse però non soltanto l’esercito di stanza in Algeria, ma anche una quantità di funzionari dell’amministrazione francese che utilizzarono volutamente la comoda copertura delle divise dei paracadutisti16, né gli uni né gli altri possono essere definiti un manipolo di folli poiché – come sosteneva Jean-Paul Sartre – è la tortura che fa i carnefici17. La gamma delle tipologie di tortura e la loro generalizzata applicazione dimostra la non eccezionalità dell’utilizzazione di tali sistemi e la capillare diffusione di essi nelle centinaia di campi di concentramento e nei numerosissimi centri di detenzione costituiti da fattorie, ville, scuole e caserme dove venivano allestite delle vere e proprie sale di tortura. Dalle torture classiche: privazioni di cibo e acqua, detenzioni in fosse di metri 1,06 x 0,80 x 0,7518, esposizione al sole in una gabbia a grata, stiramento degli arti con argani, schiacciamento degli organi interni, recisione delle dita con tenaglie, all’uso del fuoco, di pinze, coltelli, corde, bastoni, di sigarette accese per ustionare la carne umana, alle ingestioni di acqua o di urina, fino alle torture moderne dell’elettricità non sembra davvero mancare nulla al regime dell’orrore che i francesi imponevano in genere ai popoli colonizzati19 e che non mancarono di perfezionare su larga scala con gli algerini20 anche attraverso l’apposita formazione fornita dal Centre d’Entraînement à la Guerre Subversive noto per la preparazione offerta ai propri allievi ad una “tortura umana” che – a quanto sostenevano gli ufficiali che vi insegnavano – garantisse il rispetto della dignità del torturato e non gli infliggesse umiliazioni. Nella realtà la varietà di torture e di mutilazioni21 che i francesi imposero nel genocidio del popolo algerino non ha molto da invidiare a quelle dei campi di concentramento della II guerra mondiale, a quelle delle questure italiane durante il fascismo e a quelle tutt’ora utilizzate in un gran numero di Paesi nel mondo22. Non distinguendosi da quelle che nel XVIII secolo Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764) e Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura (1776) avevano definitivamente condannato.
Scriverà Simone De Beauvoir nella prefazione ad una dolorosissima testimonianza di una avvocatessa chiamata a difendere Djamila Boupacha giovane algerina del Front de Libération Nationale (FLN), torturata e violentata con ogni mezzo nelle carceri e nei campi di detenzione francesi:
«Dal 1954, siamo tutti complici di un genocidio che, sotto il nome di repressione, e poi di pacificazione, ha fatto più di un milione di vittime: uomini, vecchi, bambini mitragliati nel corso di rastrellamenti, bruciati vivi nei loro villaggi, fatti fuori, sgozzati, sventrati, martirizzati a morte; tribù intere condannate alla fame, al freddo, ai colpi, alle epidemie, in questi “centri di raggruppamento” che sono di fatto campi di sterminio – adoperati in via subordinata come bordelli per i corpi scelti – e nei quali agonizzano attualmente più di cinquecentomila algerini»23.
Ad una così vasta produzione di materiali ha corrisposto in questi anni in Francia una pari rimozione, tanto che la recente pubblicazione di due libri sull’argomento, dei quali ha dato risalto perfino il quotidiano italiano La Repubblica24, ha suscitato grande risonanza come se si prendesse per la prima volta collettivamente coscienza dei crimini compiuti in Algeria nonostante l’immensa mole di testimonianze25, anche fotografiche, degli orrori compiuti26 e come se anche alcune significative opere cinematografiche come Muriel ou temps d’un retour27e La battaglia di Algeri28 non abbiano avviato una riflessione consapevole sulla tortura e sulla guerra.
Se nel primo libro l’autrice Luisette Ighilahriz29 racconta le atrocità (torture e violenza carnale) cui fu ripetutamente sottoposta nel 1957, con l’avallo dei vertici militari dell’epoca, dai soldati francesi in tre mesi di prigionia, nel secondo la storica Raphaëlle Branche30 ricostruisce complessivamente, attraverso una vasta e inedita documentazione, la lunga guerra algerina e il carattere sistematico della tortura e degli stupri di massa utilizzati come metodo degli interrogatori e per terrorizzare la popolazione. Ma ciò che l’autrice osserva è come soltanto recentemente la società francese abbia mostrato un diffuso interesse per la questione della tortura e per l’ascolto delle tante testimonianze dei soldati protagonisti di quella guerra e degli orrori da loro commessi31. Una rimozione tanto più provata dal fatto che sono occorsi addirittura quarant’anni perché la Francia riconoscesse i fatti di Algeria come una vera e propria guerra32. Poiché la tesi sostenuta per molto tempo fu quella che in Algeria si stessero semplicemente reprimendo degli sparuti gruppi terroristici attraverso una semplice e limitata operazione di polizia, per questo motivo l’espressione “guerra d’Algeria” fu assolutamente proibita. La prova di ciò può essere recuperata sia considerando che per molti anni in luogo di guerra si preferì usare l’asettica e generica formula di “avvenimenti d’Algeria”, sia ricordando il libro testimonianza di Jules Roy, colonnello dell’esercito francese e amico di Albert Camus, che ritornò in Algeria per vedere da vicino cosa stava accadendo nel Paese dove era nato. E che raccontò sgomento come dinanzi alla endemica condizione di ingiustizia sociale in cui versavano gli algerini e allo stato di guerra in cui ci si trovava, i coloni francesi si ostinavano a sostenere che la guerra non esisteva:
«Perché ci sia una guerra bisogna essere in due. Ma qui, da una parte c’è l’esercito, dall’altra c’è una polvere impalpabile. Non si può fare la guerra alla polvere. Questa faccenda deve avere un altro nome»33.
Ma quel nome non fu mai trovato tanto che oggi quelle sanguinose vicende possono essere definite la “guerra senza nome”34.
Per questo la Francia aveva definito la guerra di repressione e di annientamento col termine edulcorato di “pacificazione”35, nella quale però era arrivata ad impegnare in Algeria ben 400.000 soldati, che raggiunsero in alcuni momenti le 700.000 unità (tra truppe regolari, territoriali, gendarmeria e gendarmeria mobile), utilizzando parte dell’apparato militare che doveva essere posto a servizio della NATO, adottando sistemi di intervento militare da guerriglia come la sistematica distruzione dei villaggi realizzata attraverso l’uso di bombe al napalm e uccidendo di norma i prigionieri sopravvissuti alle torture, giustificandone l’omicidio con un tentativo di fuga, cioè quella esecuzione senza processo che, ripetuta in migliaia di casi, verrà tristemente denominata corvée de bois36.
Dinanzi a questi crimini e alla volontà di negarli, non riconducendoli in alcun modo ad una guerra, Lanza del Vasto osserverà già nel 1957:
«L’atrocità di questa guerra dipende da due grandi bugie che ne hanno poi, in seguito, generato altre. La prima bugia è che l’Algeria è la Francia, la seconda è che la guerra di Algeria è una pacificazione»37.
Ma chi seppe giudicare da subito i fatti d’Algeria come una vera guerra, avanzando – inascoltato, deriso e isolato - una seria proposta di disarmo e di dialogo fu proprio Albert Camus che, dopo aver denunciato per anni i gravi errori della colonizzazione francese38, in una lettera dell’ottobre 1955, scriveva al socialista M. Aziz Kessous:
«Ho difeso per tutta la vita (e voi sapete questo mi è costato l’esilio) l’idea che erano necessarie da noi vaste e profonde riforme. Non l’hanno creduto, hanno inseguito il sogno della potenza che si crede sempre eterna e si dimentica che la storia va avanti e queste riforme sono più necessarie che mai. Ma dire questo oggi, lo so per esperienza, vuol dire portarsi nella “no man’s land” tra due eserciti, e predicare in mezzo alle fucilate che la guerra è un inganno e che il sangue, se qualche volta fa avanzare la storia, la fa avanzare verso la barbarie e la miseria. Colui che, con tutto il cuore, con tutta l’anima, osa gridare questo, che cosa si può aspettarsi in risposta, se non le risate e il rumore moltiplicato delle armi? Eppure, bisogna gridarlo»39.
Ma in Francia l’invito di Camus a portarsi nella terra di nessuno tra i due eserciti in lotta fu quasi totalmente inascoltato, mentre la sua posizione di rifiuto della violenza gli costò la condanna come eretico da parte della sinistra.
Così, l’impegno bellico repressivo s’accrebbe, allargandosi anche alla cosiddetta guerra psicologica, per organizzare la quale si costituì un apposito centro di addestramento che fornì, attraverso i propri uomini, opportuna consulenza alle missioni e alle azioni belliche40. Contemporaneamente si accrebbe, in quegli anni di guerra, la più tipica e più subdola azione dei regimi: lo smantellamento della cultura e della storia locale fino «al punto che nelle scuole si insegnava che “gli antenati degli algerini erano Galli”»41, la classificazione dell’arabo come lingua straniera, l’addomesticamento della società algerina42 e il regime di propaganda culturale sostenuto da riviste come L’Afrique latine il cui titolo era, da sé solo, già un manifesto di programma. Un’azione che dal lontano 1830, anno dell’occupazione coloniale francese, aveva tentato con ogni mezzo di «europeizzare un pezzo di mondo arabo – cercando di – asservire gli algerini, dislamizzare e disarabizzare l’Algeria»43, negando perfino la preesistenza all’occupazione francese di una Algeria come quella della Reggenza di Algeri. Ma il risultato della colonizzazione era quello dell’esclusione di fatto della popolazione algerina, della quale meno del 10% parlava il francese e ancora meno poteva ritenersi alfabetizzata, e dove 600.000 bambini non sarebbero mai andati a scuola. Al riguardo proprio negli anni della guerra, la Francia cominciò a costruire scuole ed ospedali, ovviamente dopo averne distrutti altrettanti con i bombardamenti. È noto che la guerra moderna, come ben dimostrano le azioni militari dal Golfo Persico, alla Serbia, all’Afghanistan – con la distribuzione da parte dell’esercito USA di pacchi viveri alle popolazioni che quello stesso esercito si incaricava di bombardare –, promuove questo genere di palesi contraddizioni e di insanabili ipocrisie mistificanti. Si afferma sempre più una sorta di tartuferia filantropica con il contemporaneo distruggere e ricostruire, ferire e medicare, torturare e far beneficenza. Scriveva Lanza del Vasto: «L’amministrazione e l’esercito alternano le rappresaglie e la distribuzione di cibo, ricostruiscono nel Paese le strade che hanno distrutto loro stessi, aprono dei dispensari di medicine sulle rovine come se la mano destra avesse dimenticato ciò che la sinistra ha fatto»44.
Anche la conclusione della guerra, con l’ignobile pagina per l’esercito francese scritta dagli alti ufficiali ribelli con l’insurrezione del 22-25 aprile 1961 e dai misfatti dell’O.A.S. (Organisation [de l’] Armée Secrète) con i suoi 1400 omicidi45, fu caratterizzata da una volontà di mistificazione in grado di produrre una memoria squilibrata. Infatti, gli accordi di Evian del 18 marzo 1962 tra governo francese e governo provvisorio della repubblica algerina prevedevano la concessione dell’amnistia per imputati e detenuti algerini per reati relativi alla guerra di liberazione. Nel decreto attuativo degli accordi furono però coinvolti anche i torturatori e gli assassini francesi, nei confronti dei quali si previde il non luogo a procedere, che di fatto li scagionò da ogni responsabilità di aver commesso i più atroci delitti giustificati dalla necessità non di una guerra, ma di quella che veniva chiamata “operazione di mantenimento dell’ordine”. In essa i resistenti algerini non erano stati considerati soldati combattenti una guerra, ma criminali comuni nei confronti dei quali era ammissibile qualsiasi atrocità e violenza46. Scriveva Pierre Vidal-Naquet, in uno dei più validi e coraggiosi studi sui torturatori della guerra d’Algeria, che l’amnistia:
«consacra l’ipocrisia di cui lo Stato non ha mai smesso di dare prova dinanzi a questo problema fondamentale; essa legittima a posteriori ciò che lo Stato non ha saputo né voluto impedire. In un certo senso, lo Stato si è auto-amnistiato. Le conseguenze di questo gesto sono estremamente gravi. Migliaia di uomini sono stati educati alla peggiore forma di violenza, quella contro l’avversario disarmato. Costoro non hanno coscienza dei loro crimini e spesso non esitano a gloriarsene. Domani, nel caso di una crisi politica o sociale, essi possono diventare gli squadristi di qualunque avventura: le tecniche che hanno imparato in Algeria possono trovare altri campi di applicazione. Nei quadri dirigenti della nazione, nell’apparato statale, i torturatori sono presenti: presenti nell’esercito, presenti nella polizia, presenti nella giustizia»47.
