Incontri di discernimento e solidarietà
 
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NEL DESERTO


di Pino Stancari


Reimparare a vivere


Gli uomini non sanno vivere, sono in esilio dalla vita. La rivelazione biblica, considerata in tutto il suo svolgimento, ci propone un itinerario di apprendistato: Dio vuole nuovamente insegnare agli uomini come si vive, perché gli uomini hanno disimparato. I tentativi con i quali ancora cercano di risolvere il loro problema di uscire dal deserto per rientrare nel giardino della vita sono sempre più devastanti, sempre più desertificanti.
La rivelazione biblica ci invita a considerare come proprio Dio, lui stesso, sia protagonista di una impresa che è mirata a ricondurre gli uomini sulla strada della vita. E' il Signore che si muove, che prende l'iniziativa, che incrocia le strade dell'esilio, lungo le quali gli uomini sono dispersi. Lungo le strade dell'esilio l'umanità è visitata dalla iniziativa di Dio.



Verso una terra


La salvezza si sviluppa come promessa orientata all'ingresso in una terra. E’ la chiamata di Abramo. Da quel momento il viaggio è orientato verso una terra. Quella terra verso cui si mette in cammino Abramo e, dopo di lui, gli altri patriarchi, è da intendere come premonizione del giardino che è stato abbandonato e che dev'essere ritrovato. In questione non è semplicemente il passaggio da una regione ad un'altra, da un certo modo di vivere ad un altro, dal nomadismo alla residenzialità, dall'allevamento all'attività agricola. E' in questione quel percorso che è predisposto da Dio per rieducare gli uomini nella capacità di vivere. Gli uomini hanno disimparato a vivere. La promessa della terra si comprende nel suo significato più teologicamente illuminante nella prospettiva che abbiamo messo a fuoco: l'umanità è in esilio. Il popolo si viene costituendo nel corso delle generazioni in quanto è proteso verso la terra, sollecitato a procedere nel cammino che lo condurrà ad entrare nella terra.
Entrare nella terra significa procedere lungo il percorso che conduce al giardino, all'albero della vita, alla vita. Il tema è un po' bistrattato, stentiamo a comprenderne l'intensità, la qualità, la pienezza teologica. Non è in questione soltanto la proprietà di un pezzo di terra, è in questione la vita! E se non è Dio che ci insegna a vivere, noi siamo fenomeni di desertificazione sempre più devastanti, da Caino in poi, attraverso la torre di Babele.



Esodo e isodo


Dai patriarchi, nel corso di molte generazioni, la storia della salvezza si sviluppa come progressivo accostamento a una terra: contatti sporadici, occasionali, percorsi che lambiscono quella terra. Viene anche attraversata temporaneamente, c'è chi si ferma ad abitare per qualche tempo sul bordo di quel certo territorio. E così per diverse generazioni. Tutto ruota attorno a quella terra, che ancora non è abitata. Sono situazioni che rievocano quel che nell'antico racconto biblico è lo stato di esilio in cui si trova l'umanità che non può entrare nel giardino, perché ha disimparato a vivere.
Le grandi tappe della storia della salvezza sono note: dai patriarchi fino alla permanenza in Egitto, quindi l'uscita dall'Egitto. E’ interessante che vi sia un'uscita prima dell'ingresso. C'è un esodo prima di un isodo, per dirla alla greca. C'è un'uscita, non c'è ingresso senza uscita. La problematica tende a diventare sempre più drammatica proprio perché non è mai chiaro fino a che punto sia avvenuta l'uscita, che è anche il motivo per cui l'ingresso rimane così sfuggente. Non siamo ben sicuri di essere ancora entrati perché non è così sicuro che siamo veramente usciti. E’ in questione non il trasferimento da una regione ad un'altra, da un regime politico ad un altro; è in questione l'uscita dall'esilio per imparare a vivere, perché l'esilio è la situazione in cui si trovano gli uomini che non sanno vivere. Come potranno reimparare a vivere gli uomini? Certo l'opera di Dio è mirata proprio a questo, la rivelazione di Dio ci parla di questo: per riportare gli uomini al contatto dell'albero della vita. Ma gli uomini sono in esilio.



