L’esilio come maternità
Cap. 48, v. 10: "Ecco ti ho purificato per me come argento,
ti ho provato nel crogiolo dell’afflizione".
Si tratta esattamente dell’esilio, del tempo
dell’esilio, del luogo dell’esilio, a Babilonia, nel
crogiolo dell’afflizione. E’ tempo di gravidanza, di
attesa trepidante, di liberazione. Una esperienza di liberazione
dal di dentro dell’esili, non soltanto perché la tappa
dell’esilio è superata, ma dal di dentro
dell’esilio sperimentato in pieno, in tutte le sue
manifestazioni dolorose, in tutto i suoi aspetti più
terribili, già viene percepita la pregnanza di una
novità travolgente. Un tempo di conversione, il tempo di
grande discernimento.
La prima parte della raccolta che stiamo considerando guarda verso
Babilonia, guarda all’indietro, come il grande ricettacolo di
ogni idolatria. Babilonia è l’ambiente attraverso il
quale l’idolatria viene identificata e si sperimenta il
beneficio di una liberazione da essa. Una liberazione
dall’idolatria che fa tutt’uno con la capacità
di guardare Babilonia: il mondo degli uomini, la storia di coloro
che sono trascinati chissà dove e chissà come, pur
tuttavia ricomposti all’interno di un unico disegno
provvidenziale, d’amore. E’ uno sguardo verso Babilonia
che viene acquisito nel corso dell’esilio, uno sguardo
lucido, sapiente, penetrante, che esprime l’onestà dei
credenti che non sono più disposti a scendere a patti con
l’idolatria e che pure sono in grado di rivolgersi al mondo
degli uomini e guardare alla storia degli uomini con una nuova
capacità di compassione, di accoglienza. E’ sempre
più evidente per coloro che passano attraverso l
‘esperienza dell’esilio che la storia della salvezza
è unica storia per tutti i popoli della terra. Coloro che
stanno maturando attraverso l’esilio una prospettiva di
liberazione nuova, sanno bene di essere incamminati lungo un
percorso che darà spazio ai popoli incontrati, alle
generazioni che si sono consumate in epoche lontane, in contesti
culturali diversi, appunto là dove l’esilio ha
disseminato i credenti del popolo d’Israele.
Nel crogiolo dell’afflizione: era necessario passare
attraverso l’esperienza dell’esilio con tutto il dolore
che essa comporta, perché il popolo di Dio avvertisse di
essere depositario di una opera di salvezza che ha un valore
universale. Il popolo di Dio, attraverso l’esperienza
dell’esilio, si rende conto di aver ricevuto una missione,
una funzione sacramentale. La storia di tutti gli uomini è
storia di liberazione, è storia di discernimento in modo
tale che l’idolatria viene sbaragliata e l’appartenenza
all’unico Signore viene alla luce nella pienezza consolante
della sua fecondità.
A partire del cap. 49 noi guardiamo verso Gerusalemme, in direzione
opposta a quella considerata fino a questo momento,
Babilonia.
La seconda parte ci incoraggia a guardare verso Gerusalemme.
L’esilio cambia il modo di raffigurare Gerusalemme. Dire
Gerusalemme è dire un ammasso di rovine, ma anche una
memoria, un’aspirazione, una speranza. Dire Gerusalemme
è dire la vocazione del popolo di Dio che ha a che fare con
la presenza di una città, che si confonde, che si identifica
con la presenza di quella città. Quel che si dice di
Gerusalemme si dice di Israele. Nel cap. 40, v. 2, leggevamo:
"parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la
sua schiavitù". Nel crogiolo dell’afflizione parlate
al cuore di Gerusalemme. Nel tempo dell’esilio, il tempo del
dramma, dell’afflizione, della pesantezza, dello
sconvolgimento, della solitudine, della sconfitta,
dell’esilio. Esperienza di una storia sbagliata con tutte le
conseguenze che essa ha comportato: parlate al cuore di Gerusalemme
e ditele che è finito il tempo della sua schiavitù.
Cambia il modo di guardare Gerusalemme, non soltanto cambia il modo
di guardare Babilonia e il mondo degli uomini. Gerusalemme è
la vocazione d’Israele: chi siamo noi e che ci stiamo a fare.
Noi siamo un sacramento, siamo depositari di una missione. Il
nostro profeta dal di dentro di Babilonia interpreta il significato
di quel che sta avvenendo: Ciro avanza, Babilonia cade, gli
sconvolgimenti della storia internazionale e così via.
