Incontri di discernimento e solidarietà
 
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LA GUERRA E LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI INTERNAZIONALI

Riccardo Chieppa, Presidente della Corte Costituzionale



Parto da questa considerazione: come si possono risolvere i conflitti tra gli Stati? La guerra è un mezzo per risolvere i conflitti tra gli Stati?

Dobbiamo riportarci verso la fine della seconda guerra mondiale. La guerra era ancora in atto e c’erano tante sofferenze derivanti da quello che la guerra aveva prodotto, sia in Europa, ancora occupata dai tedeschi con i campi di concentramento, sia nella stessa America che aveva avuto le sue vittime di guerra e sperimentato tutto quello che la guerra comporta. A Pearl Harbor l’ America aveva fatto le prime spese con il conflitto e la rottura della pace. Allora nacque l’ idea - ce lo ricordava l’altro anno Gabriele De Rosa commentando uno dei momenti più tragici della guerra in Italia - di una nuova organizzazione internazionale più sicura di quella che era stata la ginevrina Società delle Nazioni vittima della litigiosità e della violenza dei grandi Stati.


Era il progetto di una organizzazione fra nazioni che si univano non per spartirsi il mondo extra europeo in sfere di influenza ma per sostenere la pace attraverso l’abolizione del diritto di guerra. Lì nacque l’ idea di una Europa che non doveva avere più una guerra, che la guerra non avrebbe portato effetti durevoli per nessuno, né per i vincitori né per i vinti. Nacque un forte convincimento dell’ utilità della pace. Le parole di Pio XII sono scolpite sulla campana di Rovereto - sono stato l’ altro giorno a Rovereto e il sindaco ci ha dato copia della campana - “nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra.”


Questo era il forte significato di carattere popolare di quell’epoca che cercava ad ogni costo di non avere più guerre. In parte ci si è riusciti, almeno in Europa, perché sono trascorsi parecchi decenni e, tranne il breve periodo del Kosovo, l’ Europa non ha sentito il fragore delle armi. Quale deve essere il mezzo per il raggiungimento ed il mantenimento di questo scopo?


Partiamo dal principio, consacrato anche dalla nostra Carta Costituzionale, l’art. 11: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente in condizioni di parità con gli altri Stati alla limitazione di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace fra le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” E l’ art.10 precisa: : “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciuti.” La stessa Costituzione però prevede che la difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Quindi non c’è l’idea del ripudio in senso assoluto della legittima difesa, vista come un mezzo per chi deve anche potersi difendere.


La concezione della nostra Costituzione rispecchiava il sentimento popolare di chi aveva vissuto e patito le conseguenze della guerra. In riferimento all’ ordinamento giuridico internazionale: il diritto può essere uno strumento di composizione dei conflitti nell’ambito di certe determinate regole. Resta per casi estremi la possibilità dell’ uso della forza ma si ripudia la guerra con finalità di espansione. Quindi la fine delle guerre coloniali, dell’ 800 e della prima parte del ‘900, strumento di predominio per assicurarsi sfere di influenza. Questo è l’elemento di carattere fondamentale che emerge dalla nostra Costituzione e dallo spirito delle Nazioni Unite tendente a un principio di parità degli Stati per il progresso. L’ obiettivo finale è che la pace può assicurare il benessere dell’ uomo e soprattutto la difesa di quelli che sono i valori, fondamentali di ogni democrazia e della persona umana. Il progresso è diverso dalla distruzione e consiste nel dare maggiore benessere e sviluppo.Quindi la contrarietà nei confronti di una libera guerra fra Stati ma solo la possibilità dell’uso della forza per garantire l’ordinamento internazionale. Quindi un’apertura sovranazionale a cui l’ordinamento italiano si inchina e procede per assicurare questa pacifica convivenza fondata sull’ osservanza delle regole, basata non solo sul diritto ma anche sulla solidarietà fra i popoli. Non può esserci pace senza solidarietà fra i popoli. E’ il tema centrale della “Pacem in terris” citata e invocata più volte dai giornali e nell’ opinione pubblica.


Il diritto però non basta. Bisogna assuefarsi a questi princìpi, viverli come elemento essenziale di ogni persona umana. Sorge allora il problema di quali sono gli strumenti, sulla base del diritto internazionale, per condurre all’ osservanza generale del rispetto nei confronti delle persone umane e delle loro libertà. In che limiti uno Stato può farsi ragione da sé?. Come nella convivenza civile e in qualsiasi comunità, nessuno non può farsi ragione da sé ma deve ricorrere a un’altra autorità. Questa regola vale anche nei rapporti fra gli Stati. Uno Stato non può farsi ragione da sé ma deve ricorrere ad un’istanza superiore. Bisogna prendere atto, però, che in tutto quest’ultimo periodo i princìpi delle Nazioni Unite non hanno trovato regole di attuazione perfette e complete, e molto è stato affidato alla prassi e all’egoismo degli Stati. Così abbiamo assistito a una serie di casi in cui c’è stato un intervento con l’uso della forza, anche se a scopi umanitari, come l’intervento nei Balcani, nel Madagascar e altri paesi, in cui accanto agli aiuti umanitari c’è stato bisogno della protezione della forza perché questo tipo di interventi raggiungessero il fine della pacificazione.


