Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Crimini di guerra: definizioni e giurisdizione

(a cura di Giuseppe Lodoli)

Definizioni - Diritto e regole di guerra - Amnesty International - Testi e documenti - Gli Usa in guerra contro Afghanista e Iraq.



1 - DEFINIZIONI


Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) fondato nel 1863 da Jean-Henri Dunant, uno svizzero che era stato sconvolto dallo spettacolo dei feriti nella battaglia di Solferino (1859, lasciati morire senza alcun tentativo di soccorso e di assistenza.


Prima convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864 riguardante i feriti in guerra . Assegna al Cicr il mandato di: visitare ed assistere i prigionieri di guerra; fornire aiuti umanitari ai civili durante i conflitti; rintracciare i dispersi; fare da intermediario per lo scambio e il rimpatrio dei prigionieri e la liberazione degli ostaggi. Nei conflitti il Cicr gode dello stato di neutralità.


Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907: stabiliscono il ‘diritto di guerra’ creando le condizioni per definire i crimini di guerra.


8 agosto 1945: accordo di Londra che costituisce il Tribunale Militare Internazionale (TMI): consacra i principi del diritto penale internazionale e stabilisce i concetti di ‘crimine di guerra’, ‘crimine contro la pace’ e di ‘crimine contro l’umanità.

Crimine contro l’umanità “[…]cioè l’assassinio, lo sterminio, lo schiavismo, la deportazione e qualsiasi atto disumano commesso contro le popolazioni civili, prima o durante la guerra, o le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi in applicazione di, o in rapporto con, tutti i reati che rientrano nella competenza del Tribunale, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del Paese nel quale sono stati perpetrati. I dirigenti, organizzatori, provocatori o complici che hanno preso parte all’elaborazione o all’esecuzione di un piano concertato o di un complotto per commettere uno qualsiasi dei crimini definiti sopra sono responsabili di tutti gli atti compiuti da ogni persona nell’esecuzione di tale piano.”

Crimine contro la pace: un atto di guerra di aggressione, una violazione dello ‘ius ad bellum’.

Crimini di guerra: violazioni del diritto e delle consuetudini di guerra, violazione dello ‘ius in bello’. Tra questi: l’uccisione, il maltrattamento e la deportazione di civili nei territori occupati; l’uccisone e il maltrattamento dei prigionieri di guerra; l’uccisione di ostaggi; il saccheggio; la distruzione ingiustificata dei centri abitati; qualsiasi devastazione non giustificata da necessità militare.


9 dicembre 1948, l’ Assemblea generale delle Nazioni unite approva la “Convenzione per le prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”. La Convenzione entrata in vigore - senza incidere apprezzabilmente nella storia - il 12 gennaio 1951, definisce il genocidio come: “[…] uno qualsiasi degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) uccisione di membri fisici del gruppo; b)attentato all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) assoggettamento intenzionale del gruppo a condizioni di esistenza dirette a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale; d) provvedimenti miranti ad impedire le nascite nell’ambito del gruppo; e) trasferimento forzato di bambini da un gruppo in un altro gruppo.


1949: Quattro Convenzioni di Ginevra, integrate nel 1977 da due protocolli aggiuntivi ,regolano i comportamenti in caso di guerra. La prima convenzione riguarda i soldati feriti o malati, la seconda i marinai naufraghi, al terza i prigionieri di guerra, la quarta i civili e l’occupazione militare. Le convenzioni di Ginevra per la prima volta introducono l’obbligo universale di perseguire chiunque compia ‘gravi infrazioni’ (= crimini di guerra) delle convenzioni.

Uno dei punti critici della Convenzioni di Ginevra e dei Protocolli aggiuntivi è la proibizione (non solo di attaccare i civili ma anche) di produrre sproporzionate offese ai civili attaccando obiettivi militari.

I due Protocolli aggiuntivi del 1977 - non accettati dagli Usa - pongono alcune garanzie in più per i combattenti, per es. sono considerati ‘regolari’ – e quindi ad es. titolari dei diritti dei prigionieri di guerra - i guerriglieri, anche collocati in mezzo alla popolazione civile, che lottano contro un ‘regime razzista’ (per es. in Sud Africa)o un ‘occupante straniero’. Il I Protocollo proibisce ogni rappresaglia contro civili (alla base delle ‘deterrenza nucleare’). Sono considerati ‘gravi infrazioni’ alle convenzioni tutti gli attacchi ‘indiscriminati’ che coinvolgono popolazione civile (es.: l’uso di bombe a grappolo).

Le Convenzioni definiscono crimini di guerra: l’omicidio premeditato, la tortura e i trattamenti inumani, l’inflizione di sofferenze e danni fisici, distruzioni a tappeto e appropriazioni di beni non giustificata da necessità militari, l’imposizione a un prigioniero di servire nelle forze armate nemiche, la deportazione, la detenzione illegale di civili, la presa di ostaggi… e (dai protocolli aggiuntivi) gli attacchi a località indifese e a civili, l’utilizzo dei simboli della Croce rossa, il trasferimento forzato di popolazioni, il mancato rimpatrio dei prigionieri di guerra, l’apartheid, l’attacco a monumenti storici, la negazione ai soggetti protetti (prigionieri di guerra, civili…) di un regolare processo…


17 luglio 1998 fondazione con lo Statuto di Roma del Tribunale Penale internazionale permanente (TPI). E’ diventato operativo il 1° luglio del 2002 col raggiungimento della sessantesima ratifica. A fine 2002 le ratifiche erano 85. Il TPI giudica i rei di crimini contro l’umanità, ha potere e immunità sovranazionali e, a differenza dei TMI di Norimberga, non prevede la pena di morte (come non la prevedevano i tribunali ‘ad hoc’ istituiti precedentemente dalle Nazioni Unite per la Ex Iugoslavia – 25/5/1993 - e per il Ruanda – 8/11/1994).


A proposito del TPI bisogna però registrare il grave cedimento dell’ Europa. Dopo molti ondeggiamenti, infatti, l’Unione Europea ha completamente fallito il compito di sostenere il neonato Tribunale Penale Internazionale (TPI) che, ancora prima di aver cominciato a lavorare, si sta sgretolando sotto gli attacchi degli Stati Uniti. Infatti l’U.E. non si è opposta, come auspicato dalle organizzazioni per i diritti umani, alla stipulazione di accordi bilaterali proposti dagli Stati Uniti agli stati dell’Unione, accordi che sottraggano al TPI eventuali Americani responsabili di crimini contro l’umanità (v. n. 99). Le linee guida proposte ai Membri dell’Unione Europea il 30 settembre consentono infatti ai paesi dell’U. E. di stipulare gli accordi bilaterali, concedendo l’immunità agli Americani che vengano catturati in paesi che hanno adottato il TPI, a condizione che gli Stati Uniti si impegnino a perseguire in patria “ove appropriato” gli imputati che verranno loro consegnati, senza l’obbligo di restituire al TPI o ai paesi di provenienza i criminali che non venissero adeguatamente processati negli USA.


2 – DIRITTO E REGOLE DI GUERRA


Una analisi che unisce l’attualità ai grandi princìpi del diritto sui crimini contro l’umanità viene offerta da un recente contributo uno studioso americano che affronta la questione chi possiede e controlla le regole della guerra?


Who Owns the Rules of War?

By Kenneth Anderson (*)


Iraqi civilians gather near the site of where a bus was shot on a bridge by a tank crew from the U.S. Army 4th Battalion 64 Armor Regiment in Baghdad Friday, April 11, 2003. Tank commander Charles Wooten said that his tank fired on the vehicle after it refused to stop when warning shots were fired. The bus driver was killed and the Army said it found Iraqi military uniforms inside the vehicle.(AP Photo/John Moore)

During the euphoria of the opening air campaign against Baghdad, commentary was filled with triumphal rhetoric about hitting ''legitimate military objectives'' while causing little or even no loss of civilian life. Not long afterward, the air war was pounding more than symbols of the regime, and the ground war had become a real war. Scarcely a speech, briefing or interview was being given that failed to mention the laws of war. The Iraqi regime, for its part, was broadcasting denunciations of American airstrikes replete with images of corpses and wounded civilians in hospitals; the United States responded that Iraq had systematically situated military targets and equipment in the midst of civilian areas. The sheer frequency of these references on all sides belied the ancient maxim inter arma silent leges -- in time of war law is silent.

