di Pino Stancari
L’esilio nell’esilio
Abbiamo concentrato l’attenzione sugli avvenimenti che si svolgono a Kades, l’oasi in cui si compiono eventi drammatici di cui ci parla il libro dei Numeri. C’è già un esilio che si presenta a noi come impreparazione all’ingresso, un esilio antecedente allo stesso ingresso. Ci rendiamo conto che l’ingresso nella terra non sia affatto scontato o non è semplice conseguenza delle promesse con cui il Signore si è manifestato ai patriarchi. Coloro che sono sul punto di entrare sono impreparati all’incontro con il dono che per loro è stato gratuitamente preparato e che ora viene loro gratuitamente concesso. Sono impreparati ad entrare, sono già in esilio. E quel lungo itinerario che dovrà essere compiuto secondo il racconto biblico nel corso di 40 anni, tempo di una generazione, è già da comprendere nel senso di una teologia dell’esilio. Una generazione in realtà rappresentativa di ogni altra generazione. Siamo sempre, generazione dopo generazione, noi popolo di Dio in procinto di entrare, bisognosi di essere sottratti a quello stato di impreparazione che ancora ci impedisce di entrare, perché non siamo predisposti a immergerci nella esperienza del dono che gratuitamente ci è stato promesso e che finalmente gratuitamente ci viene consegnato.
L’esilio nella terra promessa
Vorrei prendere contatto con una fase ulteriore della storia
della salvezza, quando oramai da alcuni secoli il popolo si
è insediato nella terra promessa, non più promessa,
perché ormai è terra ereditata, conquistata, abitata.
L’alleanza tra Dio e il suo popolo raggiunge la sua
realizzazione più completa, perché quella relazione
di amore, che è stata istituita una volta per tutte, si
può collocare adesso nell’ambiente preciso, la terra
di Israele. Sono passati alcuni secoli. Non bisogna mai dimenticare
che l’incontro con quella terra è da intendere nella
prospettiva del giardino, del ritorno alla vita,
dell’ingresso nella vita, perché gli uomini che sono
esuli dalla vita debbono essere rieducati. Per questo il Signore si
è rivelato come guida che apre la strada verso la terra e la
terra è sacramento anticipativo di quel giardino: si entra
nella terra per entrare nella vita, per essere ricondotti dopo la
lunga e dolorosa esperienza dell’esilio alla pienezza della
vita.
L’esilio rimane l’elemento che concorre a definire
dall’interno la vicenda di un popolo che, quando ancora sta
per entrare in quella terra già l’ha perduta, e,
quando finalmente sarà entrato in quella terra, già
sta sperimentando gli effetti di una corruzione drammatica, per cui
il rapporto con quella terra ormai abitata si traduce in un
rapporto tristemente, amaramente conflittuale.
Finalmente nella Terra Promessa
Quella terra, finalmente abitata, è divenuta in modo
irreparabile la terra del grande fallimento. Siamo di nuovo al tema
dell’esilio.
Sondiamo alcune pagine del libro di Osea.
Nei secoli che seguono all’ingresso della terra la situazione
è ancora oscura ed informe. Le tribù sono insediate
ma sono ancora in una fase di precarietà molto evidente.
Intorno all’anno 1000 a.C. si giunge alla fondazione del
regno. Con la istituzione monarchica l’insediamento nella
terra assume una forma oggettiva, istituzionale.
Tant’è vero che gli storici tenderebbero a raccontare
la storia del popolo di Israele da Davide in poi, dall’anno
1000 in poi. Tutto quello che riguarda le fasi storiche antecedenti
è frutto di una ricostruzione da Davide in poi. Questo
popolo abita quella terra e non è più separabile la
storia di quel popolo dalla storia di quella terra. Le promesse si
compiono, dunque il Signore che ha fatto alleanza con il suo popolo
lo ha introdotto nella terra e adesso l’insediamento in essa
è esplicitato mediante la fondazione del regno. In quella
terra emerge in modo sempre più vistoso, e in modo sempre
più commovente, la presenza della città,
Gerusalemme.