Inoltre dobbiamo registrare la lentezza con cui molto spesso le Nazioni Unite si muovono, perché il meccanismo è stato concepito e procede sotto l’ egemonia di due gruppi, America e Russia. Una volta che si rompe o s’inceppa questo meccanismo, ci sono maggiori difficoltà per raggiungere determinate maggioranze, mentre in passato l’ equilibrio aveva portato a soluzioni accettabili non tanto per il rispetto dei princìpi ma per il timore delle conseguenze che si potevano verificare. Di qui l’esigenza di una riforma e dell’ aggiornamento dell’Onu per metterlo in condizioni di interventi tempestivi. Molte volte infatti le Nazioni Unite sono intervenute ex-post con una forma di sanatoria che ha fatto proprie attività già messe in moto. Le iniziative sono state fortunatamente non di singoli Stati ma di raggruppamenti, sulla base di trattati e nella maggior parte dei casi, soprattutto in Africa, su richiesta dello Stato per il quale si interveniva.


Da ciò deriva uno scenario in continuo movimento perché le regole di diritto internazionale non sono di carattere codicistico né regolamentano tutte quante le soluzioni. Per la posizione che occupo non faccio riferimenti particolari ai problemi molto gravi che pone la situazione in Iraq, parlo in generale. Ci deve essere sempre una legittimazione da parte di un organismo di carattere internazionale, altrimenti ricadiamo nella stessa situazione di colui a cui è stata rubata qualcosa e si fa giustizia da sé, va a casa di chi lo ha derubato e si riprende con la forza quanto gli è stato sottratto. Chi ha subito il furto può avere tutte le legittime giustificazioni ma certamente il suo non è un atto conforme alla convivenza civile. Se tutti facessimo in questa maniera potremmo finire con l’assistere ogni giorno a sparatorie tipo Far West o tipo quelle che ci sono state alcuni mesi fa in qualche città meridionale. Per la convivenza occorre prima di tutto un elemento di sicurezza. Ci sono regole da rispettare, tra cui quelle riguardanti la legittima difesa putativa soggettiva. Se vedo di notte una persona che mi si avvicina con un oggetto metallico che può essere una pistola giocattolo o semplicemente un tubo e reagisco in una certa maniera, ho una giustificazione di legittima difesa. Ma questi sono casi estremi, delle eccezioni. Il modo della composizione delle controversie internazionali deve essere sempre il ricorso agli strumenti che abbiamo con le organizzazioni internazionali. A questo linea di condotta potrà contribuire anche la nostra Unione Europea, quando avrà,speriamo in tempi brevi, la sua nuova costituzione in cui si afferma il principio che l’Unione si prefigge di promuovere la pace e il benessere dei popoli( art.3) integrato dalla dichiarazione che l’ Unione si adopera per uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata, su una economia sociale di mercato fortemente costitutiva e su tutti gli aspetti sociali che nei valori dell’Europa sono affermati come: la dignità umana, la democrazia, l’uguaglianza dei diritti, insomma, il rispetto dei diritti umani.


Gli episodi su cui riflettere sono tanti, specialmente in Africa e in Asia. Leggevo una statistica su quante persone ogni giorno vengono uccise o private dei loro diritti di libertà. Pensate all’ Uganda e alla Somalia in cui non c’è più un ordine di carattere sociale e l’uccisione può essere considerata quasi l’uccisione di una mosca o di un gatto investito per la strada. Purtroppo queste sono notizie che non trovano più spazio sui grandi mezzi di informazione. L’ aspetto di carattere fondamentale è se ci fosse una società completamente basata sui diritti dell’ uomo, ci sarebbe anche tolleranza e dialogo. La nostra società ha bisogno di dialogare in tutti i sensi, nella società politica, nelle famiglie, in qualsiasi comunità. Il guaio è che stiamo diventando sordi perché molte volte non vogliamo sentire. La mancanza di dialogo si avverte talvolta anche nei rapporti fra istituzioni. Ogni giorno sui giornali si vede che un organo dà la bacchettata all’altro, non come forma per arrivare al benessere., Tutte le istituzioni pubbliche non servono per l’esercizio del potere ma per dare al cittadino, all’ uomo comune, alla persona, una protezione. Questo vale anche nei rapporti di diritto internazionale. A cosa serve il predominio di un gruppo quando poi i cittadini non ricevono i benefici della pace? Dobbiamo sforzarci con tutti i mezzi, compresa l’ opinione pubblica, per rafforzare gli strumenti di carattere giuridico oltre che politico, necessari per il funzionamento degli istituti capaci di scongiurare i conflitti e di arrivare a una soluzione delle controversie per la sola finalità di rispettare l’uomo e i suoi diritti. Solo così avremo un benessere comune.