L’amnistia favorì la rimozione tanto che, in modo ricorrente in questi ultimi anni in Francia, si è acceso il dibattito sulla tortura mostrando che il collegarla esclusivamente alla guerra non resta una spiegazione realmente convincente. Come non è praticabile l’equiparazione tra le pur gravissime responsabilità del FLN, con la sua strategia terroristica, e la repressione con ogni mezzo promossa dai governi francesi. Una operazione maldestra di giustificazione dei crimini commessi da una istituzione legale quale era l’esercito francese48. La pratica indiscriminata e feroce della tortura non fu, infatti, un accidente casuale, ma una conseguenza del sistema coloniale francese49 che, secondo quanto giustamente osservava Oliver Le Cour Grandmaison, si ispirava all’insegnamento di Alexis de Tocqueville le cui giustificazioni della violenza, della devastazione, dei sistemi di tortura nell’Algeria colonizzata rischiano di «compromettere la sua immagine di liberale e democratico»50 e per questo motivo sembrano rimanere ancora ignorati e forse anche poco accessibili al lettore di lingua italiana51.
Come ha indicato in modo diffuso e convincente, agli inizi degli anni ’90, Benjamin Stora nel suo La gangrène et l’oubli52,la vicenda algerina prova in tutta evidenza come la Francia non abbia ricomposto la propria memoria in un percorso condivisibile e sanante. Lo dimostra l’inaccessibilità degli archivi, la scomparsa di documenti come quelli relativi ai sanguinosi fatti parigini del 17 ottobre del 196153 per i quali sembra avere avuto successo la strategia governativa dell’oblio54, la ritrosia e il disinteresse delle istituzioni a parlare della guerra di Algeria. Eppure non sono riusciti a superare quell’esperienza 350.000 reduci che soffrono, ancora dopo quarant’anni, di patologie psichiche risultato di quella incancellabile e terribile campagna d’Algeria55. Il lungo documentario di Bertrand Tavernier, La guerre sans nom (1991), mostra la totale desolazione in cui si trovano oggi molti di quei soldati che furono costretti a prendere parte alla repressione. Giovani francesi che dovettero partire per l’Algeria nonostante la personale contrarietà e resistenza di diversi tra loro e nella l’indifferenza sostanziale della forze politiche56, giovani che già appena tornati dalla guerra manifestarono il danno irreparabile provocato da quell’esperienza abominevole di repressione e atrocità57. Afferma a tal proposito il domenicano Cortade, citato da Lanza del Vasto: «Sono testimone dei danni più gravi nelle anime che hanno talora causato l’accettazione controvoglia di qualche mese in Africa. So a quale degradazione, a quale disperazione molti sono stati portati. Ne ho visti tornare d’Algeria come si esce da una malattia orribile o da una perdita di ragione»58.
Gli stessi libri di scuola mantengono una posizione di ambiguità, riproponendo generalmente dell’esperienza coloniale francese una versione edulcorata di promozione civilizzatrice. La guerra d’Algeria è relegata ad avvenimento minore e l’uso della tortura è quasi sempre taciuto. Soprattutto appare ancora particolarmente imbarazzante ammettere che la tortura non riguardò soltanto la lontana Algeria, ma che anche in Francia, dove dai tempi di Luigi XVI era teoricamente bandita, essa fosse divenuta prassi usuale degli interrogatori nei confronti degli algerini.
Un’ultima prova della rimozione dell’uso sistematico della tortura negli anni algerini è stata offerta dallo scandalo provocato dalla recente pubblicazione delle memorie di uno dei diretti protagonisti di quei fatti: l’ottuagenario generale Paul Aussaresses, insignito della Legion d’Onore, all’epoca responsabile dei servizi segreti dell’esercito in Algeria. Nel suo libro Services Spéciaux. Algérie 1955-195759, egli ha confermato e difeso l’uso della tortura, dichiarando di averla praticata direttamente in centinaia di casi, uccidendo personalmente per ben ventiquattro volte degli interrogati. Nuove luci sono finalmente arrivate sulle migliaia di sparizioni di algerini, in realtà uccisi direttamente sotto tortura o successivamente alla tortura sepolti vivi nel terreno, e delle quali si era informati attraverso, per esempio, i due “Libri verdi” che raccolsero le denunce dei parenti degli scomparsi e che furono invano inviati alla Croce Rossa internazionale dopo i primi anni di guerra60. Soprattutto si è avuta l’ennesima conferma che la morte dell’avvocato Alì Boumend e quella di Ben M’Hidi, capo del FLN della regione di Algeri, non furono provocate da suicidi, come le messinscena ufficiali dell’epoca vollero accreditarli, ma furono delle vere e proprie esecuzioni compiute dall’esercito francese in violazione a qualsiasi legge e senza alcun processo, pur non mancando in quel tempo un funzionamento intenso, seppur legale, della ghigliottina, adoperata per una quantità notevole di condannati a morte61. Di questa normalità ed efficacia dell’uso della tortura, anche fino all’omicidio, Aussaresses, non solo ha affermato di non pentirsi, ma ha dichiarato come essa fosse tollerata se non apertamente incoraggiata dallo stesso governo centrale. Con ciò chiamando in causa direttamente le responsabilità del partito socialista dell’epoca e del ministro della Giustizia, François Mitterand, il quale aveva inviato ad Algeri il giudice Jean Bérard come proprio rappresentante di fiducia. Bérard informava costantemente il ministro fornendo allo stesso tempo la piena copertura agli omicidi compiuti dai militari.
Ma è proprio agli inizi del 1957, quando si accentua lo sforzo poliziesco e repressivo francese e quando Lanza del Vasto – come si vedrà – avvierà il proprio impegno nonviolento per l’Algeria, che si possono recuperare rari ma significativi interventi di alti funzionari e militari che, denunciando il sistema repressivo criminale che si era affermato in Algeria, infrangeranno almeno in parte il quadro di complicità e omissioni. Le loro coraggiose testimonianze rendono ancora più grave, se mai fosse possibile, la responsabilità dei governi e delle istituzioni francesi. La verità su quanto stava avvenendo in Algeria era dunque nota se si pensa: alle dimissioni dell’anziano generale Jacques Pâris de Bollardière62, responsabile del settore est dell’Atlante bedeiano, dimissione provocate dal suo rifiuto categorico – formalizzato il 18 febbraio – di considerare la tortura come un metodo normale per ottenere informazioni – rifiuto che gli costò due mesi di detenzione – alla posizione assunta dal generale Bilolotte63 e alle dimissioni di Paul Teitgen, segretario generale della prefettura di Algeri. Teitgen nella sua lettera di dimissioni del 28 marzo denunciò di aver rivisto sui corpi martoriati dei prigionieri algerini gli stessi segni delle sevizie e delle torture da lui subite da parte della Gestapo durante l’occupazione tedesca. Quello stesso giorno René Capitant, professore presso la facoltà di Legge dell’Università di Parigi ed ex ministro dell’Educazione nazionale, sospendeva le proprie lezioni a causa dell’omicidio del suo ex allievo Alì Boumendjel motivando la sua scelta con queste parole:
«Finché pratiche di questo genere – alle quali, neppure in tempo di guerra, non abbiamo mai sottoposto i prigionieri tedeschi – saranno prescritte e tollerate contro gli algerini dal governo del mio paese, io non mi sentirò di insegnare in una Facoltà di diritto francese. Quindi interromperò le mie lezioni»64.
Ma la repressione non si lasciò per nulla influenzare da questi gesti, e da altri simili di alta dignità morale come quello di alcuni obiettori di coscienza o del sergente Noël Favrelière che decise di disertare per salvare la vita ad un prigioniero algerino65. Quelle scelte, ampiamente minoritarie rispetto alla massa di cittadini comuni che si trasformarono in soldati spietati66, furono causa per i loro autori di destituzioni e punizioni disciplinari. Si può anzi scorgere un vero incrudelimento della persecuzione che, ancora sul finire della primavera, colpì Henri Alleg67, direttore di Alger républicain e Maurice Audin il venticinquenne assistente alla Facoltà di Scienze di Algeri, padre di tre figli, che era in attesa di discutere la tesi per la libera docenza con il celebre matematico della Sorbona, Laurent Schwartz68. Al riguardo è tragicamente esemplare proprio la storia di Audin: sequestrato, torturato incessantemente per giorni e infine strangolato dai paracadutisti. La vicenda provocò, grazie anche all’instancabile impegno della giovane moglie e alla campagna stampa promossa da Le Monde, un vero caso internazionale che portò alla costituzione del “Comitato Maurice Audin” con la mobilitazione di parte del mondo universitario cui diede autorevole voce Paul Ricoeur in un memorabile discorso pronunciato il 25 giugno 1959 all’Assemblée pour la Défense des Droits de l’Homme en Algérie et en France:
«Audin fu nostro collega, e gli studenti dell’U.G.E.M.A.69 sono nostri studenti. Siamo qui perché non possiamo tollerare l’idea che, un giorno si possa dire: i professori di università hanno lasciato assassinare un collega e torturare i loro studenti, senza una protesta. L’insegnamento non è un mestiere privo di conseguenze per la vita»70.
Ma nonostante pressioni civili e proteste le istituzioni si ostinarono a lungo a sostenere l’inverosimile tesi della evasione e quindi della scomparsa nel nulla di Audin. E anche quando emersero precise responsabilità che portarono all’individuazione dei colpevoli, la magistratura debitamente guidata permise che rimanessero impuniti gli assassini, tra cui il tenente dei paracadutisti Charbonnier, al quale erano stati riconosciuti solenni encomi e altissime onorificenze come la Legion d’Onore, e che era destinato, nonostante le gravissime accuse, ad una brillante carriera.
2. I cristiani di fronte alla guerra
L’istituzionalizzazione della tortura non lasciò la Francia degli intellettuali indifferente. Furono numerosi coloro che, dinanzi all’uso sistematico di tali sanguinosi mezzi repressivi, nel disinteresse complessivo dei partiti politici71 - da destra a sinistra indistintamente schierati a favore della repressione72 - e nel disimpegno dei sindacati73, manifestarono con forza il proprio dissenso dalle scelte governative: da Henri-Irénée Marrou, la cui casa fu sottoposta ad una inqualificabile perquisizione, a François Mauriac, che già all’inizio del 1955 denunciava sull’Express le violazioni dei diritti umani e le violenze subite dagli algerini74, ad André Mandouze, lo studioso di storia del cristianesimo allora professore di letteratura latina a Strasburgo, che grazie agli anni in cui aveva insegnato ad Algeri manteneva un contatto diretto con gli algerini ed era particolarmente stimato dai membri del F.L.N. ai cui documenti dedicò anche un articolato dossier75. Egli venne arrestato e detenuto per trentaquattro giorni in carcere in attesa di interrogatorio76.
Essi, e molti altri ancora, trovarono convergenza di intenti con intellettuali come Jean-Paul Sartre e Paul Ricoeur e con i cofirmatari del “Documento dei 121” che solidarizzava con il popolo algerino rifiutando di prendere le armi contro di esso e condividendone la causa anticoloniale come causa di tutti gli uomini liberi. Ma il mondo cattolico francese non assunse comunque una posizione unanime, poiché altri intellettuali, come per esempio Gabriel Marcel, arrivarono a paragonare la collaborazione con gli algerini al pari di quella offerta ai tedeschi invasori77.
Sta di fatto che il conflitto apertosi nel ’54 comportò come conseguenza anche un duro confronto tra cristianesimo ed Islam. E se gli interventi del vescovo di Parigi, Feltin, invitavano al dialogo pur manifestando, soprattutto nei primi anni di guerra, sempre e comunque solidarietà all’esercito, e l’episcopato algerino alla fine di quel 1954 collegava il ristabilirsi della pace con l’affermazione della giustizia sociale78, non così il mondo dei coloni appariva disponibile ad «ammettere che c’erano dei torti da riparare, almeno sul piano della dignità umana. “Non dobbiamo arrossire di nulla, ognuno ha avuto quello che gli era dovuto…”. E il parroco aggiunse: “L’Islam è la grande sciagura”»79.
Il cristianesimo poteva allora essere identificato da parte musulmana come la religione di una borghesia coloniale che:
«trasforma in chiese le nostre moschee80, fa apologia del cristianesimo e utilizza le nostre finanze per convertire un paese musulmano. Essa arriva in tal modo a resuscitare lo spirito delle crociate inalberando la bandiera di Cristo contro l’Islam, pur continuando d’altronde, a farsi beffe dell’uno e dell’altro. Il colonialismo, per giustificarsi, si pone sotto l’autorità morale della croce e dà al colono il volto del missionario che intende assicurare la felicità del suo prossimo contro il beneplacito di quest’ultimo»81.
E tuttavia non mancarono nella Chiesa algerina testimonianze di ordinaria fedeltà al Vangelo come quella di alcuni sacerdoti della Mission de France impegnati a Souk Ahras. La loro vicenda può essere assunta come esempio illuminante di una posizione che rifiutava di collocarsi all’interno degli schieramenti della guerra affermando, invece, il principio incondizionato del riconoscimento dei diritti umani. Essi avevano creato un’associazione di “assistenza fraterna” i cui presidenti onorari erano, oltre uno di loro, l’imam di Souk Ahras e il rabbino della comunità israelita del luogo. Una associazione nella quale lavoravano in comunità di intenti, appartenenti alle singole religioni. Scrivevano i tre sacerdoti della missione a Souk Ahras il 29 gennaio 1956:
«Noi dobbiamo essere e rimanere comunque (foss’anche al prezzo della vita) al servizio di tutti, e il presbitero deve essere aperto a tutti. Noi non abbiamo il diritto in questo periodo di lotta, di lasciarci rinchiudere nell’uno o nell’altro campo: dobbiamo, al contrario, far tutto il possibile per restare un ponte gettato fra i due campi» – da queste affermazioni scaturiva allora – «il divieto di condannare questa o quella categoria di uomini sotto l’unico pretesto che appartengono a questa o quella classe, nazione, razza o civiltà, e il divieto di nutrire qualunque complesso di superiorità per motivi di appartenenza a tale o tal altra classe, nazione o civiltà […]. La carità se va fino in fondo alle sue esigenze, ci stabilisce in solidarietà con tutti gli uomini del mondo intero. Ci rende sensibili ad ogni ingiustizia non solo sul piano dei rapporti individuali, ma su quello dell’organizzazione politica, economica e sociale»82.
