Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Sigmund Freud

Considerazioni attuali sulla guerra e la morte

( titolo originale “Zeitgemässe über Krieg und Tod” pubblicato la prima volta in «Imago», 4, 1915. Ediz. italiana Newton Compton Testi, n.17, 1976, pp.16-43)


1. - Guerra e disinganno.

Presi dal vortice di questi tempi di guerra,insufficientemente informati, non abbastanza distaccati per dare un giudizio sui grandi avvenimenti che si sono già verificati o stanno per verificarsi, senza possibilità di sfuggire all'avvenire che ci si prepara, noi non siamo in grado di comprendere l'esatto significato delle impressioni che ci assalgono, di renderci conto del valore dei giudizi che formuliamo. Ci sembra che mai un avvenimento abbia distrutto un patrimonio tanto prezioso, comune all’umanità, abbia provocato un tale perturbamento nelle intelligenze più lucide, abbia così profondamente svilito quanto vi era di più alto. Perfino la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; gli scienziati, esasperati, le forniscono armi per poter contribuire, da parte loro, ad abbattere il nemico.. L'antropologo cerca di dimostrare che l'avversario appartiene ad una razza inferiore e degenerata; lo psichiatra scopre nello stesso perturbamenti psichici ed intellettuali. Ma probabilmente noi subiamo con troppa intensità gli effetti di quanto di male vi è nel nostro tempo, il che ci priva di ogni diritto di stabilire un confronto con altre epoche che non abbiamo vissute e la cui malvagità non ci ha toccati.

L'individuo che non faccia parte dei combattenti e non costituisca un ingranaggio della gigantesca macchina di guerra, si sente disorientato, sminuito dal punto di vista del rendimento funzionale.

Questo individuo, dunque, accetterà senz'altro ogni indicazione che possa aiutarlo, per poco che sia, ad orientarsi nei suoi pensieri e sentimenti. Tra i fattori che si possono considerare come la causa della miseria psichica degli uomini delle retrovie e contro i quali è difficile combattere, ve ne sono due che io mi propongo di mettere in evidenza e di esaminare qui: il disinganno provocato dalla guerra ed il nuovo atteggiamento che, come tutte le altre guerre, questa c'impone nei confronti della morte Quando parlo di disinganno, ciascuno può facilmente intuire a cosa io intenda riferirmi. Senza essere un apostolo della pietà e pur riconoscendo la necessità biologica e psicologica della sofferenza nell'economia della vita umana, tuttavia non si può fare a meno di condannare la guerra nei suoi fini e nei suoi mezzi e di aspirare alla cessazione delle guerre. Si diceva che, finché i popoli fossero vissuti in condizioni di esistenza tanto diverse, finché i loro criteri di valutazione dei valori avessero differito così radicalmente, in rapporto con la vita individuale, e finché gli odi che li separano fossero stati alimentati da forze psichiche tanto intense e profonde, le guerre non avrebbero mai potuto cessare. Perciò ci si era abituati all'idea che, ancora per molti anni, vi sarebbero state guerre tra popoli primitivi e popoli civilizzati, tra razze separate da differenza
di colore, perfino tra certi popoli europei poco avanzati o in via di regresso. Ma si osava sperare che almeno le grandi nazioni dominatrici della razza bianca — alle quali era affidata la missione di guidare il genere umano, che si sapevano prese da interessi estesi al mondo intero, ed a cui si deve il progresso tecnico che ci ha assicurato il dominio sulla natura, come tanti valori artistici e scientifici — sarebbero riuscite a sanare i loro malintesi e conflitti di interessi senza ricorrere alla guerra. Ciascuna di queste nazioni aveva stabilito, per gli individui che la compongono, norme morali assai elevate, alle quali dovevano conformarsi in ogni aspetto della loro vita tutti quanti avessero voluto partecipare dei vantaggi della civilizzazione. Queste prescrizioni, spesso eccessivamente rigide, esigevano molto dall'individuo: molte restrizioni e limitazioni, la rinuncia alla soddisfazione di tanti istinti. Innanzitutto all'individuo era proibito approfittare degli straordinari vantaggi che,. nella concorrenza con i propri simili, si possono trarre dall’uso dell'astuzia e della menzogna. Lo Stato progredito vedeva nell'osservanza di queste norme morali la condizione della propria esistenza, interveniva inesorabilmente ogni volta che si osava contravvenire ad esse, vedeva di mal occhio persino quanti volevano sottoporle alla prova dell'esame critico. Perciò ci si poteva aspettare che fosse esso stesso deciso a rispettarle a non far nulla contro di esse, perché, facendo ciò, sarebbe riuscito solo ad intaccare i fondamenti della propria esistenza. Infine si poteva comprendere come nell'ambito di queste grandi nazioni esistessero, separati come un'isola, determinati residui etnici che, considerati indesiderabili, non erano ammessi a partecipare, in modo attivo come il resto della popolazione, al lavoro comune, o vi erano ammessi solo a malincuore, pur essendosi dimostrati abbastanza capaci di adempiervi. Ma, si pensava, i grandi popoli devono aver acquisito un sufficiente sentimento di quanto li unisce ed abbastanza tolleranza per quanto li divide, per non confondere, come si faceva ancora nell’ antichità classica, lo straniero con il « nemico ».

Facendo affidamento su questa unione tra i popoli civili, innumerevoli individui avevano abbandonato il loro paese per andare a vivere all'estero, legando la propria esistenza ai rapporti che uniscono tra di loro i popoli amici. Colui che non si trovava immobilizzato dalle necessità della vita in un particolare ambiente, poteva godere delle bellezze e dei vantaggi di molti paesi civili, creandosi così una patria più vasta, in cui muoversi senza incontrare difficoltà e senza destare sospetti.
Così egli poteva godere del mare blu e del mare grigio, della bellezza delle vette nevose e di quella delle pianure verdi, del fascino della foresta nordica e dello splendore della vegetazione meridionale, dei sentimenti suscitati da paesaggi ai quali si collegano grandiosi ricordi storici, e della pace della natura inviolata. Questa nuova patria era per lui un museo pieno di tutti i tesori che gli artisti dell'umanità civilizzata avevano creato nel corso di secoli e ci hanno lasciato. Passando dall'una all'altra delle sale di questo museo, egli poteva rendersi conto con assoluta imparzialità di quanto fossero diversi i tipi di perfezione che i suoi compatrioti, nel senso lato del termine, erano riusciti a realizzare con l'unione del sangue, la comunanza della storia, la mescolanza dei caratteri particolari del proprio paese. Qui era, da una parte, l'energia fredda ed inflessibile spinta alla più alta potenza, dall'altra la gradevole arte di abbellire la vita, dall'altra ancora il senso dell'ordine e della legge e di altri elementi che fanno dell'uomo il padrone della terra.

Non dimentichiamo, inoltre, che ogni cittadino del mondo civilizzato si era fatto il proprio « Parnaso », la propria « Scuola di Atene ». Tra i grandi pensatori, poeti, artisti di tutte le nazioni, egli aveva scelto quelli ai quali credeva di dovere la parte migliore di se stesso, che gli avevano indicato come si dovesse comprendere la vita e godere di essa, e li aveva innalzati allo stesso livello dei classici immortali e dei ben noti maestri del proprio paese. Nessuno di questi grandi uomini gli era sembrato un estraneo solo perché aveva parlato una lingua diversa dalla sua: ammirando un grande uomo straniero, che si trattasse di un acutissimo esploratore delle passioni umane, o di un sognatore ubriaco di bellezza, o di un profeta che avesse fatto predizioni violente e minacciose, o, ancora, di un essere beffardo e pieno di spirito, egli non aveva mai avuto la sensazione di commettere un'infedeltà nei confronti della propria nazione e della propria lingua materna, che continua vano a restargli care.