Parlate al cuore di Gerusalemme, che è il cuore di un
popolo, che è il cuore di tutti e di ciascuno, che è
il cuore di una comunità, che è il luogo interiore in
cui è custodita una vocazione, in cui si esprime con il
linguaggio appropriato una missione di presenza, di testimonianza
della storia degli uomini: parlate al cuore di Gerusalemme.
Gerusalemme, per quanto sia un ammasso di rovine, ha un cuore, per
quanto sia un popolo di esuli, di sbandati, di dispersi, di
derelitti, ha un cuore: parlate al cuore di Gerusalemme. Il
profeta, il grande consolatore, si presenta con questo messaggio
che scava la profondità di un cuore anche in coloro che
lì per lì avevano l’impressione di averne
perduto l’esperienza, la reminiscenza, il gusto. Gente che ha
perso il cuore, gente che non sa più chi è, che non
sa più cosa ci sta a fare al mondo, che ha soltanto da
aspettare la prossima inevitabile scomparsa. Invece
c’è un cuore: parlate al cuore di Gerusalemme, ditele
che è finito il tempo dell’esilio.
Che succede a Gerusalemme? Il cuore prende un’andatura nuova.
Cosa succede al cuore di Gerusalemme, al cuore di un popolo in
esilio?
Due testi in primo luogo che sono strettamente collegati tra di
loro, che possiamo senz’altro già inquadrare: il cuore
di Gerusalemme scopre nel tempo dell’esili, di essere
depositario di una fecondità: il tempo dell’esilio
come scoperta di maternità (49,14-23).
«Sion ha detto: Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi
ha dimenticato».
Si sta lamentando. E’ un atteggiamento di protesta quello che
si esprime così, anche se modestamente, umilmente,
flebilmente. Sion si guarda attorno e scopre di essere abbandonata
alla propria solitudine, come chi è stata tradita dal
marito: Il Signore mi ha abbandonata, il Signore mi ha
dimenticato.
Gerusalemme ha questa immagine di se stessa. Si presenta come una
creatura derelitta che si sta spegnendo nella propria amara
solitudine. Qui non è il caso di ricercare gli antefatti,
questa città, che poi porta in sé
l’identità di tutto un popolo, si esprime al femminile
come sposa tradita dal marito, il Signore. Gerusalemme si lamenta
perché è stata abbandonata. Il Signore le
risponde:
«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da
non commuoversi per il figlio delle sue viscere?».
La risposta ci lascia sconcertati. L’obiettivo viene
spostato, è il Signore che presenta adesso se stesso nella
qualità di una donna che non dimentica il proprio bambino,
che si commuove per il figlio delle sue viscere.
E’ interessante vedere che Gerusalemme si lamenta dicendo: io
sono una moglie abbandonata, e il Signore le risponde: tu sei una
figlia custodita. Il Signore sposta la questione: tu sei figlia.
Dalla relazione nuziale, alla relazione genitoriale: tu sei figlia
e sei figlia custodita.
E insiste: «Anche se queste donne si dimenticassero, io
invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle
palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me. I tuoi
costruttori accorrono, i tuoi distruttori e i tuoi devastatori si
allontanano da te».
Non vedi come tu sei tenuta in braccio da me? Lo vedi come è
costante il mio amore materno nei tuoi confronti? E’ il
Signore nei confronti di Gerusalemme, nei confronti del popolo, nei
confronti di questa gente in esilio che macina sentimenti di
amarezza perché avverte l’inevitabile sprofondamento
in una solitudine sempre più mortificante. Ebbene,
c’è un amore materno che non ti ha abbandonato, che
non ti ha dimenticato, che ti custodisce con affettuosa
puntualità.
Adesso la scena si sta trasformando, perché il Signore dice
a Gerusalemme: guardati attorno, guarda cosa sta succedendo. Vedi,
tutti costoro si radunano e vengono da te.
«Com'è vero ch'io vivo oracolo del Signore ti vestirai
di tutti loro come di ornamento, te ne ornerai come una
sposa».