Tutto questo sempre in vista del giardino, per ritornare alla vita
perduta. Dall’esilio gli uomini debbono essere tirati fuori
per essere rieducati alla vita. Per questo la terra e quindi la
città. Appaiono molti elementi di incertezza e di
ambiguità di cui noi siamo consapevoli. Esiste una
realtà oggettiva per cui il popolo è ormai
identificato in relazione a quella terra e non esiste un popolo
indipendentemente da quella terra, non esiste una relazione fra il
Signore e il suo popolo indipendentemente da quella terra.
L’alleanza è confermata dal momento che il popolo
abita nella terra. Questa dimora assume oramai la forma di una
monarchia organizzata con tanto di capitale a cui ci si volge
carichi di affetti intensissimi: Gerusalemme.
Sullo sfondo la ricostruzione del passato. E’ proprio nel
corso di questi secoli che vengono ricostruite le vicende dei
patriarchi, di Abramo, Giacobbe, ecc. Reminiscenze che vengono man
mano convogliate all’interno di composizioni narrative che
unificano, sistemano, ricostruiscono la storia dell’antefatto
rispetto alla situazione contemporanea: quella di chi abita quella
terra. La storia dell’antefatto è la storia di coloro
che hanno ricevuto le promesse in vista della terra. Se noi oggi
abitiamo in questa terra è perché siamo il punto di
arrivo di una storia cominciata allora, quando i progenitori
accolsero e custodirono le promesse: la storia dei patriarchi.
L’esilio dei Patriarchi
Nell’ambito della storia patriarcale che noi leggiamo in
Gen 12-50, ci sono due casi veramente esemplari di esilio. Il primo
è quello di Giacobbe, esule dalla terra di Canaan. Egli vive
per un lungo periodo nelle regioni dell’alta Mesopotamia
perché deve allontanarsi dalla terra di Canaan, minacciato a
morte da suo fratello Esaù. Giacobbe ha carpito da
Esaù la benedizione che gli era dovuta. Si è
sostituito ad Esaù per prendere su di sé la
benedizione del primogenito. Primo caso di esilio: Giacobbe.
Secondo caso di esilio, anch’esso clamoroso: Giuseppe che
discende in Egitto.
Il lungo percorso compiuto da Giacobbe diventa esemplare per quanto
riguarda una intensa e radicale esperienza di conversione. Giacobbe
in esilio è coinvolto in una grandiosa avventura che mette
in movimento le realtà più profonde dell’animo
umano e fa di lui, Giacobbe, l’esemplare dell’uomo
convertito. Attraverso l’esilio si impone
l’intensità, l’autenticità, la
radicalità di un cammino di conversione.
Questa storia del passato viene ripensata, richiamata, ricostruita
da coloro che oramai sono insediati nella terra. Nel corso di quei
secoli il contatto con la terra acquista un significato sempre
più provocatorio, sempre più destabilizzante. Quel
che dovrebbe essere un modo di dimorare in un contesto definito e
rasserenante diventa invece esperienza di una ebollizione
incessante e crocifiggente. La relazione con la terra non è
una relazione facile, acquista anzi aspetti sempre più
dolorosi, sempre più amari, sempre più strazianti,
fino al momento in cui la terra sarà perduta. Nel frattempo
il popolo si spezza, ci sono due regni, uno scisma, complicazioni
di vario genere, rapporti con altri popoli.