People throughout the world obviously care about what is called jus in bello, law governing conduct during war. This is so even if they differ about jus ad bellum, law governing not the conduct of war but rather the resort to force itself. But even while there is agreement on the need for fundamental rules governing the conduct of war, there is profound disagreement over who has authority to declare, interpret and enforce those rules, as well as who -- and what developments in the so-called art of war -- will shape them now and into the future. In short, who ''owns'' the law of war?


The Roots of the Modern Law of War

Although most of the world's religious and ethical traditions, if they admit the moral possibility of war at all, say something about what conduct is permitted in war, modern law of war descended historically as a tenet of traditional Christian just-war theory. The practical expression of such law, however, began with the founding of the International Committee of the Red Cross in 1863. The moving force behind the establishment of the Red Cross was Henri Dunant, a Genevan who witnessed and later wrote a widely read account of the Battle of Solferino in the 1859 war between Austria and France. Dunant, together with inhabitants of a village near the battlefield, went about the appalling task of trying to tend to the thousands of wounded who had simply been left to die.

Without bandages, stretchers, doctors or medicines, and above all without significant interest in the wounded by their governments, there was little to be done except offer water and prayer. In the aftermath, the Red Cross, organized to do what had not been done at Solferino, became the world's first secular international nongovernmental organization, the ur-N.G.O. One of its goals was self-contradictory and even ludicrous on its face -- to bring humanity to the battlefield -- but its idealism was expressive of a sweeping call for reform among the middle classes in late-19th-century Europe and America, where an indigenous humanitarian movement for the care of soldiers had taken root during the Civil War.

In Europe, the same spirit of reform touched governments and royal courts, as a series of diplomatic conferences set about codifying the centuries-long tradition of ''laws and customs of war.'' The most important result was the 1907 Hague Convention, which in 56 short articles covers vast legal terrain on the conduct of warfare -- including surrender and flags of truce, obligations to wear uniforms, treatment of prisoners of war, sieges and bombardments, protection of cultural property, prohibitions against pillage and terms of occupation.

Its general rules are still applicable, at least in principle, today. Indeed, most of the matters that coalition forces raise as violations of the laws of war by Iraqi forces -- perfidious surrender, fighting out of uniform or mistreatment of P.O.W.'s -- can be found somewhere in the Hague regulations.

Optimism was swept away a few years later, however, by the guns of August. During World War I, in which mustard gas, aerial warfare, tanks and, above all, the machine gun, were introduced, old rules were clearly no longer enough, and existing humanitarian organizations were simply unable to cope with suffering on a scale never before seen. Following the Great War, there was a resurgence of interest in the fields of jus ad bellum and jus in bello. The Red Cross built on its earlier work in fostering treaties for sick and wounded soldiers and moved directly into promoting humanitarianism in war through legal rules, convening meetings between states that eventually resulted in the Geneva Conventions of 1929. These conventions, along with the 1907 Hague Convention, were the primary codified laws of war in effect when World War II broke out. In addition, states negotiated the 1925 Geneva Protocol prohibiting gas weapons -- a ban that held with few exceptions, even during World War II, for 60 years, until Saddam Hussein broke it in the Iran-Iraq war and again in his genocidal 1988 Anfal campaign against the Kurds.


World War II and its Aftermath

World War II brought its own violations, partly owing to the new technology of air war against civilians. The carpet-bombing of Dresden, for instance, inevitably swept civilians in with soldiers as targets. The conclusion of World War II brought about two signal developments in the laws of war. The first was the holding of criminal trials by the victors of those deemed to be chiefly responsible for the war. We tend to think of the Nuremberg trials as war-crimes trials, but in fact Nuremberg was principally about trying German leaders for the crime of aggressive war, for making war itself, crimes of jus ad bellum, rather than for the manner of its conduct. The chief American prosecutor, Robert Jackson, was content to leave what he regarded as the legally less-cutting-edge matters, the war's atrocities, to prosecutors from other countries.

Jackson's seeming triumph at Nuremberg, however -- establishing that international judges could try and convict a nation's leaders for the crime of aggression -- did not survive the establishment of the United Nations and the Security Council. The matter of determining aggression and maintaining international peace was stripped from international jurists and thrust into the hands of the permanent members of the Security Council, victors of World War II.

Of course, the Security Council, far from maintaining peace and security, has served as little more than a talking shop for nearly all of its history. The willingness of one of the permanent five members to brush off the Security Council when its core national interests are threatened -- as the United States and Britain just did with respect to Iraq -- is a norm of the Security Council, not a departure from it. Every permanent member has such interests, which are not necessarily even questions of national security but are frequently matters of ambition or even sentimental attachment. They include Tibet and Taiwan for the Chinese; Chechnya and, in 1999, Serbia for the Russians; and Francophone Africa for the French.

The enduring law established at Nuremberg has thus turned out not to be the ''crime of aggression'' but a reaffirmation of war crimes as traditionally understood -- with two important innovations made necessary by the Nazi death camps: genocide and crimes against humanity. Nuremberg also had serious gaps. Most significant, it failed to address the terror bombing of civilians and the deliberate consuming of whole cities (Dresden, Tokyo) by fire -- the most enthusiastic practitioners of the latter being the Allies.

The failure to prosecute the Allies for firebombing cities is one of the strongest arguments today for why war-crimes tribunals should not be conducted by the victors. Many regard this argument as so clinching, in fact, that the mere charge of ''victor's justice'' is enough to end debate. Yet it is far from obvious to me that ''impartial,'' uninvolved parties automatically carry greater moral authority than victors. Would it have been morally better, for example, for the victors of World War II, who had paid the price in blood, to have handed justice over to those countries that had remained neutral and refused to become involved? What matters far more than the supposedly virtuous impartiality that comes from neutrality is the quality of justice served in each case.


The Geneva Conventions of 1949

Another development in the laws of war following World War II was the four Geneva Conventions of 1949 -- the first covering wounded or sick soldiers; the second, shipwrecked sailors; the third, prisoners of war; and the fourth, civilians and occupation. The Geneva Conventions also introduced, for the first time in the canonical laws-of-war treaties, individual criminal liability and mandatory ''universal jurisdiction'' -- the ability (indeed, the obligation) of any and every state to try individuals (or turn them over to a state that would) whenever there was evidence of ''grave breaches'' of the Geneva Conventions.

The question of who is qualified to assert jurisdiction and then judge cases of war crimes is vital to determining who owns the laws of war. Universal jurisdiction says, in effect, lots of people own the laws -- but it leaves open the possibility of widely differing interpretations. A case in point is the continuing argument over whether the detainees at Guantanamo are indeed bona fide P.O.W.'s being mistreated under the Third Geneva Convention, as Amnesty International argues; or whether the Taliban among them are P.O.W.'s but some members of Al Qaeda are not, as Human Rights Watch says; or whether none of them are P.O.W.'s at all, as the Bush administration insists. Related to this is the question of whether detainees can be determined not to be P.O.W.'s by any means other than individual hearings. Many human rights advocates simply assume that the determination of whether a detainee is a P.O.W. must be reached by an individual hearing. This is a reading of the treaty with which even many conservatives agree. (Indeed, it is the reading presumed in 1997 United States military regulations that long precede Sept. 11.) But while it is surely the best interpretation of the Third Geneva Convention, it is not necessarily the way a literal reader would interpret phrases in Article 5's language like ''competent tribunal'' and ''should any doubt arise.'' It is (barely, but literally) available to the Bush administration to maintain that a) no doubt arises as to the status of the prisoners at Guantanamo and that b) the determination of whether any doubt has arisen does not necessarily require a hearing by a ''competent tribunal'' but merely a finding by the secretary of defense or the president.