Nel deserto: Numeri


Nel libro de I Numeri c'è un insieme di episodi che approfondiscono questo tema dell’esilio. L'ingresso nella terra, così come è stato promesso, non è affatto scontato. La promessa è valida, irrevocabile, ma intanto passano le generazioni, passano i secoli e non è poco.. L'ingresso, nella rivelazione biblica, è realtà che sfugge alle facili programmazioni, che assume una sua fisionomia imprevedibile, sconcertante, certamente drammatica. Basti pensare alla attraversata del mare, allo scontro con il faraone, allo sbaragliamento dell'esercito egiziano.
In certi testi dell'AT, che poi sono ripresi sulla soglia del NT, c'è una diretta parentela tra l'attraversata del mare e la traversata del Giordano, che possiamo plasticamente identificare con l'ingresso nella terra. Il racconto evangelico si apre proprio così: è sulla riva del Giordano che compare Giovanni e compare anche Gesù. Quel battesimo è una rievocazione di quell'ingresso, dell'antica attraversata del fiume, del mare: esodo, isodo, uscita, ingresso. Drammatico l'esodo e non meno drammatico l'ingresso. Non è lo sbocco finale di una vicenda predisposta in modo da garantire la meta finale. Non è così.
Il libro dei Numeri è uno dei libri biblici meno letti dai cristiani insieme al Levitico. Nel Pentateuco dopo l' Esodo, libro che racconta l'uscita dall'Egitto, dalla schiavitù, c’è la traversata del deserto. Un lungo percorso in cui si inserisce quell'incontro intenso, appassionato, che sigilla la relazione d'amore tra Dio e il suo popolo, che si chiama alleanza. Un incontro che rimane e che segnerà lo svolgimento della storia successiva. Dio fa alleanza nel deserto con il suo popolo. Dopodiché la partenza dal Sinai, che è il luogo di riferimento dell'alleanza tra Dio e Israele, per puntare finalmente in direzione della terra promessa. Tutto sembra procedere in modo coerente, lineare.. Eppure le cose non vanno così.
Il libro dei Numeri, in ebraico si intitola "Nel deserto". I libri del Pentateuco in ebraico si intitolano con la parola o l'espressione che sta all'inizio del testo. La spiritualità del deserto è oggetto di ricerca e di meditazione per molti cristiani. Si parla del deserto come di una immagine ideale a cui ci si riferisce con discreta disinvoltura. Non mi sembra che il libro dei Numeri in quel contesto, riscuota un grande successo, eppure se c'è un testo nella rivelazione biblica che ha qualcosa da dire a riguardo della cosiddetta spiritualità del deserto, è proprio questo. Si intitola così: nel deserto!
Nella redazione attuale il libro si compone di ampie sezione legislative, che arricchiscono e completano le sezioni legislative già presenti in Esodo e Levitino, di tre grandi sezioni narrative. C'è un procedere alternante: sezioni narrative e sezioni legislative. Nella traduzione in greco prenderà il nome di Numeri perché il libro si apre con il censimento del popolo. Ancora accampato ai piedi del Sinai, il popolo, che è stato coinvolto nella relazione dell'alleanza con il Signore onnipotente, viene censito: Mosè può organizzare gli spostamenti, vengono distribuite le tribù nell'accampamento, viene predisposta ogni cosa in vista del viaggio attraverso il deserto. Alcune aggiunte per quanto riguarda questioni di carattere liturgico e si arriva a 10,11:
«Il secondo anno, il secondo mese, il venti del mese, la nube si alzò sopra la Dimora della testimonianza».
Da Es 19, passando attraverso il Leviicto e fino a qui, in Numeri, il popolo è fermo presso il Sinai. Da questo punto comincia il vero e proprio viaggio attraverso il deserto, che ormai ha un unico obiettivo: la terra di Canaan, la terra della promessa, la terra nella quale entrare. Ecco il viaggio verso la terra. Le cose però prendono una piega del tutto inimmaginabile.