Osea: la storia, la vicenda personale, la profezia
Siamo alla metà dell’VIII sec. a. C., nel regno del
nord, il regno d’Israele. Osea è un personaggio che
appartiene a una categoria sociale piuttosto qualificata,
probabilmente un aristocratico. E’ un momento ancora di
benessere, per quanto riguarda la vita della gente che abita nel
regno settentrionale, che peraltro è la componente
più prosperosa di quello che era stato il regno di Davide e
di Salomone, anche la popolazione è più numerosa, le
tribù del nord hanno un loro prestigio. E’ vero che il
regno di Giuda, più piccolo, più modesto, vanta il
prestigio della capitale Gerusalemme, là dove Davide ha
trasportato l’arca e là dove Salomone ha costruito il
tempio. E a Gerusalemme continuano a regnare i discendenti di
Davide, mentre per quanto riguarda il regno d’Israele la
situazione politica è più indeterminata, più
dipendente dalle situazioni di forza, così come man mano si
impongono. Dinastie diverse si avvicendano nel corso di quei
secoli. Nel secolo in cui vive Osea c’è ancora una
sostanziale stabilità, ma passeranno pochi anni e il crollo
sarà inevitabile.
Nell’anno 742 a.C. il gran re di Assiria impone al regno
d’Israele una imposta di mille talenti d’argento.
E’ l’inizio della fine. Passeranno una decina
d’anni e già le tribù dell’estremo nord
saranno inglobate nel territorio dell’impero. Passerà
un’altra decina d’anni, 721, Samaria, la capitale del
regno d’Israele, sarà distrutta e il regno
d’Israele cancellato. L’impero Assiro non scherza:
preme, dilaga in modo da non ammettere repliche, non accettare
rinvii o adattamenti. Il regno di Giuda sopravvive ancora per
precipitare in un altro vortice catastrofico.
Osea è coinvolto nella vicenda del suo popolo in modo tale
da divenire testimone di un conflitto di cui la gran parte dei suoi
contemporanei non si rende ancora minimamente conto. Passeranno
pochi decenni e i fatti si imporranno da sé, ma Osea ha una
percezione acutissima e dolorosissima del conflitto che compromette
la relazione tra il Signore e il suo popolo. Là dove questa
relazione è compromessa, là dove l’alleanza tra
Dio e il suo popolo è svuotata di contenuti, là
è in questione la terra.
Osea è testimone di un esilio mentre ancora abita nella
terra. Situazione paradossale, eppure è una situazione che
si riproporrà nella storia della salvezza con altre
caratteristiche, con altre testimonianze, altri linguaggi.
Osea è coinvolto in questa grande vicenda del suo popolo in
forza di una sua vicenda personale che compromette la
stabilità della sua famiglia. Egli ha sposato una donna che
lo ha tradito, una donna che generato figli di adulterio, figli di
prostituzione. Una storia di amore, che assume forme amarissime,
dolorosissime. E’ la storia di un amore tradito, negato,
corrotto.
Attraverso quel suo vissuto personale e familiare, Osea è
chiamato a accogliere una vocazione profetica. Non è
soltanto un suo vissuto personale e familiare, Osea è
profeta, ossia testimone di una vicenda che riguarda la relazione
tra il Signore e il suo popolo, la storia dell’alleanza, la
storia di un amore tradito.
E’ in corso una lite
Ed ecco. E’ in corso una lite. In ebraico si dice:
rib. Il Signore rivendica quello che è suo,
perché il Signore si è impegnato in una relazione di
amore che è stata rifiutata. E’ in corso una
lite.
I contemporanei di Osea non se ne rendono conto. Siamo in uno stato
di generale corruzione, la terra è divenuta l’ambiente
in cui l’idolatria prospera in maniera sfacciata,
spudorata.