Di punto in bianco, il piacere che si provava nel godere del patrimonio comune dell'umanità civile era turbato da voci che annunciavano come, date le tradizionali divergenze, erano ancora possibili guerre tra i membri di questa umanità. Ci si rifiutava di credervi, ma, supponendo che una simile eventualità fosse possibile, come la si poteva immaginare? Come un'occasione di dar prova del progresso che il sentimento di solidarietà aveva compiuto tra gli uomini dai tempi in cui gli Anfzioni greci avevano proibito di distruggere una città che facesse parte della lega, di tagliare i suoi oliveti, di privarla dell'acqua. Una guerra di questo genere doveva essere una specie di
spedizione cavalleresca, destinata solo a dimostrare la superiorità di una delle parti in conflitto, evitando per il possibile di provocare sofferenze gravi, sproporzionate allo scopo, garantendo completa immunità per il ferito che doveva ritirarsi dal combattimento e per il medico e l'infermiere che avevano il compito di curarlo. Non è il caso di dire che bisognava avere tutti i riguardi per la popolazione civile, per le donne, che non usano le armi, per i bambini che, una volta raggiunta l'età adulta, dovranno divenire gli amici ed i collaboratori dei loro coetanei del campo nemico. Aggiungiamo ancora che dovevano essere mantenute tutte le iniziative e le istituzioni internazionali nelle quali, in tempo di pace, si era espressa la comunanza della civiltà.

Una simile guerra sarebbe stata ugualmente terribile ed intollerabile, ma non avrebbe interrotto l'evoluzione dei rapporti morali tra questi grandi individui dell'umanità che sono popoli e gli Stati.

Poi, la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, ed stata per noi una fonte di... disinganno. Non solo essa è più cruenta e più distruttiva di tutte le guerre del passato, per i terribili perfezionamenti apportati alle armi di difesa e d'attacco, ma è altrettanto, se non più, crudele, accanita, spietata che qualunque di esse. Essa non tiene alcun conto delle limitazioni alle quali ci si attiene in tempo di pace e che formano ciò che chiamiamo il diritto delle genti, non riconosce i riguardi dovuti al ferito ed al medico, non fa alcuna distinzione tra combattenti e popolazione civile. Calpesta tutto ciò che trova sul suo cammino, e questo con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esserci avvenire né pace tra gli uomini. Distrugge tutti i legami comunitari che ancora uniscono tra di loro i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé rancori che renderanno impossibile, per molti anni, la ricostituzione di questi legami.

Essa ha dimostrato anche questo fatto appena concepibile: che i popoli civili si conoscono e si comprendono così poco che si allontanano con orrore l'uno dall'altro. Persino una grande nazione civile è divenuta talmente odiosa che si è cercato, definendola « barbara », di eliminarla dalla grande comunità degli uomini civili, sebbene essa abbia dato prova della propria adesione alla civiltà con contributi senz'altro ottimi.

Ci auguriamo che uno storiografo imparziale riuscirà a dimostrare che proprio la nazione che parla la nostra lingua e per la quale lottano i nostri cari ha violato meno le leggi della morale umana. Ma, in momenti come quelli che ora viviamo, chi potrebbe ergersi a difensore della propria causa?

I popoli sono rappresentati dagli Stati che essi formano; gli Stati, dai governi che li dirigono. Nel corso di questa guerra, ogni membro di una nazione può constatare ciò di cui aveva già una vaga intuizione in tempo di pace, cioè che, se lo Stato vieta all'individuo la pratica dell'offesa, ciò non avviene perché esso voglia eliminarla, ma perché vuole monopolizzarla, così come monopolizza il sale ed il tabacco.

Lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l'individuo. Esso ha fatto ricorso, nei confronti del nemico, non solo a quel tanto di astuzia permessa, ma anche alla menzogna cosciente e voluta, e questo in una misura che va al di là di tutto ciò che si era visto nelle guerre precedenti. Lo Stato impone ai cittadini il massimo di obbedienza e di sacrificio, ma li tratta da sottomessi, nascondendo loro la verità e sottomettendo tutte le comunicazioni e tutti i modi di espressione delle opinioni ad una censura che rende la gente, già intellettualmente depressa, incapace di resistere ad una situazione sfavorevole o ad una cattiva notizia. Si distacca da tutti i trattati e da tutte le convenzioni che lo legano agli altri Stati, ammette senza timore la propria rapacità e la propria sete di potenza, che l'individuo è costretto ad approvare ed a sanzionare per patriottismo.

Non ci si venga a dire che lo Stato non può evitare di ricorrere al sopruso, perché, se vi rinunciasse, si metterebbe in posizione d'inferiorità. Conformarsi alle norme morali, rinunciare all'attività violenta e brutale è altrettanto poco vantaggioso per l'individuo che per lo Stato, e raramente questo si dimostra disposto a dispensare il cittadino dai sacrifici che esige da lui. Inoltre, non bisogna meravigliarsi nel constatare che il rilassamento dei rapporti morali tra i grandi gruppi dell'umanità abbia avuto ripercussioni sulla morale privata, perché la nostra coscienza, che non è certo il giudice implacabile di cui parlano i moralisti, è, per la sua origine, «angoscia sociale », e niente più. Laddove viene a mancare il biasimo da parte del la collettività, cessa la compressione degli istinti malvagi e gli uomini si abbandonano ad atti di crudeltà, di perfidia, di tradimento e di brutalità che, a giudicare solo dal loro livello di civilizzazione, si sarebbero creduti impossibili.

Così, di fronte alla rovina della sua patria, alla devastazione dei beni comuni, all'umiliazione dei suoi concittadini rivolti gli uni contro gli altri, il cittadino dell'universo civile di cui abbiamo prima parlato si sente, improvvisamente, un estraneo nel mondo che lo circonda.

Ma il suo disinganno richiede qualche spiegazione. In termini rigorosi, esso non è giustificato, perché si riduce alla distruzione di un'illusione. Le illusioni presentano il vantaggio di risparmiarci sentimenti dolorosi e di permetterci di provare invece sentimenti di soddisfazione. Perciò dobbiamo badare che esse non vengano, un giorno, a cozzare con la realtà, e la cosa migliore che possiamo fare è di accettare la loro distruzione senza lamenti ne recriminazioni.

Nel corso di questa guerra, il nostro disinganno è stato provocato da due fattori: il carattere scarsamente morale del comportamento degli Stati nei confronti dei loro vicini, mentre all'interno ciascuno di essi si pone come guardiano delle leggi morali, e la brutalità che caratterizza il comportamento degli individui e che non ci si sarebbe aspettato da parte di questi rappresentanti del più alto livello di civiltà raggiunto dall’uomo.

Cominciamo da quest'ultimo fatto e cerchiamo di esprimere con una sola proposizione, breve e concisa, la concezione che vogliamo sottomettere ad un esame critico. In che modo generalmente ci si rappresenta il processo per cui un individuo raggiunge grado di moralità superiore? La prima risposta sarà: l'uomo nasce nobile e buono. Ma è una risposta senza valore e di cui non dobbiamo occuparci. La seconda risposta riconoscerà che ci si trova di fronte ad un'evoluzione che consisterebbe nel fatto che, sotto l'influenza dell'educazione e dell’ambiente civile, le tendenze cattive scompaiono poco a poco, per far posto a quelle buone. Ma, se le cose stanno così, come non stupirsi del fatto che, nonostante l'influenza dell'educazione e dell'ambiente civilizzato, le cattive tendenze riescano ugualmente a riprendere il sopravvento ed a manifestarsi con violenza?

Quest'ultima risposta comporta una proposizione che ci è impossibile sottoscrivere. In realtà, le cattive tendenze non scompaiono », non sono mai profondamente sradicate. Le ricerche psicologiche, in particolare l'osservazione psicoanalitica, dimostrano invece che la parte più intima, più profonda dell'uomo, è composta di tendenze di natura elementare, identiche in tutti gli uomini e tese alla soddisfazione di certi bisogni primitivi. Di per sé, queste tendenze non sono né buone né cattive. Noi le classifichiamo, insieme alle loro manifestazioni, sotto queste due categorie, a seconda dei loro rapporti con i bisogni e le esigenze della collettività umana. Si riconosce che tutte le tendenze riprovate dalla società come cattive (ad esempio, quella all'egoismo ed alla crudeltà) fanno parte di queste tendenze primitive.