This apparently esoteric legal issue, seemingly nothing but sheer technicality, is important. Why? It is not because it prevents someone from being charged with war crimes -- anyone can be charged with war crimes -- but because those determined not to be bona fide P.O.W.'s have far fewer procedural rights at trial. Bona fide P.O.W.'s (even those charged with war crimes) must be given the same legal protections at trial that an American soldier, accused of the same crime, would be given (and these are considerable), whereas an ''unprivileged combatant'' receives only minimal due process protections. The issue is about to arise again, this time in connection with Iraq's fedayeen militia fighters, who wear no uniforms and therefore might not qualify as bona fide P.O.W.'s, some of whom may be transferred shortly to Guantanamo.

This dispute points, in addition, to an unsettling feature about the struggle over who ''owns'' the law of war. The various constituencies that believe it belongs to them -- in this case, the United States government on the one side and human rights organizations on the other -- feel little obligation to acknowledge frankly the arguments made against their legal interpretations.


Fundamental Principles - and Moral Calculation

Despite these struggles over authority to interpret the 1949 Geneva Conventions, they are accepted universally as binding law on the treatment of people under a particular status -- soldier, sailor, P.O.W., civilian. The fundamental moral and legal principles are plain. First, noncombatants may never be made the object or target of attack, nor may noncombatants ever be used by defenders to shield legitimate military objectives from attack. Second, military operations, whether by attackers or defenders, must be undertaken with care to distinguish between noncombatants and combatants. Moreover, military officials must refrain from operations likely to produce collateral civilian damage that is excessive relative to the military advantages. So, for example, if the Iraqi Republican Guard has based itself in a crowded Baghdad neighborhood -- and even if it has done so illegally, by refusing to order or even allow civilians to evacuate, in order to use civilians as a shield -- the United States must still weigh the military advantages of attacking against the probable cost of civilian deaths and injuries.

The first principle is categorical, admitting of no exceptions. It leads in turn to a cluster of specific, categorical requirements aimed at ensuring that noncombatants or soldiers who are no longer in combat, like P.O.W.'s, are not attacked -- for example, requirements that combatants wear uniforms or other identifying marks and carry weapons openly. Although some of these categorical obligations have ambiguities -- what qualifies as a uniform? -- and although evidence, interpretation and intent might complicate matters, in principle they are either adhered to or not.

The second principle -- refraining from causing excessive collateral civilian damage -- involves, by contrast, a weighing of costs and benefits and, making things still more difficult, those costs and benefits as they might accrue in the future. Every day, every night, Air Force lawyers and planners must consider possible targets and weigh what they think the military value might be, in the future course of war, against the best intelligence data on how many civilians might be killed or injured, or how much civilian property destroyed. It is a thankless game of guesswork. By their nature, such judgments involve factual evaluations and guesses that cannot be legally challenged, unless something approximating willful, intentional gross negligence can be shown. Gross negligence has to consist of more than a lot of collateral damage, including gruesome civilian death and injury, that might be the result simply of a cruise missile aimed in good faith but gone astray. Legal culpability cannot be determined simply by looking at the level of damage and the death and injury caused. There is no moral equivalence between stray missiles aimed in good faith, using the best technology available, and deliberate violation of the categorical rules of war, like using human shields, shelling civilians to prevent them from fleeing Basra and rape or summary execution of prisoners. There can be no element of judgment, or weighing of costs and benefits, in deciding whether or not to target civilians or take them hostage; it is always wrong.

And yet. The reality remains for many that this moral distinction is sophistry. How can it not be, when we see every day on television and in the newspapers (especially non-American ones) so much death and injury to civilians? To speak of ''aiming'' at one thing while simultaneously foreseeing that, in a sizable percentage of cases, you would ''accidentally'' hit another -- if this is what ''rules'' of war consist of, then they are no more than artificial salves on the consciences of combatants.

Moreover, it does seem to millions of people worldwide that there is indeed a moral equivalence between the tactics of the Americans -- hitting targets from the air and pleading collateral damage as a defense against responsibility -- and the tactics of the Iraqis, who, lacking other means to attack, use their own civilians as a material and moral resource, no matter what laws of war it might violate. This was the attitude, it should be said, held by Churchill, who intended a scorched-earth defense of Britain (including the use of poison gas) without much regard for the lives of British civilians, should the invader ever arrive.

There is, I think, only one way to evaluate these conflicting claims. The idea of ''acceptable'' collateral damage is firmly embedded in Western legal and moral thought, but in fact it is the product of a far more particular Christian strand of moral thought than many of us, accustomed to the tradition, readily admit. The ''doctrine of the double-effect,'' turning on a supposed moral difference between intended and unintended but foreseeable consequences, is not morally obvious. It can be defended, however, as a moral doctrine if we consider the alternatives. To deny the distinction means that you either accept that virtual non-violence is the only tenable position or that you are indifferent to the lives of civilians, since you are guilty of anything that happens anyway -- and in that case, anything becomes a target. The justification for the principle of the double-effect is that it appears to be the only principled way of steering between a pacifism that few of us, in real life, would accept, and a brutal realism that denies the moral necessity of even trying to distinguish between combatants and non-combatants.

Even if you accept the principle of this distinction, however, it must be with a knowledge that it is a compromise affair. It therefore puts a great moral burden on those who fight to find better ways to separate civilians from fighters and to improve the ability, through technology or other means, to aim and hit solely military targets. And if war is, as the poet Rene Char wrote, ''this time of damned algebra,'' a matter of endless calculation and recalculation of effects, then the law of war must take that into account. It consists on the one hand of both categorical demands and prohibitions, and on the other of calculations of cost and benefit, civilian loss and military advantage -- and these calculations are always in flux.


New Treaties and New Debates

The attempt to address these complexities and make law of them was undertaken by United Nations negotiations in the 1970's. The 1977 Additional Protocol I grew out of these negotiations. Although now ratified by some 160 nations with varying ''reservations'' (statements as to certain treaty articles a country does not accept as binding), the United States has never ratified it (nor, it should be noted, has Iraq). Yet without accepting the treaty as such, United States officials over the past 20 years have indicated that the United States accepts various parts of the treaty without accepting the whole. It remains a disappointment and a puzzle that the Department of Defense has never been willing to state publicly and definitively which parts it accepts and which parts it does not and why.

But the American problems with Protocol I generally fall into three main categories. First, certain provisions are unacceptably political in nature. Jus in bello has always insisted on exactly the same treatment for all sides in combat, the same rules whether for the Allies or for the Germans, communists or capitalists. Protocol I, however, grants combatants rights, including the vital right to be treated as a P.O.W., on the basis of certain motives for fighting, referring specifically to those who fight against ''racist regimes'' (as in South Africa under apartheid) or ''alien occupation'' (as in Israel).

Second, certain provisions appear to the United States to restrict methods and means of warfare that it believes are legitimate. For example, Protocol I contains no exceptions in its rules for nuclear weapons, while at the same time it categorically prohibits reprisals against civilians, including the use of nuclear weapons in reprisal for a nuclear attack, which is the basis for nuclear deterrence.

The third category of America's objections concerns rules in Protocol I that are aimed at accommodating guerrillas and irregular fighters, as during the Vietnam War or in Iraq. Unquestionably, these rules make life legally easier for irregular fighters, and some would see this as making the rules of war more ''fair.'' Yet the rules also create new risks for civilians. For example, the protocol grants legal combatant status even to guerrillas who conceal themselves and their weapons among the civilian population, as long as the fighters reveal themselves to the adversary ''preceding the launching of an attack'' -- which is to say, often shortly before attacking from among the civilians who will, inevitably, be caught in the crossfire. It is unfortunate for Saddam's irregulars that Iraq and the United States have not ratified the protocol, as it would have provided legal protection for many of those fighters' attacks, if surely not the civilians providing them with cover.