I contemporanei di Osea non se ne rendono conto, ma Osea è
profeta. Osea coglie in questa vicenda l’urgenza, la
tensione, il fremito, l’ebollizione di una lite. Egli
è in grado di interpretare la vicenda della sua generazione
come una esperienza di esilio, quando ancora l’esilio nei
fatti non ha avuto luogo. Ma quello stato di lite che mette in
discussione il valore radicale di un rapporto di amore, che
è stato compromesso, quello stato di lite già si
impone come esperienza di esilio. E’ l’antico esilio
dalla vita che è ancora l’esilio di oggi, in cui i
fatti considerati nella loro apparenza esteriore ci inviterebbero
di essere a nostro agio ben insediati nella terra che ci è
stata donata. In realtà quell’esilio dalla vita
è proprio il dato che emerge dal di dentro delle
contraddizioni a cui non possiamo più sfuggire e mentre
ancora siamo dimoranti in questa terra, già l’abbiamo
perduta, perché abbiamo tradito un impegno di amore per il
quale il Signore onnipotente si era manifestato a noi e per il
quale noi ci eravamo offerti.
Capitolo 1, versetto 2:
«Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli
disse: "Và, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli
di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore"».
E’ in questione la terra. Nella relazione tra il Signore e il
suo popolo c’è di mezzo la terra. L’alleanza di
amore tra il Signore e il suo popolo passa attraverso quella terra
che è stata promessa e che è stata donata. Quel
rapporto di amore che è stato trasformato in un tradimento
di amore, la terra è intrensicamente corrotta, è una
dimora contaminata, infetta, è una dimora che si sta
sfilacciando dall’interno, si trasforma in uno sconquasso
terribile in un crollo insopportabile.
«Ascoltate la parola del Signore, o Israeliti, poiché
il Signore ha un processo (rib) con gli abitanti del
paese».
Il Signore ha deciso di litigare con voi. La dimora è vuota,
ha già tutte le caratteristiche di un vero e proprio esilio,
anzi di un esilio quanto mai esasperato poiché sono
coinvolte le fibre più nascoste dell’animo umano:
compromessi i sentimenti, inquinati gli affetti. Il Signore ha una
lite, sta perseguendo una sua intenzione giudiziaria contro gli
abitanti del paese. E prosegue:
«Non c'è infatti sincerità né amore del
prossimo, né conoscenza di Dio nel paese».
I capi di imputazione vengono elencati in modo lineare e
martellante: non c’è sincerità, non
c’è amore del prossimo, non c’è
conoscenza di Dio nel paese. Si aggiunge una sequenza di 7 delitti:
«Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette
adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue». 3+7
una specie di decalogo alla rovescia, un decalogo
ribaltato.
«Per questo è in lutto il paese».
E’ in questione la terra: la terra è contaminata, ha
assorbito un contagio che viene riproposto con una progressione
travolgente. «Per questo è in lutto il paese e
chiunque vi abita langue insieme con gli animali della terra e con
gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare
periranno».
Un languore generale di tutti i viventi, una spossatezza della
vita. Abitando nella terra abbiamo disimparato a vivere. Di fatto
abitiamo nella terra, come no! Anzi i dati oggettivi per il momento
danno un risalto glorioso a questa realtà. Eppure abitare in
questa terra si traduce in una esperienza di languore, di
stanchezza, di amarezza, di avvilimento. Cosa c’è da
considerare? Quel che i contemporanei non considerano, ma che
invece Osea mette subito in evidenza, è che questa è
la storia di un amore tradito. Lo sa bene lui, proprio per quel che
gli è capitato nel suo vissuto personale.
Una terra di idolatria
cap. 5, vv. 1-7: «Ascoltate questo, o sacerdoti, state
attenti, gente d'Israele, o casa del re, porgete
l'orecchio».
Questa sentenza viene indirizzata a tutto il popolo con le
autorità religiose e civili.
«Poiché contro di voi si fa il giudizio. Voi foste
infatti un laccio in Mizpà, una rete tesa sul Tabor e una
fossa profonda a Sittìm; ma io sarò una frusta per
tutti costoro».