Le conseguenze di tali affermazioni, e delle scelte che ne derivavano, trovarono l’invincibile resistenza dei coloni, i quali, dopo aver cercato invano di ottenere l’allontanamento dei tre sacerdoti da parte del vescovo di Costantina, riuscirono a farli espellere dalle autorità civili. Appariva evidente, dunque, che già dopo poco più di un anno di guerra una Chiesa cattolica indisponibile a schierarsi con il governo francese nella repressione e a non essere funzionale alla causa dei coloni europei sarebbe stata tacciata di sentimenti antipatriottici, perseguitata e allontanata dall’Algeria. La ferma risposta del card. Lienart a difesa dei sacerdoti e contraria alla loro espulsione non lascia dubbi sull’atteggiamento che almeno alcune figure autorevoli della Chiesa francese intendevano assumere nei confronti della guerra e delle parti in conflitto83. Un’altra prova in questa direzione è costituita dal cosiddetto caso del “Centro del Prado”, una istituzione religiosa che si occupava – dietro l’invito del cardinale Gerlier84 arcivescovo di Lione – di fornire aiuti alle tante migliaia di algerini presenti a Lione. Nell’autunno del 1958 alcuni sacerdoti, tra cui il padre Carteron, furono accusati di avere fornito assistenza e collaborazione al F.L.N, mentre in realtà avevano offerto sostegno alle iniziative a favore dei tanti detenuti algerini e delle loro famiglie impegnandosi a restituire dignità ad una popolazione emarginata e umiliata. Le false accuse, che erano state palesemente ottenute con la tortura, spinsero Gerlier ad un intervento che denunciava le violenze della locale polizia. La situazione si ricompose con un compromesso85, ma tuttavia la vicenda era indicativa della diffusione della pratica della tortura e di settori autorevoli della società che ormai vi si opponevano apertamente.
Ma chi primo fra tutti, già il 17 gennaio 1955, appena dopo le prime settimane di guerra, denunciò e condannò senza eccezioni il ricorso alla tortura fu l’arcivescovo di Algeri mons. Léon-Étienne Duval. Egli si riconobbe in quanto vescovo la responsabilità di essere defensor civitatis assumendo da subito, vincendo le resistenze dei suoi più stretti collaboratori, una posizione di totale rifiuto della violenza come possibilità di soluzione del conflitto86 e ribadendo il principio di una coabitazione pacifica garantita dalla affermazione concreta della giustizia sociale. A causa di questa scelta «tra il clero e soprattutto tra i fedeli, l’arcivescovo di Algeri non fu, durante la guerra, molto amato e sempre rispettato. […]. L’arcivescovo sosteneva che la guerra aveva origine da una situazione di ingiustizia sociale, che penalizzava gli algerini non europei e che pertanto la pace era legata alla giustizia sociale. Invece la gran parte dei suoi fedeli riteneva che alla pace si potesse arrivare solo vincendo la guerra, ovvero sconfiggendo l’FLN. Duval sin dai primi giorni di lotta prese ad insistere sul dovere dei cristiani di non rispondere alla violenza con altra violenza»87. Per questi motivi egli denunciò sia il coinvolgimento dei cattolici nella repressione - condannando come falsa la loro pretesa di ritenere che attraverso la violenza si potesse difendere la civiltà cristiana88, sia la pretesa di assimilare la causa cristiana a quella francese riducendo la presenza della Chiesa in Algeria a cappellania degli europei89. Fu una distinzione che, grazie a Duval, caratterizzò tutto l’episcopato algerino il quale evitò così l’affermazione di un cristianesimo ultranazionalista, l’appoggio alla pretesa instaurazione di uno Stato cristiano autoritario e la giustificazione di una guerra di religione tra cristianesimo e Islam.
Nonostante il totale appoggio dato alle posizioni di Duval da Pio XII prima e da Giovanni XXIII poi, non mancarono di contrapporsi al vescovo le parole e le scelte di quei cristiani che ne chiedevano a Roma la rimozione, lo irridevano con l’appellativo di “Mohammed Duval” e fornivano ai torturatori giustificazioni morali. Tra gli altri si ricordi quanto sosteneva nelle sue omelie il reverendo Delarue, cappellano militare di quella 10ª divisione paracadutisti autrice delle più atroci torture e dei più efferati crimini, per il quale tra tortura e terrorismo occorreva scegliere il male minore, approvando e giustificando quindi l’uso della tortura90. Pur senza citare direttamente la tortura e con tutte le cautele che la Costituzione francese imponeva alla Chiesa di doversi astenere dall’esprimersi su questioni di competenza governativa, l’assemblea dei cardinali e dei vescovi francesi il 14 ottobre 1960 divulgò una dichiarazione che condannando indistintamente i crimini compiuti dalle fazioni in lotta non solo utilizzava le parole “guerra d’Algeria”, ma soprattutto smentiva qualsivoglia giustificazione del male minore91 e – citando Pio XII – negava l’obbligo di eseguire un ordine che comportava un atto immorale92.
La guerra d’Algeria ebbe vasta risonanza internazionale, ma in Italia gli avvenimenti sulla stampa ufficiale furono costantemente edulcorati. Soprattutto il lettore italiano non venne posto nelle condizioni di capire cosa stesse concretamente avvenendo e quale fosse la portata inaudita della repressione. Una testimonianza notevole di questo vuoto di informazione ci è fornita direttamente da una scritto, del 1959, di Lorenzo Milani, forse il più intenso e più attuale e certo il meno noto, intitolato Un muro di foglio e di incenso. Uno scritto che Milani aveva preparato su richiesta del direttore della rivista Politica, Nicola Pistelli. Milani lo inviò attraverso due ex alunni di San Donato, uno dei quali, Maresco, gli comunicò «l’impressione che Pistelli non lo pubblicherà dinnanzi al Congresso D.C. e dopo il congresso lo pubblicherà solo in caso di sconfitta. Aspetto ora una risposta precisa e se è negativa lo manderò ad Adesso»93. Ma l’articolo però non venne pubblicato94 e nemmeno fu possibile proporlo ad Adesso. Il caso fu definitivamente chiuso quando don Bensi, intuendo quanti altri guai avrebbe provocato all’amico, bloccò definitivamente l’articolo95.
Dovettero trascorrere quasi dieci anni perché la lettera, Milani ormai morto, venisse pubblicata dall’Espresso96.
«[…] Sono abbonato al “Giornale del Mattino”. Sono abbonato anche a un settimanale cattolico francese. Se non avessi avuto il secondo non mi sarei mai accorto sul primo di quel che fa la polizia francese. Non che la notizia non ci fosse, ma era riportata di rado e non in vista e in forma dubitativa e senza particolari. Quanto basta per non accorgersene. Oppure accorgersene ma non dargli il suo posto. Accorgersene ma non schierarsi.
Sul giornale cattolico francese la stessa notizia è martellata ogni settimana a tutta pagina e spesso si sente anche la testimonianza diretta dei torturati. E non solo le cose dolorose, ma anche quelle volgari: “Enculer il torturato, pisciagli in faccia, fagli assaggiare la merde française, passagli l’alta tensione pei coglioni, ecc.”. (Témoignage Chrétien del 26.6.1959, pag. 3 e pag. 5)97.
Quattro frasi che non leggeremo mai su un giornale cattolico italiano98. C’è chi se ne rallegra perché le trova sconce. Io invece sento una grande tristezza nell’appartenere a una Chiesa sui cui giornali le cose non hanno mai il loro nome. Il galateo, legge mondana, è stato eretto a legge morale nella Chiesa di Cristo. Chi dice coglioni va all’inferno. Chi invece non lo dice ma ci mette un elettrodo, chi non lo dice ma non persegue i poliziotti che si macchiano di queste atrocità e persegue invece il libro che testimonia queste cose (La Gangrène, Editions de Minuit. 1959)99, viene in visita in Italia e il galateo vuole che lo si accolga col sorriso100. Il presidente Leone ha rimproverato un deputato: “Non mi sembra opportuno dir male di uno Stato proprio quando il suo capo si trova in questa stessa città” (seduta del 25.6.1959)101. E a me non sembra opportuno stringere la mano a de Gaulle senza avergli detto questa cosa in faccia. Avrei paura che il figlio di un torturato vedesse sui giornali la mia fotografia accanto a de Gaulle e magari nell’atto della stretta di mano col sorriso ebete beato delle fotografie ufficiali. Avrei il terrore che egli si stampasse il mio viso negli occhi per riconoscermi il giorno in cui per caso mi vedesse dal pulpito in una chiesa missionaria d’Africa»102.
3. L’intervento di Lanza del Vasto sulla guerra in Algeria
È nel clima sanguinoso di una guerra che è ormai al suo terzo anno – «una guerra senza frontiere né fronti»103 - ma le cui atrocità non sono ancora sufficientemente note all’opinione pubblica francese104, che Lanza del Vasto, nel marzo del 1957, decide di impegnare se stesso e la comunità dell’Arca per la prima volta nell’azione civile. Una azione che si ispira ai principi della nonviolenza gandhiana assumendone responsabilmente l’impegno per la verità e rifiutando i silenzi omertosi dinanzi all’enormità dei crimini commessi:
«Per noi semplici cittadini senza potere quale è l’atto che esige la Non-Violenza? Rispondo senza nessuna esitazione: è l’atto della verità. Voglio dire sforzarsi di distinguere il fatto dalle menzogne che ci propinano. Tacere sin quando ci sono troppi rischi di sbagliare. Ma appena si è fatta luce e si sa bisogna parlare anche a rischio di sbagliarsi. Mai nascondersi gli occhi o tapparsi le orecchie se la verità che abbiamo scoperto è contraria ai nostri interessi personali o partigiani o nazionali. […]. Rifiutare non soltanto di partecipare ad ogni atto inumano, corrotto o fraudolento, come massacri di popolazioni, esazioni illegittime, razzie, esecuzioni sommarie, torture, processi senza garanzie di equità, false testimonianze, menzogne di propaganda, sacrilegi, “azioni psicologiche” e altre cose ignominiose. Non soltanto rifiutarsi di prendervi parte, ma anche di accettare l’omertà nascondendole o tacendole, poiché la nostra capacità di giudicare ci è data per giudicare noi stessi e “noi stessi” significa anche la parola “i nostri”, cioè la nazione. Sono i crimini dei nostri che bisogna denunciare, che bisogna assumere ed espiare. Sono i nostri che noi dobbiamo sorvegliare da vicino affinché essi non si mettano nell’errore o facciano errori ancora più gravi»105.
Ed è per assolvere a questo compito che Lanza del Vasto scrive l’Appello alla coscienza dei francesi e l’Appello ai capi religiosi dell’Islam e ai capi del “Fronte di liberazione Nazionale” di Algeria. Si tratta di due documenti straordinari per forza nonviolenta, che accompagnano un digiuno pubblico, a sola acqua, che Lanza del Vasto, assieme a due compagni, compie negli ultimi venti giorni di Quaresima.
Entrambi gli Appelli sono ispirati al principio di una nonviolenza che si propone di frantumare la spirale inesauribile della vendetta che moltiplica all’infinito l’odio e il male. Una proposta disarmante dinanzi alle logiche di una idea di giustizia che prevederebbe esclusivamente il continuo riparare con la medesima intensità e qualità ogni torto subito.
Nell’Appello ai francesi è sintetizzato senza reticenze il catalogo delle atrocità compiute in Algeria, fatti sui quali l’informazione era scarsa e che apparivano in quel tempo ancora incredibili ad una opinione pubblica indolente e marcatamente influenzata dalla propaganda governativa:
«Si versa dell’acqua nell’imbuto, l’imbuto è messo nella gola dell’uomo. Lo stomaco dell’uomo si gonfia fino a scoppiare. I sepolti vivi, salvo la testa. Il palo elettrico, il sale sulle piaghe. La corrente elettrica attaccata al sesso o all’orecchio. I denti, le unghie, gli occhi strappati… Ecco alcuni dei metodi di pacificazione in Algeria. […]. I cingoli dei carri armati passano sulle abitazioni, a volte sugli abitanti, i bambini e le madri»106.
Dinanzi a questi crimini, che Lanza del Vasto paragona a quelli della Gestapo107, è la stessa logica della reazione proporzionale al male subito ad essere denunciata come totalmente inservibile:
«Si dirà: anche i nostri nemici torturano e mutilano. Lo sappiamo. […] Non approviamo i loro crimini più di quanto approviamo i nostri, però ripetiamo: I torti altrui non ci giustificano. Del resto l’atrocità non castiga l’atrocità e non mette un termine ad essa: la provoca e la fa raddoppiare»108.