Prima di manifestarsi nell'adulto, queste compiono una lunga evoluzione. Subiscono inibizioni, vengono orientale verso altri scopi ed altri campi, si fondono le une con le altre, cambiano oggetto, si dirigono in parte contro la persona che ne è il portatore. Certe formazioni con le quali noi reagiamo all'una o all'altra di queste tendenze possono facilmente far credere ad un cambiamento della loro natura, ad una trasformazione dell'egoismo in altruismo, della crudeltà in pietà. Questo errore è favorito dal fatto che alcune di queste tendenze si presentano fin dagli inizi a coppie, dando luogo a quel fenomeno notevole, poco conosciuto dai profani, che viene denominato come « ambivalenza affettiva ». Una manifestazione di queste tendenze, quella che è più facile osservare e comprendere, è rappresentata dalla frequentissima coesistenza nella stessa persona di un intenso amore e di un odio violento. A queste osservazioni la psicoanalisi aggiunge che inoltre molto spesso questi due sentimenti riguardano lo stesso oggetto.

Non è finché tutte queste « vicissitudini istintuali » sono state superate che ciò che chiamiamo il carattere di una persona è formato, e questo, come si sa, può solo molto inadeguatamente essere classificato come « buono » o « cattivo ». Di rado l'uomo è del tutto buono o del tutto cattivo; nella maggior parte dei casi egli è buono per certi aspetti, cattivo per altri; buono in certe condizioni esteriori, decisamente cattivo in altre. L'esperienza ci ha dimostrato questo fatto interessante: che la preesistenza, nell'infanzia, di tendenze molto « cattive » costituisce in molti casi una delle condizioni per l'orientamento verso il bene, quando l'individuo ha raggiunto l'età adulta. I bambini più egoisti possono diventare cittadini estremamente caritatevoli e capaci dei massimi sacrifici; la maggior parte degli apostoli della pietà, dei filantropi, dei protettori di animali, hanno dimostrato, nell'infanzia, tendenze sadiche e crudeltà nei confronti degli animali.

La trasformazione delle tendenze « cattive » è opera di due fattori, uno intcriore, l'altro esteriore, che agiscono nella stessa direzione. Per quanto riguarda il fattore intcriore, esso si manifesta attraverso le influenze che l'erotismo, il bisogno di amore, nel senso lato del termine, che l'uomo prova, esercitano sulle tendenze cattive (o, se si preferisce, sulle tendenze egoistiche).
Con il sopravvenire di elementi erotici, le tendenze egoistiche si trasformano in tendenze sociali. Ben presto si giunge a constatare che essere amati è un vantaggio al quale se ne possono e se ne devono sacrificare molti altri.

Quanto al fattore esterno, esso consiste nella pressione esercitata dall'educazione che si fa portavoce delle esigenze dell' ambiente civilizzato e la cui influenza viene in seguito sostituita dall'azione diretta di questo stesso ambiente. La civilizzazione ha potuto sorgere e svilupparsi solo grazie alla rinuncia alla soddisfazione di determinati bisogni ed esige che tutti coloro i quali, nel susseguirsi delle generazioni, vogliono godere dei vantaggi che la vita civile comporta, rinuncino a loro volta alla soddisfazione di certi istinti.

Nel corso della vita individuale si verifica un'interessante trasformazione della pressione esterna in pressione interna. Grazie alla continua influenza dell'ambiente civilizzato, e per il sopravvenire di elementi erotici, un numero sempre maggiore di tendenze egoistiche si trasformano in tendenze sociali. Infine, possiamo riconoscere che tutta la pressione interna la cui azione si manifesta nel corso dell'evoluzione umana, in una fase primitiva, cioè agli inizi della storia umana, non è stata che una pressione esterna. Gli uomini che nascono nella nostra epoca portano con sé al mondo una certa disposizione a trasformare le tendenze egoistiche in tendenze sociali, disposizione che fa parte dell'organizzazione che hanno ereditato e che opera questa trasformazione sotto lo stimolo di impulsi spesso molto lievi. Ma altre tendenze subiscono la trasformazione non più per una disposizione ereditaria, ma sotto la pressione di fattori esteriori. In tal modo ogni individuo subisce non solo l'influenza del suo attuale ambiente civilizzato, ma anche quella degli ambienti in cui vissero i suoi antenati.

Designando come capacità alla vita civile la facoltà che l'uomo possiede di trasformare, sotto l'influsso di fattori erotici, le sue tendenze egoistiche, possiamo dire che questa capacità è composta di due parti, una delle quali è innata, mentre l'altra è stata acquisita nel corso della vita, e che i rapporti che sussistono tra queste due parti, come tra ciascuna di esse e le tendenze che non hanno subito la trasformazione erotico-sociale, sono molto variabili.

Noi tendiamo ad attribuire un valore esagerato a ciò che vi è d'innato nella tendenza alla vita civile ed, in generale, a sopravvalutare questa tendenza, che si tratti dei suoi elementi innati o acquisiti in relazione a ciò che, della nostra vita istintiva, è rimasto allo stato primitivo. In altre parole, noi tendiamo a giudicare l'uomo « migliore » di quanto in realtà non sia. Ma c'è un altro fattore che turba il nostro giudizio e ci spinge a trarre conclusioni in un senso nettamente favorevole.

Gli impulsi istintivi degli altri uomini sfuggono naturalmente alla nostra percezione. Noi li deduciamo in base alle loro azioni ed al loro modo di comportarsi, che ricolleghiamo a moventi che hanno la loro origine nella vita psichica. Ma in molti casi la conclusione cui si è giunti è sbagliata. Le stesse azioni, « buone » quando le si considera sotto l'angolo di visuale della vita civilizzata, in certi casi possono essere dettate da motivi « nobili », in altri no. I teorici della morale usano il qualificativo « buone » solo per le azioni che sono l'espressione di tendenze buone, e si rifiutano di usarlo per le azioni che non soddisfano questa condizione. Ma la società, guidata solo da considerazioni di carattere pratico, non da affatto importanza a questa distinzione, accontentandosi di constatare che l'uomo conforma la propria condotta e le proprie azioni alle esigenze della vita civile, senza preoccuparsi dei loro moventi.

Abbiamo detto che la pressione esteriore esercitata sull'uomo dall'educazione e dall'ambiente contribuisce all'orientamento della vita istintiva verso il bene, favorisce la transizione dall'egoismo all'altruismo. Ma questo effetto non si verifica sempre e necessariamente. L'educazione e l'ambiente non si accontentano, e non ne hanno sempre l'occasione, di distribuire premi all'amore; essi sono costretti a ricorrere ad altri mezzi: la ricompensa ed il castigo. Così spesso succede che quelli sui quali si esercita la loro influenza si comportino in modo social mente buono e lodevole, senza che la loro vita istintiva si sia affinata, senza che le loro tendenze egoistiche abbiano subito una reale trasformazione in tendenze sociali. Grosso modo, il risultato sarà lo stesso; e solo in circostanze particolari appare evidente che quel certo individuo si comporta sempre bene perché vi è spinto dai suoi istinti, mentre quell'altro si comporta bene, dal punto di vista sociale, solo nella misura in cui ciò si accorda con i suoi fini egoistici. Ma una conoscenza superficiale dell'individuo non ci fornisce i mezzi per distinguere tra questi due casi, ed il nostro ottimismo ci spingerà sempre ad esagerare il numero di coloro le cui tendenze hanno subito una trasformazione sociale.