Cosa sta succedendo? Succede che Gerusalemme è aiutata a
guardarsi attorno per accogliere una moltitudine di visitatori e
costoro sono in realtà delle presenze familiari. Una
moltitudine di figli si è presentata, bussa alle porte di
Gerusalemme, prende dimora entro i suoi confini. Qui
l’immagine si confonde con quella di un rivestimento nuziale:
tu sei sposa, ma sei sposa non più in base ai criteri per i
quali tu ti lamentavi di essere stata abbandonata, ma tu sei sposa
perché sei resa madre di una moltitudine di figli. Tu ti
lamentavi perché avevi perduto il marito e il marito non si
era interessato di te, ti aveva lasciato sola? Tu in realtà
vedi che tu sei sposa proprio perché c’è una
moltitudine di figli che ti rivestono come l’abito nuziale
che costituisce il tuo inconfondibile ornamento. E
insiste:
«Poiché le tue rovine e le tue devastazioni e il tuo
paese desolato saranno ora troppo stretti per i tuoi abitanti,
benché siano lontani i tuoi divoratori. Di nuovo ti diranno
agli orecchi i figli di cui fosti privata: Troppo stretto è
per me questo posto; scostati, e mi
accomoderò».
Premono, incalzano, chiedono spazio.. Gerusalemme si lamenta di
essere una moglie abbandonata e il Signore gli risponde con quel
discorso sulla maternità. Io sono madre per te che sei
figlia. Sta parlando a Gerusalemme: tu sei sposa proprio
perché sei madre. Non ti accorgi che proprio per come sono
andate le cose tu hai acquisito una capienza materna, una larghezza
nell’accoglienza, una capacità di generare figli di
cui non avevi nemmeno il sentore. Ecco perché sei
sposa.
Su questo insistono i versetti seguenti:
«Tu penserai: Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di
figli e sterile; questi chi li ha allevati? Ecco, ero rimasta sola
e costoro dove erano?. Così dice il Signore Dio: Ecco, io
farò cenno con la mano ai popoli, per le nazioni
isserò il mio vessillo. Riporteranno i tuoi figli in
braccio, le tue figlie saranno portate sulle spalle. I re saranno i
tuoi tutori, le loro principesse tue nutrici. Con la faccia a terra
essi si prostreranno davanti a te, baceranno la polvere dei tuoi
piedi; allora tu saprai che io sono il Signore e che non saranno
delusi quanti sperano in me».
Ritornano i figli dispersi, ritrovati e c’è una
partecipazione corale di tutti i popoli della terra. E’ la
famiglia che cambia dimensioni, non soltanto i figli perduti in
passato e ritrovati adesso, sono altri figli che si aggiungono. La
maternità di Gerusalemme assume una qualità
ecumenica, smisuratamente ampia, così accogliente da poter
ospitare in sé come un’unica famiglia, la
varietà illimitata dei popoli della terra. Una
maternità che ha una funzione attrattiva, più ancora
che generativa. Quando pensiamo alla maternità pensiamo a
una fecondità che sta alle nostre spalle, che ci genera.
Questa fecondità di Gerusalemme è una
fecondità che attrae, che attrae coloro che sono dispersi
nelle periferie più remote del mondo e nel corso di tutta la
storia umana, ed è proprio il senso di questa storia umana
che adesso si delinea come il percorso compiuto da coloro che
stanno imparando a riconoscersi fratelli in relazione
all’unico grembo nel quale sono generati. E’ una
generazione escatologica questa, è una generazione al
futuro.
Parlate al cuore di Gerusalemme. Cosa scopre Gerusalemme nel suo
cuore: una maternità ed una fecondità
escatologica.
L’esilio come bellezza
Cap. 54, vv. 1-3.
«Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida
di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori,
perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata che
i figli della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della
tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga
le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti
allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza
entrerà in possesso delle nazioni, popolerà le
città un tempo deserte».
E’ finita la sterilità, anche le nazioni, i popoli
pagani, sono parte della famiglia, la tenda si allarga, altri pali,
altri temi, a destra e a sinistra, in tutte le direzioni, in tutti
i deserti. Gerusalemme che è stata ridotta a quel cumulo di
rovine, è la storia di tutti gli uomini che in modi diversi,
in tempi particolari hanno sperimentato la rovina e il crollo, la
sconfitta, fino alla morte. Gerusalemme è la madre dotata di
una fecondità che attrae a sé i dimenticati, i
perduti, gli sconfitti, gli scomparsi della storia umana da Adamo
in poi. «Non temere, perché non dovrai più
arrossire».