Sono, dunque, tutte le uccisioni, le mutilazioni, le torture ad essere considerate inaccettabili da qualsiasi delle due parti siano compiute, poiché il compierle è contrario alla legge cristiana come a quella mussulmana109. E la nonviolenza può affermarsi soltanto come logica asimmetrica che prevede che qualcuno rinunci per primo alla vendetta e spezzi il circuito della perfetta reciprocità dell’odio, dell’odio che la guerra impone come ragione necessaria e inevitabile conseguenza110. Una logica che non si pone il problema di salvaguardare il buon nome della nazione nascondendo i crimini111. Appare evidente quanto contasse per Lanza Del Vasto frantumare le barriere delle appartenenze ideologiche e di partito chiamando tutti indistintamente, in quanto esseri umani, a schierarsi dinanzi ai crimini112. È soltanto questa scelta che può chiarire i termini della nonviolenza, la quale rifiuta categoricamente le strategie della guerriglia:
«La resistenza nonviolenta è la testimonianza della coscienza ed essa si presenta a viso scoperto. Nulla vi è di più estraneo della fuga, della clandestinità, degli intrighi e del tradimento. Essa affronta spesso la legge e a volte la contrasta, ma nello stesso tempo essa si offre ai suoi colpi ed è disposta ad accettarne le sanzioni. La cattiva legge contro la quale il nonviolento agisce segnala lo scandalo di questa legge rendendola insopportabile alla stessa coscienza dell’avversario che è obbligato ad applicarla»113.
Gli appelli e il digiuno di Lanza del Vasto ebbero eco sulla stampa cattolica114 e si trovarono in coincidenza con una serie di avvenimenti (pubblicazione di libri e di articoli, inchiesta governativa, moltiplicazioni di azioni individuali di resistenza, nascita di comitati spontanei) che portarono la guerra d’Algeria all’attenzione dell’opinione pubblica. Anche l’assemblea dei vescovi francesi e il Consiglio della Federazione della Chiese protestanti presero la parola denunciando le atrocità che si commettevano in Algeria, mentre mons. Duval continuava la sua azione di tutela dei diritti dei prigionieri e di condanna della tortura rivolgendosi e incontrando direttamente le massime autorità dello Stato francese le quali non nascondevano l’insofferenza per la posizione e gli interventi del vescovo di Algeri115. Ciò che appare sconcertante, in questo quadro di impegno, è la complessiva assenza della sinistra francese ufficiale la quale, per mezzo del Partito Comunista Francese, arrivò a condannare l’opposizione alla guerra sostenendo che il soldato comunista partecipa comunque alla guerra per essere con le masse. Ma soprattutto i giorni del digiuno furono contrassegnati da riconoscimenti e attenzioni che videro cattolici e protestanti partecipi in ugual misura, e gli stessi capi algerini mostrarono di aver ben compreso il carattere sacro dell’appello. Fra tutte le adesioni quella più significativa fu certo quella di Albert Camus116, cioè di colui che da sempre in Francia aveva denunciato i gravissimi pericoli dell’oppressione degli algerini rivendicandone autonomia e libertà, senza però cedere alle scorciatoie della violenza e del terrorismo praticate dal FLN117 e condannando ad un tempo, senza condizioni, le rappresaglie francesi e la giustificazione della tortura118.
L’azione sui fatti della guerra d’Algeria continuò nell’estate del 1959 con le manifestazioni contro i campi di concentramento, detti “campi di assegnazione a residenza sorvegliata” che avevano cominciato ad operare nell’autunno dell’anno precedente, dove venivano reclusi gli algerini considerati sospetti, campi sempre più diffusi in Francia e che riaccendevano la memoria di quei campi installati sotto la non remota stagione dell’occupazione tedesca. L’assegnazione a residenza obbligata, proprio essendo una misura strettamente amministrativa, non prevedeva le tutele del codice di diritto penale come per esempio la presenza di un avvocato o la richiesta di una visita medica. E ciò permise di fatto in numerosi casi di designare tali residenze coatte nei locali dove la polizia poteva per più giorni interrogare e torturare coloro che erano assegnati a tempo indeterminato a residenza119.
L’iniziativa, promossa dal professore di filosofia Jo Pyrronet, fu quella di recarsi all’ingresso del campo dell’altipiano di Larzac presentando se stessi come soggetti sospetti e quindi degni di reclusione. All’osservazione garbata del direttore del campo che informava i volontari alla reclusione che l’internamento poteva avvenire esclusivamente dietro ordine del Ministero essi desistettero, momentaneamente, dall’azione e inviarono una lettera al Ministro dell’Interno. In essa denunciarono:
«il fatto che migliaia di semplici sospetti siano rinchiusi in questi campi per misura “amministrativa” toglie ogni piacere e ogni significato alla nostra libertà. E per questo, per prendere la nostra parte dell’ingiustizia che viene perpetrata nei confronti dei nostri fratelli algerini […] ci sentiamo obbligati a sollecitare alla sua grande benevolenza il nostro internamento volontario in questo campo o in qualsiasi altro campo o prigione che Lei vorrà designare. In effetti vogliamo essere considerati anche noi dei sospetti degni di figurare su una lista nera e ci mettiamo a disposizione per riempire i posti ancora vuoti nei campi. Poco ci importa di essere da un lato del filo spinato oppure dall’altro, se la nostra libertà deve essere al prezzo di quella dei nostri fratelli»120.
Forti di questa richiesta che voleva ottenere il “diritto alla prigione”, i volontari si organizzarono per altre missioni più impegnative e spettacolari. Infatti, dopo avere compiuto quella del campo di Le Thol (Ain), essi puntarono direttamente a Parigi. E lì, nella capitale, la strategia nonviolenta li condusse fino al tentativo di essere ricevuti dal Ministro il quale non aveva risposto alla loro lettera, né aveva esaudito la loro richiesta di diventare prigionieri al fianco degli algerini. Il ripetersi dei tentativi di essere ammessi come reclusi al campo parigino di smistamento di Vincennes, accrebbe progressivamente il numero dei partecipanti. Essi arrivarono ad alcune migliaia e innalzavano cartelli con la scritta “Siamo tutti sospetti. Metteteci in residenza”. Tra di loro, come scriveva Lanza del Vasto: «accademici, membri dell’Istituto, preti, pastori e monaci, scrittori celebri, personaggi altamente decorati che mai avrebbero pensato di scendere un giorno in piazza […]. Era un piacere vedere quei gran signori, a braccia e gambe allargate, volare per aria mentre li lanciavano nei furgoni della polizia»121. L’azione nonviolenta appariva quindi in grado, come osservava Jean-Marie Domenach, di fondere in una protesta unica persone provenienti da orizzonti e spiritualità molto diverse, ma che non si limitavano a sostenere soltanto una propria idea, poiché affermavano la propria corresponsabilità accettando di condividere la sorte dei sospetti e dei torturati122.
E in tutto questo impegno all’azione nonviolenta non venne mai meno la considerazione del rifiuto sistematico della violenza da qualsiasi parte provenisse. Anche quando il prefetto Papon volle condurre i fermati della manifestazione davanti al tumulo di un agente ucciso da un algerino: «Nessuna predilezione – scrive Lanza del Vasto – per un assassinio che si nomina attentato o per un altro che si definisce repressione, oppure guerra, oppure giustizia, oppure pacificazione»123.
Proprio per questo la campagna nonviolenta proseguì scegliendo di affiancare la vita quotidiana di quegli algerini che vivevano in una delle tante bidonville dell’immensa periferia parigina. Erano loro che subivano le perquisizioni quasi quotidiane della polizia, le angherie e le violenze. Ed erano loro a poter divenire in qualsiasi momento gli ospiti dei “campi di residenza sorvegliata”. Bastava non avere una busta paga per essere considerato disoccupato e in quanto disoccupato essere definito sospetto e quindi essere avviato all’internamento amministrativo. La presenza dei volontari servì da deterrente nei confronti delle forze dell’ordine, ma soprattutto si pose l’obiettivo di denunciare agli stessi algerini come le forme di terrorismo potevano essere molto controproducenti per la loro causa e come lo spargimento di sangue potesse soltanto chiamare altro sangue. L’impegno per il digiuno e la condivisione fraterna riuscirono ad abbattere molte barriere di prevenzione e di sospetto mostrando come la nonviolenza non fosse un velleitario intento per idealisti collocati fuori dal mondo, ma una pratica coerente che si avvale di rinunce, di silenzi, di riconoscimento dei conflitti e di confronto col desiderio poiché: «Gli oggetti del desiderio, bisogna attraversarli, bisogna passarci attraverso con lo sguardo senza deporvi sopra il cuore, senza legarsi ad essi e disperdere dei pezzi di sé»124.
4. Il sostegno della Pacem in terris
Il protrarsi della guerra e la necessità sempre maggiore di soldati da impiegare in Algeria finirono per coinvolgere sempre più numerosi francesi. Intanto le notizie sulla repressione e i delitti commessi dall’esercito erano oggetto di informazione e di dibattito nel Paese, nonostante il Governo continuasse a negare l’uso sistematico della tortura e le devastazioni totali dei villaggi algerini. Scriveva Lanza del Vasto nel gennaio del 1960 in occasione del dodicesimo anniversario della morte di Gandhi:
«Ecco qui oggi la Francia messa nel pantano di una guerra coloniale che è durata molto più a lungo e fa molte più vittime di quante ne abbia fatte nella stessa Francia la II guerra mondiale. Guerra di repressione, di rastrellamenti, di massacri, di razzie, di sparizioni, di torture, di processi truccati, di propaganda menzognera, di campi di concentramento che ci impediscono di dimenticare coloro di cui abbiamo impiccato i carcerieri, e tutto ciò è coperto da discorsi umanitari, da offerte di pace alle quali si aggiunge il rifiuto di riconoscere colui al quale si offre questa pace e il rifiuto di riconoscerne il diritto di discuterne su terreno neutro»125.
Lanza del Vasto tornerà più volte in quell’anno a denunciare sia i metodi della pacificazione, sia la strategia della politica francese che dopo aver dichiarato la disponibilità a favorire l’autodeterminazione algerina ritardava volutamente – con mille artifici ed equivoci – qualsiasi accordo di pace. A quella dissennata politica governativa che attraverso false negoziazioni non voleva riconoscere né un governo provvisorio algerino, considerandolo illegittimo, né la possibilità di consultazioni elettorali, Lanza del Vasto ricordava la grave responsabilità di guadagnare tempo quando: «Il tempo equivale a sangue. E del sangue perduto»126.
È in questo clima che si fanno sempre più numerosi i casi di obiezione di coscienza o comunque di rifiuto specifico a partecipare alla guerra algerina. Anche su questo tema particolare il mondo cattolico francese non assunse una posizione univoca. E se alcune riviste di ispirazione cristiana, prima fra tutte Témoignage Chrétien, continuarono la propria azione di sostegno all’opposizione alla guerra non mancò chi, come mons. Jean Rodhain, cappellano generale delle carceri francesi e segretario del Secour Catholique, riaffermò l’inconciliabilità tra la professione cristiana e l’obiezione di coscienza127.
A partire da questa situazione prese avvio l’iniziativa di solidarizzare con quanti facevano obiezione di coscienza alla coscrizione per la guerra di Algeria. La strategia elaborata prevedeva che l’obiettore manifestasse apertamente ai vertici militari, a mezzo lettera, la propria decisione, quindi si poneva con altri volontari al servizio della causa dei poveri in cantieri di lavoro tra le baracche dei lavoratori africani, non senza aver dato indicazione di dove poteva essere reperito. Quando la gendarmeria si recava a cercarlo i compagni di lavoro garantivano che egli si sarebbe certamente presentato l’indomani. E questo avveniva davvero, ma non in caserma bensì in una piazza nell’ora di maggior affollamento e insieme ai compagni di lavoro. E tutto il gruppo all’arrivo dei gendarmi dichiarava di essere il coscritto, costringendo le forze dell’ordine a dovere arrestarli tutti e ad aprire una lunga indagine per stabilire la loro reale identità personale. Una lotta che ebbe come risultato straordinario e finale il riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza128, ma che fu soprattutto una fonte inesauribile di formazione per gli stessi partecipanti, poiché come sosteneva Lanza del Vasto:
«La rivoluzione nonviolenta, la sola tra tutte, ha un valore educativo per coloro che vi partecipano. Non puoi condurre un movimento nonviolento senza che i volontari cambino vita e cambino in meglio. E durante tutta la campagna nonviolenta, nelle manifestazioni, nei processi, nelle prigioni, agirà un lavoro interiore – l’esperienza degli ultimi tre anni è stata favolosa da questo punto di vista. Quante celle di prigione sono stati dei focolai di letture bibliche, di preghiere e di canti – Laddove i volontari si trovano mescolati ad altri prigionieri - i ladri, gli scrocconi, le piccole canaglie - essi domandavano: Che cosa fate? Che cosa volete? Chi siete voi? Di che si tratta? Ed erano spinti a parlare e a presentare un’altra visione della vita»129.