In questo modo, la nostra società civile, che esige una buona condotta senza preoccuparsi delle tendenze su cui questa si fonda, ha abituato un gran numero di persone ad ubbidire, a conformarsi alle condizioni della vita civile, senza che la loro natura partecipi a questa obbedienza. Incoraggiata da questo successo, essa ha spinto il più lontano possibile le esigenze morali, il che ha scavato un abisso ancora più profondo tra la condotta imposta agli individui e le loro disposizioni istintive. Queste subivano una repressione sempre più forte, e la tensione che ne risultava si manifestava con bizzarri fenomeni di reazione e di compensazione. Nel campo della sessualità, in cui è meno facile ottenere la repressione, noi assistiamo ai fenomeni repressivi dei nevrotici. Negli altri campi, la pressione esercitata dalla vita civile, senza manifestarsi attraverso fenomeni patologici in senso proprio, porta a delle deformazioni del carattere, mentre gli istinti inibiti sono sempre pronti ad approfittare della minima occasione per ottenere soddisfazione. L’ individuo costretto in questo modo a reagire costantemente conformandosi a regole e prescrizioni, senza alcun rapporto con le proprie tendenze intime, vive, in senso psicologico, al di sopra delle proprie forze e, oggettivamente, potrebbe essere considerato un ipocrita, anche se egli non ne è assolutamente cosciente. Indubbiamente, la nostra attuale civilizzazione favorisce in modo straordinario questo genere di ipocrisia; si può dire, senza esagerare, che essa si basa su questa ipocrisia e che subirebbe cambiamenti profondi se gli uomini volessero cominciare a vivere secondo la realtà psicologica.

Dunque, il numero degli uomini che accettano la civilizzazione ipocritamente è molto superiore a quello degli uomini realmente civilizzati, e noi possiamo chiederci se, dato lo scarso numero degli uomini nei quali la tendenza alla vita civile è divenuta una proprietà organica, un certo livello d'ipocrisia non sia necessario al mantenimento della civilizzazione. D'altra parte, il mantenimento della civilizzazione, anche su una base così fragile, offre la possibilità di ottenere, in ogni nuova generazione, una nuova trasformazione di tendenze, condizione per una migliore civilizzazione.

Le precedenti considerazioni ci danno già un certo sollievo,dato che ci dimostrano che la tristezza e la dolorosa disillusione che abbiamo provato alla vista di azioni, così poco conformi alla nostra idea della vita sociale, di cui si sono resi colpevoli i nostri concittadini del mondo, non erano giustificate. In realtà, questi non sono precipitati tanto in basso quanto avevamo pensato, per il semplice motivo che non erano ad un livello tanto alto quanto avevamo immaginato. Essendosi liberati,gli uni nei confronti degli altri, dalle restrizioni morali, i grandi individui umani, popoli e Stati, hanno creduto di potersi momentaneamente sottrarre agli obblighi che derivano dalla vita sociale e di dar libero corso alle loro tendenze rimosse, avide di soddisfazione. C'è da supporre che la moralità relativa,vigente nei confini di ogni Stato e nell'ambito di ogni popolo, non ne abbia sofferto oltre misura.

Ma possiamo farci un'idea ancora più profonda del cambiamento che la guerra ha apportato nel modo di essere e di agire dei nostri vecchi compatrioti del mondo, e questo ci spingerà ulteriormente ad evitare di essere ingiusti nei loro confronti. Le evoluzioni psichiche presentano una caratteristica che non si ritrova in nessun altro processo evolutivo o di sviluppo. Quando un villaggio si trasforma in città o il bambino diviene uomo, il villaggio ed il bambino sono totalmente assorbiti, fino a scomparire, nella città e nell'uomo. Solo con uno sforzo della memoria si può ritrovare, nella nuova formazione,l'antica fisionomia; la realtà è che l'antico materiale e le antiche forme sono scomparsi, per far posto ad un nuovo materiale ed a nuove forme. Nell'evoluzione della vita psichica le cose vanno in modo assolutamente diverso. In questo caso c'è una situazione diversa da ogni altra che si può descrivere solo dicendo che ogni precedente fase di sviluppo sussiste e si conserva a fianco di quella che ne è derivata. La successione comporta nello stesso tempo una coesistenza, per quanto i materiali che sono serviti per tutte le varie fasi della modificazione siano gli stessi. La situazione psichica precedente può sussistere per anni senza manifestarsi esteriormente; tuttavia, ripetiamo, essa resta, al punto da essere in grado, ad un certo momento, di divenire la forma di espressione delle forze psichiche, addirittura l'unica forma, come se tutte le fasi ulteriori non esistessero, fossero scomparse. Tuttavia, questa straordinaria plasticità delle possibilità di evoluzione psichica non può manifestarsi in tutte le direzioni; si può dire che essa rappresenti una straordinaria tendenza alla regressione, perché spesso avviene che una fase successiva e superiore, una volta abbandonata, non possa più essere raggiunta. Invece gli stati primitivi possono sempre essere rievocati e riprodotti; quanto di primitivo vi è nella nostra vita psichica è imperituro.

Il profano può credere che le malattie cosiddette psichiche risultino da una distruzione della vita psichica e mentale. In realtà, la distruzione riguarda solo acquisizioni e fasi di evoluzione tardive. L'essenza della malattia psichica consiste nel ritorno a fasi anteriori della vita funzionale ed affettiva. Nello stato di sonno, che cerchiamo di realizzare ogni notte, abbia mo un ottimo esempio della plasticità della vita psichica. Dacché siamo in grado d'interpretare i sogni, anche quelli più stravaganti ed ingarbugliati, noi sappiamo che, ogni volta che un uomo si addormenta, egli si sbarazza, come di un abito, di tutta la sua moralità acquisita in modo tanto doloroso, per ritrovarla l'indomani, al risveglio. Naturalmente questo denudamento morale è innocuo; lo stato di sonno, paralizzandoci, ci condanna all'inattività. Soltanto il sogno può chiarirci la regressione della nostra vita affettiva verso una fase evolutiva anteriore. Così, per esempio, bisogna osservare che i nostri bisogni sono dominati da motivi puramente egoistici. Una volta che un mio amico inglese aveva sostenuto questo principio davanti ad una dotta assemblea americana, una signora del pubblico osservò che quanto egli diceva poteva essere vero in Austria, ma che, per ciò che la riguardava teneva ad asserire che lei ed i suoi amici provavano, anche nei sogni, sentimenti altruistici. Il mio amico, sebbene fosse anch'egli di razza inglese, si vide costretto, sul fondamento dei risultati che aveva ottenuti con l'analisi dei sogni, a rispondere che nei sogni, le più stimabili signore americane non avevano nulla da invidiare, quanto ad egoismo, alle austriache.

Perciò la trasformazione delle tendenze, sulla quale si fonda la nostra capacità alla vita civile, può, sotto l'influenza di avvenimenti della vita, subire una regressione, passeggera o duratura. Indubbiamente, le influenze che hanno origine nella guerra fanno parte delle forze capaci di provocare una simile regressione,dal che deriva che noi non possiamo negare la capacità alla vita civile a tutti coloro che si comportano in maniera opposta ai principi su cui si fonda questa vita e che dobbiamo aspettare finché tempi migliori e più tranquilli portino di nuovo in superficie i loro sentimenti nobili ed elevati.