Cap. 51. Una sequenza di tre poemi che sono rigorosamente
coordinati tra di loro. Ce ne rendiamo conto immediatamente dal
fatto che tutti e tre i poemi si aprono con lo stesso imperativo
che incontriamo per la prima volta qui al v. 9: Svegliati. Questo
imperativo lo ritroviamo all’inizio del secondo poema, v. 17.
Cap 52, terzo poema, lo stesso imperativo ma con significati
diversi. Tre poemi messi in sequenza, tutti introdotti da questo
invito al risveglio, ma cambiano le situazioni.
Abbiamo parlato dell’esilio come scoperta di
maternità. Adesso ci si presenta l’esilio come
rivelazione di bellezza. E’ la bellezza di quella
maternità, è la bellezza di quella presenza che
contrassegna il popolo di Dio e la sua missione tra gli uomini.
(giro cassetta)
Tre poemi, il primo, vv. 9-16.
«Svegliati, svegliati, rivestiti di forza, o braccio del
Signore». Qui, ancora una volta, è Gerusalemme che
si lamenta, e che chiede soccorso perché il braccio del
Signore evidentemente si è allentato, si è ripiegato,
non è intervenuto come si attendeva. E’ una protesta,
è un rimpianto. «Svegliati come nei giorni
antichi». Un tempo non è stato
così.
«Svegliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni
passate. Non hai tu forse fatto a pezzi Raab, non hai trafitto il
drago?».
Immagini che derivano dalle antiche mitologie, l’opera della
creazione. Tu che hai creato con braccio potente, svegliati, oggi
te ne sei dimenticato?
«Forse non hai prosciugato il mare, le acque del grande
abisso e non hai fatto delle profondità del mare una strada,
perché vi passassero i redenti?».
Qui è rievocato l’esodo, l’uscita
dall’Egitto, il grande viaggio, l’attraversata del
mare. E adesso ti sei ritirato, hai allentato la presa, ti sei
addormentato. Ecco il lamento di Gerusalemme.
Dal v. 12 la risposta del Signore che dice:
«Io, io sono il tuo consolatore. Chi sei tu perché
tema uomini che muoiono e un figlio dell'uomo che avrà la
sorte dell'erba?».
Il Signore non sta zitto, non si è tirato indietro, anzi
dice la sua, ma in modo delicato: io sono il tuo consolatore. Tu
sei preda del terrore, sei tanto spaventata per gli uomini mortali,
che pure ti hanno aggredito, oppresso, travolto, da non renderti
conto che sei raggiunta dalla mia consolazione. Tu
«Hai dimenticato il Signore tuo creatore, che ha disteso i
cieli e gettato le fondamenta della terra. Avevi sempre paura,
tutto il giorno, davanti al furore dell'avversario, perché
egli tentava di distruggerti. Ma dove è ora il furore
dell'avversario?».
Babilonia ormai è in crisi, una crisi politica che
condurrà in breve tempo alla decadenza rapidissima del regno
babilonese, un altro regno subentrerà. Così vanno le
cose nella storia degli uomini, e tu ti sei lasciata prendere da
tanta angoscia, ti sei lasciata soffocare da tanta
disperazione.
«Ma dove è ora il furore dell'avversario? Il
prigioniero sarà presto liberato; egli non morirà
nella fossa né mancherà di pane. Io sono il Signore
tuo Dio, che sconvolge il mare così che ne fremano i flutti,
e si chiama Signore degli eserciti».
Il Signore non è latitante, ci tiene a fare presente che io
sono quello che ha creato, io sono quello che ha aperto una strada
attraverso il mare,
«Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto
sotto l'ombra della mia mano, quando ho disteso i cieli e fondato
la terra, e ho detto a Sion: Tu sei mio popolo».
Un linguaggio molto discreto questo, molto soave, molto delicato:
"tu sei il mio popolo", è confermato come un bisbiglio, un
mormorio leggero che raggiunge il cuore di Gerusalemme. Nel
frattempo Gerusalemme tumultuante nella sua sofferenza, stretta
dalla morsa della paura, della disperazione, sta protestando.
Svegliati, svegliati! E il Signore da parte sua: Tu sei mio
popolo.
Secondo poema, vv.17-23. La scena prende un’altra
composizione.
«Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme». Qui
non è il Signore che dorme, è Gerusalemme che dorme,
ed è a Gerusalemme addormentata che il Signore si rivolge
per svegliarla. La prospettiva si è ribaltata.
«Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto
dalla mano del Signore il calice della sua ira; la coppa della
vertigine hai bevuto, l'hai vuotata». Gerusalemme dorme
perché è stata narcotizzata, intossicata, drogata. Ha
bevuto un calice contenente una bevanda velenosa. Dalla mano del
Signore. Perché? Certo è Gerusalemme che si è
dedicata con grande trasporto, compassione all’impresa di
tracannare tutto il contenuto di quel calice. Gerusalemme si
è drogata fino al punto di stramazzare al suolo, ma è
anche vero, che è la mano del Signore che le ha porto il
calice della sua ira. E insiste qui:
«Nessuno la guida tra tutti i figli che essa ha partorito;
nessuno la prende per mano tra tutti i figli che essa ha allevato
– vedete che se ne va barcollando - Due mali ti hanno
colpito, chi avrà pietà di te? Desolazione e
distruzione, fame e spada, chi ti
consolerà?».
E’ un modo per ricapitolare la storia di Gerusalemme, la
storia di tutto il popolo, è la storia di una malattia grave
che non è stata curata, anzi che è stata incentivata
con insistenza.
«I tuoi figli giacciono privi di forze agli angoli di tutte
le strade, come antilope in una rete, pieni dell'ira del Signore,
della minaccia del tuo Dio.
«Perciò ascolta anche questo, o misera, o ebbra, ma
non di vino».
Qui è il Signore che rimprovera. E’ il Signore che
spiega come stanno le cose. Tu stai dormendo perché porti in
te le conseguenze di una assuefazione all’uso di droghe che
ti hanno consumato, svuotato, distrutto, te e i tuoi figli. Il
Signore non per questo si erge in una posizione di giudizio che
condanna, ma il Signore dice: sono io che ti ho osservato,
accompagnato, sono io che veglio al tuo capezzale di creatura
ammalata e dormiente.
«Così dice il tuo Signore Dio, il tuo Dio che difende
la causa del suo popolo: Ecco io ti tolgo di mano il calice della
vertigine, la coppa della mia ira; tu non lo berrai più. Lo
metterò in mano ai tuoi torturatori che ti dicevano:
Cùrvati che noi ti passiamo sopra. Tu facevi del tuo dorso
un suolo e come una strada per i passanti».
Tu stesa al suolo e gli altri ti calpestavano impunemente. Ma
adesso il Signore dice: quel calice drogato che tu hai bevuto ti ha
consegnato a me, perché io non ti ho abbandonato nella tua
storia tragica di creatura così sollecita e disinvolta,
così schifosamente pronta a sguazzare nelle forme della
propria autodistruzione. Io non mi sono separato, allontanato da
te, sono io che ti ho messo in mano quel calice, perché quel
calice drogato è divenuto medicinale. Questa storia nella
quale tu adesso ti sei finalmente resa conto di essere schiacciata
a terra è la storia della guarigione che io preparo per te.
Svegliati, svegliati, che vuol dire: guarisci. Sono qui per
guarirti, quel calice squallido e inconcludente è la
medicina con cui io mi presento a te per risvegliarti. Non hai
trovato altri consolatori. E’ proprio la voce di colui che
sta rimproverando Gerusalemme che acquista l’intonazione
inconfondibile di una consolazione dolcissima: è la voce del
consolatore. E’ l’unico consolatore, che si prende cura
di te, sempre.
Terzo poema (52,1-6). «Svegliati, svegliati».
Qui di nuovo il poema assume la fisionomia di un vero e proprio
canto di amore, una serenata. Varia la natura di questi poemi ed
è evidente la connessione tra l’uno e l’altro.
E’ tutto un itinerario che stiamo percorrendo: da quel
lamento di Gerusalemme, a quel rimprovero con cui il Signore spiega
a Gerusalemme che non è lui l’addormentato, ma
è proprio lei, prigioniera di un sonno mortale. E
adesso:
«Svegliati, svegliati, rivestiti della tua magnificenza,
Sion; indossa le vesti più belle, Gerusalemme, città
santa».
Conosciamo bene questi versetti, perché qualche volta
diventano un canto che risuona nelle nostre chiese. E’ il
canto dell’innamorato alla sua amata: fatti vedere, mostrati,
svegliati. Voglio ammirarti nella tua bellezza ancora per qualche
momento. Indossa le vesti più belle, Gerusalemme,
città santa
«perché mai più entrerà in te il non
circonciso né l'impuro. Scuotiti la polvere, alzati,
Gerusalemme schiava! Sciogliti dal collo i legami, schiava figlia
di Sion! Poiché dice il Signore: Senza prezzo foste venduti
e sarete riscattati senza denaro».