Contemporaneamente a quest’azione si accrebbe il costante impegno contro la ricerca nucleare, la bomba atomica, le conseguenze della guerra fredda e lo spettro sempre più concreto della guerra totale. Proprio contro la logica della corsa agli armamenti Lanza del Vasto realizzò, con i compagni dell’Arca e altri amici, una incursione pacifica nella fabbrica di Marcoule dove si stava realizzando la bomba atomica francese130.
Ed è in considerazione di questo cammino di impegno civile - avviato nel 1957 e non più interrotto anche dopo la tregua e gli accodi di Evian (18 marzo 1962) e il referendum che stabiliva l’indipendenza algerina (1 luglio 1962) - che Lanza del Vasto indirizzò, il 4 marzo del 1963, una lettera a Giovanni XXIII. Egli era giunto a Roma per fare penitenza in onore del Concilio e si apprestava ad un digiuno di quaranta giorni nel monastero cistercense delle Frattocchie. La lettera era un accorato appello al pontefice che era ormai in procinto di promulgare l’enciclica Pacem in terris sulla quale cresceva l’attesa nel mondo e che, da indiscrezioni, sembrava poter imprimere un carattere innovativo alla teologia cristiana della pace. Lanza del Vasto chiedeva che il Concilio si impegnasse con una parola chiara e definitiva non solo sulla guerra, ma anche sulla sua preparazione. Formalizzando, così, una denuncia di quel principio della deterrenza che aveva avviato in quegli anni la moltiplicazione senza fine degli arsenali. Quella logica, poggiando sulla reciproca paura131, era in grado di moltiplicare all’infinito l’accumulo di armamenti. E proprio riferendosi ad essa che Lanza del Vasto aveva affermato a suo tempo:
«cosa di più ragionevole che dotarsi da una parte e dall’altra di “armi di dissuasione”, come dicono nel loro linguaggio mellifluo all’eccesso i nostri strateghi e i nostri politici? Parlano anche di equilibrio del terrore e su questo fondano la nostra sicurezza. […]. È “l’equilibrio del terrore” che costituisce l’ultima possibilità di pace, non è vero? Ma parlare di equilibrio del terrore è come evocare la rotondezza del quadrato o il biancore del nero»132.
Ma la giustificazione degli armamenti poggiava direttamente sulla teoria della guerra giusta che ancora pretendeva una giustificazione teologica nonostante ormai la guerra si presentasse come guerra totale. E Lanza del Vasto non solo aveva avuto facile gioco nel mostrare il ridicolo di quei teologi che osservano come «in San Tommaso non si trova nessun argomento che si opponga all’armamento nucleare»133, ma aveva anche ridimensionato la legittima difesa - elemento costitutivo della teoria della guerra giusta – riducendolo alla semplice “difesa naturale”134.
Il principio ispiratore di tutta la lettera ritorna nel costante riferimento alla resistenza spirituale come elemento fondante della nonviolenza. Essa «consiste nell’opporre al male non un male della stessa natura e di segno opposto, bensì un bene eguale e appropriato»135. E con queste affermazioni Lanza del Vasto dimostrava di aver portato alle estreme conseguenze la lezione di Gandhi secondo il quale la natura dei mezzi deve coincidere con quella dei fini se si vuole realizzare la pace.
«Se il fine è buono anche i mezzi per raggiungerlo devono esserlo. Non si è mai visto un albero di fichi produrre il frutto dei rovi. Parimenti i fini e i mezzi sono legati l’uno all’altro come la pianta al seme. E se voi utilizzate dei mezzi cattivi per ottenere uno scopo buono allora vi ritroverete, con stupore, nelle conclusioni il male che avete introdotto nelle premesse. Se per rispondere al bugiardo mento a mia volta, se per oppormi all’assassino io ammazzo come lui, alla fine ne risultano due bugiardi e due assassini. Due menzogne non fanno una verità, né due crimini la giustizia. Ed è così attraverso il matrimonio della giustizia con la violenza che si propaga in questo mondo la catena del male. Se per liberarmi di un tiranno io mi procuro un capo sanguinario e astuto più del tiranno, avrò, il giorno della vittoria, quel capo là per tiranno. Le battaglie e le imboscate non sono il più breve cammino verso la pace, né gli assassinii verso la liberazione»136.
La risposta a queste aspirazioni di pace e di nonviolenza arrivò il Mercoledì Santo quando fu consegnata a Chanterelle, moglie di Lanza del Vasto, copia dell’enciclica che sarebbe stata pubblicata il giorno dopo. E il Venerdì Santo Giovanni XXIII fece pervenire un dono e un messaggio particolare per gli sposi Lanza del Vasto. Ma il dono più grande erano le affermazioni della Pacem in terris che corrispondevano alle attese e alle azioni intraprese da Lanza del Vasto fino a quel momento. Non solo, infatti, vi era formulata una condanna assoluta e incondizionata della guerra, «alienum est a ratione»137, e vi si rifiutava la giustificazione della deterrenza, ma si affermava in modo diffuso, attraverso questa opposizione alle logiche bellicistiche il primato della pace e il definitivo superamento della teoria della guerra giusta138. Erano questi elementi che offrivano un’autorevole conferma all’azione compiuta da Lanza del Vasto e dai compagni dell’Arca nell’affermare la legittimità del principio della disubbidienza civile e del primato della coscienza139.
Era questo primato che aveva animato, appena pochi anni prima, l’impegno per la questione algerina come azione esemplare di resistenza nonviolenta attiva e come impegno per abbattere l’ingiustizia diventando vittime volontarie140, e che trovava una conferma nelle parole dell’anziano pontefice che della pace nella verità e nella giustizia, come pace dei cuori, pace sociale e pace internazionale aveva fatto il centro di tutta la propria esistenza e testimonianza di fede. Proprio partendo da questo Lanza del Vasto, commentando l’attesa enciclica, poteva scrivere: «La non-violenza, o la rivoluzione dei convertiti, non rifiuta e non impone nessuna struttura, ma agisce su tutte le strutture risalendo controcorrente in silenzio il corso della Storia»141.
1 J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma 2001.
2 G. Lanza del Vasto, «Les quatre piliers de la paix selon l’enciclique du pape Jean XXIII», in Les Quatre Piliers de la paix, Edition du Rocher, Monaco 1992, 170.
3 R. Gutman - D. Rieff, Crimini di guerra. Quello che tutti dovrebbero sapere, Contrasto internazionale, Roma 2000.
4 Cf al riguardo lo studio complessivo di A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992.
5 «Il manifesto attaccava con violenza e con minuziosa precisione la passata politica francese in Algeria e l’intero sistema della colonizzazione; respingeva la colonizzazione e chiedeva una colonizzazione a parte per l’Algeria, la parità dei diritti politici indipendentemente da discriminazioni razziali e religiose, una riforma agraria su larga scala e provvidenze di natura sociale, il riconoscimento dell’arabo come lingua ufficiale accanto al francese, libertà di stampa, il diritto di costituire partiti politici e associazioni sindacali, e infine l’istruzione gratuita ed obbligatoria» (G. Mansell, La tragedia d’Algeria, Edizioni di Comunità, Milano 1961, 81).
6 G. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente. Dalla guerra di liberazione al fondamentalismo islamico, Bompiani, Milano 1998, 94.
7 Citato in G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, L’Harmattan, Paris 1987, 63.
8 Lo dimostrava in modo diffuso la prima edizione di un volume pubblicato appena dopo l’inizio della guerra d’Algeria: C. e F. Jeanson, Algeria fuorilegge, Feltrinelli, Milano 1956.
9 «Coloro che parlano ancora della Integrazione dell’Algeria o non sanno ciò che dicono oppure sanno benissimo che essi mentono, come si è fatto da sempre, e che la parola integrazione non è che un altro modo di nominare l’Annessione. […] – l’integrazione avrebbe dovuto significare gli stessi salari, le stesse indennità di disoccupazione, la stessa percentuale di bambini a scuola (c’è ne sono adesso uno per dieci), la stessa assistenza medica (in questo momento ci sono nell’entroterra meno di dieci dottori per centomila abitanti), la stessa libertà di movimento da una provincia all’altra, lo stesso livello di educazione civica, la stessa libertà di campagna elettorale e lo stesso controllo degli scrutini […]. Un quarto dei seggi del parlamento francese sarebbe occupato da degli africani, […], che nulla impedirebbe ad un Arabo d’Algeria di essere generale, o capo dell’esercito francese o presidente della Repubblica» (G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 85-88).
10 F. Abbas, Guerra e rivoluzione in Algeria. Dentro la notte del colonialismo, Vallecchi, Firenze 1963, 87.
11 Cf P. Vittorelli, «Le cause della rivolta in Algeria», in Comunità 11 (1957/7) in particolare 24-30. «Nella popolazione francese si assiste a spettacoli di sfacciato sfoggio di ricchezze, come quello offerto dal sen. Borgeaud, il quale radunò i suoi amici, alcuni anni fa, per festeggiare il suo quinto miliardo di franchi, mentre pagava 20 franchi all’ora i suoi braccianti indigeni» (Ib., 28).
12 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 16. E ancora riportando le parole di un soldato scriverà: «Adesso si faranno votare anche i morti. I fucilati del giorno prima avranno tutti la loro scheda elettorale nell’urna» (Ib., 67).
13 «Un milione di morti ha assunto nel tempo quasi un valore simbolico, tuttavia non dovrebbe essere una cifra molto lontana dalla realtà se in essa si comprendono i “dispersi”, le vittime dei regolamenti dei conti e delle deportazioni della popolazione algerina» (cf G. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., 129).
14 Cf J. Kermoal, La legione straniera, Edizioni di Comunità, Milano 1962.
15 «I membri delle SS che non possono rientrare in Germania, o nemmeno in Europa, scoprono che nella Legione scarseggiano i sottufficiali. Così cambian gavetta senza cambiar bandiera: o meglio senza cambiare metodo. Dopo i villaggi sovietici e francesi, anche i villaggi dell’Indocina assaggiano il pugno di ferro delle vecchie Schutz-Staffell hitleriane. Anche il Vietnam avrà la sua Oradour, avrà le sue Fosse Ardeatine, i sui campi di concentramento: il più celebre, nell’isola di Poulo Condor, non avrà nulla da invidiare a Mauthausen o a Dachau. Le guardie di Poulo Condor son legionari, od ex legionari. Legionari son questi che incendiano le capanne nella macchia. Legionario è il tenente di Nia Trag, al paese di Moi: ebbe l’idea di sostituire alle pietre miliari teste di donne e di bambini vietnamesi piantate in cima alle picche» (Ib., 11).
16 H. Keramane, La pacificazione. Libro nero di sei anni di guerra in Algeria, Feltrinelli, Milano 1960, 56.
17 «Sarebbe troppa fortuna, se questi delitti fossero l’opera di un pugno di pazzi. In verità è la tortura, che fa i carnefici» (J.-P. Sartre, «Introduzione» a H. Alleg, La tortura, Einaudi, Torino 1958, 12).
18 P. Vidal-Naquet, Lo Stato di tortura, Laterza, Bari 1963, 88.
19 «Ci sono torture che chiamiamo classiche: privazioni di cibo con porzioni ridotte a trenta grammi di riso al giorno, colpi di giunco sulle caviglie, sulla pianta del piede, tenaglie applicate sulle tempie per far saltare gli occhi fuori dalle orbite, pali al quale il paziente è sospeso con le braccia a pochi centimetri dal suolo, imbuto da petrolio, pressa di legno, spilli sotto le unghie, privazioni d’acqua, particolarmente dolorose per i torturati che scottano per la febbre. […]. Ma ci sono torture più moderne. La tortura con l’elettricità.» (A. Ruscio, «Dal Tonchino ad Algeri, le violenze dimenticate», in Le Monde diplomatique, giugno 2001).
20 H. Keramane, La pacificazione, cit., 11-17. «Prendono un uomo e lo seppelliscono vivo. Oppure lo legano ad un pneumatico d’autocarro. Si! Lo legano ad un pneumatico, lo tirano su con una corda e una carrucola e poi lo lasciano cadere a terra, sul cemento. […]. Senza il pneumatico l’uomo morirebbe subito, invece con quel trucco riescono a ripetere la tortura molte volte» (D. Darbois - F. Vigneau, Gli algerini in guerra, Feltrinelli, Milano 1961, IX), quest’ultima torura richiama alla mente quella del tondolo o del tirello particolarmente diffuse nel medioevo.
21 «“Mi chiamo Mustafà. Ho nove anni. Mio padre è morto, l’hanno ammazzato i soldati. Anche mia madre l’hanno ammazzata i soldati. Io li ho visti, è stato in un rastrellamento. Io ho cercato di scappare. Allora i soldati mi sono corsi dietro e mi hanno preso. C’era un fornello a petrolio, un fornello acceso. Mi han messo il braccio sul fornello e ce l’han tenuto su fin che è bruciato”. Ora Mustafà scrive con la sinistra» (D. Darbois - F. Vigneau, Gli algerini in guerra, cit., Milano 1961, s.p.).