Episodi della storia passata di cui viene sommariamente rievocato
qualche particolare che ci sfugge. Si tratta di episodi che
già esprimevano delle ambiguità. Adesso la
perversione a cui alludevano quegli eventi trascorsi esplode in
modo incontenibile: io sarò una frusta per tutti costoro. E
prosegue: «Io conosco Efraim». Efraim è
tribù che svolge un ruolo dominante nel regno
d’Israele. Efraim e Manasse sono figli di Giuseppe. La casa
di Giuseppe è il nucleo centrale delle tribù che
compongono il regno d’Israele. Efraim è dire lo stesso
regno di Israele, ma dire Efraim è dire proprio le classi
dominanti, gli uomini di governo, l’anima del paese divenuto
regno e costituito da un pezzo oramai come realtà civile e
politica su molti fronti.
«Io conosco Efraim e non mi è ignoto Israele. Ti sei
prostituito, Efraim! Si è contaminato
Israele».
Questo è il punto: ti sei svenduto per un altro amore.
Questa prostituzione è già l’esilio. Questo
stato di prostituzione compromette il rapporto con la terra, fa di
questa dimora nella terra, una disgrazia, una maledizione:
«ti sei prostituito, Efraim, si è contaminato Israele.
Non dispongono le loro opere per far ritorno al loro
Dio»
Attenzione al verbo ritornare. Là dove di generazione in
generazione la strada della conversione, la strada del ritorno era
costantemente indicata, quella strada è rimasta
deserta.
«Non dispongono le loro opere per far ritorno al loro Dio,
poiché uno spirito di prostituzione è fra loro e non
conoscono il Signore».
Non c’è ritorno. Il Signore conosce Efraim, il Signore
è perfettamente consapevole di questo mancato appuntamento.
Là dove ti è stata indicata la strada per tornare al
Signore tuo Dio, tu non ti sei fatto vivo. Non ti sei presentato,
assente, latitante, imboscato. E insiste:
«L'arroganza d'Israele testimonia contro di lui, Israele ed
Efraim cadranno per le loro colpe e Giuda soccomberà con
loro. Con i loro greggi e i loro armenti andranno in cerca del
Signore, ma non lo troveranno».
Ci sono ancora tentativi di approfittare delle ricchezze a
disposizione: greggi ed armenti per impostare un certo culto
religioso, a suo modo generosissimo, ma inconcludente. Anzi
abusivo.
«Con i loro greggi e i loro armenti andranno in cerca del
Signore, ma non lo troveranno: egli si è allontanato da
loro».
Qui è usato un verbo interessante, è il verbo che si
usa per indicare il gesto di togliere il sandalo. In
Deuteronomio si parla di quel che dev’essere il
comportamento del parente stretto nel caso che qualcuno muoia senza
lasciare figli. La vedova dev’essere sposata perché
nasca un figlio che porti il nome del defunto. E se quel tale non
si assume il compito che la legge gli assegna, gli viene tolto il
sandalo, è un segno di disonore, è lo scalzato.
E’ questo stesso verbo. Ma in questo caso è proprio il
Signore onnipotente, proprio lui, che si è allontanato da
loro, si è per così dire tolto il sandalo, si rifiuta
di subentrare come sposo di una ipotetica vedova. Si è
allontanato da loro:
«Sono stati sleali verso il Signore, generando figli
bastardi: un conquistatore li divorerà insieme con i loro
campi».
Invece dell’interlocutore che si assume la
responsabilità di accogliere coloro che sono sbandati,
appare sulla scena in modo così clamoroso e devastante
l’ombra di un intruso, di un seduttore, di un divoratore.
Il ritorno in Egitto
cap. 8. Il popolo non torna, non si converte. Osea, quanto
più prende in considerazione gli eventi e li interpreta dal
di dentro del suo stesso vissuto personale così potentemente
crocefisso negli affetti, che cosa scopre? Scopre che mentre
è vero che il popolo non si converte al Signore, il popolo
ritorna in Egitto. Un primo oracolo fino al v. 6, e un secondo
oracolo fino al v. 14.