Ma nei nostri concittadini del mondo noi abbiamo osservato un altro sintomo che forse ci ha stupiti quanto l'abbassamento, per noi così doloroso, del loro livello morale. Intendo riferirmi alla loro mancanza d'intelligenza, alla loro stupida ostinazione, alla loro inaccessibilità ai ragionamenti più convincenti, all'infantile credulità con la quale essi accettano le affermazioni più discutibili. Ne deriva un quadro profondamente triste, ed io tengo ad affermare ad alta voce che non sono accecato da un partito preso al punto da trovare questi difetti in uno soltanto dei campi in conflitto. Bene, questo fenomeno può essere spiegato ancora più facilmente di quello che abbiamo trattato sopra, ed è meno in grado di turbarci. Già da tempo i filosofi e gli esperti dell'umanità ci hanno detto che sbagliavamo nel considerare la nostra intelligenza come una forza indipendente e nel non tener conto della sua di pendenza dalla vita affettiva. Il nostro intelletto può lavorare efficacemente solo nella misura in cui non risente di influenze affettive troppo intense; in caso contrario, esso agisce semplicemente come uno strumento al servizio di una volontà ed ottiene il risultato che questa gli ispira. Perciò, le argomentazioni logiche non possono niente contro gli interessi affettivi, ed è per questo che, nel mondo degli interessi, la lotta a base di ragionamenti è tanto sterile. L'esperienza psicoanalitica conferma questa verità. Essa ha modo di constatare ogni giorno come, dal momento in cui i pensieri che si presentano loro urtano contro una resistenza affettiva, gli uomini più intelligenti perdono immediatamente ogni facoltà di comprensione e si comportano come degli imbecilli, ma che, dopo che questa resistenza è stata vinta, la loro intelligenza e la loro facoltà di comprendere si ridestano. Perciò l'accecamento logico in cui questa guerra ha gettato i nostri migliori concittadini è solo un fenomeno secondario, la conseguenza di un'eccitazione affettiva che, c'è da sperare, scomparirà insieme alle cause che l'hanno provocata. Dopo aver ricominciato a comprendere i nostri concittadini che ci erano apparsi tanto estranei, noi sopporteremo molto più agevolmente il disinganno che ci hanno causato i popoli, questi grandi individui dell'umanità, nei confronti dei quali noi dobbiamo, d'altronde, moderare le nostre esigenze. Può darsi che i popoli, riproducendo l'evoluzione degli individui, si trovino ancor oggi a fasi di organizzazione molto primitive, ad un punto assai poco avanzato del cammino che porta alla formazione di unità superiori. Perciò sarebbe ancora impossibile ritrovare in essi gli effetti moralizzatori della pressione esteriore che si manifestano con tanta forza nell'individuo. Abbiamo sperato che la grande comunità d'interessi creati dalla facilità delle comunicazioni, dalle relazioni sempre più fitte e dal continuo scambio di prodotti segnasse l'inizio di una simile pressione moralizzatrice; ma sembra che, per il momento, i popoli obbediscano più alle loro passioni che a questi interessi.

Essi mettono innanzi gli interessi solo per razionalizzare le loro passioni, per giustificare la soddisfazione che cercano di accordare loro. Perché in genere i gruppi etnici si disprezzano reciprocamente, perché si odiano anche in tempo di pace? È un mistero il cui senso mi sfugge. Si potrebbe dire che basta che un gran numero, che milioni di uomini si trovino riuniti, perché tutte le acquisizioni morali dei singoli individui svaniscano rapidamente, ed al loro posto restino solo gli atteggiamenti psichici più primitivi, più brutali. Risultato molto doloroso e che si attenuerà forse man mano che l’evoluzione continuerà il suo cammino in avanti. Tuttavia noi crediamo che un po’ più di franchezza e : e di sincerità nei rapporti tra gli uomini ed i loro governanti, potrebbe aprire la strada a questa evoluzione


2 – Il nostro atteggiamento nei confronti della morte

Il fatto che oggi noi ci sentiamo tanto estranei in un mondo che in precedenza ci appariva così bello e familiare riguarda anche un altro fattore, costituito, secondo me, dal perturbamento che questa guerra ha apportato nell'atteggiamento da noi adottato fino ad oggi nei confronti della morte. A sentir noi, si poteva credere che fossimo naturalmente convinti che la morte sia il necessario coronamento della vita; che ciascuno di noi avesse con la natura un debito da cui poteva liberarsi solo con la morte, che fossimo disposti a pagare questo debito, che: la morte fosse un fenomeno naturale, tangibile e inevitabile.:Ma, in realtà, noi ci comportavamo come se le cose stessero in modo diverso. Tendevamo con tutte le nostre forze ad evitare la morte, ad eliminarla dalla nostra vita. Abbiamo tentato di gettare su di essa il velo del silenzio ed abbiamo:inventato il proverbio: « Egli pensa a questo come alla morte (cioè, non vi pensa affatto), beninteso, alla propria morte ( alla quale si pensa ancora meno che a quella degli altri. Il fatto è che per noi è assolutamente impossibile raffigurarci la nostra morte, ed ogni volta che tentiamo di farlo ci rendiamo conto di assistervi da spettatori. E’ per questo che la scuola psicoanalitica si è ritenuta in diritto di affermare che, in fondo, nessuno crede alla propria morte o, il che è lo stesso, che ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità. Per quanto riguarda la morte degli altri, l'uomo civile evita accuratamente :.di parlare di questa eventualità in presenza della persona la cui morte sembra vicina. Solo i bambini non hanno questa discrezione e rivolgono minacce implicanti la:possibilità della morte ed arrivano persino a dare per scontata la morte di una persona cara, dicendole, come se fosse la cosa più scontata del mondo: « Cara mamma, quando tu sarai morta io farò questo o quello». Da parte sua. l’ uomo civile non si sofferma volentieri sul pensiero della morte del le persone che gli sono vicine, perché ciò vorrebbe dire dar prova d'insensibilità o di cattiveria, tranne che nei casi, come quello del medico, dell'avvocato, etc., in cui si è portati a pensarvi per preoccupazioni professionali. Ancora meno egli si permetterà di pensare alla morte di un'altra persona nel caso in cui gliene derivasse una maggiore fortuna od una maggiore libertà od un miglioramento della propria situazione economica. Certo, questi scrupoli non possono niente contro la morte, non possono impedirla, e tutte le volte che l'evento si verifica, noi siamo profondamente scossi e come delusi nelle nostre aspettative. Insistiamo sempre sul carattere occasionale della morte: incidente, malattia, infezione, vecchiaia avanzata, dimostrando così chiaramente la nostra tendenza a spogliare la morte di ogni carattere di necessità, a farne un avvenimento puramente incidentale. Il gran numero dei casi di morte ci spaventa. Anche nei confronti del morto ci comportiamo in un modo molto singolare: evitiamo ogni critica nei suoi confronti, gli perdoniamo le sue ingiustizie, c'imponiamo: de mortuis nihil nisi bene e troviamo naturale che, nell'orazione funebre pronunciata sulla sua tomba e nell'iscrizione che vi viene posta, si parli solo delle sue qualità. Il rispetto per il morto, di cui poi questi non ha più bisogno, ci appare più importante della verità, ed a molti di noi superiore perfino alla considerazione dovuta ai vivi. A questo atteggiamento convenzionale che la civilizzazioni c'impone nei confronti della morte, fa riscontro lo stato di costernazione, di assoluta prostrazione in cui ci precipita la morte di una persona cara, padre o madre, moglie o marito, fratello o sorella, figlio o amico caro. Insieme ad essi ci sembra di seppellire le nostre speranze, le nostre ambizioni, le nostre gioie, respingiamo ogni consolazione ed affermiamo che si tratta di una perdita irreparabile. Ma questo atteggiamento nei confronti della morte reagisce con forza sulla nostra vita. Questa s'impoverisce, perde d'interesse, dal momento in cui non possiamo rischiare ciò che ne costituisce la posta più alta, cioè la vita stessa. Allora essa diviene tanto misera, tanto vuota, quanto un « flirt» di cui si sa in partenza che non porterà a niente, a differenza di un amore vero, quando i due « partners» sono tenuti a pensare sempre alle serie conseguenze del gioco in cui si trovano impegnati. I nostri legami affettivi, l'insopportabile intensità del nostro dolore ci distolgono dalla ricerca di pericoli per noi stessi e per i nostri cari. Noi indietreggiamo di fronte a tante imprese, pericolose ma indispensabili, come saggi di aviazione, spedizioni in paesi lontani, esperimenti su sostanze esplosive, ecc. Per quanto ci riguarda, in ciascuna di queste occasioni ci poniamo questa domanda: nel caso di una disgrazia, chi sostituirà il figlio per la madre, il marito per la moglie, il padre per i figli? La tendenza ad eliminare la morte dal registro della vita ci ha imposto anche molte altre rinunce e limitazioni. Eppure l'insegna anseatica proclamava: navigare necesse est, vivere non necesse! Navigare è una necessità, vivere non è una necessità. E siamo portati, in modo assolutamente naturale, a ricercare nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro, ciò che nella vita reale abbiamo respinto. Lì noi troviamo ancora degli uomini che sanno morire e danno la morte ad altri. Solo lì è soddisfatta la condizione per cui potremmo riconciliarci con la morte. Infatti questa riconciliazione sarebbe possibile solo se riuscissimo a convincerci che, quali che siano le vicissitudini della vita, noi continueremo sempre a vivere, ma di una vita che sarà al riparo da ogni attacco. Infatti è troppo triste rendersi conto che la vita assomigli al gioco degli scacchi, in cui basta una mossa falsa a farci perdere la partita, con l'aggravante che, nella vita, non possiamo nemmeno contare su di una possibilità di rivincita.
Ma nel campo della finzione noi troviamo questa molteplicità di vita di cui abbiamo bisogno. Noi ci identifichiamo con un eroe nella sua morte, e tuttavia gli sopravviviamo, ben disposti a morire in modo tanto innocuo un'altra volta, con un altro eroe.