Al presente, però, stiamo sperimentando a tutti i livelli una crisi del diritto.Lo vediamo anche all’ interno dei diversi Stati. Si devono porre delle regole più chiare, rinnovando lo Statuto delle Nazioni Unite - l’Onu ormai sorpassato - riportando una maggiore uguaglianza delle posizioni degli Stati o perlomeno rivedendone i criteri di rappresentanza.


Quest’ orientamento potrebbe essere l’ avvio per dare voce, nell’ ambito delle Nazioni Unite, all’Europa; un’Europa solidale come forza di equilibrio. Dobbiamo però partire dal presupposto che l’Europa non deve essere una Europa- mercato, di economia, di commercio, di scambi. Questi sono interessi chiaramente egoistici. Una Europa solo mercantile basata sull’ euro e la libertà degli scambi non andrà molto avanti. Perciò la nuova costituzione deve essere di valori, di difesa della persona umana. Questo è il punto di unione e di dialogo.


Sul piano del diritto ciò significa portare l’impegno di ogni Stato ad osservare le regole che finora sono state poste sul piano internazionale, significa far confluire l’ uso della forza attraverso questi istituti degli organismi di carattere internazionale. Questa è la via che si è venuta delineando anche in alcuni recenti conflitti. Non c’è una guerra pulita. Si possono ridurre i cattivi effetti. Le bombe intelligenti, compreso l’ intervento umanitario nei Balcani, hanno fatto più vittime tra i civili che tra i militari. .E’ impossibile riparare la distruzione della vita e ogni volta che si colpiscono i civili è un delitto verso l’umanità. Si tratta di persone che possono essere i nostri figli, i nostri nipoti. Non ci può essere una guerra in senso moderno che non comporti una serie di violenze: sabotaggio, terrorismo... La violenza non è mai disgiunta dalla lesione dei diritti dell’ uomo: basta che si perda una vita. Senza dubbio, ci possono essere i casi di legittima difesa, ma le nuove generazioni non sanno quello che è stata la guerra. Vedere persone che si sono viste mezz’ora prima e dopo mezz’ora morte a causa della guerra, colpisce. La mia generazione ne ha viste troppe di guerre, da quella d’Africa a quella di Spagna. Il pericolo della bomba atomica ha portato alla cautela e al rispetto reciproco perché la minaccia poteva venire da una parte o dall’altra. Ora che quest’equilibrio si è rotto, c’è bisogno di una Europa più forte che possa portare a una transizione.Sono sessant’anni che non abbiamo più guerre fra nazioni europee. La via è portare soprattutto la comprensione, il dialogo. Bisogna poter parlare ricordando soprattutto ai giovani quelle che sono queste guerre endemiche e i danni che ne seguono. Quando c’è un consenso su una maggiore tutela dei diritti umani, il cittadino, analogamente a quanto si è visto con l’episodio di mani pulite in Italia, sente la maggiore responsabilità e il potere che ha di conoscere quello avviene.


Conoscere il potere e non le barriere. Purtroppo spesso la stampa ha un calo di attenzione. Le uccisioni che oggi ci sono nel mondo, in Angola, in Uganda e in tante altre parti: chi ne parla e ce ne dà notizia? Si parla di quanti soldati americani sono stati uccisi nell’ Iraq e degli incidenti del sabato sera: questo fa notizia. Invece dobbiamo tornare a vedere quello che ogni giorno viene offeso - nella vita, nella libertà di religione, di coscienza - in tanti Stati che pure fanno parte delle nostre relazioni di carattere internazionale. Se queste realtà fossero conosciute e ricordate ogni giorno, il mondo troverebbe meno ostacoli sulla via della pace e del progresso. Le risorse del mondo sono limitate ma le guerre tendono a ridurle ancora di più. E’ un problema di economia di mercato: ci sono molti interessi economici, la vendita delle armi, il progresso. Ci sarebbe maggiore progresso se le risorse fossero impegnate per sfamare molte popolazioni e soprattutto per venir a dare benessere e sicurezza.


