Incontri di discernimento e solidarietà
 
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GEREMIA

di Pino Stancari

Da Geremia a Ezechiele

La voce di Ezechiele è una delle grandi testimonianze della teologia dell’esilio così come si viene elaborando nel corso della storia della salvezza. La volta scorsa abbiamo avuto a che fare con il profeta Geremia. E’ appunto in rapporto a Geremia che si delinea una svolta molto netta in tutto il grande disegno che coinvolge la storia del popolo di Dio. Geremia rimarca insistentemente la inevitabilità dell’esilio: ne parla, lo annuncia, lo proclama, lo commenta, lo illustra in anticipo con tutta la sua drammaticità. Geremia avrà a che fare lui personalmente con i fatti dell’esilio, ma in modo, per così dire, aggiuntivo, nel senso che Geremia è il profeta dell’esilio in quanto ne ha fatto un elemento decisivo della sua predicazione.
Il caso di Ezechiele è diverso, perché Ezechiele è immerso nella situazione dell’esilio, la vive in prima persona fin dall’inizio.
L’esilio ha luogo a partire dall’anno 597 a.C., in seguito alla espansione del regno neobabilonese che conduce l’esercito di Nabucodonosor fino ad assediare Gerusalemme e poi negli anni successivi a conquistarla e a distruggerla. La popolazione è deportata, il territorio invaso e trasformato, le rovine del tempio resteranno, per i decenni successivi, segno di una catastrofe inimmaginabile per le generazioni precedenti.
Ci siamo abituati a parlare di esilio sin qui in un senso teologico che in un qualche modo prescinde dal significato rigorosamente storico del termine esilio: c’è un esilio antecedente a quello che adesso abbiamo ricordato. Con il profeta Ezechiele noi ci troviamo coinvolti nei fatti dell’esilio, perché Ezechiele appartiene a quella prima porzione di abitanti di Gerusalemme che vengono deportati a Babilonia nel 597 a.C. Nabucodonosor ha assediato la capitale del regno di Giuda, non la conquista in quella occasione, perché alla morte del re Ioiakim, gli succede un certo Ieconia che si arrende, viene deportato a Babilonia lui e con lui una rappresentanza delle categorie più qualificate, quelle che hanno in mano il governo del paese, l’amministrazione del regno, e quelle che hanno in mano la sua economia. Nel frattempo Nabucodonosor impone come re del regno di Giuda un certo Sedecia, che è uno zio di Ieconia, un figlio di quel re Giosia, di cui si parlava l’ultima volta, morto nel 609 a.C. Sedecia è trattato come un vassallo del gran re di Babilonia.
Dal 597 al 586 ancora un periodo molto tumultuoso, nel quale ci sono alcuni che vagheggiano una possibilità di ripresa, di rivincita. Il re Sedecia si barcamenerà come gli sarà possibile per qualche anno, poi non potrà più pagare il tributo e si ribellerà al gran re che interverrà in modo drastico e risolutivo. Nel 586 Gerusalemme è conquistata, distrutta, il tempio profanato, la popolazione deportata.

Ezechiele

Ezechiele si torva a Babilonia dal 597 a.C. Appartiene alla prima ondata dei deportati, quando ancora il regno di Giuda è integro, quando ancora Gerusalemme è la capitale del regno, il tempio funziona secondo le consuetudini antiche. Ezechiele appartiene a una discendenza sacerdotale: è un giovane rampollo di un’aristocratica famiglia sacerdotale, è cresciuto nell’apprendistato del sacerdozio, ha le competenze propriamente liturgiche che sono riservate ai sacerdoti, a cui ci si prepara nel corso di molti anni. Solo i sacerdoti posso offrire i sacrifici, tutta la liturgia converge verso il culto sacrificale, solo i sacerdoti sono competenti e solo i sacerdoti possono ritornare verso il popolo, avendo offerto i sacrifici secondo le norme levitiche, per impartire la benedizione. La funzione del sacerdozio è funzione mediatrice, il sacerdozio realizza un’opera determinante per il funzionamento dell’alleanza tra Dio e il popolo. E’ il sacerdote che raccoglie le offerte provenienti dal popolo e le offre in sacrificio in modo tale da prendere contatto con il santo, il Dio vivente, e ritornare verso il popolo per trasmettere quel dono di vita che scaturisce dalla santità di Dio onnipotente da cui dipende poi il benessere di tutti e la stabilità dell’alleanza come relazione di amore tra Dio e il suo popolo che dà un senso alla storia del passato e dell’avvenire.
Ezechiele è sacerdote e quando compie 30 anni, si trova in esilio a Babilonia ormai da 5 anni, 592 a.C. A 30 anni un sacerdote entra nel pieno della sua attività, per la prima volta è in grado di varcare la soglia che è segnata da un velo ed entrare nel santuario. A 30 anni un sacerdote entra in funzione e può restarci per un certo periodo di anni, poi lascerà i compito ad altri.
Quando Ezechiele compie 30 anni, e sarebbe nella condizione di esercitare in pienezza per la prima volta il suo ministero sacerdotale, è lontano dal tempio, deportato da Gerusalemme, in esilio a Babilonia. Proprio in quella occasione, Ezechiele, come egli dichiara, vede.
Il linguaggio di Ezechiele è segnato da questo costante riferimento alla esperienza della visione, è una visione interiore. Ezechiele esprime situazioni che lo prendono intimamente, lo coinvolgono fino alla radice del cuore in un contesto di squallore quanto mai evidente, in esilio, a Babilonia. Per quanto siano rispettabili i personaggi che Nabucodonosor si è portato dietro fino alla sua capitale come ostaggi, essi vivono in uno stato di disgustosa amarezza. Nel caso di Ezechiele si aggiunge il dramma di un giovane sacerdote che, quando finalmente per la prima volta dovrebbe varcare la soglia, passare attraverso il primo velo, entrare nel santo per dare forma alla sua funzione sacerdotale, è in esilio a Babilonia.