In addition, sections of Protocol I, while dealing with indiscriminate attacks -- military operations that fail to distinguish between combatants and noncombatants -- in detail, mention the obligations of defenders far more briefly. This is despite the fact that the level of collateral damage incurred in military operations is often determined by where the defender chooses to locate its military assets.

And so Amnesty International released a report last year on the actions of the Israeli Defense Forces in Jenin that signally failed even to mention the legal obligations of the Palestinian forces toward their own civilians. Human Rights Watch also issued an entire report on Jenin that raised only in a few sentences the fact that Palestinian fighters had situated themselves among civilians. (To Human Rights Watch's credit, and perhaps in response to criticism, it has begun taking careful note of the obligations of forces on the defensive as well as those of attackers.) And the International Red Cross, in a message from its president at the commencement of the Iraq war, called in general terms upon parties to observe the laws of war but dwelt mainly upon attackers, the United States and Britain, neglecting to say anything specific of the Iraqi defenders. But the inescapable fact is that the structure of Protocol I practically invites such neglect.


The Laws of War Reconsidered

The fact remains that every war is a petri dish for the next round of the laws of war. And while the war in Iraq is principally about well-established legal principles, and their violation, it, too, will end with a reconsideration of the laws dictating how war should be waged.

For the past 20 years, the center of gravity in establishing, interpreting and shaping the law of war has gradually shifted away from the military establishments of leading states and their ''state practice.'' It has even shifted away from the International Red Cross (invested by the Geneva Conventions with special authority) and toward more activist and publicly aggressive N.G.O.'s -- including the ad hoc coalitions that produced the Ottawa Treaty, banning land mines, and the new International Criminal Court. These N.G.O.'s are indispensable in advancing the cause of humanitarianism in war. But the pendulum shift toward them has gone further than is useful, and the ownership of the laws of war needs to give much greater weight to the state practices of leading countries. This does not mean that state practice is all that matters, nor does it mean that all state practice matters -- Iraq, after all, is a state, and it is fighting, too -- but it does mean that the state practice of democratic sovereigns that actually fight wars should be ascendant in shaping the law. And this includes raising the standards of the laws of war to reflect, for example, advances in technology and precision weapons, standards that should become the norm for leading militaries, first for NATO and then beyond.

N.G.O.'s are also wedded far too much to a procedural preference for the international over the national. But that agenda increasingly amounts to internationalism for its own sake, and its specific purpose is to constrain American sovereignty. It thus promotes, embedded in an agenda of human rights and the laws of war, the ceding of sovereignty, even democratic sovereignty, as the most virtuous act that a state can perform on behalf of its citizens. This agenda of privileging internationalism, unfortunately, is even sometimes allowed to override obvious steps backward in the laws of war, like privileging guerrilla combatants over the civilians in their midst. For this reason, one consequence of the Iraq war for the future of the laws of war will have to be an understanding that the solicitude of Protocol I for irregular fighters hiding among civilians is wrong and that the United States was right to have rejected it.

More broadly in recent years, the N.G.O.'s have been promoting an ever more utopian law of war, in keeping with absolutist human rights ideology. In practice, alas, this utopianism is aimed only at one side in conflicts -- the side that in fact tries to obey the law. And so a second consequence of the war in Iraq for the future of the law of war will have to be a halt to raising the standards ever higher for protecting the civilian population when that burden effectively falls only on attacking forces, unreciprocated. The status quo has the effect of rewarding defending forces for recognizing that war crimes against their own civilians are the best strategy against a powerful but scrupulous enemy. It risks in the end creating a law of war that assumes, for all practical purposes, that the burden is all on one side, the side with the more advanced technology and the less desperate military. After the last cruise missile has been launched and the last irregular fighter silenced, we will look back on the war that was wrought. What we will find is that the meaning of ''asymmetric'' warfare is not what we thought. The issue is not so much disparities in technology. Instead, a form of warfare has re-emerged that tacitly assumes, indeed permits, that the weaker side must fight by using systematic violations of the law and its method. This is unsustainable as a basis for the law of war. Reciprocity matters.


(*) Kenneth Anderson is a law professor at American University and a research fellow at the Hoover Institution, Stanford University. He was legal editor of the book Crimes of War: What the Public Should Know.' This article first appeared in a slightly different form in the New York Times Magazine on Sunday April 13, 2003


3 - AMNESTY INTERNATIONAL

Nel suo 2002 in Focus (in italiano, Rapporto annuale 2003) A.I. prende in esame le tematiche relative alla International Criminal Court con riferimenti anche agli ultimi interventi armati degli Usa in Asia centrale, che vengono poi più dettagliameente analizzati in altra parte del Rapporto.


On a brighter note, the entry into force of the Rome Statute of the International Criminal Court (ICC) on 1 July was a major step forward in the long-standing fight to ensure that perpetrators of the worst crimes - genocide, crimes against humanity and war crimes - are brought to justice.

This important milestone was reached years earlier than expected, illustrating the will of most of the international community to end impunity for the worst crimes. Such impunity has been a major factor perpetuating cycles of abuse and conflict in most parts of the world.


A number of issues must be addressed immediately to ensure that the ICC can function effectively in its initial years. For example, all states that have ratified the Rome Statute must enact legislation to allow them to investigate and prosecute people accused of the worst crimes in their national courts and to cooperate fully with the ICC. Only a handful of states had passed such laws by the end of 2002. Also, all states should sign, ratify and implement the Agreement on Privileges and Immunities for the ICC to ensure that the ICC can conduct its work on the territories of states without obstruction. At the end of the year 24 states had signed the Agreement on Privileges and Immunities and only one state had ratified it.

The most disturbing challenge to the ICC came from the efforts of the USA to undermine the Court. Expressing fears that the ICC could be used to bring politically motivated investigations and prosecutions against US nationals, the USA repudiated its signature of the Rome Statute in May.


These fears are groundless because the substantial safeguards and fair trial guarantees contained in the Rome Statute will prevent such a situation. Nevertheless, in June the USA demanded that the UN Security Council include in its renewal of the Bosnia and Herzegovina peace-keeping mission an exemption from ICC jurisdiction for UN peace-keepers from states that are not party to the Rome Statute. When the 14 other Security Council members initially refused, the USA vetoed an extension of the peace-keeping mission. Despite calls from over 100 countries not to give in to US demands, on 12 July the Security Council adopted Resolution 1422. This provides for an automatic Security Council deferral (unless it decides otherwise) of any ICC investigation or prosecution for 12 months (from 1 July 2002) of any case involving current or former officials or personnel from a state that has not ratified the Rome Statute over acts or omissions relating to a UN established or authorized operation.

In August, President George W. Bush signed the American Servicemembers' Protection Act. Under this, the USA will not cooperate with the ICC in investigations or prosecutions of US citizens, will deny military aid to states that have ratified the treaty (with some exceptions), and may use "all necessary means" to return anyone detained by the ICC to the USA.

The USA also asked governments around the world to enter bilateral impunity agreements not to surrender or transfer US nationals to the ICC. It exerted extreme pressure on states to meet this request, in many cases threatening to withdraw military aid. At the end of the year, 17 states had signed such impunity agreements with the USA, although none have been ratified so far.

AI called on the USA to abandon its attacks on the ICC and to join the international community in its effort to end impunity.


Establishing a system of International Justice to End Impunity


If the twenty first century is to avoid the brutality that was a hallmark of the twentieth, a legal system that ends impunity to the perpetrators of the worst crimes known to humanity - genocide, crimes against humanity, war crimes, torture, extrajudicial executions and disappearances - must be established and implemented worldwide. Such a system is essential to deter people contemplating such crimes, to allow victims to obtain justice and redress and to support reconciliation between the groups or states involved in a conflict.