22 Cf Amnesty International, Non sopportiamo la tortura, Rizzoli, Milano 2001.
23 S. De Beauvoir - G. Halimi, I carnefici, Editori Riuniti, Roma 1962, 9.
24 F. Gambaro, «Stupri di massa in Algeria», in La Repubblica, 14 ottobre 2001.
25 Tra le tante testimonianze dirette il lettore italiano ebbe a disposizione, a guerra appena finita, il ponderoso volume di P. Kessel – G. Pirelli (edd.), Lettere della Rivoluzione algerina, Einaudi, Torino 1963, 1-793.
26 Si cf tra gli altri l’inoppugnabile rapporto fotografico: Algeria torturata. Algérie torturée (Lerici, Milano 1961).
27 Muriel ou le temps d’un retour di Alain Resnais (1963).
28 La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966). Nonostante il riconoscimento del Leone d’Oro a Venezia in Francia ne fu vietata la proiezione.
29 L. Ighilahriz, Torturée par l’armée française, Fayard, Paris 2001.
30 R. Branche, La torture et l’armée pendant la guerre d’Algerie 1954-1962, Gallimard, Paris 2001.
31 «Collegati ad una storia collettiva in costruzione questi multipli racconti individuali possono dire la complessità dell’obbedienza in un contesto coloniale di “operazioni di mantenimento dell’ordine” divenute guerra. Occorre riflettere con intensità su questa articolazione dell’individuale e del collettivo poiché tale legame è al cuore della tortura e dei crimini provocati dall’obbedienza. Per chiarire questo nesso non tutto può essere ascritto alla struttura dell’ordine e alla coercizione, tuttavia non tutto può essere spiegato con le inclinazioni individuali. Questa conoscenza delle modalità della violenza esercitata permetterà forse un’altra storia, per gli individui come anche per le società. I modi di presentare le responsabilità, nel contesto privato come in quello pubblico, sono ancora tutti da inventare» (Ib., 435).
32 Sarà, infatti, soltanto la legge 99-882 del 18 ottobre 1999 che imporrà la sostituzione nei documenti ufficiali dell’espressione “aux opérations effectuées en Afrique du Nord” con quella “à la guerre d’Algérie ou aux combats en Tunisie et au Maroc”. Tuttavia si tratta di una legge fortemente voluta dagli ex-combattenti per ottenere riconoscimenti e benefici.
33 J. Roy, La guerra d’Algeria, Lerici, Milano 1961, 79. Sulla scarsa percezione in Francia di quanto stava accadendo in Algeria nei primi anni di guerra si consideri un frammento di una lettera di un tenente francese che, rispondendo ad un amico, scriveva: «Tu mi chiedi se io mi diverto quaggiù. Queste parole mi fanno credere che in Francia non c’è una sola persona che conosca la vita di qui» (R. Uboldi, Servizio proibito, Einaudi, Torino 1958, 88). Scriverà Lanza del Vasto: «Nonostante che questa guerra duri da tre anni e che circa un milione di francesi abbiano preso parte a questa guerra di cui diverse migliaia sono morti, nonostante tutto ciò si continua a negare la guerra per la buona ragione che il primo passo è stato di cominciare a negare il nemico. In effetti come può una nazione fare una guerra ad una nazione che non esiste?» (G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 1987, 17).
34 «È stato spesso detto, e scritto, in merito alla guerra di Algeria che essa è stata una “guerra senza nome, una guerra che non voleva pronunciare il proprio nome”. Essa ha in effetti preso successivamente le denominazioni rassicuranti di “avvenimenti” dopo l’inizio delle azioni armate del FLN nel novembre del 1954; “di operazione di polizia” sino all’insurrezione contadina del 20 agosto 1955 nel Nord-Costantinois; di azioni di “mantenimento dell’ordine” dopo il voto dei poteri speciali in Algeria nel marzo 1956, voto che rese normale l’invio dei contingenti militari in Algeria; “operazioni per ristabilire la pace tra i civili” nella terribile battaglia di Algeri nel corso dell’anno 1957; e “azione di pacificazione”, sempre nel corso degli anni che condussero all’indipendenza algerina. Non ci fu mai alcuna traccia della guerra nei titoli dei cinegiornali presentati al cinema. Tutta al più si faceva riferimento “al dramma algerino”» (B. Stora, La gangrène et l’oubli. La mémoire de la guerre d’Algérie, La Découverte, Paris 1991, 13).
35 Scriverà alla famiglia la giovane recluta Jean Muller davanti all’orrore delle torture e delle esecuzioni sommarie dei primi mesi di guerra: «Le parole “pacificazione” e “ristabilimento della fiducia reciproca” sono fatte per i manuali di storia» (H. Keramane, cit., 176).
36 Cf R. Branche, cit, 72-76.
37 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 13.
38 «Al popolo arabo, sradicato dalla sua storia precedente, senza prospettive per il futuro, immobilizzato in un presente eterno, non resta che scegliere tra il silenzio e la violenza. […] Il popolo arabo si è espresso come ha potuto: la dozzina di insurrezioni che segnano i cento anni di colonizzazione dimostrano che aveva qualcosa da dire. Ma non è stato ascoltato. Non gli hanno nemmeno rivolto la parola. Oggi, per ritardare ogni riforma, l’argomento principe consiste nel lamentare la mancanza di interlocutori. Se non ci sono, in realtà è perché sono stati soppressi» (A. Camus, La rivolta libertaria, Eleuthera, Milano 1998, 170-171. Questo volume antologico comprende alcuni articoli contenuti nella raccolta A. Camus, Actuelles III. Chroniques algériennes, 1939-1958, Gallimard, Paris 1958).
39 A. Camus, «Lettera ad un soldato algerino», in W. Mauro, La Resistenza nella letteratura francese dalla II guerra mondiale all’Algeria, Canesi, Roma 1961, 274-275.
40 Cf T. Argiolas, La guerriglia: storia e dottrina, Sansoni, Firenze 1967, 163.
41 La Rivoluzione algerina. Problemi, aspetti e testimonianze della lotta per l’indipendenza, Feltrinelli, Milano 1959, 15.
42 Cf F. Fanon, Sociologia della rivoluzione algerina, Einaudi, Torino 1963, 26-27.
43 F. Abbas, Guerra e rivoluzione in Algeria. Dentro la notte del colonialismo, Vallecchi, Firenze 1963, 20.
44 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 23. È oggi sempre più evidente la duplice funzione degli eserciti impegnati nelle guerre contemporanee: l’essere ad un tempo aguzzini e benefattori delle proprie vittime, offrire soccorsi umanitari alle popolazioni e utilizzare contro le stesse armi micidiali.
45 Cf J. Fauvet – J. Planchais, La rivolta dei generali, Area, Milano 1962; P. Henissart, OAS. L’ultimo anno dell’Algeria francese, Garzanti, Milano 1970.
46 Aveva osservato in precedenza Lanza del Vasto: «Di duecento fellaghas uccisi diremo che sono stati “abbattuti”, cioè che abbiamo a che fare con delle bestie. […]. L’abuso verbale detta una linea di condotta precisa che sfocia direttamente nell’atrocità» (Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 20).
47 P. Vidal-Naquet, Lo Stato di tortura, cit., 190.
48 Cf le giustificazioni addotte al riguardo da G.A. Kelly, Soldati perduti. La crisi dell’Esercito e dell’Impero coloniale francese 1947-1962, Sansoni, Firenze 1966, 245-246.
49 «Finché non sarà posto come principio il fatto che la tortura non è una “deriva”, una casualità della guerra (una guerra riconosciuta in quanto tale solo da due anni), ma l’esito di una forma genealogicamente determinata, la forma di dominio imposta dalla Francia all’Algeria, continueremo ad interrogarci, generazione dopo generazione, con lo stesso stupore. E, ogni volta, ci scontreremo con lo stesso ostacolo: ammettere che la tortura procede dal fatto coloniale significa spalancare l’abisso del nostro inconscio e far implodere il mito repubblicano che lo ha supportato» (P. Blanchard - S. Lemaire - N. Bancel, «Una storia rimossa», in Le Monde diplomatique, giugno 2001).
50 O. Le Cour Grandmaison, «Quando Tocqueville legittimava i massacri», in Le Monde diplomatique, giugno 2001.
51 «In Francia ho sempre sentito uomini che rispetto, ma che non approvo, trovare riprovevole che si brucino i raccolti, che si svuotino i silos e, infine, che ci si impadronisca degli uomini inermi, delle donne, dei bambini. Queste secondo me, sono necessità sgradevoli, ma cui ogni popolo che voglia fare la guerra agli arabi sarà costretto a sottomettersi» (A. de Tocqueville, Scritti, note e discorsi politici 1839-1852, Bollati Boringhieri, Torino 1994, 364).
52 B. Stora, La gangrène et l’oubli. La mémoire de la guerre d’Algérie, cit.
53 Cf C. Liauzu, «Le pagine strappate della guerra di Algeria», in Le Monde diplomatique febbraio 1999. Il 17 ottobre 1961 la polizia parigina, guidata dal famigerato prefetto di polizia di Parigi Maurice Papon – che sarebbe stato condannato nel 1998 per essere stato complice della deportazione degli ebrei di Bordeaux, arrestò 15000 manifestanti che protestavano contro il coprifuoco selettivo che proibiva agli algerini la circolazione dalle 20,30 alle 5,30. Circa duecento furono uccisi, di molti non si seppe più nulla e i cadaveri o non furono mai ritrovati oppure quelli restituiti dalla Senna furono fatti scomparire. Ma le indagini sugli avvenimenti furono totalmente insabbiate e oggi negli archivi della Prefettura di polizia è scomparsa buona parte della documentazione necessaria per identificare i gendarmi responsabili dei delitti e le loro vittime (Cf J.-L. Einaudi, La Bataille de Paris, Le Seuil, Paris 1991).
54 Nell’anniversario dei quarant’anni è stato pubblicato un pregevole volume (Le 17 octobre 1961. Un crime d’etat dans le Paris de la guerre d’Algerie, La dispute, Paris 2001) che raccoglie le toccanti testimonianze dei protagonisti dell’epoca, i contributi dei principali studiosi di quei fatti e i più importanti documenti e interventi che hanno cercato di rompere l’oblio in questi anni.
55 F. Fanon ha mirabilmente ricostruito alcuni dei colloqui terapeutici avuti negli anni della guerra con i torturatori che manifestavano disturbi psichici, fra tutti appare tragicamente esemplare quello con il trentenne ispettore di polizia che importa il proprio lavoro di torturatore perfino a casa contro figli e moglie. Scrive Fanon: «Poiché non si proponeva di desistere dal torturare (allora avrebbe dovuto dimettersi), mi chiedeva senza ambagi di aiutarlo a torturare i patrioti algerini senza rimorsi di coscienza, senza disturbi di comportamento, con serenità» (I dannati della terra, Einaudi, Torino 19725, 202).
56 Cf F. Jeanson, «Disertare per servire», in La Resistenza nella letteratura francese dalla II guerra mondiale all’Algeria, cit., 346ss.
57 «Non ci sono fiori per la loro partenza, né feste per il loro ritorno. Nessuno attende da loro vittoria o liberazione. L’epopea, la lirica, la stessa retorica ufficiale sono morte. Coloro che ritornano resteranno così marcati dalle cose viste o commesse» (G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit. 56).
58 Id., Che cos’è la non violenza, Jaca Book, Milano 1978, 118.
59 P. Aussaresses, Services Spéciaux. Algérie 1955-1957, Perrin, Paris 2001.
60 La sequenza interminabile di denunce di scomparsa, in realtà veri e propri omicidi, è contenuta nei due “Libri verdi” raccolti nel volume Gli scomparsi d’Algeria, La Nuova Italia, Firenze 1961. Ma già Lanza del Vasto ne parlava, nel 1957, come un dato acquisito (Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 26ss).
61 Cf P. Kessel - G. Pirelli (edd.), cit., 182-185.
62 Scriverà Lanza del Vasto al generale: «Tutta la gloria e le decorazioni raccolte su tanti campi di battaglia non valgono, ai nostri occhi, quanto il coraggio di aver saputo rifiutare obbedienza ad ordini imbecilli ed empi» (G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 59).
63 Affermava il generale Bilolotte: «Per la tortura, il mio atteggiamento è categorico: in qualunque forma e per qualunque scopo è inaccettabile, inammissibile, condannabile; essa ferisce l’onore dell’esercito e del paese. Il carattere ideologico delle guerre moderne non cambia nulla in proposito; al contrario, nei conflitti di questa natura, alla lunga la vittoria deve andare all’ideologia più elevata; uno dei mezzi più efficaci di vittoria, più efficace perché va dritto al cuore degli uomini che ci sono temporaneamente ostili, consiste proprio nel massimo rispetto dei valori morali e umani. E la scusa che viene talvolta invocata: che un uomo torturato significhi forse la salvezza di cento dei nostri, non ha valore» (P.-M. De La Gorce, Le armi e il potere. L’esercito francese da Sédan all’Algeria, Il Saggiatore, Milano 1967, 584).
64 J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta. La guerra d’Algeria e gli anticolonialisti francesi 1954-1962, I, Il Saggiatore, Milano 1964, 337.