Gloria e visione

La devozione antica descriveva la celebrazione del culto come visione del volto del Signore, come una visione della gloria. Vedere il volto del Signore significa partecipare al culto, porgere l’offerta che opportunamente trattata dai tecnici del mestiere, i leviti e poi i sacerdoti, diventerà lo strumento mediante il quale la benedizione sarà impartita su coloro che si sono presentati: siamo saliti per vederTi, per vedere il tuo volto. Il linguaggio visionario di Ezechiele si inserisce in quello di coloro che partecipano e celebrano il culto a Gerusalemme. Il velo si apre per il sacerdote, è solo lui che entra, ma il sacerdote porta con sé il popolo e ritorna verso il popolo. Si avvicina al Santo, ritorna verso coloro che devono essere santificati. E da questa loro santificazione dipende appunto il frutto benefico e vivificante dell’alleanza. L’espressione "vedere il volto del Signore" viene puntualmente accompagnata da quell’altra espressione nella quale compare il termine gloria (Kabod). La gloria del Dio vivente, la gloria è la presenza operosa che incide, che pesa, che si fa notare, è una presenza che prende posizione nella storia di un popolo, è una presenza che attrae a sé.
Dio ci ha mostrato la sua gloria e noi ci siamo rivolti a lui, ci siamo convertiti verso di lui, noi siamo in grado di ritornare a lui, siamo in grado di accostarci al Santo, di prendere contatto con il mistero del Dio vivente perché la sua gloria si è fatta vedere: abbiamo visto la sua gloria. Gloria che si mostra ed è gloria che attrae. E’ la presenza misteriosa del Dio vivente che si rivela e che illumina quella strada che sarà adesso percorribile da parte di coloro che a lui potranno finalmente accostarsi.
I primi 3 capitoli del libro di Ezechiele sono dedicati a quella che viene normalmente definita come vocazione di Ezechiele, ma vocazione coincide qui con la grande visione introduttiva, con tutto il ministero profetico di Ezechiele. In quella visione introduttiva, volendo essere attenti e meticolosi, potremmo riscontrare tutti gli elementi del ministero che si svilupperà nel corso degli anni, per un lungo periodo, perché Ezechiele resterà sulla breccia almeno fino al 571 a.C.
Nel 592, dopo 5 anni di esilio Ezechiele compie 30 anni. Ecco quello che dice. «Il cinque del quarto mese dell'anno trentesimo». Ci sono altri personaggi dei quali si dice che il momento decisivo della loro esistenza coincide con il 30 anno di età: Saul, Gesù. Il caso di Ezechiele costituisce il riferimento esemplare: il trentesimo anno coincide con la data nella quale un sacerdote come lui finalmente ottiene l’incarico di entrare nel santuario, di varcare la soglia, di attraversare il velo, di vedere il volto, la gloria. Non così per Gesù. Lui a 30 anni non ha niente a che fare con la realtà di un sacerdote come Ezechiele. Per essere sacerdoti occorre appartenere a delle discendenze ben definite in base a studi che sono rigorosissimi, compilazioni davvero minuziose da Aronne fino alla loro generazione. C’è un periodo nella storia del popolo di Dio in cui qualcuno dubita della autenticità del sommo sacerdote perché non è chiaro che la sua discendenza sia così direttamente collegata con il capostipite. Questo determina uno stato di turbolenza, di disagio, fenomeni scismatici.
«Mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del canale Chebàr»

Ezechiele, a 30 anni, quando dovrebbe aprirsi il velo per consentirgli di entrare e di vedere, è un deportato a Babilonia, sta guardando come si increspa la superfice dell’acqua di un canale, una pozza d’acqua, una pozzanghera d’acqua! Questo è Ezechiele:
«I cieli si aprirono ed ebbi visioni divine».