The twentieth century was perhaps the bloodiest in history. Millions of people were victims of genocide, crimes against humanity, war crimes, torture, extrajudicial executions and "disappearances." These crimes were committed throughout the world during international and civil wars and in conditions of "peace."

Despite the extent and horrific nature of the crimes witnessed in the 20th century, shamefully only a handful of perpetrators have ever been brought to justice. The majority of prosecutions were for crimes committed in World War II, and, more recently, in the former Yugoslavia and Rwanda. In these situations the international community established international tribunals to prosecute the most serious cases. In the cases of the former Yugoslavia and Rwanda, the national courts are also conducting some prosecutions. In a small number of cases, national courts in other countries have investigated and prosecuted individuals accused of the crimes who entered their territory .


Disturbingly, the vast majority of perpetrators have been allowed to carry out their crimes in the knowledge that it was extremely unlikely that they would be brought to justice. This trend of impunity exists for many reasons, including, the inability of national courts following a conflict to conduct prosecutions and often a lack of political will by the national authorities and the international community to hold the perpetrators accountable. In many cases, national law is inadequate to deal with such crimes. For example, the crimes are not defined as crimes under international law or their definitions, principles of criminal responsibility and defences are inconsistent with international law. Often, courts cannot exercise universal jurisdiction over suspects found in their territory or even surrender them to international courts because national laws do not authorise them to do so.

Amnesty International is campaigning for an end to impunity for these crimes. To achieve this, the organisation, together with thousands of non-governmental organisations and civil society groups worldwide, is lobbying all governments to take steps to establish an international system of justice, complemented by national systems to bring perpetrators to justice. In particular, Amnesty International is calling on all states to:

1. Ratify the Rome Statute of the International Criminal Court and enact effective implementing legislation to cooperate fully with the Court.

2. Enact and use universal jurisdiction legislation for the crimes of genocide, crimes against humanity, war crimes, torture, extra-judicial executions and "disappearances", in order that their national courts can investigate and, if there is sufficient admissible evidence, prosecute anyone who enters its territory suspected of these crimes, regardless of where the crime was committed or the nationality of the accused or the victim.

3. Enact legislation to ensure effective cooperation with the International Criminal Tribunals for the former Yugoslavia and Rwanda and any other international criminal court created in the future.


4 - TESTI E DOCUMENTI


Crimini di guerra

Pubblicato per la prima volta in Italia nel 2000 da Contrasto e Internazionale; 400 pagine, 145 voci da Apartheid a Zona di Sicurezza,150 illustrazioni, 148 collaboratori di 12 paesi coordinati da Roy Gutman e David Rieff; Allegato l'aggiornamento 2003 con testi di Antonio Cassese, Anthony Dworkin e David Rieff.

Crimini di Guerra è un manuale per tutti, ma è anche una realtà estremamente dinamica e un punto di riferimento per chiunque voglia consolidare la propria passione civile nella consapevolezza del diritto e voglia aggiornare con continuità le proprie informazioni.

Il sito www.crimesofwar.org è diventato un luogo di dibattito aperto, di continua analisi e di scambio di idee sui temi legati alla politica, al diritto internazionale e ai crimini.



Lo stato criminale. I genocidi del XX secolo

di Yves Ternon, Ed. Corbaccio, 1997, pp.432.

Il XX secolo avrà il triste privilegio di aver conosciuto la barbarie organizzata, "amministrata", "statalizzata". Il genocidio è il peggiore crimine intenzionale contro i diritti umani che ha causato più vittime di tutte le guerre del XX secolo messe insieme. Per aggiornamenti su questo tema in varie lingue cf. www.genocidewatch.org ; www.preventgenocide.org.


Contro il crimine di genocidio si è costituito una coalizione internazionale che ha come obiettivi l’informazione al grande pubblico, un sistema di monitoraggio, la denunzia all’Onu, l’arresto e il processo a carico dei responsabili. Fanno parte della coalizione: Genocide Watch, The Leo Kuper Foundation (UK), Physicians for Human Rights (UK), Prevent Genocide International (USA), International Alert, The Genocide Studies Program of Yale University, the Cambodian Genocide Project, Inc., The Institute on the Holocaust and Genocide (Israel), The Committee for Effective International Criminal Law (Germany), the Aegis Trust (UK), the Cooperative Baptist Fellowship Global Mission, The Genocide Prevention Center (USA), Survivors’ Rights International (USA), Prévention Génocides (Belgium), CALDH (Guatemala), INFORCE (UK), and The Remembering Rwanda Trust (Canada). L’appartenenza è libera e aperta sia a persone singole come a gruppi e associazioni. Coordinamento:Genocide Watch, Post Office Box 809, Washington, D.C. 20044. Telephone: 703-448-0222. FAX: 703-448-6665. e-mail: info@genocidewatch.org


5 – GLI USA IN GUERRA CONTRO AFGHANISTAN E IRAQ


Note e commenti di Giuseppe Lodoli su Bollettino del Comitato Paul Rougeau


Una minaccia senza precedenti ai diritti umani (novembre 2001)

L’ avanzamento dei Diritti umani, nelle leggi e nella prassi, dove essere considerato un cammino senza ritorno. La catena di eventi disastrosi cominciata l’11 settembre sembra mettere in dubbio questa regola essenziale per il progresso della civiltà.

La dottrina dei Diritti umani, nella seconda metà del secolo passato ha dato un’impronta al complesso dei rapporti tra le nazioni, quale possibile riferimento comune per gli abitanti della Terra, ed è la premessa necessaria di una speranza di pace e di giustizia.

I Diritti umani nati in Europa ed affermatisi prioritariamente nei paesi sviluppati, hanno ricevuto dall’Occidente il massimo impulso. Le remore dei paesi poveri, ai quali i Diritti umani possono apparire un’opzione praticabile soltanto da coloro che hanno risolto il problema essenziale della sussistenza, sono pericolose ma suscettibili di essere progressivamente superate. Al contrario, un attacco ai Diritti umani che parta dall’Occidente può risultare catastrofico.

Ci eravamo proposti di verificare la fondatezza delle gravi preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani sorte dopo l’11 settembre e ci troviamo a farlo alla luce di una serie di eventi di incredibile portata verificatesi nell’ultimo mese. Anche dalla nostra imperfetta ed incompleta rassegna il lettore potrà trarre spunti per una approfondita riflessione.

Esecuzioni extragiudiziarie, processi sommari da parti di ‘tribunali di canguri’, copertura di crimini di guerra, l’aggressione massiccia alla privacy individuale da parte dei servizi segreti, potrebbero verificarsi per un tempo indeterminato e devono preoccuparci da subito così come ci preoccupano gli attacchi terroristici evocati per giustificarli.


Le gabbie di Guantanamo: una macchia visibile (gennaio 2002)

Le stragi e le violazioni dei diritti umani che compiono gli Stati Uniti nella loro ‘guerra al terrorismo’ avvengono per la maggior parte al di fuori del controllo e della critica internazionale. Ma alcune immagini di prigionieri talebani inginocchiati, rasati, bendati, legati mani e piedi, muniti perfino di guanti per deprivarli del tatto, hanno suscitato un certo scalpore e molte proteste, più o meno convinte, anche da parte di governi. A partire dall’11 gennaio i prigionieri afgani vengono imbarcati su aerei cargo in condizioni di deprivazione sensoriale e tradotti dai militari USA nella base cubana di Guantanamo denominata Camp X-Ray. A fine gennaio i prigionieri a Cuba erano 158.

Amnesty ha espresso preoccupazione per le condizioni in cui si svolge il viaggio aereo di 22-27 ore dall’Afghanistan a Cuba e per la situazione dei prigionieri a Guantanamo. Costoro sono detenuti all’aperto in gabbie di 5 metri quadrati, con tetto in legno e pavimento in calcestruzzo, illuminate giorno e notte.