65 Cf Ib., II, 159-166.
66 Scrive J. Le Meur, giovane insegnante divenuto ufficiale e successivamente obiettore di coscienza: «Lo stato d’animo generale, degli ufficiali e perfino della truppa, è preoccupante al massimo grado per la completa sordità morale che rivela. Si direbbe che tutti coloro che sono travolti in questa guerra, finiscano per giustificare la violenza sistematica, senza limiti né freni. Ci si sforza di spiegarmi l’utilità della tortura, “in certi casi”. […]. Mi si giustifica il massacro dei prigionieri. Razzismo, disprezzo, il più delle volte incomprensione. Non ho ancora sentito un solo partigiano di questa guerra difendere con me il rispetto della persona umana. […]. Quando penso che dei seminaristi, e perfino dei professori e dei medici, hanno azionato le batterie, non posso soffocare uno sdegno angosciato. Come deve essere profonda, la cancrena!» (Ib., II, 173-175).
67 Cf nota 95.
68 Lo stesso professore, insieme con altri colleghi, organizzò, il 2 dicembre del 1957, la discussione della tesi di Audin “in assenza”, nonostante fossero stati vivamente sconsigliati dal ministro dell’Educazione nazionale. Il professor Laurent Schwartz (1915-2002) mantenne negli anni successivi una posizione di totale condanna della guerra d’Algeria denunciando i crimini commessi dalla Francia e sostenendo i giovani che la rifiutavano. A causa di questo impegno fu licenziato dal Politecnico e subì attentati che colpirono in modo irreparabile la sua famiglia. Su questa insigne figura di matematico, fu egli ad elaborare la teoria delle distribuzioni che gli valse nel 1950 la medaglia Fields, membro del Tribunale Russell che si occupò dei crimini di genocidio commessi dall’esercito degli Stati Uniti in Vietnam, cf l’autobiografia Un mathematicien aux prises avant le siecles, Odile Jacob, Paris 1997.
69 Union Générale des Etudiants Musulmans Algériens.
70 J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, II, cit., 28.
71 «Generalmente non furono le “forze organizzate” a lottare con più ardore. Predominante fu piuttosto, sotto molti aspetti, il ruolo di singoli individui e di piccoli gruppi. […]. L’azione dei partiti fu sotto molti aspetti meno importante. Certuni, come il partito socialista e quello radicale, si erano profondamente compromessi nella repressione, sicché ci vollero delle scissioni perché alcuni loro iscritti potessero esprimersi senza remore. Lo stesso partito comunista aveva votato nel 1956 i “poteri speciali”, per non rompere con i socialisti allora al potere. La posizione assunta durante l’insurrezione ungherese e l’appoggio costante dato allo stalinismo rendevano d’altra parte sospette certe sue proteste. Esso aveva, come si dice, e non era il solo “troppi cadaveri nascosti nell’armadio”» (P. Vidal-Naquet, Lo Stato di tortura, cit., 169-170). In proposito cf anche le affermazioni di Lanza del Vasto sulla timidezza e le contraddizioni del partito comunista francese rispetto alla guerra d’Algeria (Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit. 37-38).
72 «L’Algeria ha portato alla luce con il procedere della guerra le forze sane della Francia, ma per anni, fosse per calcolo politico o per l’intossicazione dell’ “Algeria francese”, essa fu piuttosto la riprova di quanto possano essere simili la destra e la sinistra di un parlamento metropolitano di fronte alla realtà coloniale e alle scadenze della decolonizzazione» (G. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., 93).
73 Scrive Lanza del Vasto con grande lungimiranza: «Gli operai francesi potrebbero mettere fine alla guerra d’Algeria in otto giorni con uno sciopero generale, mentre invece lavorano alle forniture di abiti militari e di tutto il necessario per la guerra; loro fanno la guerra in fabbrica come sui campi di battaglia, anche se gridano forte che non la vogliono» (Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit. 37-38).
74 F. Mauriac, «La question», in Express, 15 gennaio 1955.
75 Cf A. Mandouze (ed.), La rivoluzione algerina nei suoi documenti. Le posizioni teoriche, i programmi, gli obiettivi, Einaudi, Torino 1961.
76 Furono queste testimonianze, unitamente a quelle ricordate in precedenza, a spingere Lanza del Vasto nell’azione nonviolenta contro la guerra e la tortura in Algeria, poiché: «se tanti uomini di cuore: cattolici e protestanti, giuristi o militari, personalità politiche o religiose si sono alzati insieme, senza essersi concertati vuol dire che qui c’è il dito di Dio. Questa convinzione ci ha fatto scendere in lizza a nostra volta» (G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 59).
77 Cf R. Orfei, «La questione algerina», in Vita e pensiero 41 (1958) 687-693.
78 «Una delle condizioni essenziali per il ristabilimento di una pace effettiva, è la giustizia sociale. […]. Noi riteniamo che nessuno possa restare insensibile di fronte alla tragica situazione d’una parte notevole della popolazione che soffre la fame e manca delle cose più indispensabili, e questo soprattutto in certe periferie di grandi agglomerati urbani e nelle regioni più depresse dell’Algeria. Come abbiamo avuto occasione di ripetere a più riprese, è urgente provvedere a intensificare la lotta contro la miseria e la disoccupazione, come pure a trovare i rimedi contro l’insicurezza di vita che è propria del proletariato; è necessario lavorare allo scopo di elevare il livello di vita delle popolazioni» (citato in C. e F. Jeanson, Algeria fuorilegge, cit., 208-209).
79 J. Roy, La guerra d’Algeria, cit., 47.
80 Tristemente esemplare al riguardo la trasformazione in cattedrale della moschea di Ketchaoua, una delle più importanti di Algeri (Cf F. Cresti, Iniziativa coloniale e conflitto religioso in Algeria. 1830-1839, Franco Angeli, Milano 47ss.).
81 F. Abbas, Guerra e rivoluzione in Algeria, cit, 74.
82 J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, cit., I, 135-136
83 «Ogni sacerdote ha il diritto e il dovere di portare aiuto e assistenza a malati e feriti, chiunque essi siano: impedirglielo è contro i diritti imprescrittibili dell’umanità. Ogni sacerdote ha il diritto e il dovere di nutrire gli affamati, vestire gli ignudi, esercitare la carità in tutte le sue forme: nessuna ragione di Stato può impedirgli d’essere così il segno della paternità universale di Cristo – quei sacerdoti hanno promosso – un’opera di umanità e di giustizia favorevole al ritorno della pace: protestando senza esitazioni contro i delitti, gli incendi, gli assassini di innocenti perpetrati da una delle parti; protestando con la stessa energia contro le repressioni di massa, le torture, le distruzioni di villaggi provenienti dall’altra; accogliendo tutti gli europei venuti a chiedere assistenza sacerdotale ed umana; accogliendo ugualmente tutti gli arabi venuti ad affidarglisi, e riunendo gli uni e gli altri in una comune preghiera di pace» (Ib., I, 144).
84 Riporta il padre Carteron, nella sua lettera ai preti della diocesi di Lione, l’invito alla missione ricevuto dal cardinale: «Vi sono nella mia diocesi 30.000 mussulmani di cui ho di fatto la responsabilità di fronte a Dio, perché sono i miei ospiti, perché lavorano e abitano nella mia diocesi. Nessuno ci pensa. Vuole assumersi con me, questa responsabilità? Io gliela affido, faccia quel che può! Non abbiamo di fronte a Dio il diritto di “ignorarli”» (Ib., II, 262).
85 Cf P. Vidal-Naquet, Lo Stato di tortura, cit.,128.
86 «La violenza era per mons. Duval “immorale e anticristiana”: “il crimine, chiunque sia l’autore, è un crimine, un oltraggio alla natura umana, un’offesa fatta a Dio”. Il rifiuto di quella che definisce “violenza ingiusta”, anche a prezzo del sacrificio della vita, è proclamato da Duval come prerogativa del cristiano. Nessuna causa, fosse pure riconosciuta giusta, può giustificare mezzi ingiusti. Come afferma nel 1957 in un radiomessaggio: “In nome della fedeltà a Dio, non è consentito in alcuna circostanza, anche per difendere una causa creduta giusta, l’adozione di mezzi vietati da Dio. Questo divieto riguarda tutti gli uomini e non conosce eccezioni. Tutto considerato è meglio morire che essere un criminale. Insomma per Duval “rendere il male per il male, è essere vinti dal male”» (M. Impagliazzo, Duval d’Algeria. Una Chiesa tra Europa e mondo arabo (1946-1988), Studium, Roma 1994, 71).
87 Ib., 70-71.
88 «I cattolici sono sempre più sollecitati ad aderire a gruppi di contro-terrorismo; i dirigenti di questi gruppi non nascondono di non essere rifuggiti, in passato, dall’adottare mezzi ingiusti, come non nascondono che, in avvenire non esiteranno a ricorrere alla violenza per raggiungere i loro scopi; ma ciò che rende più insidiose le loro manovre, e che per sedurre i cattolici, essi osano presentarsi come difensori della civiltà cristiana e perfino, talvolta, insignirsi dei simboli cristiani. Alcuni hanno addirittura preteso che la Santa Sede sia al corrente della loro organizzazione, il che lascia supporre la tacita approvazione di Roma. Mi affretto a chiarire che questa pretesa non ha il benché minimo fondamento» (J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, cit., I, 249).
89 Cf M. Impagliazzo, Duval d’Algeria, cit., 94.
90 Allo stesso cappellano e al famigerato colonnello Trinquier, esperto e attivo torturatore, è attribuita la Nota fatta circolare nell’aprile del 1957 nello stato maggiore della 10ª divisione paracadutisti. In essa si presentava una apologia della tortura negandone l’infamia, affermandone in modo paternalistico la necessità e la bontà e accusando «le belle anime dei cristiani progressisti e il signor Mauriac» di sottolineare di proposito i pochi eccessi compiuti nella repressione (Ib., I, 278).
91 «Da qualunque parte vengano, gli atti di terrorismo, gli oltraggi alla persona umana, la violenza usata per strappare confessioni, le esecuzioni sommarie, le misure di rappresaglia a carico di innocenti, sono condannati da Dio. Neppure per far valere diritti legittimi o assicurare il trionfo di una causa che si ritiene giusta, non è mai consentito il ricorso a mezzi intrinsecamente perversi, il cui impiego, degradando le coscienze, ha il solo risultato certo di far indietreggiare sempre più l’ora della pace» (Ib., II, 100).
92 Per una presentazione complessiva della posizione dei cristiani rispetto alla guerra di Algeria cf F. Bedarida - E. Fouilloux (edd.), La guerre d’Algerie et les chretiens, Institut d’histoire du temps present, Paris 1988.
93 L. Milani, Alla mamma. Lettere 1943-1947, Marietti, Genova 1990, 313.
94 «L’articolo è partito verso Pistelli e Pistelli che me lo aveva insistentemente chiesto ora invece non se la sente di pubblicarlo» (Lettera n. 28, in N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Rizzoli, Milano 1993, 570).
95 L. Milani, Alla mamma, cit., 320.
96 19 maggio 1968.
97 E’ il caso di ricordare i sequestri a cui fu sottoposta in quel periodo, ad opera del ministro dell’Interno M. Bourgès-Maunoury, quella parte della stampa francese (Express, France-Observateur, France-Nouvelle, Témoignage Chrétien) libera e coraggiosa nel denunciare le atrocità compiute in Algeria da polizia ed esercito francese.
98 Di contro bisogna osservare il contributo all’informazione che aveva offerto l’anno prima L’Unità (16-18-20 marzo 1958) pubblicando diffusamente la testimonianza di Henri Alleg, direttore di Alger républicain, torturato nel carcere di El Abierc per settimane dai paracadutisti francesi e sottoposto ad ogni genere di sevizie (tensione elettrica applicata su tutte le parti del corpo, pugni in faccia e nel ventre, bruciature dei capezzoli, travasi di acqua nello stomaco) ispirate, secondo gli stessi torturatori, ai metodi della Gestapo come si può leggere nella sconvolgente testimonianza che egli scrisse descrivendo le torture subite (H. Alleg, La tortura, cit.) ad opera del gruppo di paracadutisti guidato dal tenente Charbonnier.
99 Il libro pubblicato il 16 giugno del 1959 veniva sequestrato due giorni dopo (di esso esiste una traduzione italiana: La Cancrena, Einaudi, Torino 1959). Vi erano contenute le denunce all’autorità giudiziaria di cinque algerini torturati durante un interrogatorio a Parigi nel dicembre del 1958. L’efferatezza delle torture, il fatto che esse fossero avvenute in Francia e il maldestro sequestro colpirono fortemente l’opinione pubblica. Tanto che il primo ministro M. Debré cercò con difficoltà, al Senato, di difendere la legalità del sequestro definendo il libro una raccolta di leggende e fantasticherie. Mentre contemporaneamente, in modo esemplare, P. Ricoeur, nella già citata Assemblée pour la Défense des Droits de l’Homme en Algérie et en France, appellandosi agli insegnanti denunciava un potere che, per palese debolezza, ricorreva alla violenza, al delitto, alle torture e ai sequestri senza motivazioni: «non posso rassegnarmi ad essere un insegnante tranquillo, quando uno dei miei colleghi scompare e alcuni dei miei studenti sono torturati» (J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, II, cit., 30).