Tutto avviene gratuitamente. Qui non c’è stato nessun
guadagno, ed è appunto nel contesto di una operazione
totalmente in perdita che tu sarai riscattata, liberata dalla
schiavitù. Sarai messa in grado di esprimere la tua
bellezza. Ed è proprio di questa bellezza che io vado in
cerca. Ed è proprio per questa bellezza che io ti chiamo,
che insisto nella mia invocazione quasi una implorazione, quasi un
mendicante, appunto come un innamorato sempre mendicante
l’amore. Il Signore si rivolge a Gerusalemme sveglia, un
popolo in esilio: svegliati, renditi conto della bellezza che ti
è stata assegnata. La maternità di Gerusalemme
è dotata di una affascinante bellezza. Insistono adesso i
vv. 4-6:
«Poiché dice il Signore Dio: In Egitto è sceso
il mio popolo un tempo per abitarvi come straniero; poi l'Assiro
senza motivo lo ha oppresso. Ora, che faccio io qui? oracolo del
Signore Sì, il mio popolo è stato deportato per
nulla! I suoi dominatori trionfavano oracolo del Signore e sempre,
tutti i giorni il mio nome è stato disprezzato. Pertanto il
mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel
giorno che io dicevo: Eccomi qua».
Non mi sono ritirato nelle mie dimore, non sono ripiegato sui miei
diritti non corrisposti, sono qua per guardarti e perché tu
ti renda conto di quale bellezza appare sotto il mio sguardo.
Gerusalemme, madre dell’unica famiglia umana nella quale
tutti i figli trovano dimora per riconoscersi fratelli, svegliati,
rivestiti, mostra la tua bellezza.
Subito dopo, qui, nello stesso cap. 52, si aggiunge un poema che fa
magnificamente da conclusione alla sequenza che abbiamo percorso
sommariamente, vv. 7-12.
«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti
annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la
salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio».
Un canto di gioia qui. L’evangelizzatore, il messaggero di
lieti annunzi, qui è il profeta e tutti coloro che come il
profeta si rivolgono a Gerusalemme e da parte di Gerusalemme
c’è una risonanza.
«Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di
gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in
Sion».
In questa consonanza tra il messaggio dell’evangelizzatore
che si rivolge a Gerusalemme e la voce delle sentinelle che
esprimono il risvegliarsi di Gerusalemme, in questa consonanza che
dà a noi la percezione di come il cuore riprenda a battere,
di come il cuore di Gerusalemme stia assumendo la potenza di una
vita nuova, il Regno di Dio viene. Il regno di Dio,
l’evangelo. Il regno di Dio viene là dove il cuore di
Gerusalemme si apre. E il cuore di Gerusalemme si apre nel contesto
in cui c’è il profeta che arriva trascinandosi lungo i
percorsi impervi del deserto e ci sono le sentinelle che si
svegliano nel pieno della notte: Senti, ascolta questa voce.
E’ un grido di gioia, vedono con gli occhi il ritorno del
Signore in Sion «Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme», perché ancora sono rovine,
ma rovine che gioiscono
«perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha
riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la
salvezza del nostro Dio».
Ogni carne vedrà la salvezza del Signore, così nel
poema introduttivo. E qui: tutti i confini della terra vedranno la
salvezza del nostro Dio. E allora partite da Babilonia, parlate al
cuore di Gerusalemme.
Il servo del Signore
Nel libro della consolazione sono presenti quattro canti che
hanno una loro singolare grandezza, perché in essi compare
l’immagine di un personaggio misterioso e grandioso insieme,
che è il cosiddetto servo del Signore, i 4 canti del servo.
Il primo nel cap. 42, gli altri 3 canti stanno nella seconda parte,
cap. 49, cap. 50 e capp. 52-53. Il quarto canto è la prima
lettura nella celebrazione solennissima del venerdì santo,
così come gli altri tre canti sono voce di riferimento nella
preghiera della chiesa durante la Settimana Santa, sempre tutti gli
anni. Nel momento più solenne, nei giorni più
significativi, la preghiera liturgica della chiesa mette in
evidenza questi testi del Deuteroisaia.