Ecco il punto. Mentre Ezechiele osserva la superficie dell’acqua in questa pozzanghera, vede come i cieli si squarciano. Non è il velo del tempio, ma è il cielo. Quando dovrebbe entrare nel santuario, ha a che fare con una pozzanghera, eppure si trova coinvolto in una liturgia di straordinaria potenza: lo scenario si amplia così da coinvolgere tutto ciò che è sotto il cielo e tutto ciò che si trova nei tempi della storia. Il cielo si spalanca. C’è una specularità immediata e inconfondibile tra quel che avviene nel cielo e quello che Ezechiele sperimenta nell’intimo del cuore: si spalancano i cieli, si apre il cuore: la profondità dell’immenso nella sovranità celeste del Dio vivente, l’intimità più radicale del cuore umano. E tutto questo mentre Ezechiele ha a che fare con una pozzanghera d’acqua. Con che cosa può avere a che fare un deportato che è stato sistemato insieme con altri, baraccato, relegato in un campo profughi alla periferia di Babilonia? Ebbi visioni divine.
«Il cinque del mese era l'anno quinto della deportazione del re Ioiachìn, la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele figlio di Buzì, nel paese dei Caldei, lungo il canale Chebàr. Qui fu sopra di me la mano del Signore».
Ezechiele è alla presenza del Signore, la mano del Signore gli si impone. La presenza del Signore era nel Tempio, là è la gloria, là accorrono i pellegrini; ora invece Dio è presente in questo luogo periferico, meschino. Nell’abisso dell’esilio Ezechiele vede la gloria del Signore presente, presente nell’universo e nella storia degli uomini, senza limiti, senza confini. La presenza gloriosa squarcia i cieli: non è più il velo che separa il cortile esterno dal santuario a squarciarsi, sono i cieli, e, quindi, l’intimo del cuore. Ezechiele in questa situazione che lo squalifica come sacerdote, è chiamato a prendere coscienza della sua relazione di uomo: è denominato "figlio dell’uomo". Come sacerdote, figlio di Buzi, non è in grado di esercitare il suo ministero liturgico, ma come figlio dell’uomo Ezechiele è in grado di testimoniare la presenza gloriosa il dio vivente manifesta passando attraverso il cuore dell’uomo, di ogni uomo, cuore che si apre.

L’uragano che avanza da settentrione

Il cielo si squarcia, il cuore dell’uomo si spacca, la presenza gloriosa del Dio vivente si rivela:
«Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente » (1,4).

Questo uragano è ruah, è spirito, è vento che muove le nuvole, nuvole gonfie di vento e insieme lo scintillio di lampi tempestosi. Sono fenomeni che concorrono a descrivere gli eventi celesti ma anche a scavare nella profondità del cuore umano l’evoluzione di inimmaginabili processi di trasformazione, di conversione.
v. 28 del primo capitolo:
«il cui aspetto era simile a quello dell'arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia».
L’arcobaleno è la totalità dei colori, l’arcobaleno rinvia al racconto del diluvio, il segno della pace. «Tale mi apparve l'aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava».
Fino a questo momento tutto è avvenuto in silenzio, adesso una voce rompe il silenzio, una voce che Ezechiele ascolta, caduto a terra in un atto di adorazione. L’esilio, per Ezechiele, diventa occasione di discernimento della gloria. Questa affermazione sembrerebbe del tutto paradossale se non addirittura blasfema: Ezechiele a Babilonia in esilio vede la gloria del Signore presente in quanto lo scenario dell’universo e lo svolgimento della intera storia umana appartengono a lui. Ezechiele vede la gloria che affiora dal fondo del cuore umano. L’esilio come discernimento della gloria. E’ la stessa gloria che viene contemplata a Gerusalemme, quando ci si accosta al tempio e il sacerdote passa attraverso il velo, offrendo il sacrificio e ritorna verso il popolo per la benedizione. Io vidi la gloria. Ezechiele è chiamato in qualità di profeta, quando già è in esilio da 5 anni. La sua situazione è diversa da quella di Geremia. Geremia parla dell’esilio. Ezechiele è chiamato per essere profeta in esilio. E in esilio vede la gloria.
Cap. 3, v. 12: «Allora uno spirito mi sollevò e dietro a me udii un grande fragore: Benedetta la gloria del Signore dal luogo della sua dimora!. Era il rumore delle ali degli esseri viventi che le battevano l'una contro l'altra e contemporaneamente il rumore delle ruote e il rumore di un grande frastuono».
Ezechiele vede un grande carro, un carro di quelli che erano usati nella liturgia del tempio. Questo carro assume delle fattezze del tutto originali. C’è una voce che benedice la gloria del Signore, una specie di coro liturgico. Nel frattempo la visione viene meno. Resta però, v. 14, lo spirito, la ruah, il vento, l’uragano: «Uno spirito dunque mi sollevò e mi portò via». Resta per Ezechiele il suo movimento interiore, la sua spinta intrattenibile oramai, perché è dal fondo del cuore che Ezechiele è stato preso: così come si è ampliato senza più limiti l’orizzonte della sua visione nel tempo e nello spazio, così si è scavato questo medesimo orizzonte nell’intimo del cuore fino alla radice:
«Uno spirito dunque mi sollevò e mi portò via; io ritornai triste e con l'animo eccitato, mentre la mano del Signore pesava su di me. Giunsi dai deportati di Tel-Avìv, che abitano lungo il canale Chebàr, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito».