«Dá fiato alla tromba! Come un'aquila sulla casa del
Signore... perché hanno trasgredito la mia alleanza e
rigettato la mia legge. Essi gridano verso di me: "Noi ti
riconosciamo Dio d'Israele!"». E’ tutta una
menzogna. Il popolo vanta un atteggiamento di fedeltà, di
appartenenza, che è del tutto fallace. Israele ha rigettato
il bene. E’ la storia di un amore tradito, già lo
sappiamo.
«Hanno creato dei re che io non ho
designati».
Il popolo si è aggrappato alle proprie presunzioni di
autonomia politica:
«hanno scelto capi a mia insaputa. Con il loro argento e il
loro oro si sono fatti idoli ma per loro rovina. Ripudio il tuo
vitello, o Samaria!».
I templi di Betel e Dan, uno meridionale e l’altro
settentrionale, furono fatti costruire appositamente da Geroboamo
I, perchè la popolazione evitasse il riferimento al tempio
di Gerusalemme. Essi sono qui riproposti come esempio di ricaduta
nell’idolatria. L’immagine del vitello
d’oro.
«La mia ira divampa contro di loro; fino a quando non si
potranno purificare i figli di Israele? Esso è opera di un
artigiano, esso non è un dio: sarà ridotto in
frantumi il vitello di Samaria».
Un mucchio di cocci, solo questo ne rimarrà. A che cosa
servono questi cocci? C’è di mezzo non soltanto una
devozione deviata, c’è di mezzo una coscienza politica
che è intrensicamente idolatrica. E allora il secondo
oracolo:
«E poiché hanno seminato vento raccoglieranno
tempesta. Il loro grano sarà senza spiga, se germoglia non
darà farina, e se ne produce, la divoreranno gli stranieri.
Israele è stato inghiottito: si trova ora in mezzo alle
nazioni come un vaso spregevole. Essi sono saliti fino ad Assur,
asino selvaggio, che si aggira solitario; Efraim si è
acquistato degli amanti. Se ne acquistino pure fra le nazioni, io
li metterò insieme e fra poco cesseranno di eleggersi re e
governanti».
La sparizione è prossima, il regno oramai si è
consumato, è una storia svuotata, è una storia che
svapora, e per di più provocando degli effetti di asfissia,
di soffocamento devastanti. Qui si muore, qui si svuota tutto. E
aggiunge:
«Efraim ha moltiplicato gli altari, ma gli altari sono
diventati per lui un'occasione di peccato».
E’ un popolo religiosissimo: ma gli altari sono diventati per
lui un'occasione di peccato. Gli atti religiosi si moltiplicano, ma
per ottenere nessun altro risultato che l’evidenza di una
estraneità crescente nel rapporto con il Signore.
«Ho scritto numerose leggi per lui, ma esse sono considerate
come una cosa straniera».
Ecco, questo è il punto: e più si dedicano alle loro
devozioni religiose, più siamo estranei, dice il
Signore.
«Essi offrono sacrifici e ne mangiano le carni, ma il Signore
non li gradisce; si ricorderà della loro iniquità e
punirà i loro peccati: dovranno tornare in
Egitto».
Nel grembo della gravidanza
Ci siamo, non c’è conversione? C’è conversione all’Egitto: dovranno tornare in Egitto. Quando Osea dichiara questa sentenza, certamente sta rievocando l’immagine dell’Egitto come il luogo del supremo castigo, il luogo della schiavitù e dell’impurità. Ritornare in Egitto significa sprofondare nell’abisso dell’infamia. Ma è anche vero che l’Egitto è stato grembo nel quale si è compiuta una gravidanza. Questo ritorno all’Egitto, che certamente ha tutte le caratteristiche di un disastro straziante, si configura come il ritorno ad un grembo che è fecondo per una nuova nascita. Non c’è alternativa a questa regressione, anche se è proprio questo ritorno all’Egitto la premonizione di un nuovo inizio. Non c’è altra conversione praticabile.
«Israele ha dimenticato il suo creatore, si è
costruito palazzi; Giuda ha moltiplicato le sue fortezze. Ma io
manderò il fuoco sulle loro città e divorerà
le loro cittadelle».