Il servo del Signore. Il servo viene raffigurato come
l’agnello muto, l’agnello che viene condotto fino a
subire la macellazione senza reagire, senza protestare, ed è
l’agnello che viene riconosciuto come pastore delle pecore
disperse. Così nel cuore del quarto canto, al centro,
53,6-7. E’ l’opera del Signore che si manifesta
là dove l’agnello è divenuto pastore delle
pecore disperse. Ma non basta questo, in realtà Gerusalemme
è condotta attraverso tutto quello che sta avvenendo nel
tempo dell’esilio a riconoscere in quell’agnello
immolato e maestoso, sgozzato e vittorioso, in quell’agnello
il proprio pastore, in quell’agnello il proprio sposo.
Il discorso viene da lontano. Sappiamo bene che questo tema nuziale
è ricorrente nella predicazione dei profeti più
antichi del nostro, ma qui nella predicazione del Deuteroisaia,
l’identificazione del Signore come sposo per Gerusalemme,
come sposo per il popolo nell’ambito dell’alleanza
acquista una singolare, straordinaria, avvolgente intensità
affettiva: parlate al cuore di Gerusalemme, quello che Gerusalemme
già sapeva. Adesso nel cuore di Gerusalemme viene incisa la
rivelazione di una chiamata alla maternità, di una
esplosione di bellezza, è nel cuore di Gerusalemme che viene
incisa l’immagine dello sposo, il servo rifiutato e
intronizzato, esaltato lui che porta il peso di tutto
l’orrore della storia umana. Cap. 54«Non temere,
perché non dovrai più arrossire; non vergognarti,
perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai
la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il
disonore della tua vedovanza. Poiché tuo sposo è il
tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo
redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di
tutta la terra. Come una donna abbandonata e con l'animo afflitto,
ti ha il Signore richiamata. Viene forse ripudiata la donna sposata
in gioventù? Dice il tuo Dio».
E’ il tuo sposo quell’agnello divenuto pastore, quel
servo rifiutato e che pure ha interceduto per i peccatori, colui
che ha portato la colpa di tutti gli uomini nella sua vergogna:
ecco è il tuo sposo. Sei sposata nella vergogna. Proprio
nella tua vergogna, nel tuo disastro, nell’esilio sei
sposata. Il tuo sposo è colui che si è presentato
come il protagonista del tuo esilio. Ha fatto suo il tuo esilio, il
tuo disastro, la tua vergogna, la tua morte. E’ il tuo sposo,
ti ha sposato, nell’esilio.
"Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò
con immenso amore».
Ti ho abbandonata nel senso che sono sceso più a fondo,
più in basso, ti ho abbandonato nel senso che tu mi ritrovi
come colui che già si è calato nella miseria della
tua condizione fino a sollevarti dal basso. «In un impeto
di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto
perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il
Signore». Un affetto perenne (ebr.: Hesed
olam).
E finalmente l’ultima strofa di questo canto:
«Ora è per me come ai giorni di Noè, quando
giurai che non avrei più riversato le acque di Noè
sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con
te e di non farti più minacce».
In questa relazione nuziale tra il Signore e Gerusalemme è
veramente impostata la ricostruzione di tutto l’universo, la
ricomposizione di tutta la storia umana, come ai giorni di
Noè, in una prospettiva più universale, più
completa. Un immenso amore diceva il v. 7 (ebr.: rahamim
gadolim): viscere immense. Si è spalancato il grembo
dell’Onnipotente. E tu ci sei caduta dentro, Gerusalemme. E
là dove tu sei sprofondata nell’esilio ti guardi
attorno e ti accorgi che sei sprofondata nelle viscere
dell’Onnipotente. Ed è una creazione intera quella che
si sta illuminando, che viene emergendo. Le acque del diluvio si
ritirano.
«Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non
si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la
mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa
misericordia».
Nella relazione nuziale tra il Signore e Gerusalemme è
contenuta, ricapitolata, valorizzata la creazione intera, nelle sue
misure di spazio, di tempo, nei suoi aspetti quantitativi,
qualitativi, non c’è più nemmeno da ipotizzare
che questa alleanza di pace possa vacillare. Parlate al cuore di
Gerusalemme, nel crogiolo dell’afflizione e spiegatele che
è finito il tempo della sua schiavitù. Tu sei madre,
tu sei segno di bellezza sulla scena del mondo, tu sei sacramento
della misericordia di Dio che fa nuovo il mondo.