Il Figlio dell’Uomo

L’attività del profeta comincia in modo poco entusiasmante, poco brillante. D’altra parte Ezechiele a più riprese nel corso della sua vita conosce momenti di profonda solitudine, di intenso abbattimento, momenti di silenzio molto pesanti, mutismo quasi forzato. Ezechiele è preso da questa profonda tristezza e insieme è mosso da un ardore incontenibile. Si guarda attorno e vede gli altri deportati a Babilonia, deportati come lui. E’ sconvolto dinanzi a quella scena: resta per 7 giorni in silenzio.
3,22: «Anche là venne sopra di me la mano del Signore ed egli mi disse: Alzati e và nella valle; là ti voglio parlare».
Adesso di nuovo il Signore posa la sua mano su Ezechiele, una pressione che lo costringe a muoversi, là, nella valle. E’ un territorio pagano, una località non tanto discosta da Babilonia. E’ un isolamento che consente ad Ezechiele di sostare in quella ricerca interiore che è da lui testimoniata come esperienza di visione. E’ una esperienza di preghiera, un momento di raccoglimento, di ascolto.
«Mi alzai e andai nella valle; ed ecco la gloria del Signore era là, simile alla gloria che avevo vista sul canale Chebàr, e caddi con la faccia a terra».
La gloria del Signore era là; la gloria del Signore nella valle; la gloria del Signore in fondo al mondo, nella periferia, ai confini della terra; la gloria del Signore nella profondità dei cieli altissimi.
«Allora uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi ed egli mi disse: Và e rinchiuditi in casa. Ed ecco, figlio dell'uomo».

Questa espressione a noi dice tante cose, perché è una di quelle che Gesù usa per indicare se stesso. Essa ha una sua storia nella rivelazione biblica. Nel suo significato originale indica l’uomo, figlio di uomo. Non si ricorre a un padre sacerdote per garantire l’identità sacerdotale del figlio, ma si ricorre ad Adamo per qualificare il figlio come uomo tra gli uomini, uomo come gli uomini, uomo come ogni figlio di Adamo. Tu sei ben Adam. Questo titolo viene applicato almeno 80 volte ad Ezechiele. Dunque il fenomeno non passa inosservato. Quando Gesù parlerà di figlio dell’uomo farà riferimento ad altri testi, più conosciuti dai contemporanei di Gesù. Nel libro di Daniele: «Figlio dell’uomo, ti saranno messe addosso delle funi, sarai legato e non potrai più uscire in mezzo a loro». Il ministero profetico sarà contrastato, rifiutato, per Ezechiele sarà motivo di acuto dolore.
«Ti farò aderire la lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genìa di ribelli. Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: Dice il Signore Dio: chi vuole ascoltare ascolti e chi non vuole non ascolti; perché sono una genìa di ribelli».
Ezechiele parlerà anche attraverso il suo mutismo. Si è reso conto che in una pozzanghera d’acqua si è specchiato il cielo, che la gloria appare in terra d’esilio, in mezzo ai pagani, alle prese con le vicende più squalificate, nella profondità del cuore dolente di uomini sconfitti: la gloria del Signore era là.
Cap. 6, v. 8. Qui il resoconto di alcuni tra i primi interventi di cui Ezechiele è protagonista nei confronti di coloro che sono deportati come lui a Babilonia. Sono i primi anni del suo ministero profetico dal 592 al 586.
«Tuttavia lascerò alcuni di voi scampati alla spada in mezzo alle genti».
Qui l’esilio non è soltanto una minaccia o una ipotesi come per Geremia: è un dato di fatto. Ebbene «quando vi avrò dispersi nei vari paesi: i vostri scampati si ricorderanno di me fra le genti in mezzo alle quali saranno deportati».