Su questa via l’ augurio da fare è che si possa sviluppare il dialogo e la comprensione fra i popoli. Le forme per realizzare quest’augurio sono tante. Cominciamo, per esempio, a non regalare ai nostri figli e nipoti per Natale oggetti di offesa, anche se loro lo richiedono. Leggevo, però, tempo fa una statistica che questo tipo di giocattoli ora sono meno richiesti, nonostante le guerre stellari li facciano tornare di moda. Ma nei cartoni animati , sulla Tv giorno per giorno l’uso delle armi e la violenza stanno tornando di moda, anche perché ci sono conflitti in atto e il piccolo cerca di immedesimarsi in quello che fanno gli altri. C’è quindi una grossa responsabilità di carattere cognitivo che abbiamo come genitori, nonni e parenti: crescere nella cultura della pace, vedere cioè che con la convivenza pacifica ci può essere uno sviluppo anche economico che non è dato dalle distruzioni.Con quello che costa una giornata di guerra, quante case si potrebbero costruire, quanti bambini potrebbero essere soccorsi nell’ intero anno. Certo non bisogna trascurare le esigenze di difesa, ma di tutto quello che l’ Italia paga per le forze di polizia forse una parte potrebbe essere impiegata altrimenti.


Si continua a citare il vecchio detto “se vuoi la pace prepara la guerra”, ma è invece la cultura della pace che bisogna innanzitutto preparare ed a quest’opera ciascuno di noi può dare un contributo. Protestando anche alcune volte rispetto a certi spettacoli. Pensiamo alla violenza di alcuni cartoni animati che per l’ 80% sono di origine nipponica. I giapponesi hanno avuto Hiroshima che non ha dato però una lezione di quello che può significare una ricostruzione. Il loro sport nazionale è un tipo di lotta che noi facciamo fatica a capire. Ma possiamo impegnarci a sviluppare una cultura della pace a partire dal nostro ambiente e poi magari cercare di esportare questo concetto fuori dal nostro paese, d’ intesa con quelle associazioni che si muovono sul piano internazionale e che cercano di dare la prima educazione alla pace nei luoghi dello sport. Sono iniziative di carattere poco clamoroso ma fondamentali.


Pensiamo anche alla formazione che si dà con i libri di storia. Quante volte nei testi scolastici non si parla del progresso dell’ umanità ma delle guerre. Ricordo ai miei tempi: la prima guerra punica, la seconda guerra punica; la guerra dei cent’anni...Certi libri di storia hanno ancora questo tipo di impostazione. Ci sono stati dei periodi di pace. Ma prevale la tendenza a scandire ed esaltare i tempi del progresso del mondo attraverso la guerra e le date. In alcuni quiz è più importante sapere quando è cessata una guerra piuttosto che altro e questi quiz purtroppo vengono utilizzati anche in valutazioni concorsuali. C’è una sopravvalutazione dell’elemento guerra, morte e distruzione e poi c’è un periodo in cui i popoli debbono rimarginare le ferite. Soprattutto in un mondo di aggressione e di espansione. La convivenza dei popoli, le unioni come quella dell’ Europa, degli Stati del sud-America o africani, hanno contribuito a una stabilizzazione e questo cammino verso la stabilità andrebbe fatto conoscere di più ed apprezzato, senza ignorare però il fatto che il pericolo maggiore di guerra rimane là dove c’è assenza di democrazia perché è lì che la violazione sistematica dei diritti umani ha scatenato maggiori risentimenti e si è stati costretti a intervenire, dall’interno o dall’esterno, per riportare la stabilità col ricorso anche alle armi.


L’uomo commette errori e per sua natura, anche quando pecca, ma dobbiamo mantenere una cultura della speranza e della carità. Il passato ci deve importare di meno a confronto di quello che si può ed è bene fare adesso per cercare di ricondurre i pericoli di guerra e le soluzioni pacifiche nell’ambito internazionale. Le aperture e i passi che si stanno facendo in questo senso,sono notevoli Abbiamo parlato di necessità di dialogo proiettato verso il futuro. Preoccupiamoci in maniera prioritaria, per questa cultura della carità e del perdono, di guardare al domani e cercare di risalire al piano della conoscenza e della riflessione meditata sui princìpi, altrimenti con le recriminazioni si prendono posizioni di strategia politica. Facciamo tutti uno sforzo di rifiutare la guerra per andare positivamente verso la pace. Ci vuole una politica di pace attiva con il dialogo, parlare, cercare di convincere, cercare di indirizzare tutto questo verso la pace internazionale. Di quello che è avvenuto non vorrei parlare come non ne ho parlato. Chiudo con un invito al dialogo. Con il dialogo possiamo dare una mozione, in un certo senso, di superiorità etica, che non siamo in una cultura di mercato, meramente economica, ma in una cultura di valori dell’ uomo. E l’ uomo per essere tale deve perdonare, avere carità e speranza nel futuro. Questo dobbiamo avere per i nostri figli, per i nostri nipoti perché se non ci fosse questo ci sarebbe solo disperazione a vedere tutte le guerre e tutti i conflitti che ci sono stati.