Questo esilio è già in atto, questo è quello
che sta avvenendo, noi stiamo tornando in Egitto. Noi che non ci
convertiamo, stiamo tornando in Egitto. In realtà stiamo
ancora qui, Samaria è ancora in piedi, il regno funziona,
anzi a metà dell’VIII secolo a.C. ha avuto un momento
di espansione di potenza, di benessere, ma noi siamo già in
Egitto. Noi stiamo precipitando nell’abisso infernale che si
chiama Egitto. Ci siamo dentro. Per questo in realtà siamo
in conflitto, sempre e dappertutto, siamo così contorti e
così malconci, siamo così sospirosi e così
angosciati, siamo così amareggiati e avviliti, così
intimamente consapevoli di essere dentro una storia sbagliata,
perché storia di un amore tradito. Siamo in lite, stiamo in
Egitto, siamo già in esilio.
L’Egitto: è il grembo di una nuova nascita.
Capitolo 9,1-9.
«Non darti alla gioia, Israele, non far festa con gli altri
popoli, perché hai praticato la prostituzione, abbandonando
il tuo Dio, hai amato il prezzo della prostituzione su tutte le aie
da grano». Segno di benessere, l’aia, che contiene
il raccolto.
«L'aia e il tino non li nutriranno e il vino nuovo
verrà loro a mancare».
Insieme con tanta abbondanza una carestia. Paradossale
contraddizione. Insieme con quel sensazionale benessere, un
malessere inguaribile.
«Non potranno restare nella terra del Signore, ma Efraim
ritornerà in Egitto e in Assiria mangeranno cibi
immondi».
Di nuovo, siamo già in esilio, in Egitto.
«Non faranno più libazioni di vino al Signore, i
loro sacrifici non gli saranno graditi. Pane di lutto sarà
il loro pane, coloro che ne mangiano diventano immondi. Il loro
pane sarà tutto per loro, ma non entrerà nella casa
del Signore. Che farete nei giorni delle solennità, nei
giorni della festa del Signore? Ecco sono sfuggiti alla rovina,
l'Egitto li accoglierà, Menfi sarà la loro tomba. I
loro tesori d'argento passeranno alle ortiche e nelle loro tende
cresceranno i pruni».
Ci troviamo qui alle prese con una situazione che oramai è
disgustosa, insopportabile: la terra è contaminata, il
popolo è immondo, un tuffo nella morte. E ancora:
«Sono venuti i giorni del castigo, sono giunti i giorni del
rendiconto, Israele lo sappia: un pazzo è il profeta, l'uomo
ispirato vaneggia a causa delle tue molte iniquità, per la
gravità del tuo affronto».
Anche i profeti fanno un pessimo servizio, perché sono
profeti che vagheggiano situazioni positive a poco prezzo e di
pronto impiego e invece sono degli imbroglioni. Israele lo sappia:
un pazzo è il profeta.
«Sentinella di Efraim è il profeta con il suo
Dio».
Ecco il profeta sentinella: Osea. A Osea è capitato questo:
di essere sentinella. Gli è capitato questo non
perché gli è caduta la famosa tegola sulla testa, ma
perché attraverso la sua vicenda personale così
drammatica, il Signore lo ha educato nel discernimento della storia
contemporanea.
«Sentinella di Efraim è il profeta con il suo Dio;
ma un laccio gli è teso su tutti i sentieri, - tutti gli
sono ostili - ostilità fin nella casa del suo Dio. Sono
corrotti fino in fondo, come ai giorni di Gàbaa (un episodio
del libro dei Giudici): ma egli si ricorderà della loro
iniquità, farà il conto dei loro
peccati».
In 9,1-9 il ritorno all’Egitto si configura come
sprofondamento in uno stato di infernale corruzione, che ha tutte
le caratteristiche di una condanna, di un castigo a cui non si
può sfuggire.