Il ricordo, il cuore spezzato, la vergogna

Nei vv. 9-10 viene impostata una specie di spiegazione circa le tappe che affronteranno coloro che saranno condotti in esilio, ma in realtà questa è una situazione che riguarda il presente. L’esilio come tempo di discernimento e tempo di conversione. Sappiamo già che il discernimento riguarda la presenza della gloria, la presenza del Dio vivente. Questo comporta un processo di conversione. Le tappe di questo cammino di conversione vengono delineate nelle loro scadenze fondamentali: 3 tappe in questa trasformazione interiore.
«I vostri scampati si ricorderanno di me fra le genti in mezzo alle quali saranno deportati».
Prima tappa: il ricordo. Si ricorderanno di me che sono assente. Ezechiele, lui in prima persona, è protagonista di questa esperienza, di una memoria che riguarda l’assente. Per lui sacerdote che è così lontano dal tempio.
Seconda tappa: «perché io avrò spezzato il loro cuore infedele che si è allontanato da me e i loro occhi che si sono prostituiti ai loro idoli». La frantumazione del cuore. Dopo il ricordo, io spezzerò il loro cuore infedele.
Terza tappa: «avranno orrore di se stessi per le iniquità commesse e per tutte le loro nefandezze». E’ la consapevolezza della perversione, dell’infamia di cui si sono resi colpevoli, consapevolezza fino all’orrore di se stessi. E quindi: «Sapranno allora che io sono il Signore e che non invano ho minacciato di infliggere loro questi mali».
Il punto di arrivo di questo processo di conversione consiste nella conoscenza del Signore, che non è riservata agli intellettuali, la conoscenza del Signore è una relazione di vita, è una comunicazione che riguarda gli atteggiamenti più profondi, l’interiorità del cuore umano. "Sapranno che io sono il Signore. Finalmente entreranno in relazione con me, sapranno che io sono." "
Io sono" è il nome santo del Dio vivente. L’esperienza dell’esilio è una prospettiva di conversione che consentirà a coloro che vi sono coinvolti di prendere contatto con la santità del Dio vivente. Questa è una procedura del tutto estranea a quelle che erano le convinzioni ovvie, scontate, teologicamente documentate per un uomo, per un sacerdote, per una persona qualificata come Ezechiele. Tutto passa attraverso il tempio, tutto passa attraverso il culto, tutto passa attraverso l’offerta dei sacrifici, secondo le norme liturgiche. Qui, invece, non il culto del Tempio, ma l’esilio viene descritto come il contesto nel quale la conversione del cuore umano si compirà in modo tale da rendere percorribile quella strada che conduce all’incontro con la santità del Dio vivente: sapranno che io sono il Signore.

L’esilio come rivelazione della Gloria

Cap. 10, v. 18. Ezechiele ci dà conto di quel che sta succedendo a Gerusalemme. In visione Ezechiele è trasportato a Gerusalemme, è informato, riceve notizie che sono sempre più drammatiche. La sorte di Gerusalemme è segnata. Coloro che vivono a Gerusalemme vogliono ignorare questa incombenza della crisi finale, ma per coloro che si trovano a Babilonia, come Ezechiele, la realtà è evidente: la situazione precipita, non c’è più possibilità di riparo, per Gerusalemme non c’è più via di scampo. Ezechiele vede, nella visione è trasportato a Gerusalemme e si rende conto di come tutta la storia sia inquinata, sbagliata, compromessa, storia di prostituzione, tradimenti, giunge al capolinea. Ed ecco:
«La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini».

Da Babilonia Ezechiele vede la gloria che si allontana dal tempio, che va in esilio. La gloria del Signore va in esilio nel senso che essa riempie l’universo. Proprio quella gloria che si era manifestata a Ezechiele attraverso gli squarci delle nuvole del cielo, così come l’aveva contemplata nell’immagine rispecchiata in una pozzanghera d’acqua, come ne ha portato nel segreto del cuore il riscontro più doloroso e più liberante. La gloria esce dal tempio, si ferma sui cherubini:
«I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all'ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d'Israele era in alto su di loro. Erano i medesimi esseri che io avevo visti sotto il Dio d'Israele lungo il canale Chebàr e riconobbi che erano cherubini. Ciascuno aveva quattro aspetti e ciascuno quattro ali e qualcosa simile a mani d'uomo sotto le ali. Il loro sembiante era il medesimo che avevo visto lungo il canale Chebàr. Ciascuno di loro procedeva di fronte a sé».

Una visione sconvolgente: come è possibile che la gloria abbandoni? Per Ezechiele la gloria del Signore mostra la sua potenza movendosi in totale libertà nell’universo, essa è protagonista della storia umana. La gloria del Signore prende dimora intercettando il vissuto di ogni persona umana, sempre, dappertutto. La visione di Ezechiele, così come egli la esprime, così come anche ne rende conto ai suoi contemporanei, è motivo di risentimento, di rifiuto. La sua visione è intrinsecamente blasfema. L’esilio è per Ezechiele l’occasione propizia perché si compia questo discernimento della gloria, un discernimento grandiosamente nuovo, ma anche clamorosamente provocatorio per la coscienza dei suoi contemporanei, di coloro che ancora non sono andati in esilio e si abbarbicano alle vecchie illusioni, o per quelli che in esilio vorrebbero rievocare situazioni del passato.
Cap. 11, v. 22: «I cherubini allora alzarono le ali e le ruote si mossero insieme con loro mentre la gloria del Dio d'Israele era in alto su di loro. Quindi dal centro della città la gloria del Signore si alzò e andò a fermarsi sul monte che è ad oriente della città (monte degli ulivi). E uno spirito mi sollevò e mi portò in Caldea fra i deportati, in visione, in spirito di Dio, e la visione che avevo visto disparve davanti a me. E io raccontai ai deportati quanto il Signore mi aveva mostrato».
Ezechiele incontra qualche difficoltà per farsi intendere.