Kades: pretese e paure


La prima sezione narrativa (10,11-14,45). Alla fine del libro il popolo è accampato nelle steppe di Moab, a oriente, sulla soglia della terra di Canaan. Lì si fermeranno e ci saranno i discorsi di Mosè che sono raccolti nel libro del Deuteronomio. L'ingresso avverrà nel libro di Giosuè.
Qui c'è una prima esperienza di ingresso che è nello stesso tempo una prima esperienza di riflusso nell'esilio. Questa vicenda così sconcertante ci aiuta a constatare come entrare comporta una rieducazione del cuore. Non è soltanto smarrita una procedura di ordine tecnico, è smarrito il gusto della vita, la sapienza della vita. L’esilio non è soltanto uno smarrimento di ordine logistico, è lo smarrimento del cuore. La nube si alza sopra la dimora e
«Gli Israeliti partirono dal deserto del Sinai secondo il loro ordine di marcia; la nube si fermò nel deserto di Paran».
Alcuni giorni di viaggio. In 10,33 si dice di 3 giornate di cammino:
«l'arca dell'alleanza del Signore li precedeva durante le tre giornate di cammino, per cercare loro un luogo di sosta».
Nel deserto di Paran viene identificata una località che si chiama Kades, un'oasi dove le tribù si accamperanno. Ci fermiamo anche noi. Cosa succede? Sembra che tutto proceda regolarmente, anzi in qualche modo la sollecitudine è commovente, da un giorno a un altro tutti si accampano e poi ripartono. Si spostano direi quasi con agilità, con entusiasmo: l'arca parte e per ogni giornata c'è un rinnovarsi dello slancio che comporta il trasferimento attraverso le zone impervie fino al deserto di Paran. Soltanto che adesso (cap. 11) veniamo a sapere che dopo tre giorni il popolo «cominciò a lamentarsi malamente agli orecchi del Signore».
La lamentela. Il fenomeno che qui viene registrato si ripone in lungo e in largo, con una insistenza sempre più petulante, invadente, assillante: tutto è motivo di lamentela, i luoghi, l'alimentazione, le persone. Si lamentano anche per come si comporta Mosè. Accanto a Mosè Aronne diventa insopportabile. Si lamentano del Signore. Lamentele. Così il racconto nei capp. 11-12.
Noi passiamo attraverso queste pagine con una certa disinvoltura, ma il testo ci suggerisce sentimenti di stupore, di apprensione, di vera trepidazione. Che succederà? Lamentele su lamentele. Manifestazioni di insofferenza che, a parte i disagi oggettivi che vengono così testimoniati, rinviano a complicazioni interiori. C'è un atteggiamento di protervia, di vittimismo, che tende a configurarsi come atteggiamento piagnucoloso. C'è uno scompenso nell'intimo dei cuori che possiamo comprendere come una vera e propria pretesa. Emergono, affiorano, erano trattenute, forse anche nascoste, archiviate in angoli oscuri del cuori, ma desso, dopo soli 3 giorni di viaggio, queste pretese vengono allo scoperto. Un atteggiamento che condiziona il contatto con le cose, con le persone, con gli avvenimenti. Pretese su pretese. Cosa c'è nel cuore umano? L'esilio dalla vita si configura adesso come incapacità di vivere perché il cuore umano è occupato e non solo condizionato. E’ come se fosse proprio invaso e soffocato da delle indomabili pretese: non va bene niente, i conti non tornano mai, tutto è motivo di protesta, di rivendicazione. Sempre e dappertutto c'è una buona ragione per proporsi come vittime di un sopruso ingiustificato. Arriviamo al cap. 12 con questo racconto. In 12,16:
«Poi il popolo partì da Caserot e si accampò nel deserto di Paran».
Ci risiamo, il deserto di Paran. Le tappe del percorso arrivano al deserto di Paran da cui precedentemente era stato dato, per così dire, un appuntamento: dal Sinai fino al deserto di Paran. E le tappe di questo percorso sono segnate dal riproporsi sempre più fastidioso, assillante di quell'atteggiamento di insofferenza che rifiuta tutto e tutti e che si erge come pretenziosa rivendicazione di diritti che sarebbero disattesi. Gli uomini non sanno vivere ma vantano dei diritti. In realtà, studiando queste pagine, abbiamo nettissima la percezione di quanto sia impreparata quella gente di cui si parla, che sta a rappresentare la storia degli uomini, la condizione dell'esilio in cui si trova l'umanità che non sa vivere. Gente impreparata. Non è sufficiente spostarsi da una località ad un'altra, o spostarsi dall'Egitto al Sinai o dal Sinai al deserto di Paran, per essere pronti ad entrare. Quel cumulo di pretese, che man mano vengono emergendo, diventano trappole che imbrigliano tutto lo svolgimento di questa vicenda: gli uomini esprimono tutta la loro inettitudine ad entrare nella dimensione della gratuità.
E' questa la impreparazione alla vita. Sono impreparati in rapporto a quella terra in cui dovrebbero entrare e in cui non entreranno, come noi già sappiamo, perché sono inetti a cogliere il valore della gratuità. Non sono preparati a incontrare ed accogliere il dono preparato per loro. Una inettitudine alla vita che è inettitudine alla gratuità.
Noi già sappiamo che gli uomini non sanno vivere, ma le pagine con cui abbiamo a che fare ci aiutano ad entrare più dentro.
C'è una inettitudine alla vita che fa tutt'uno con l’incapacità a rapportarsi con il dono preparato. Man mano che le lamentele del popolo emergono, lo sdegno del Signore incalza. Il Signore è sdegnato. Questo sdegno non è espressione di un gusto punitivo. E' esattamente l'espressione del disagio con cui il Signore onnipotente affronta la inettitudine degli uomini ad accogliere il dono preparato da Lui. Il Signore è sdegnato. Nel vangelo secondo Matteo si dice: quante volte bisogna perdonare? Sette volte? Settanta volte sette. E Gesù racconta una parabola: c'è un signore che ha condonato un debito di diecimila talenti, chi ha ricevuto il condono però esige che un altro servo come lui gli restituisca i cento denari che gli doveva. Allora il padrone è sdegnato (Mt 20). Egli esprime così il suo disagio, la sua insofferenza, la sua estraneità rispetto a quel comportamento. E' sdegnato perché il dono è preparato e non è accolto. C'è una inettitudine alla gratuità.