Anche il Ministro degli Esteri inglese Jack Straw – dopo una serie di articoli sui giornali del Regno Unito che parlavano senza mezzi termini di tortura - ha chiesto chiarimenti in merito alle foto dei prigionieri talebani tramite il personale britannico che opera nella base.

Le autorità americane hanno riposto sprezzantemente a tutte le critiche rifiutando di riconoscere ai detenuti lo status di prigionieri di guerra e assicurando che essi vengono trattati umanamente.

Una delegazione della Croce Rossa è stata autorizzata a visitare i prigionieri ma i risultati della visita non potranno essere resi pubblici.

Forse sorpresi dall’effetto negativo che hanno avuto le prime foto dei prigionieri diffuse dai media, le autorità USA hanno pregato la stampa di non pubblicare ulteriori foto per proteggere la privacy dei prigionieri.

Il portavoce della Casa Bianca Ari Fleicher ha fatto sapere che il Presidente Bush è soddisfatto del trattamento riservato ai prigionieri. “E’ umano; è rispettoso” – ha detto Fleicher – “Il Presidente è soddisfatto che essi siano trattati come gli Americani vogliono che la gente venga trattata.”

Il 28 gennaio sono cominciati gli interrogatori dei prigionieri a Guantanamo senza garanzie e senza l’assistenza di un avvocato. Questi prigionieri senza ‘status’ sono i candidati ideali per i ‘tribunali canguro’ istituiti da George W, Bush. Già si discute della loro sorte argomentando se e quanti di essi saranno condannati alla pena capitale.


Gli Usa si pongono al disopra del diritto penale internazionale (agosto 2002)

Abbiamo fresco il ricordo di come gli Stati Uniti abbiano esercitato ogni tipo di pressione perché Slobodan Milosevic fosse catturato e tradotto davanti al Tribunale Internazionale per la ex Iugoslavia. Alcuni recentissimi avvenimenti fanno sorgere il sospetto che Milosevic sia stato perseguito non tanto per le violazioni dei diritti umani da lui commesse ma per il 'reato', assai più grave agli occhi della dirigenza americana, di essersi opposto agli Stati Uniti.

Il Tribunale Penale Internazionale (TPI) che ha cominciato i suoi lavori il 1 luglio, quattro anni dopo la sua istituzione a Roma, è stato boicottato dagli Stati Uniti che non aderiscono al suo Trattato costitutivo per impedire che qualsiasi cittadino americano possa essere in futuro soggetto alla giurisdizione del Tribunale. Ricordiamo che il TPI ha competenza nel giudicare i criminali colpevoli dei più gravi reati contro l'umanità.

Gli Stati Uniti inoltre si sono impegnati nella prima metà di agosto in febbrili trattative bilaterali con tutti i paesi che aderiscono al TPI e minacciano di ritirare ogni assistenza militare agli stati che rifiutassero di sottoscrivere un impegno a non estradare cittadini americani verso il Tribunale Penale Internazionale. Ciò anche nel caso in cui arrestassero nel loro territorio americani che si rendessero responsabili di crimini contro l'umanità. Soltanto la Romania ha aderito immediatamente alla richiesta degli USA. L'Unione Europea sembra essere più prudente e prende tempo ricercando una posizione comune.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha commentato: "L'assordante ipocrisia manda il segnale che l'imperio della legge vale solo per gli altri popoli, non per i cittadini americani. Non può rientrare negli interessi a lungo termine dell'America minare il rispetto della legge."

Una forte opposizione degli Stati Uniti ha accolto il 24 luglio l'adozione a larga maggioranza da parte del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) del nuovo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione Internazionale Contro la Tortura. Il Protocollo, che dovrà essere approvato dall'Assemblea Generale delle Nazione Unite per poi essere sottoposto alla ratifica degli stati, prevede un sistema di visite regolari ai luoghi di detenzione da parte di un Comitato internazionale di esperti. Amnesty International ha salutato con grande soddisfazione l'adozione del Protocollo che potrà efficacemente combattere la tortura ancora praticata in 111 paesi. Si prevede che gli USA in autunno daranno battaglia per impedirne l'approvazione da parte dell'Assemblea Generale - o almeno per alterarne il testo in modo da ridurne drasticamente la portata e l'efficacia - facendo lega con paesi quali l'Iran, la Cina, l'Egitto, Cuba, Libia e Sudan.


I miseri prigionieri di Guantanamo rischiano la morte (settembre 2002)

Un quotidiano di Ottawa il 9 settembre ha ricordato che un cittadino canadese quindicenne, catturato dagli Americani in Afghanistan il 27 luglio, rischia la pena di morte. Omar al-Khadr è detenuto dai militari statunitensi in base all’Ordine emanato il 13 Novembre 2001 da George W. Bush per “la detenzione, il trattamento e il giudizio di determinati cittadini stranieri nella guerra al terrorismo.”

Come ha sottolineato Francis Boyle, professore di legge dell’Università dell’Illinois, l’Ordine presidenziale consente di mandare il ragazzo davanti ad un ‘tribunale canguro’ e condannarlo a morte, senza garanzie di una seria difesa legale, senza l’assistenza consolare del Canada ed eventualmente in segreto. “Qualsiasi cosa può accadere” ha affermato Boyle ricordando che le ‘commissioni militari’ istituite da Bush violano le leggi americane così come le leggi internazionali, a cominciare dalla Terza Convenzione di Ginevra sui Prigionieri di guerra. Per ora il Governo canadese rimane inattivo in attesa che l’Autorità militare americana notifichi le prove raccolte contro Omar al-Khadr. Tuttavia tale notifica potrebbe non arrivare mai mentre il ragazzo può essere tradotto in qualsiasi momento e lasciato languire nella base di Guantanamo o condannato a morte.

Le preoccupazioni manifestate per Omar al-Khadr sono valide per tutti i prigionieri di guerra in Afghanistan e in particolare per quelli detenuti nel Campo Delta di Guantanamo nell’isola di Cuba. Peraltro l’opinione pubblica sembra essersi dimenticata della vergogna di Guantanamo (così come delle condizioni di detenzione dei talebani in mano all’Alleanza del Nord in Afghanistan, del tutto simili a quelle tristemente famose di Auschwitz). Un articolo scritto il 16 settembre dal giornalista inglese Richard Wallace, inviato del Daily Mirror, costituisce il primo ed unico sguardo su questo disonorevole campo di concentramento che le autorità americane cercano di tenere il più possibile isolato dalla stampa e da qualsiasi controllo internazionale (*).

Wallace – che ha visitato il campo sempre sotto pesante scorta - ha avuto una estrema difficoltà a raccogliere informazioni dal personale, al di là di quelle fornite ufficialmente dal Comando. E’ stato colpito dal silenzio irreale e dal volo circolare degli avvoltoi. Il giornalista riferisce che nel Campo Delta sono oggi detenuti “598 sospetti di appartenere a Al-Qaeda o ai Talebani, di 38 nazionalità, inclusi 6 britannici, senza accuse, senza diritti legali e, alcuni, senza speranza.” Costretti in celle di poco più di 4 metri quadrati (più piccole delle famose gabbie del Campo X-Ray) per 167 delle 168 ore che formano una settimana, molti compiono atti di autolesionismo o manifestano gravi disturbi mentali (depressione, stress post traumatico, disordini della personalità, delirio e tendenza suicida). Almeno 30 prigionieri hanno tentato il suicidio. Il Comando del campo sostiene però che i disturbi mentali dei detenuti erano precedenti alla cattura e derivanti dalla loro vita disgraziata. Per nessuno si sarebbero aggravati durante la permanenza a Guantanamo.

Nei contenitori metallici il caldo è insopportabile e si sono verificati casi di grave disidratazione. Il Comando tuttavia asserisce che ciò è colpa dei detenuti che non bevono acqua a sufficienza.