«Quando Israele era giovinetto, io l'ho
amato».
Qui vengono rievocati i fatti di un tempo, quando Israele è
stato tirato fuori dall’Egitto. Questo è dunque
l’altro versante del ritorno all’Egitto, di cui Osea ci
sta parlando. Perché ritornare in Egitto significa
sprofondare nell’abisso infernale? Ritornare in Egitto
significa ritornare nel grembo da cui siamo stati
partoriti.
«Quando Israele era giovinetto». Non è stata
una storia facile e lineare. Qui viene ricostruita tappa per
tappa.
«dall'Egitto ho chiamato mio figlio».
Questo versetto viene citato nel vangelo dell’infanzia
secondo Matteo.
«Ma più li chiamavo, più si allontanavano da
me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano
incensi».
Una ritrosia crescente, benché insistente, calorosa,
inesauribile la chiamata con cui il Signore si è rivolto a
quel ragazzino che era ancora prigioniero dell’Egitto:
più li chamavo, più si allontanavano da me.
E insiste:
«Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma
essi non compresero che avevo cura di loro».
Una pedagogia che si è sviluppata lentamente, con gesti
sempre più delicati, sempre più premurosi, eppure
crescente l’insofferenza di quell’adolescente che
voleva ritirare la mano, che rifiutava le cure ricevute.
«Io li traevo con legami di bontà, con vincoli
d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al
paese d'Egitto». Questa è la conversione. La
conversione per Israele che ripiomba nell’inferno
egiziano:
«Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto
convertirsi». Ritorneranno perché non hanno voluto
ritornare, si convertiranno all’Egitto, una conversione alla
rovescia, ma già noi sappiamo che questo sprofondare
all’indietro, in realtà è un precipitare nel
grembo del Dio vivente, precipitare nelle viscere della
misericordia. E’ la testimonianza di Osea che adesso nei
versetti seguenti raggiunge la sua pienezza definitiva, la sua
maturità più autorevole.
«La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze.
Il mio popolo è duro a convertirsi». Non ci sono
vincoli di amore che riescano a convincerlo. E’ ribelle,
recalcitra, non vuole saperne, non si converte, non ritorna, non
cede, non si arrende:
«chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo.
Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri,
Israele?».
Certo non guardi in alto, precipiti in basso. Precipita nelle
viscere del Dio vivente.
«Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti
allo stato di Zeboìm?» che è come dire Sodoma e
Gomorra. «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio
intimo freme di compassione».
Più il Signore ha a che fare con questa storia sbagliata,
più il Signore porta in sé l’esperienza
dolorosa di questo rifiuto, più si dilata lo spazio della
sua intimità.
«Il mio cuore si commuove dentro di me il mio intimo freme di
compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non
tornerò a distruggere Efraim».
Ritorni in Egitto e ritorni in Egitto per scoprire che io non
ritorno per distruggere Efraim:
«perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a
te e non verrò nella mia ira».
Tu che ritorni in Egitto, tu sprofondi nella santità della
mia passione di amore. Una passione più forte del
furore.
«Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone:
quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall'occidente,
accorreranno come uccelli dall'Egitto, come colombe dall'Assiria e
li farò abitare nelle loro case. Oracolo del
Signore».
Un ruggito che, mentre fa tremare, produce attrazione. Ma intanto
l’esilio è già in corso. L’esilio
è questa vicenda di un amore rifiutato, è storia di
una lite che determina l’effetto di uno sgretolamento, di uno
sfascio, di un crollo, di una sconfitta. E’ il ritorno
all’Egitto; è il tempo dell’esilio, il tempo nel
quale, mentre stiamo scivolando nell’inferno
dell’Egitto di ieri, che è poi l’Egitto di oggi,
e che sempre ci accompagna come minaccia angosciosissima, scopriamo
di essere caduti nelle viscere della misericordia senza limiti del
Dio vivente. Siamo immersi nella rivelazione della sua
santità.