E evidente che questo atteggiamento convenzionale nei confronti della morte è incompatibile con la guerra. Non è più possibile negare la morte, si è costretti a credervi. Gli uomini muoiono realmente, e non più uno ad uno, ma a masse, a dozzine di migliaia ogni giorno. Stavolta non si tratta più di morte accidentale. Indubbiamente, è un gioco del caso quando un proiettile colpisce questo anziché quello; ma quest'altro potrebbe essere colpito dal proiettile seguente. La stragrande quantità dei morti diviene incompatibile con la nozione di casualità. E’ la vita è tornata ad essere interessante, ha ritrovato il suo contenuto. A questo punto è bene distinguere due gruppi: il gruppo di coloro che rischiano la vita in battaglia, ed il gruppo di quelli che, rimasti nelle retrovie, si aspettano di venire a sapere che una persona cara è morta per una ferita, una malattia o un'infezione. Sarebbe indubbiamente molto interessante studiare le modificazioni che si verificano nella psicologia dei combattenti, ma su questo punto sono troppo poco informate.

Così, dobbiamo limitare le nostre ricerche al secondo gruppo, di cui noi stessi facciamo parte.

Ho già detto che, se noi soffriamo di uno sconvolgimento e di una diminuzione della nostra potenza funzionale, ciò è dovuto essenzialmente, secondo me, al fatto che non possiamo più mantenere il nostro antico atteggiamento nei confronti della morte e che non ne abbiamo trovato uno nuovo. Potremmo forse ottenere dei risultati interessanti estendendo le nostre ricerche ad altri due atteggiamenti nei confronti della morte:a quello che possiamo attribuire all'uomo primitivo, all'uomo delle età preistoriche, ed a quello che è rimasto ancora in ciascuno di noi, ma che, invisibile alla coscienza, si cela negli strati profondi della vita psichica. Per quanto riguarda il modo in cui l'uomo primitivo si comporta nei confronti della morte, naturalmente noi lo conosciamo solo attraverso deduzioni, ma ritengo che questi procedimenti ci abbiano dato risultati di cui possiamo fidarci abbastanza. L'atteggiamento dell'uomo primitivo nei confronti della morte è notevole perché nettamente contraddittorio. Da una parte egli prendeva la morte sul serio, la considerava come la fine della vita e se ne serviva di conseguenza; dall'altra, egli la negava, si rifiutava di attribuirle ogni significato ed ogni efficacia. Questa contraddizione si spiega in parte con il fatto che il suo modo di considerare la morte degli altri, dello straniero, del nemico, differiva radicalmente da quello con il quale considerava la prospettiva della propria morte. La morte degli altri gli sembrava seria, egli vedeva in essa il modo di annientare quelli che odiava, e l'uomo primitivo non provava il minimo scrupolo né la minima esitazione a provocare la morte. Egli era certamente un essere molto passionale, più crudele e più cattivo che gli altri animali; uccideva volentieri e nel modo più naturale del mondo. Non abbiamo alcun motivo di attribuirgli l'istinto che impedisce a tanti altri animali di uccidere e divorare gli individui della propria specie.

Così, la storia primitiva dell'umanità è piena di massacri Ciò che ancora oggi i nostri figli imparano a scuola sotto la denominazione di storia universale, non è altro che una successione di assassini! collettivi, di massacri tra un popolo ed un altro. Probabilmente, il vago ed oscuro senso di colpa che l'umanità prova dai tempi più primitivi e che in certe religioni si è cristallizzato sotto forma di un dogma ben noto, quello della colpa primitiva, del peccato originale, è solo l'espressione
di un crimine cruento di cui si sarebbe macchiata l'umanità preistorica. Nel mio libro Totem e tabù1 io avevo tentato, analizzando i dati di W. Robertson Smith, dell'Atkinson e di Charles Darwin, di farmi un'idea di questo antico crimine, e ritengo che l'attuale dottrina cristiana contenga ancora allusioni che consentono di dedurre la sua esistenza. Dato che il figlio di Dio è stato costretto a sacrificare la propria vita per salvare l'umanità dal peccato originale, si deve concludere, in base alla legge del taglione, dell'espiazione dell'uguale attraverso l’ uguale, che questo peccato potesse consistere solo in un assassinio. Solo un peccato come quello poteva richiedere, a titolo di espiazione, il sacrificio di una vita. E, dato che il peccato originale era una colpa commessa contro Dio Padre, il più antico crimine dell'umanità non poteva essere che il parricidio, l'uccisione del padre dell'orda primitiva, la cui immagine, conservata nel ricordo, è stata in seguito eretta a divinità.2

Certamente, l'uomo primitivo poteva raffigurarsi la propria morte con la stessa difficoltà che proviamo noi, e questa doveva apparirgli tanto irreale quanto noi troviamo irreale la nostra. Ma c'era un caso in cui i suoi due sentimenti nei confronti della morte dovevano incontrarsi ed entrare in conflitto.

Era il caso in cui egli vedeva morire uno dei suoi cari, sua moglie, i suoi figli, l'amico, che egli amava certamente quanto amiamo le persone che ci sono care, perché l'amore non deve essere meno antico della tendenza all'assassinio. Nel suo dolore ,egli doveva dirsi che la morte non risparmia nessuno, che egli stesso morrà, così come muoiono gli altri, e tutto il suo essere si rivoltava contro questa constatazione: ciascuna di queste persone non era forse una parte del suo proprio Io che egli amava tanto? Ma, per altro verso, la morte di una persona cara gli appariva naturale in quanto, se questa faceva parte del suo Io, pure, per certi aspetti, gli era estranea. La legge dell'ambivalenza affettiva, che ancora oggi domina il nostro atteggiamento nei confronti delle persone che amiamo di più, nei tempi primitivi doveva esercitare una azione meno limitata. Così, questi cari morti erano stati, nello stesso tempo, degli stranieri e dei nemici nei confronti dei quali egli nutriva anche sentimenti ostili.3

I filosofi pretendono che l'enigma intellettuale rappresentato per l'uomo primitivo dalla morte si sia imposto alla sua riflessione e debba essere considerato come il punto di partenza per ogni speculazione. Mi sembra che, su questo punto, i filosofi ragionino troppo... da filosofi e non tengano sufficientemente conto dell'azione dei movimenti primitivi. Perciò io penso di dover attenuare la portata di questa proposizione e di correggerla dicendo che l'uomo primitivo trionfa sul cadavere del nemico ucciso senza doversi spezzare la testa sugli enigmi della vita e della morte. L'uomo primitivo non fu spinto a riflettere né dall'enigma intellettuale né dalla morte in generale, ma dal conflitto affettivo che, per la prima volta, sorse nella sua anima alla vista della morte di una persona amata, e, tuttavia, estranea ed odiata. La psicologia è nata da questo conflitto.