100 Si tratta qui della visita compiuta da De Gaulle (presidente dall’8 gennaio 1959 della V Repubblica francese) per le celebrazioni del centenario dell’impegno francese nelle battaglie di Magenta e Solferino (23-24 giugno 1959), visita proseguita poi a Roma con colloqui con il presidente italiano Gronchi. Che l’avvento al potere di De Gaulle non avesse portato alcun risultato concreto rispetto alla questione algerina e all’uso della tortura è testimoniato anche da Lanza del Vasto: «Bisogna riconoscere che dall’instaurazione della V Repubblica, nulla è cambiato in Algeria, anzi è peggiorato. Certi ufficiali di Algeri, organizzatori di complotti e torturatori notissimi ricevono complimenti, medaglie e promozioni di carriera. […]. Si afferma ufficialmente che la tortura ha smesso di esistere mentre dei terribili documenti ci mostrano il contrario. Se se ne parla meno è perché c’è un motivo. Il lavoro (“il lavoro nobilita l’uomo”, “bisogna amare il proprio lavoro”) è affidato a degli specialisti che operano in serie – cosa che chiama più direttamente in causa il comando. Peggio, la tortura oggi non si pratica forse in Francia stessa come le denunce di tre studenti e di qualche altro algerino possono testimoniare? » (Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 66)
101 Milani si riferisce a quanto avvenuto alla Camera dei Deputati nella agitata seduta pomeridiana del 25 giugno 1959 (Atti Parlamentari, III Legislatura, 8503ss.). Il ministro degli Affari Esteri, Pella, in un suo intervento relativo alle previsioni di spesa per il Ministero, aveva ricordato la presenza di De Gaulle in visita in Italia (8514) suscitando le reazioni prima di Nenni e, ancora più dure, di Togliatti: «Oggi è ospite in Italia l’uomo il quale ha soppresso le libertà parlamentari del popolo francese, il quale è responsabile di avere annullato quelle che erano conquiste realizzate attraverso decenni e decenni di lotta per la libertà». Immediata la reazione del presidente della Camera, Leone, che lo invitava: «a rendersi conto che, mentre si ospita un capo di Stato, è opportuno non formulare certi giudizi». Ulteriore precisazione di Togliatti: «rivolgiamo il nostro pensiero a quel popolo algerino che oggi combatte per la sua indipendenza e libertà […] noi auguriamo che le libertà parlamentari del popolo francese possano essere restaurate e che libero e indipendente sia il popolo algerino» (8522). A nome del gruppo democratico cristiano intervenne infine Gui per «protestare contro l’offesa alla nazione amica e contro il metodo incivile di insultarne il capo mentre egli si trova sul suolo del nostro paese» (8523) proteste riprese ancora dal deputato fascista Roberti, da Covelli e dallo stesso Pella (8525-8527).
102 Lettere di Don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, Milano 1975, 119-120.
103 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 22.
104 «La maggioranza ignora queste cose o non può credervi: non ho dubbi che, non appena lo sapranno, tutti i cristiani e tutte le persone oneste si indigneranno al pari di me» scrive Lanza del Vasto (Che cos’è la non violenza, cit., 55) sperando in una reazione collettiva che in realtà non ci fu nei termini da lui previsti.
105 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 94-95.
106 Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 53.
107 «Le atrocità della Gestapo e delle SS che noi abbiamo subito, cominciamo a farle subire ad altri quindici anni dopo» (Ib., 54). Cf anche la testimonianza di Halleg della nota 90.
108 Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 54.
109 Cf Ib., 55.
110 Scriverà una giovane recluta francese ad un amico poco prima di essere uccisa in un agguato in Algeria: «Il fatto è che la gente ci odia. Ma come è possibile, in guerra non odiare?» (R. Uboldi, cit., 88).
111 «Si dirà ancora: sciorinare cose del genere è infangare la bandiera, disonorare il nostro paese. Io rispondo: Quel che infanga e disonora è farle non dirle. E adesso chiunque tace diventa complice del crimine» (G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 54).
112 «Tutti possono chiedere a Dio perdono per i loro fratelli impegnati, con le buone o con le cattive, in questo vile e infame lavoro! Possono gridare loro di smettere» (Ib., 56).
113 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 121.
114 «La stampa cristiana sosterrà i digiunatori […] e sarà ormai sempre così per tutte le lotte nonviolente, gli altri giornali più o meno legati al potere vigente o poco convinti dell’efficacia del metodo (è la prima azione pubblica nonviolenta in Europa) come anche della serietà di questa persona originale che è Lanza del Vasto si mostreranno tiepidi» (A. de Mareuil, Lanza del Vasto. Sa vie, son œuvre, son message, Dangles, St-Jean-de-Brayè 1998, 242).
115 Scrive il 15 febbraio 1957 mons. Duval al ministro residente Lacoste «Arresti massicci di “sospetti” hanno avuto luogo e continuano ad aversi specie nella città di Algeri. È incontestabile che un buon numero di questi “sospetti” è innocente di qualsiasi crimine […]. I militari impiegano metodi che nulla può autorizzare: dei mussulmani sono colpiti crudelmente senza alcun motivo se non quello d’essere mussulmani; alcuni sono stati pure messi a morte senza alcun processo e senza alcun motivo. La tortura infierisce nei modi che tutti sanno e di cui tutti parlano […]. Questi procedimenti sono contrari alle esigenze elementari di ogni morale umana […]. È necessario porre fine a simili procedimenti che rischiano di compromettere per sempre l’avvenire dell’Algeria» (Cf M. Impagliazzo, Duval d’Algeria, cit. 76).
116 Egli scrive una lettera di solidarietà all’iniziativa: «Caro Lanza del Vasto, non sono a Parigi per il momento, spero di rientrare presto e venire da voi. Non posso tuttavia associarmi alla vostra azione nonostante che essa mi tocchi profondamente. Una fede più certa mi manca e non sono riuscito a condividere la vostra convinzione religiosa. Sarebbe una brutta ipocrisia manifestare i miei sentimenti nel modo che voi avete scelto e che io seguo con tutto il rispetto di cui sono capace. Ma volevo almeno dirvi che approvo completamente lo spirito e il contenuto del vostro testo e vi ringrazio dal profondo del cuore per me e per la mia Algeria» (A. de Mareuil, Lanza del Vasto. Sa vie, son œuvre, son message, Dangles, St-Jean-de-Brayè 1998, 242).
117 «Gandhi ha dimostrato come si possa lottare per il proprio popolo e vincere senza smettere nemmeno per un giorno di restare una persona stimabile. Qualunque sia la causa che si sostiene, questa perderà per sempre il proprio onore per colpa di un massacro cieco di una folla innocente dove l’uccisore sa in anticipo che ci sono donne e bambini» (A. Camus, La rivolta libertaria, cit., 142).
118 «Le rappresaglie contro le popolazioni civili e le pratiche di tortura sono crimini che ci vedono tutti complici. Che fatti del genere siano accaduti tra di noi è un’umiliazione con la quale oramai ci toccherà fare i conti. Per il momento dobbiamo quanto meno respingere qualsiasi giustificazione, foss’anche l’efficacia di questi metodi. Infatti, nel momento stesso in cui li si giustificano, anche solo indirettamente, non esiste più una regola o un valore, tutte le cause si equivalgono e la guerra senza fini né leggi consacra il trionfo del nichilismo. Che lo si voglia o no, ritorniamo allora nella giungla dove l’unico principio che vale è la violenza. Anche chi non vuole sentire parlare di morale dovrebbe però capire che per vincere una guerra è comunque meglio subire certe ingiustizie piuttosto che commetterle e che imprese del genere ci fanno più male di cento partigiani nemici. Quando si applicano queste pratiche a chi non esita, per esempio in Algeria, a massacrare gli innocenti o, in altri luoghi, a torturare e a scusare i torturatori, non si commettono così errori incalcolabili che rischiano di giustificare gli stessi crimini che si vogliono combattere? Che efficacia può esserci nel giustificare quello che c’è di più ingiustificabile nell’avversario? In quest’ottica va affrontato subito l’argomento principale di chi si dichiara favorevole alla tortura: avrà forse reso possibile trovare trenta bombe, al costo di un certo disonore, ma anche fatto nascere altri cinquanta terroristi che, agendo in modo diverso e altrove, faranno morire ancor più innocenti» (Ib., 141-142).
119 «Il potere che hanno i prefetti in virtù dei Poteri Speciali di “assegnare” chiunque “a residenza” nei locali della polizia è un modo di aggirare gli articoli 63 e 64 del Codice di Procedura Penale e di privare ogni fermato, il cui delitto non è provato, del diritto di essere presunto innocente: essa sostituisce l’interrogatoire con la question» (Ib., 67). Cf anche La cancrena, cit., 7-8.
120 G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 89.
121 G. Lanza del Vasto, L’arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano 19952, 63.
122 «La non-violenza mi appare prima di ogni cosa come la decisione di testimoniare fino in fondo per ciò che si crede vero e giusto. […]. Degli uomini andavano ben oltre l’espressione di un’idea; chiedevano una corresponsabilità, accettavano un rischio solidamente con le vittime, si proclamavano sospetti con i sospetti, colpevoli con tutti gli innocenti buttati in prigione e torturati. Che i membri dell’Institut, degli insigniti della Legione d’Onore, dei professori della Sorbona, dei preti, incorrano nel ridicolo di sedersi per strada, di farsi gettare nei carrozzoni della polizia e di passare la notte in guardina, è il segno di una risoluzione quale non si era mai vista. […]. Quello che i partiti e i sindacati non avevano osato, un pugno di uomini e di donne l’hanno fatto, perché possedevano la forza d’animo che fin’ora ci mancava» (J.-M. Domenach, in J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, II, cit., 30).
123 G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 99-100.
124 Ib., 64.
125 G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 108-109.
126 Ib., 130.
127 «Obiettore di coscienza? Quale coscienza? Non v’è una coscienza speciale per l’obbligo militare. È un termine che non significa nulla. O si fa il proprio dovere o non lo si vuol fare. […]. La servitù militare implica delle azioni che non mi garbano? Ma appunto per questo è una servitù. Ci si obietta il Vangelo. Ma, dal momento che la Chiesa, in Francia, delega un cardinale arcivescovo alle funzioni di cappellano generale dell’esercito, mi sembra presuntuoso voler essere più evangelici che la Chiesa» (J. Cahen - M. Pouteau, Una resistenza incompiuta, cit., II, 45).
128 G. Lanza del Vasto, L’arca aveva una vigna per vela, cit., 63-64.
129 G. Lanza del Vasto, «Les quatre piliers de la paix selon l’enciclique du pape Jean XXIII», cit., 167.
130 G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 65ss.
131 «La paura non può che incitare il nemico a fabbricare la sua bomba e lanciarla per primo su di noi. Tutti sanno che è la paura, ben più dell’odio o di qualsiasi altra ragione, che fa scoppiare le guerre» (Ib., cit., 66).
132 Ib., 76.
133 Ib., 78.
134 «Qualsiasi cane, senza aver letto San Tommaso, la sa lunga su questo diritto di mordere il cane che lo morde. In altri termini si tratta delle reazioni del cane; tutto ciò non ha niente di teologico né di umano» (G. Lanza del Vasto, «Les quatre piliers de la paix selon l’enciclique du pape Jean XXIII», cit., 169).
135 G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 127.
136 Id., Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit., 91-92. Al riguardo Lanza del Vasto aveva già scritto nel 1954: «se per difendere o ottenere il bene io mi appoggio alle forze del male che si chiamano violenza, devo ritrovare logicamente nella conclusione ciò che io stesso ho introdotto nelle premesse e malgrado me subire nel fine ciò che ho posto nei mezzi. Se per sottrarmi al bugiardo mento anch’io, e per combattere l’omicida uccido come lui, potrò pretendere che la mia menzogna e il mio omicidio siano migliori di quelli dell’altro? Come potrà discernere Dio tra la mia causa e quella dei malvagi? Non vi sono due razze: quella dei buoni e quella dei cattivi. Un uomo è buono o cattivo secondo ciò che fa. Se io mi oppongo al cattivo facendo come lui, mi confondo con lui e il contro-male che compio con soddisfazione è un raddoppiamento del male e il peggiore dei mali» (Lanza del Vasto, Vinôbâ o il nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980, 61).
137 AAS 55 (1963) .
138 Cf S. Tanzarella (ed.), Costruire la pace sulla terra, La Meridiana, Molfetta 1993, 52-55; 127-137.
139 Cf G. Lanza del Vasto, Che cos’è la non violenza, cit., 129-131.
140 «Nell’ingiustizia è meglio essere vittima che colpevole, ma ancora meglio essere vittima volontaria che complice involontario, poiché è così che si fa crollare l’ingiustizia. Oggi in questo secolo di disintegrazione e di mezzi di distruzione di massa l’azione diretta non violenta è il solo rifugio dalle qualità cavalleresche, la sola via d’uscita, la sola difesa coraggiosa e ragionevole della patria, la sola liberazione degli oppressi, la sola speranza di vita per le nuove generazioni» (G. Lanza del Vasto, Pacification en Algérie ou mensonge et violence, cit. 123).
141 G. Lanza del Vasto, «Les quatre piliers de la paix selon l’enciclique du pape Jean XXIII», cit., 187.