In cella il detenuto non ha quasi nulla da fare, legge il Corano, prega cinque volte al giorno e può scrivere un massimo di quattro lettere e due cartoline al mese. Può usare un cesso aperto nel pavimento e stendersi su un bassissimo lettino metallico coperto da uno stuoino spesso un pollice. Quando esce dalla cella è sempre incatenato alle braccia, alla vita e alle gambe e scortato da almeno due guardie che gli serrano le braccia. Sono previsti, nella settimana, due volte un esercizio fisico di un quarto d’ora e una volta una doccia di 15 minuti, quando viene consegnato il cambio dell’uniforme arancione.

I prigionieri subiscono a turno interrogatori più o meno lunghi durante i quali devono restare incatenati. Nel corso di questi interrogatori, senza l’assistenza di un avvocato, essi forniscono informazioni che potrebbero costituire le uniche prove per la loro condanna a morte.

Vige l’assoluta proibizione di parlare ad alta voce facendosi sentire dagli altri detenuti. La violazione di questa regola comporta punizioni pesantissime. La peggiore delle quali è la chiusura in un loculo sempre illuminato (dotato di aria condizionata) nel quale l’individuo può appena rigirarsi. I detenuti ‘collaborativi’ vengono premiati con qualche razione proveniente dal McDonald che serve gli Americani.

Un prigioniero era già cristiano all’arrivo, altri 5 si sono convertiti al cristianesimo con l’aiuto di un cappellano che è lì più che altro in qualità di assistente spirituale del personale americano. A loro è stata fornita una Bibbia tradotta in arabo.

Il Campo Delta, designato ad essere una prigione permanente, al momento risulta pressoché saturo ma è già stato approvato il progetto preliminare per portare la sua capienza a 2000 posti. E’ costituito da 10 blocchi di contenitori metallici, circondati da fittissime reti verdi che li proteggono dagli sguardi indiscreti e sorvegliati da sette torrette d’avvistamento su cui si alternano tiratori scelti. E’ illuminato giorno e notte da una luce accecante prodotta da lampade ad arco.

I prigionieri – sradicati dal loro contesto familiare, sociale e culturale – chiedono continuamente che cosa sarà di loro, chiedono un avvocato, un filo di speranza. I guardiani non rispondono. Noi ci domandiamo se e quanti di essi verranno condannati a morte, quanti moriranno negli anni in conseguenza delle pessime condizioni di detenzione.

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(*) La forma giuridica del Campo di Guantanamo è pressoché identica a quella dei campi di concentramento istituiti dalla Germania nazista all’indomani della presa del potere da parte di Hitler. Tali “Campi (‘Lager’ in tedesco) di custodia protettiva” furono normati dal Decreto del 28 febbraio 1933 con cui – vincendo l’opposizione della Magistratura – si autorizzava la detenzione illimitata senza accuse di persone semplicemente “sospette” di ostilità contro lo stato. I lager furono progressivamente isolati da ogni controllo esterno fino ad essere affidati alla responsabilità esclusiva delle SS nel 1936.


Sei ciniche esecuzioni extragiudiziali portate a termine dalla Cia (settembre 2002)

Amnesty International l’8 novembre ha scritto al Presidente americano Bush per esprimere la sua profonda preoccupazione per l’uccisione di sei persone da parte della CIA nello Yemen. Un missile lanciato da un aereo senza pilota il 3 novembre avrebbe centrato un’auto sulla quale viaggiavano sei uomini tra i quali Qael Salim Sinan al-Harethi, esponente di Al Qaeda. Amnesty ha anche chiesto al Presidente yemenita di perseguire gli attentatori e di chiarire se il suo Governo è al corrente delle operazioni della CIA nello Yemen.

“Se si tratta dell’uccisione di sospetti in luogo del loro arresto, in un momento in cui non stavano ponendo una immediata minaccia, le uccisioni devono essere considerate esecuzioni extragiudiziarie in violazione delle leggi internazionali sui diritti umani - ha affermato Amnesty – Gli Stati Uniti devono chiaramente ed inequivocabilmente dichiarare che non ammettono esecuzioni extragiudiziarie in nessuna circostanza e che qualsiasi agente USA coinvolto in azioni di questo tipo venga portato davanti alla giustizia.”

Siamo pienamente d’accordo con Amnesty, la cui richiesta suona però sorprendentemente ingenua, essendo arcinoto fin dal 28 ottobre 2001 che, nell’ambito della “guerra la terrorismo”, Bush ha firmato, senza suscitare adeguate proteste, degli “ordini” che autorizzano azioni coperte di agenti della CIA con licenza di uccidere (v. n. 90).


La pena di morte e i diritti umani dopo i fatti dell’ 11 settembre (ottobre 2002)

L’attacco dei piloti suicidi alle città americane e la successiva furiosa reazione degli Stati Uniti stanno influendo negativamente sulla dinamica dei Diritti umani negli Stati Uniti e nel mondo. […]

Particolarmente importante è l’approvazione da parte del Congresso del nuovo pacchetto federale ‘antiterrorismo’ (seguito a ruota da analoghe iniziative nei Paesi alleati, tra cui il nostro) che prevede gravi restrizioni dei diritti costituzionali di cittadini americani e soprattutto di quelli stranieri. Il pacchetto denominato Atto Patriottico approvato dal Congresso il 25 ottobre sarà molto presto firmato da Bush. I nuovi poteri di sorveglianza e di intercettazione delle comunicazioni dovrebbero essere usati per formulare precise accuse contro i ‘sospetti terroristi’, fino ad ora trattenuti in modo pretestuoso o arbitrario. L’ultra conservatore Ministro della Giustizia Ashcroft ha promesso di usare le straordinarie facoltà concessegli dal Congresso per perseguire senza tregua i ‘sospetti di terrorismo’, intercettare le loro telefonate, leggere preventivamente i loro messaggi e-mail e i loro SMS e sbatterli in prigione per i più piccolo dei reati. “I terroristi che sono tra noi sono avvisati! Se il vostro visto sarà scaduto da un solo giorno sarete arrestati; se violerete una disposizione locale, e speriamo che lo facciate, sarete messi in prigione e ci resterete il più a lungo possibile.” In realtà tra le 952 persone fermate in conseguenza degli attacchi dell’11 settembre e per lo più ancora detenute – fatte oggetto di disprezzo e in vari casi di gravi maltrattamenti – sarebbero solo una decina quelle realmente sospettate. Si capisce subito come in questo clima siano gravemente compromessi i diritti civili dei cittadini, soprattutto quelli degli immigrati appartenenti a minoranze razziali e religiose.

Infine gravissima è la tendenza ad avallare i peggiori aspetti della ‘guerra sporca’ a livello internazionale contro il terrorismo. Il 28 ottobre un approfondito servizio di Barton Gellman sul Washington Post parla senza mezzi termini di due direttive segrete del Presidente Bush alla CIA, riguardanti l’uccisione dei ‘terroristi’ da parte degli agenti americani o stranieri (o forse di assassini prezzolati ?). I nostalgici degli orrendi crimini compiuti in passato dai servizi segreti – crimini che pure hanno generato negli USA crisi di coscienza, inchieste, smentite e furiose polemiche soprattutto negli anni settanta – ritengono che il fine giustifichi i mezzi e si sforzano di dare una base giuridica alle direttive presidenziali.

Quelle che tecnicamente Amnesty International chiama ‘esecuzioni extragiudiziarie’ e condanna senza mezzi termini, si rifanno al concetto di ‘onnipotenza dello stato’ e come tali non possono trovare alcuna giustificazione etica nell’era dei diritti umani. Nella migliore delle ipotesi, costituiscono un ritorno al potere indiscutibile ‘di vita e di morte’ che aveva il sovrano nello stato assoluto. L’assenza di un processo e di qualsiasi possibilità di difesa legale di coloro che vengono condannati, non meno che la mancanza di un controllo dell’opinione pubblica sull’operato dei governi che le praticano, violano radicalmente il ‘diritto alla vita’, primo e basilare tra i diritti umani, più di quanto non faccia l’usuale pena di morte.