L’esplorazione


Cap. 13. Deserto di Paran, presso l'oasi di Kades (13,26). Siamo sulla soglia della terra promessa. Dunque che ci vuole? Basta fare un passo e l'ingresso sarebbe avvenuto. Viene organizzata una esplorazione del territorio:
«Il Signore disse a Mosè: Manda uomini a esplorare il paese di Canaan che sto per dare agli Israeliti».
E' un dono ormai preparato: manda ad esplorare.
«Mandate un uomo per ogni tribù dei loro padri; siano tutti dei loro capi».
Così Mosè organizza il drappello, 12 esploratori, uno per tribù. Vanno e tornano. 13,25: «Alla fine di quaranta giorni tornarono dall'esplorazione del paese».
Tornano portando esemplari dei frutti abbondanti e straordinariamente prosperosi che si producono in quella terra: un'enorme grappolo d'uva (13,24). Quaranta giorni: è una cifra simbolica per indicare come la relazione con la terra sia impostata in modo tale da dare spazio a una vocazione: è una vita. 40 è una cifra che allude al tempo, allo svolgimento e alla realizzazione della vita umana. La vita aderisce a quella terra: 40 giorni di esplorazione. Il primo contatto è un contatto premonitore, allusivo, è un contatto sacramentale. Ma al ritorno
«andarono a trovare Mosè e Aronne e tutta la comunità degli Israeliti nel deserto di Paran, a Kades; riferirono ogni cosa a loro e a tutta la comunità e mostrarono loro i frutti del paese. Raccontarono: Noi siamo arrivati nel paese dove tu ci avevi mandato ed è davvero un paese dove scorre latte e miele; ecco i suoi frutti. Ma il popolo che abita il paese è potente, le città sono fortificate e immense e vi abbiamo anche visto i figli di Anak. Gli Amaleciti abitano la regione del Negheb; gli Hittiti, i Gebusei e gli Amorrei le montagne; i Cananei abitano presso il mare e lungo la riva del Giordano».
Vi abitano questi popoli, ma niente esclude che vi sia anche spazio per Israele. Il resoconto viene accolto con turbamento, gli animi sono agitatissimi, riesplode il lamento, il popolo mormorava contro Mosé.
E' vero che tra gli esploratori c'è Caleb, che svolge una funzione moderatrice, e tra di loro c'è anche Giosuè, che è sempre favorevole a Mosè, ma la grande maggioranza di quel gruppo è costituita da coloro che riportano notizie allarmanti. La gente recepisce quelle notizie in modo da dare sfogo all'angoscia più violenta: ci sono i giganti in quella terra, i figli di Anak, un terrore sconvolgente dilaga.
Si arriva alla fine del cap. 13:
«Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo notata è gente di alta statura; ]vi abbiamo visto i giganti, figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro».
Una paura sconvolgente. La realtà è quella che viene descritta, ma la realtà è anche quella che viene interpretata in base a proiezioni di un'angoscia che scaturisce dall'intimo del cuore. E’ una realtà addosso alla quale vengono gettate ombre che erano trattenute nell'intimo del cuore. Anche questo conferma che gli uomini non sanno vivere. Il testo biblico ci parlava delle pretese, che sono espressione di una inettitudine alla vita, ma adesso quasi in contrappunto alle pretese, ci sono le paure: pretese in forza delle quali si vorrebbe accampare dei diritti e ridurre tutto a misura delle proprie aspettative, paure a causa delle quali sempre e dappertutto si vedono e si riconoscono pericoli insostenibili. Tutte buone ragioni per fuggire, per tirarsi indietro. Tra pretese e paure una oscillazione continua che rende agitatissima la vita umana, che non è più vita, è una effervescenza senza vita. Il Signore è sdegnato.