L’esilio come rivelazione della santità

Cap. 24: l’esilio come manifestazione della santità del Dio vivente. Se per il primo tema il termine chiave è gloria, l’esilio come discernimento della gloria; adesso il termine chiave è santità, l’esilio come rivelazione della santità, come epifania della santità. Sono situazioni capovolte rispetto a quelle che le consuetudini della devozione tradizionale e della teologia tradizionale imponevano.
24,15: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell'uomo ecco, io ti tolgo all'improvviso colei che è la delizia dei tuoi occhi».
Muore la moglie di Ezechiele, rimane vedovo all’improvviso. Ma la stranezza è questa: «tu non fare il lamento, non piangere, non versare una lacrima». Rimani vedovo ma non fare lutto. Strano. Tutto questo acquista un significato simbolico. La repentinità degli eventi è tale che non c’è modo di fare lutto. Tu «Sospira in silenzio e non fare il lutto dei morti: avvolgiti il capo con il turbante (chi è in lutto porta i capelli scarmigliati), mettiti i sandali ai piedi (chi è in lutto gira scalzo), non ti velare fino alla bocca (chi è in lutto invece si copre il colto con il mantello), non mangiare il pane del lutto (è il pane che altri preparano per te)». Non fare niente. «La mattina avevo parlato al popolo e la sera mia moglie morì. La mattina dopo feci come mi era stato comandato e la gente mi domandava: Non vuoi spiegarci che cosa significa quello che tu fai?. Io risposi: Il Signore mi ha parlato: Annunzia agli Israeliti: Così dice il Signore Dio: Ecco, io faccio profanare il mio santuario».
La morte della moglie di Ezechiele viene interpretata adesso come richiamo simbolico a quella che sarà la distruzione del tempio di Gerusalemme: «orgoglio della vostra forza, delizia dei vostri occhi e amore delle vostre anime». Il grande prestigio d’Israele, il tempio, non soltanto come monumento architettonico, ma il tempio che funziona come il grande sacramento dell’alleanza. Il tempio è distrutto, è quel che avverrà entro brevissimo tempo, ed avverrà in modo così repentino per cui non sarà possibile fare lutto.
«I figli e le figlie che avete lasciato cadranno di spada. Voi farete come ho fatto io: non vi velerete fino alla bocca, non mangerete il pane del lutto. Avrete i vostri turbanti in capo e i sandali ai piedi: non farete il lamento e non piangerete: ma vi consumerete per le vostre iniquità e gemerete l'uno con l'altro. Ezechiele sarà per voi un segno: quando ciò avverrà, voi farete in tutto come ha fatto lui e saprete che io sono il Signore».

Quando vi troverete alle prese con eventi che incalzano in modo così travolgente, eventi che si compiono senza nessuna possibilità di recupero, allora vi renderete conto di quale significato avesse quello strano comportamento di Ezechiele. Il punto è: voi conoscerete che io sono il Signore, che io sono il santo. Tutto sembra svolgersi in un silenzio pesantissimo, non c’è nemmeno il lamento di chi piange per il lutto subito. Silenzio. Ezechiele non fa lutto, voi stessi sarete condotti a patire questa catastrofe senza gridare, senza strepitare, senza lamentarvi. Sarete travolti in modo tale che vi sarà tolto anche il grido. Già. Ma proprio qui la situazione si ribalta: voi saprete che io sono il Signore e voi saprete allora che il lutto che voi patirete e per cui non potrete piangere, per cui dovrete rimanere in silenzio, il lutto riguarda me, ed è proprio questo mio lamento silenzioso che rimane velato sotto lo svolgimento di eventi che vanno precipitando in modo così tragico.
Perché Dio tace, perché non interviene? Perché gli avvenimenti hanno preso questa piega? Silenzio. Quel silenzio è il silenzio di colui che sta patendo il lutto di questo dramma assorbendone totalmente la gravità. La catastrofe di questo dramma è interamente incisa nel cuore del Dio vivente: voi saprete che io sono il Signore.
«Tu, figlio dell'uomo, il giorno in cui toglierò loro la loro fortezza, la gioia della loro gloria, l'amore dei loro occhi, la brama delle loro anime, i loro figli e le loro figlie, allora verrà a te un profugo per dartene notizia».
Arriverà un profugo da Gerusalemme a Babilonia.
«In quel giorno la tua bocca si aprirà per parlare con il profugo, parlerai e non sarai più muto e sarai per loro un segno: essi sapranno che io sono il Signore».