L'uomo non poteva più evitare di pensare alla morte che il dolore provocato dalla scomparsa di una persona cara gli faceva toccare con mano; ma, nello stesso tempo, non voleva ammetterne la realtà, perché non poteva immaginare se stesso al posto del morto. Così, egli si vide costretto ad adottare un compromesso: pur ammettendo di poter a sua volta morire, si rifiutò di vedere in questa eventualità l'equivalente della sua totale scomparsa, mentre trovava assolutamente naturale che questo accadesse per il nemico. È davanti al cadavere della persona cara che egli immaginò gli spiriti, e, poiché si sentiva colpevole di un sentimento di soddisfazione che veniva ad unirsi al suo dolore, ben presto questi spiriti si trasformarono in demoni cattivi di cui bisognava diffidare. I cambiamenti successivi alla morte gli suggerirono l'idea di una scomposizione dell'individuo in un corpo e una (in un primo tempo più di una) anima. Il continuo ricordo del morto divenne la base della credenza in altre forme di esistenza, gli suggerì l'idea di una continuazione della vita dopo la morte apparente.

In un primo momento queste esistenze successive erano solo prolungamenti di quella cui la morte aveva posto termine esistenze allo stato di ombre, vuote di ogni contenuto, alle quali si dava, fino ad un'epoca abbastanza tarda, un'importanza limitata. Esse conservano ancora il carattere di miseri espedienti. Ricordiamo la risposta che l'anima di Achille dà ad Ulisse: « Da vivo, noi, Achille, ti onoravamo come un dio ed ora tu comandi su tutti i morti. Quale tu sei ora, e benché morto, non ti piango, Achille. Io parlai così, ed egli mi rispose: non mi parlare della morte, illustre Ulisse. Preferirei essere un lavoratore e servire , per un salario, un uomo povero, che comandare a tutti coloro che non sono più » (Odissea, XI, vv. 484-491).

E ricordiamo anche questa potente ed amara parodia di Heine:

Der kleinste lebendige Philister

Zu Stuckert am Neckar

Viel glücklicher ist er

Als ich, der Pelide, der tote Held,

Der Schattenfürst in der Unterwelt.4


Solo più tardi le religioni sono giunte a proclamare questa esistenza successiva alla morte come più preziosa, più completa, a vedere nella vita cui la morte mette fine solo una preparazione a questa esistenza migliore. Di qui a prolungare la vita nel passato c'era solo un passo, ben presto compiuto; si attribuirono all'uomo un gran numero di esistenze anteriori alla vita attuale, s'inventarono la metempsicosi e le reincarnazioni multiple, e tutto ciò con lo scopo di privare la morte del suo valore, di rifiutarle la parte di fattore opposto alla distruttore della vita. Come si vede, la negazione della vita di cui abbiamo parlato prima come di una convenzione della vita sociale risale ad un'antichità molto lontana.

Di fronte al cadavere della persona amata sorsero non solo la dottrina delle anime, la credenza nell'immortalità, ma anche, insieme al senso di colpa che non tardò a mettere radici profonde, i primi comandamenti morali. Il primo e più importante comandamento che sia scaturito dalla coscienza appena svegliata fu : non uccidere. Esso esprimeva la reazione contro il sentimento di soddisfazione piena di odio che si provava, insieme alla tristezza, di fronte al cadavere della persona cara, e si è a poco a poco esteso agli estranei indifferenti e persino ai nemici odiati.

Al punto in cui ci troviamo, gli uomini restano sordi a questo comandamento. Quando la lotta selvaggia che caratterizza questa guerra sarà finita, il soldato vittorioso tornerà felice a casa, con sua moglie ed i suoi figli, senza essere minimamente turbato dal ricordo di tutto ciò che ha fatto, di tutti i nemici uccisi sia nel combattimento corpo a corpo, sia con armi che agiscono a distanza. C'è da osservare che i popoli selvaggi che sopravvivono ancora ai nostri giorni e che sono certamente più vicini all'uomo primitivo, su questo punto si comportano (o, piuttosto, si sono comportati finché non hanno subito l'influenza della nostra civilizzazione) in modo ben diverso. Il selvaggio, che si tratti dell'Australiano, del Boscimano o di un indigeno della Terra del Fuoco, non è affatto un assassino impenitente; quando egli torna vincitore dalla guerra, non ha il diritto di entrare nel villaggio e di toccare la propria donna, finché non abbia espiato, con penitenze spesso fastidiose e dolorose, gli omicidi commessi in guerra. È inutile dire che questa interdizione deriva da una superstizione, in quanto il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. Ma questi spiriti non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza, del suo rimorso per i crimini commessi.
Nel fondo di questa superstizione c'è una certa finezza morale che manca a noi uomini civili.5

Le anime pie che cercano di persuadersi che noi siamo estranei a tutto ciò che è cattivo e volgare non mancheranno di dedurre, da questa proibizione così antica e così formale dell'omicidio, conclusioni favorevoli circa la forza delle nostre tendenze morali innate. Disgraziatamente, questo ragionamento può servire a dimostrare, in misura forse anche maggiore, il contrario. Una proibizione così imperiosa e formale può rivolgersi solo ad un impulso particolarmente forte. Non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera.6 Proprio il modo in cui è formulata la proibizione non uccidere può darci la certezza che noi discendiamo da una serie infinitamente lunga di generazioni di assassini che, come forse anche noi oggi, avevano nel sangue la passione per l'omicidio. Le tendenze morali dell'umanità, la cui forza ed importanza sarebbe assurdo contestare, sono un'acquisizione nella storia umana e costituiscono, ad un livello disgraziatamente molto variabile, il patrimonio ereditario degli uomini

Lasciamo ora l'uomo primitivo ed interroghiamo l'inconscio della nostra vita psichica. Questo è possibile soltanto con i metodi di ricerca psicoanalitici, i soli che permettano di scendere a tali profondità. Come si comporta l'inconscio nei confronti del problema della morte? Esattamente come l'uomo primitivo. Per questo aspetto, come per molti altri, esso sopravvive tutto intero nel nostro inconscio. Come l'uomo primitivo il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale. Ciò che noi chiamiamo il nostro «inconscio», cioè gli strati più profondi della nostra coscienza, quelli composti da istinti, in genere non conosce niente di negativo, ignora la negazione (i contrari vi coincidono e vi si fondono) e, di conseguenza, la morte, alla quale possiamo attribuire solo un contenuto negativo. Dunque, la credenza nella morte non trova nessun punto d'appoggio nei nostri istinti, ed è forse in questo che dobbiamo ricercare la spiegazione di ciò che costituisce il mistero dell'eroismo. La sua spiegazione razionale pretende che vi siano beni astratti ed universali più preziosi della vita. Ma, secondo me, l'eroismo, che nella maggior parte dei casi è istintivo ed impulsivo, ignora questa motivazione ed affronta il pericolo senza pensare a ciò che ne può derivare. Oppure questa motivazione serve solo ad allontanare i dubbi e le esitazioni che possono opporsi alla reazione eroica dell'inconscio. Invece l'angoscia della
morte, la cui azione subiamo più spesso di quanto non crediamo, è qualcosa di secondario e nella maggior parte dei casi deriva dal senso di colpa.

D'altra parte, noi troviamo assolutamente naturale la morte di stranieri e di nemici, infliggiamo loro la morte volentieri, così come faceva l'uomo primitivo. Il nostro inconscio si accontenta di pensare alla morte e di augurarla senza realizzarla.

Ma sarebbe un errore sottovalutare questa realtà psichica rispetto alla realtà di fatto. Questa realtà è già abbastanza grave e carica di conseguenze. Nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo ogni giorno, e ad ogni ora del giorno,tutti quelli che si trovano sul nostro cammino, che ci hanno offesi o
danneggiati. « Che il diavolo ti porti! », diciamo correntemente con un tono scherzoso che dovrebbe dissimulare il nostro cattivo umore. Ma ciò che vogliamo realmente dire, senza avere il coraggio di farlo, è: «Che la morte ti si porti! »; ed il nostro inconscio prende questo augurio di morte molto più sul serio di quanto noi stessi non pensiamo, e gli da un tono che la nostra coscienza è subito pronta a sconfessare. Il nostro inconscio uccide anche per dei particolari; come l'antica legislazione ateniese di Dracone, esso non conosce per i crimini altra punizione che la morte, giacché ogni torto inflitto al nostro Io autocratico ed onnipotente è, in fondo, un crimen laesae majestatis.