La rivolta


Siamo al cap. 14.
«Allora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida; il popolo pianse tutta quella notte. Tutti gli Israeliti mormoravano contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: Oh! fossimo morti nel paese d'Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci conduce in quel paese per cadere di spada? Le nostre mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?. Si dissero l'un l'altro: Diamoci un capo e torniamo in Egitto».
Mosè ed Aronne con lui si danno un gran da fare, intervengono , intercedono, cercano di moderare i sentimenti, cercano di recuperare credibilità nell'animo della gente, con scarso successo. Nel frattempo è sempre più chiaro: non c'è possibilità di procedere. Sono sul punto di entrare, sono sulla soglia della terra, il dono è preparato, ma loro sono impreparati. C'è un ritardo, c'è un rinvio. E’ una situazione paradossale. Il tema dell'esilio si ripresenta al di là di ogni possibilità di soluzione oggettiva, in rapporto alla impreparazione del cuore umano. L'esilio non è semplicemente nelle cose della vita, l'esilio è nel cuore degli uomini che rimane imbrigliato nel vortice delle proprie pretese e delle proprie paure. Dal cuore degli uomini la protesta con cui si vantano i propri diritti. Dal cuore degli uomini le angosce che proiettano ombre mostruose su tutta la realtà. Noi siamo esuli nel cuore. La vita è destrutturata, sì, ma a partire dal cuore: è il cuore esule, è il cuore prigioniero, è il cuore risucchiato nel terrore che fugge dinanzi a responsabilità insostenibili. Possiamo solo scappare e di fatto scappano. Addirittura c'è un tentativo di lapidazione a danno di Mosè e di Aronne. Mosè interviene presso il Signore. C'è già il perdono da parte del Signore. Sdegnato com'è perdona. 14,20:
« Il Signore disse:<<Io perdono come tu hai chiesto; ma, per la mia vita, com'è vero che tutta la terra sarà piena della gloria del Signore, tutti quegli uomini che hanno visto la mia gloria e i prodigi compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova gia dieci volte e non hanno obbedito alla mia voce, certo non vedranno il paese che ho giurato di dare ai loro padri. Nessuno di quelli che mi hanno disprezzato lo vedrà; ma il mio servo Caleb che è stato animato da un altro spirito e mi ha seguito fedelmente io lo introdurrò nel paese dove è andato».
Solo Caleb e poi Giosuè. E intanto la peregrinazione prosegue e ci vorranno 40 anni di peregrinazioni ingiustificate perché già sono sulla soglia.