Nello specifico americano si parla della direttiva di eliminare Osama Bin Laden e i suoi collaboratori, ma gli ordini segreti potrebbero estendersi all’assassinio dei loro finanziatori e ed anche ad altre non meglio identificate categorie di ‘nemici’ nella ‘guerra al terrorismo’. Secondo fonti citate da Gellman sarebbe tuttora in discussione l’ampiezza del cerchio che include gli ‘obiettivi’ da eliminare in una quarantina di paesi in cui risiederebbero i ‘terroristi’


Pena di morte, “terrorismo” e diritti umani nel 2001 (dicembre 2002)

C’è un terrore “buono”: quello che provano gli altri

Ci sono coloro che giustificano sul piano etico il modo in cui gli Stati Uniti posero fine alla seconda guerra mondiale nell’agosto del 1945 e coloro che condannano recisamente la decisione del Presidente Truman di accendere il fuoco nucleare sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Nella rinnovata discussione su quello snodo critico della storia degli Stati Uniti nessuno usa la parola ‘terrorismo’.

Se per terrorismo si intende lo spargimento del terrore in una determinata popolazione, usando violenza nei riguardi delle persone e dei beni al fine di raggiungere un obiettivo politico, questa definizione si dovrebbe applicare non solo alla guerra, così come modernamente pianificata ed attuata, ma a molte delle ‘operazioni’ effettuate dai governi per ‘combattere il terrorismo’.

Essendosi costruito nell’immaginario collettivo, con l’ausilio essenziale dei media, un significato totalmente negativo per la parola ‘terrorismo’, essa non verrà mai applicata per definire le azioni dei governi e degli stati più forti. Nei cittadini dei paesi ricchi è stato invece inculcato il concetto di una ‘violenza buona’ esercitata giustamente per difendere i loro interessi nei confronti dei malvagi.

Coloro che amano la pace e i diritti umani dovrebbero grandemente diffidare della mistificazione prodotta dal termine ‘terrorismo’, un termine potente, con un enorme impatto emotivo e una estrema forza ‘aggregante’ dell’opinione pubblica.

Dato che il concetto di ‘terrorismo’ ha contorni incerti ed è emotivamente connotato, la parola ‘terrorismo’ non dovrebbe essere utilizzata in linguaggi specialistici, come quello giuridico, in cui ogni parola deve essere rigorosamente definita. Oggi purtroppo la parola ‘terrorismo’ entra invece nella formulazione di un gran numero di leggi e introduce nei codici indeterminatezza e soggettività, mettendo sempre più a repentaglio il rispetto dei diritti umani.


Il limbo di Guantanamo e i “Tribunali Canguro” (maggio 2003)

Il 2maggio il Pentagono ha cominciato a far trapelare alcune notizie sulle decisioni prese riguardo alla costituzione delle Commissioni militari, definite ‘tribunali canguro’ dai giuristi più critici (v. n. 106). Ricordiamo che tali commissioni furono istituite, con Ordine del Presidente Bush del 13 novembre 2001, per giudicare gli stranieri sospetti di reati di terrorismo catturati in tutto il mondo dagli USA.

Il colonnello dell’esercito Frederic Borch III sarebbe stato designato capo degli accusatori e supervisore dei processi, mentre il colonnello dell’aeronautica Willie Gunn dovrebbe sovrintendere all’ufficio degli avvocati difensori. I due avrebbero anche il compito di reperire gli avvocati accusatori e i difensori d’ufficio nell’ambito del personale militare.

Diciotto crimini di guerra ed altri otto delitti, che vanno dal terrorismo alla resa simulata, potranno essere perseguiti dalle Commissioni militari.

Come già si sapeva, per infliggere una pena detentiva saranno sufficienti i due terzi dei voti a favore; in tal caso i giudici potranno essere solo tre (nei processi normali per affermare la colpevolezza occorre l’unanimità di 12 giurati). Per comminare una condanna a morte sarà richiesta l’unanimità di una commissione di sei giudici. In ogni commissione vi sarà almeno un legale con il compito di decidere quali saranno le prove ammissibili e di risolvere le questioni procedurali. La qualità del materiale probatorio verrà decisa da Rumsfeld e da Bush, pertanto la colpevolezza potrà essere provata al di fuori delle regole vigenti nelle normali corti di giustizia. Si è affermato che potranno essere ammesse testimonianze anonime e prove di origine segreta, prove per sentito dire. Le udienze potranno essere secretate ‘per ragioni di sicurezza’ e condotte da giudici e accusatori anonimi e incappucciati.

Tali commissioni, secondo l’ufficio del Consigliere generale del Ministero della difesa William Haynes, sarebbero pronte a processare un piccolo gruppo di persone ancora da scegliere tra i circa 660 prigionieri appartenenti a 42 nazioni detenuti nella base di Guantanamo Bay a Cuba. La maggior parte di essi sono stati catturati in Afghanistan o in Pakistan. Ma coloro che sono considerati i capi delle organizzazioni terroristiche sono detenuti in segreto in altri luoghi sparsi nel mondo, probabilmente sottoposti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti se non a tortura. Alcuni di questi potrebbero diventare collaborazionisti del governo americano pur di non essere deferiti alle Commissioni militari.

Il Ministro della Difesa Rumsfeld ha definito i prigionieri degli USA ‘nemici detenuti’ o ‘combattenti illegali’con lo scopo di sottrarli alle garanzie delle convenzioni internazionali per i prigionieri di guerra.

Non è detto che i processi comincino nel giro di settimane o di mesi.

I margini del limbo di Guantanamo sono lasciati volutamente indefiniti in modo tale da “far sorgere lo spettro di un Gulag americano” come ha dichiarato il prof. Jonathan Turley dell’Università di legge George Washington.

Dopo lunghissimi interrogatori molti dei detenuti di Guantanamo sono risultati combattenti talebani di ‘basso livello’ difficilmente processabili davanti alle Commissioni militari. Parecchi sono minorenni, non mancano i ragazzi tra i 13 e i 16 anni di età. Una dozzina di essi sarebbe pronta per essere rimandata a casa mentre è prevista una trentina di nuovi arrivi.

Quando fu inaugurato il campo di Guantanamo nel gennaio del 2002 il Vice presidente Dick Cheney chiamò i meschini detenuti lì dentro e in Afghanistan “i peggiori di un pessimo gruppo”, mentre Donald Rumsfeld li definì “tra i più pericolosi, ben addestrati, perfidi assassini che si trovino sulla faccia della terra”. Ora il governo è propenso a rilasciarne alcuni, spremuti e trovati privi di informazioni interessanti, a condizione che non abbiano minacciato di vendicarsi nei riguardi degli Americani.

Nel giuoco delle parti, Colin Powell il ‘buono’ ha inviato il 3 maggio a Rumsfeld, il ‘falco’, una lettera vibrante in cui si chiede al Pentagono di decidere al più presto quali dei prigionieri di Guantanamo possano essere liberati. Il Segretario di Stato è infatti sotto la pressione di molti governi stranieri, inclusi quelli ‘alleati’, che protestano per il limbo legale in cui sono tenuti i rispettivi cittadini.

In tutto, da Guantanamo sarebbero stati fino ad ora liberati solo 22 detenuti, tra cui un pazzo e un ultrasettantenne.

Il dati esatti riguardo ai prigionieri di Guantanamo sono tenuti segreti così come i particolari delle condizioni di detenzione.

Da tutto il mondo si sono levate proteste per questa vergogna che rimarrà nella storia. E’ certo però che quello che avviene in altri siti sperduti e dimenticati, soprattutto nei campi di detenzione gestiti dagli ‘alleati’ degli Stati Uniti in Afghanistan – giustamente paragonati ai lager nazisti - è una vergogna di portata qualitativa e quantitativa assai più rilevante.