Allora parlerai, quando orami la catastrofe sarà realtà acquisita, parlerai dal di dentro del lutto, parlerai da dentro l’esilio, parlerai dal di dentro di una storia che porta in sé le stigmate di un disastro che non può essere più riparato, ma deve essere e può essere soltanto patito. Ed ecco l’esilio sarà per te rivelazione della mia santità, per te e per il popolo intero: essi sapranno che io sono.
Cap. 33, v. 21, il fuggiasco arriva: «Il cinque del decimo mese dell'anno decimosecondo (586 a.C.) della nostra deportazione arrivò da me un fuggiasco da Gerusalemme per dirmi: La città è presa». Gerusalemme è caduta. «La sera prima dell'arrivo del fuggiasco, la mano del Signore fu su di me e al mattino, quando il fuggiasco giunse, il Signore mi aprì la bocca. La mia bocca dunque si aprì e io non fui più muto».
Adesso è il tempo della parola, adesso è il tempo nel quale si esce dal mutismo, è il tempo nel quale ci rendiamo conto perché non era possibile fare lutto, perché gli eventi si sono svolti in modo tale da spostarci dal riferimento a noi e al nostro dolore, per sprofondare nel mistero del Dio vivente e nel suo dolore santo.
Cap. 36, v. 16. Qui un testo famosissimo, cap. 37.
«Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell'uomo, la casa d'Israele, quando abitava il suo paese, lo rese impuro con la sua condotta e le sue azioni. Come l'impurità di una donna nel suo tempo è stata la loro condotta davanti a me»
.
Una ricostruzione della storia passata, una storia di ribellione, di tradimento, una storia inquinata, le cui conseguenze sono orami registrate in modo macroscopico, nessuno può fraintendere il senso di quella vicenda antica.
«Perciò ho riversato su di loro la mia ira per il sangue che avevano sparso nel paese e per gli idoli con i quali l'avevano contaminato. Li ho dispersi fra le genti e sono stati dispersi in altri territori: li ho giudicati secondo la loro condotta e le loro azioni. Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo».

Si sono aggiunte altre malefatte, perché anche in esilio proseguirono nella loro infamia, disonorando il mio nome santo, mi hanno diffamato nei confronti dei popoli presso i quali sono stati deportati, «perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati».
Io ho avuto riguardo al mio nome santo. La mia santità, la mia relazione con loro, il mio nome, è una relazione santa. Loro si sono ribellati, loro mi hanno diffamato, loro hanno compromesso la relazione con me, ma la relazione mia con loro è una relazione santa e la mia santità è antecedente alla loro profanazione. E siccome io ho avuto riguardo al mio nome santo, che gli israeliti avevano disonorato tra tutte le genti, annunzia alla casa d’Israele:
«Annunzia alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore parola del Signore Dio quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo».

Un cuore nuovo

E’ la famosa profezia di Ezechiele sulla nuova alleanza, che risuona anche in Geremia, perché il mio nome è santo, e il vostro esilio diventerà epifania sacramentale della santità: santificherò il mio nome per mezzo di voi in mezzo a loro. Questo vale per tutti i popoli della terra, per tutta l’umanità, non ci sono più destinatari privilegiati:
«Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».

Questa è una formula tipica per descrivere il rapporto dell’alleanza: voi il mio popolo, io il vostro Dio. Questo avverrà in esilio, perché io sono santo. Qui di seguito le benedizioni che sono preannunciate per il popolo chiamato a ritornare dall’esilio non soltanto come una prospettiva di ordine logistico, ma come un processo di conversione che comporta una trasformazione del cuore. Non più il cuore di pietra ma il cuore di carne. Tra le benedizioni che qui vengono preannunciate, v. 31:

«Vi ricorderete della vostra cattiva condotta, delle vostre azioni che non erano buone, troverete disgusto di voi per le vostre iniquità e le vostre nefandezze. Non per riguardo a voi, io agisco dice il Signore Dio sappiatelo bene. Vergognatevi e arrossite della vostra condotta, o Israeliti»
.
Tra le benedizioni è messa in risalto la vergogna, il fatto che voi vergognerete. Questo è da intendere come una delle benedizioni che io preparo per voi, dal momento che manifesterò la mia santità attraverso di voi: io sono il Signore, l'ho detto e lo farò.
Poi nel cap. 37 la profezia delle ossa aride, fino al v. 12:
«Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d'Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio».
Siamo in pieno nel linguaggio che poi verrà ripreso nel NT, nella tradizione orante, liturgica, devozionale del popolo cristiano, il grande tropario di Pasqua dei cristiani dell’oriente: Cristo è risorto dai morti calpestando la morte con la morte e a coloro che giacciono nei sepolcri ha elargito la vita. «Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L'ho detto e lo farò». La santità è stata profanata e la santità si afferma attraverso la profanazione che ha subito; la profanazione non compromette la santità, la profanazione provoca questo stato di catastrofe in cui versa il popolo in esilio, l’esilio diventa esso stesso rivelazione della santità che si esprime in tutta la sua gratuità e intrattenibile urgenza vitale, una sorgente che scaturisce in modo da travolgere tutto ciò che nella storia del popolo di Dio ha assunto le forme, la pesantezza, il rigore infernale della morte. Tutto diventa rivelazione della santità del Dio vivente.
E finalmente, cap. 39, terzo tema. Anche in questo caso il tema era già preannunciato, v. 21:
«Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi. La casa d'Israele da quel giorno in poi saprà che io, il Signore, sono il loro Dio. Le genti sapranno che la casa d'Israele per la sua iniquità era stata condotta in schiavitù, perché si era ribellata a me e io avevo nascosto loro il mio volto e li avevo dati in mano ai loro nemici, perché tutti cadessero di spada. Secondo le loro nefandezze e i loro peccati io li trattai e nascosi loro la faccia».
Tra tutte le genti manifesterò la mia gloria. Israele mi riconoscerà, ma tutte le genti sapranno la mia gloria.
«Perciò così dice il Signore Dio: Ora io ristabilirò la sorte di Giacobbe, avrò compassione di tutta la casa d'Israele e sarò geloso del mio santo nome».
Sarà geloso della mia santità, e l’essere geloso sella sua santità significa compassione per la casa d’Israele, significa recuperare ciò che è perduto, trasformare l’infamia mortale nella quale Israele è sprofondato in rivelazione di vita nuova. «Quando essi abiteranno nella loro terra tranquilli, senza che alcuno li spaventi, si vergogneranno di tutte le ribellioni che hanno commesse contro di me». Si vergogneranno: questo è il terzo tema. Ezechiele ritorna su questo fenomeno: l’esilio come esperienza di vergogna, ma vergogna redentiva, una vergogna sacramentale: si vergogneranno di tutte le ribellioni che hanno commesse contro di me.
«Quando io li avrò ricondotti dalle genti e li avrò radunati dalle terre dei loro nemici e avrò mostrato in loro la mia santità, davanti a numerosi popoli, allora sapranno che io, il Signore, sono il loro Dio, poiché dopo averli condotti in schiavitù fra le genti, li ho radunati nel loro paese e non ne ho lasciato fuori neppure uno. Allora non nasconderò più loro il mio volto, perché diffonderò il mio spirito sulla casa d'Israele. Parola del Signore Dio».