Il per-dono


A Kades avviene questo: quando il dono ormai è preparato e c'è soltanto da entrare, l'ingresso non ha luogo perché non dipende da un passaggio logistico o da un superamento del confine che si para tra una regione e un'altra, dipende da una rieducazione del cuore che ancora non è avvenuta. Perché questo avvenga ancora un viaggio attraverso il deserto si altri 40 anni, che sono gli anni di una generazione. Tutta quella generazione deve venir meno: ogni generazione si prepara ad entrare venendo meno. Se non finisce la nostra generazione non entrerà.
Questo è il tema che in qualche modo inquadra il tempo di Avvento: se non finisce la nostra generazione, se questa generazione non finisce non entrerà. Se non finiamo non viviamo!
C’è una corrispondenza tra i 40 giorni della esplorazione e i 40 anni della peregrinazione nel deserto. La nostra vocazione in rapporto a quella terra: una vita. Ma ancora una sproporzione tra quella chiamata che abbiamo ricevuto, le promesse che ci sono state assegnate e la possibilità di rispondere, di aderire, di entrare. C'è di mezzo un processo di conversione che ha lo scopo di liberare il cuore dalle pretese e dalle paure e comporta la fine di tutta una generazione. L'ingresso non è meno drammatico della uscita. L'isodo per entrare comporta un travaglio non meno completo e radicale di quel che è avvenuto quando uscirono dall'Egitto attraversando il mare. Allora fu il faraone travolto dalle acque, adesso è tutta questa generazione travolta perché il cuore umano deve essere rieducato. E' un processo di conversione radicale quello che ci riguarda. Per questo il Signore fa sul serio, è sdegnato, perché vuol tirarci fuori dall'esilio, vuole liberarci rispetto a quell'esilio che imprigiona il cuore umano. E qui, alla fine del cap. 14, viene impostato lo svolgimento delle vicende che seguiranno. Se ne parla poi in Numeri, in Deuteronomio. Ci sono pagine nelle quali questo lungo percorso che adesso deve essere compiuto nel deserto sia praticamente inutile: che senso ha questo ritornare indietro, questo girare attorno a una montagna? Sembra un percorso che ha il sapore di una follia, l'impazzimento: continuiamo a girare intorno a una montagna, perché quando già c'eravamo?
Tutto questo conferma l'intensità dell'affetto con cui il Signore è intervenuto per rieducare gli uomini in rapporto a quella vita da cui sono esuli nel cuore. E qui ancora una situazione che si caratterizza come spossatezza, noia, come se tutti fossero nauseati, presi da una stanchezza mortale, in questa situazione si sviluppano fenomeni di carattere estremistico. Prima leggevamo di quei tali che si mettono a piangere e si rintanano nella disperazione. Qui (14,39ss) ci sono alcuni che la mattina si alzano presto per salire verso la cima del monte, dicendo: «Eccoci qua; noi saliremo al luogo del quale il Signore ha detto che noi abbiamo peccato».
C'è qualcuno che all'ultimo momento si mette in testa di compiere un'impresa gloriosa: noi saliremo, perché non ce lo dovevate dire che noi abbiamo peccato. In realtà il loro tentativo di entrare così con intraprendenza spavalda, si traduce in un fallimento clamoroso.
«Allora gli Amaleciti e i Cananei che abitavano su quel monte scesero, li batterono e ne fecero strage fino a Corma».
Semplificazione estremistica. Anche qui con una oscillazione tra il pianto che paralizza e l'entusiasmo che invece suggerisce imprese grandiose che sono del tutto tragiche, non soltanto inconcludenti, ma veramente tragiche. Il cuore deve essere rieducato, il cuore in esilio dalla vita. Noi siamo ancora nel deserto, siamo ancora generazione in viaggio, itinerante, che viene meno nel deserto, noi siamo impegnati in questo processo di apprendistato, stiamo imparando a vivere, stiamo imparando ad accogliere un dono. L'apprendistato che il libro dei Numeri mette in risalto riguarda proprio il gusto di aderire a un dono ricevuto per cui entrare nella terra significherà presentarsi come ospiti. E' la situazione di ospitalità da cui tutti rifuggivano, è la situazione di ospitalità che era sopraffatta dalle pretese e dalle paure. Non siamo ospiti, abbiamo delle pretese, non siamo ospiti, siamo in fuga perché ci fa paura vivere. E invece siamo ospiti nella vita, siamo ospiti nella terra promessa, una terra preparata come dono per noi. Stiamo imparando a vivere, perché stiamo imparando a godere della ospitalità che ci è donata. Per questo siamo nel deserto alle prese con l'esilio che affligge il cuore umano e da cui dobbiamo essere liberati.
"Esultai quando mi dissero: andremo alla casa del Signore"
Sal 122.
Era il salmo della preghiera responsoriale della 1° domenica di Avvento, ma era il salmo responsoriale anche della domenica precedente, la festa di Cristo Re. Per due domeniche consecutive si usa lo stesso salmo, che è un fenomeno piuttosto raro. Il pellegrino che arriva a Gerusalemme e ripercorre il viaggio che ha compiuto: ecco tutto è avvenuto nella spinta di una gioia che già premeva fin dall'inizio, anche quando non lo sapevo, non me ne rendevo conto, ero angosciato, ero paralizzato, ero disorientato, ero esule. Appunto in quell'esilio già premeva dall'interno, dal fondo la autenticità di una gioia che adesso finalmente posso testimoniare perché ti vedo, Gerusalemme. E così quando saremo alla fine potremo comprendere e testimoniare anche noi che la gioia già sosteneva, nascostamente, ma in modo determinante il nostro esilio di deserto in deserto perché Dio è fedele alle sue promesse.