Così, a giudicare dai nostri desideri ed auguri inconsci, noi non siamo che una banda di assassini. Fortunatamente, tutti questi desideri ed auguri non hanno la forza che gli uomini dei tempi primitivi attribuivano loro; se le cose stessero diversamente, l'umanità sarebbe da tempo perita sotto il fuoco incrociato delle reciproche maledizioni che non avrebbero risparmiato né gli uomini migliori e più saggi, né le donne più belle e più dolci.

Queste affermazioni della psicoanalisi non trovano alcun credito presso i profani. Esse vengono respinte come calunnie che non resistono alla certezza data dalla coscienza, e si trascurano di proposito i piccoli indizi attraverso i quali in genere l'inconscio si rivela alla coscienza. Perciò non sarebbe inutile ricordare che molti pensatori i quali certamente non hanno potuto subire l'influenza della psicoanalisi si sono lamentati della facilità con la quale noi siamo disposti, senza tenere alcun conto della proibizione dell'omicidio, ad eliminare, a sopprimere mentalmente tutto ciò che incontriamo sul nostro cammino. Mi limiterò a citare un solo esempio, piuttosto famoso.

Nel Pére Goriot Balzac ricorda un passo di Rousseau, nel quale questi chiede al lettore che cosa farebbe se, senza lasciare Parigi, e, naturalmente, con la certezza di non essere scoperto, potesse, con un semplice atto della volontà, uccidere un vecchio mandarino che abita a Pechino e la cui morte gli procurerebbe un gran vantaggio. Egli lascia intuire che non darebbe un soldo per la vita di questo dignitario. Uccidere il mandarino è diventata allora un'espressione proverbiale di questa segreta disposizione, inerente anche agli uomini dei nostri giorni. Conosciamo inoltre un gran numero di battute e di aneddoti cinici nei quali è espressa la stessa tendenza, come ad esempio, questa affermazione messa in bocca ad un marito: « Dopo, in morte di uno di noi due, io andrò ad abitare a Parigi ». Queste battute ciniche non sarebbero possibili se non servissero ad esprimere una verità che viene negata,. che quando viene espressa in modo serio ed aperto, non si vuole ammettere. Si sa infatti che , scherzando, si può dire tutto, anche la verità.

Anche per il nostro inconscio, come per l'uomo primitivo, c’è un caso in cui i due opposti atteggiamenti nei confronti della morte, quello che la concepisce come una distruzione della vita e quello che la nega come qualcosa d'irreale, s’ incontrano ed entrano in conflitto. Ed è esattamente lo stesso caso di cui abbiamo parlato a proposito dell'uomo primitivo: la morte o il pericolo della morte di una persona cara, della moglie o del marito, del padre o della madre, di un fratello, di un figlio o di un amico. Da un lato questi esseri formano il nostro patrimonio intimo, sono una parte del nostro Io; dall'altra, sono per noi, almeno in parte, degli stranieri o dei nemici. Ad eccezione di poche situazioni, i nostri sentimenti più teneri e più intimi recano in sé una sfumatura di ostilità che può comportare un inconscio augurio di morte. Ma, stavolta, questo conflitto originato dall’ ambivalenza affettiva non da più luogo alla dottrina della trasmigrazione delle anime ed alla morale, ma alla nevrosi che ci apre un’ampia prospettiva anche per quanto riguarda la vita psichica normale. I medici psicoanalisti sanno quanto sia frequente il sintomo attraverso il quale i malati esprimono la loro preoccupazione, piena d'amore e di tenerezza, per la salute dei loro parenti, e quanto siano frequenti i rimproveri, assolutamente ingiustificati, con cui si tormentano dopo la morte di una persona cara. Lo studio di tali sintomi non ha lasciato a questi medici alcun dubbio sulla frequenza ed il significato degli auguri di morte.

Il profano prova un indicibile orrore di fronte a questa possibilità , e vede proprio in questo una ragione sufficiente e legittima per respingere come inverosimili le affermazioni degli psicoanalisti. A torto, secondo me. Noi non pensiamo affatto a sminuire la vita amorosa; d'altronde, ciò sarebbe contro la realtà. La nostra ragione ed il nostro sentimento si rifiutano, certo, di ammettere un’associazione tanto stretta fra amore e odio, ma la natura sa utilizzare questa associazione e mantenere in vita e pieno di freschezza l'amore per meglio proteggerlo dagli attacchi dell'odio che attenta ad esso. Si può dire che noi dobbiamo la massima pienezza della nostra vita amorosa alla reazione contro l'impulso ostile che percepiamo negli strati più profondi della nostra coscienza.

Riassumendo, gli aspetti comuni all'uomo primitivo ed alla nostra coscienza sono l'impenetrabilità alla rappresentazione della propria morte, l'augurio di morte rivolto allo straniero ed al nemico, l'ambivalenza nei confronti della persona cara.

Fino a che punto questo atteggiamento primitivo nei confronti della morte dista da quello che ci viene imposto dalle convenzioni della nostra vita civilizzata?

È facile intuire il modo in cui la guerra agisce su questo duplice atteggiamento. Essa porta via le stratificazioni imposte dalla civilizzazione e lascia sopravvivere in noi solo l'uomo primitivo. Essa ci impone l'atteggiamento degli eroi che non credono alla possibilità della propria morte; essa ci indica negli estranei dei nemici che bisogna eliminare o la cui morte dobbiamo augurarci; essa ci raccomanda di restare calmi di fronte alla morte di una persona cara.

Ma le guerre stesse non si lasciano eliminare. Finché tra le condizioni d'esistenza dei popoli vi saranno differenze così nette, finché essi proveranno reciprocamente un'avversione tanto profonda, vi saranno sempre delle guerre.

In simili condizioni, s'impone questa domanda: dato che le guerre sono pressappoco inevitabili, non faremmo bene a piegarci di fronte a questa situazione, ad adattarci ad essa? Non faremmo bene a convenire che, dal punto di vista psicologico, il nostro atteggiamento nei confronti della morte, quale deriva dalla nostra vita civilizzata, va oltre le nostre forze, e che per noi sarebbe meglio fare astrazione da questo atteggiamento e piegarci di fronte alla verità? Non faremmo bene ad assegnare alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, il posto che le si addice ed a prestare un'attenzione sempre maggiore al nostro atteggiamento inconscio nei confronti della morte, che invece siamo sempre occupati a reprimere con tanta accuratezza?

In questo modo non compiremmo un progresso, ma, sotto certi aspetti, un regresso. Rassegnandoci ad esso, tuttavia, avremmo il vantaggio di essere sinceri con noi stessi e di renderci nuovamente sopportabile la vita. In effetti, rendere la vita sopportabile è il primo dovere dell'essere vivente. L'illusione perde ogni importanza, quando è in opposizione con esso.

Ricordiamo il vecchio adagio: si vis pacem, para bellum: se vuoi il mantenimento della pace, sii sempre disposto alla guerra. Sarebbe ora di modificare questo adagio e di dire: si vi vitam, para mortem: se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte.


1 - [ Cfr. n.13 di questa collana].

2 - V. l’ultimo capitolo di Totem e tabù: «Il ritorno del totemismo nell’ infanzia».

3 - V. «Tabù e ambivalenza» (cap. 2 di Totem e tabu}.

4 - «[Il più misero filisteo che vive a Stuckert sul Neckar è molto più felice di me, il Pelide, l'eroe -morto, il principe delle ombre nel mondo sotterraneo ].

5 - V. Totem e tabù

6 - V. la brillante dimostrazione del Frazer