Una vergogna redentiva in rapporto allo svelamento del volto. Siamo partiti da quel velo, adesso è lo svelamento di quel volto santo che va a rispecchiarsi, per così dire, sul volto svergognato di coloro che non avevano più la faccia per presentarsi.

Gerusalemme

Cap. 43. Vi sono le visioni finali del libro di Ezechiele, quelle in cui il profeta descrive Gerusalemme, la Gerusalemme nuova, la Gerusalemme ricostruita, il tempio e tutto il territorio.
«Mi condusse allora verso la porta che guarda a oriente ed ecco che la gloria del Dio d'Israele giungeva dalla via orientale» la gloria ritorna «e il suo rumore era come il rumore delle grandi acque e la terra risplendeva della sua gloria. La visione che io vidi era simile a quella che avevo vista quando andai per distruggere la città e simile a quella che avevo vista presso il canale Chebàr» la visione finale stava già nella visione introduttiva. «Io caddi con la faccia a terra. La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a oriente. Lo spirito mi prese e mi condusse nell'atrio interno: ecco, la gloria del Signore riempiva il tempio».

Tre passaggi: la venuta, l’ingresso, il riempimento. Ezechiele è trascinato dentro e anche lui è riempito dalla gloria. Importa poco stare a precisare la consistenza delle varie misure, dei dettagli architettonici elencati da Ezechiele a riguardo di questo tempio ricostruito: è la gloria che viene, che entra, che riempie sempre e dappertutto, è la gloria che viene, entra e riempie là dove la santità del Dio vivente si rivela passando attraverso la profanazione che ha subito da parte di coloro che hanno tradito l’alleanza dell’amore.
Ezechiele aggiunge: «Mentre quell'uomo stava in piedi accanto a me, sentii che qualcuno entro il tempio mi parlava e mi diceva: Figlio dell'uomo, questo è il luogo del mio trono e il luogo dove posano i miei piedi, dove io abiterò in mezzo agli Israeliti, per sempre». Dunque la regalità del Dio vivente. «E la casa d'Israele, il popolo e i suoi re, non profaneranno più il mio santo nome con le loro prostituzioni e con i cadaveri dei loro re e con le loro stele».
V. 10: «Tu, figlio dell'uomo, descrivi questo tempio alla casa d'Israele, perché arrossiscano delle loro iniquità; ne misurino la pianta e, se si vergogneranno di quanto hanno fatto, manifesta loro la forma di questo tempio, la sua disposizione, le sue uscite, i suoi ingressi, tutti i suoi aspetti, tutti i suoi regolamenti, tutte le sue forme e tutte le sue leggi: mettili per iscritto davanti ai loro occhi, perché osservino tutte queste norme e tutti questi regolamenti e li mettano in pratica».

Il ritorno della gloria non significa un ritorno al passato. Il passato è ormai illustrato per quel fallimento totale che fu, ma adesso, rispetto a quel passato, c’è la novità di questa venuta, di questo ingresso, di questo riempimento. Il riscontro sacramentale di tutto questo che avviene adesso, è dato dalla vergogna. Che cosa rimane di quel passato, come è conservata la continuità con quel passato? Perché pure questo è necessario. E’ in continuità con quel passato che gli avvenimenti nuovi si compiono. Di quel passato rimane la vergogna, ma una vergogna che orami è illustrata come sacramento di conversione e struttura portante di quella novità di cui Dio è protagonista nel futuro che ormai diviene il presente per coloro che sono alle prese con l’esperienza dell’esilio.