Relazione introduttiva: Dr. Marco Bertotto
Presidente della Sezione italiana di Amnesty International
Presentazione
I due incontri precedenti di gennaio e febbraio sono stati focalizzati principalmente sulla codificazione dei diritti umani, a livello generale ( dalle grandi concezioni etico-religiose alla Charta dell’Onu ) e in una situazione particolarmente critica come quella del passaggio alla democrazia nell’Afghanistan post-talebano. Con l’incontro di marzo l’attenzione si sposta sul lato delle verifiche: analisi e denunzia delle più gravi violazioni in atto contro l’integrità fisica e morale delle persone nel mondo contemporaneo. Dal 1961 Amnesty International opera in questo campo e rappresenta un punto di riferimento indispensabile sia per chi vuole documentarsi su queste realtà, sia per chi vuole a titolo di impegno civile e volontario impegnarsi in questo campo.
RELAZIONE
MarcoBertotto: Vorrei fare con voi questa sera un ragionamento sulla situazione globale dei diritti umani e sulle preoccupazioni di Amnesty International. In proposito, la data dell'11 settembre 2001 rappresenta uno spartiacque, poiché ha trasformato in qualche modo l’approccio di molti governi al tema della protezione dei diritti umani. Qualche esempio: durante le settimane immediatamente successive all’11 settembre, circa 1.200 cittadini stranieri negli Stati Uniti sono stati incarcerati per motivazioni connesse alla lotta al terrore, spesso con delle scuse legate a mancanza di documenti. In sostanza c’è stato un giro di vite che ha coinvolto cittadini stranieri e li ha portati in uno stato di detenzione a tempo indefinito, senza accuse, senza processo, senza possibilità di accesso a un legale, all’ assistenza consolare. Immediatamente dopo l’11 settembre, alcuni governi hanno motivato le politiche con ragioni di sicurezza e di lotta al terrorismo internazionale. In qualche modo, la repressione delle minoranze musulmane nella Cina occidentale è stata immediatamente collegata alla lotta al terrore internazionale. La repressione di Putin nella Cecenia è diventata il contributo della Federazione Russa alla lotta al terrore. In Palestina, Israele ha motivato il nuovo giro di vite contro i Palestinesi, non soltanto come risposta alla reazione della nuova Intifada, ma anche come necessità di sconfiggere i Palestinesi che hanno collegamenti con Bin Laden e il terrorismo internazionale. Esistono leggi liberticide in molti paesi, in India, in Malesia nelle Filippine: sono legislazioni antiterrorismo che, di fatto, hanno colpito i dissidenti politici e le minoranze. Nello Zimbabwe c’è stata una campagna di repressione contro i giornalisti dichiarati collusi al terrore, in qualche modo veicoli dell’azione dei gruppi terroristi. Anche in Occidente il problema delle lotta al terrore ha finito per restringere le libertà fondamentali. Negli Stati Uniti si conoscono bene due strumenti dell’amministrazione di Bush, il Military Order e il Patrioct Act, con i quali è stata autorizzata la detenzione a tempo indefinito di cittadini stranieri per ragioni legate alla lotta al terrore e sono state istituite delle corti militari che stanno giudicando i detenuti di Guantanamo. Le corti militari sono costituite da giudici militari, senza possibilità di appello, senza possibilità di avere informazioni circa l’arresto e la sentenza: quindi i diritti di difesa sono inesistenti. Lo stesso Regno Unito ha adottato una legislazione antiterrorismo che permette la detenzione di cittadini stranieri, senza accuse, senza prove, senza accesso alla difesa. A livello internazionale, abbiamo constatato un clima di giustificazione delle violazioni che prima non esisteva. La cosa sconvolgente oggi è non tanto la fenomenologia degli abusi dei diritti umani ma il loro degrado nei paesi in a cui questi era riconosciuta la massima espressione. Questo riduzione dei diritti umani si vede attraverso le immagini di Guantanamo o di Abu Ghraib. In un certo modo, si è modificato l’elemento culturale a loro giustificazione. Mi riferisco a tutte quelle forme di repressione e restringimento delle libertà fondamentali che prima del 11 settembre 2001 tutti avremmo ritenuto inaccettabili, un prezzo troppo alto da pagare, ma che improvvisamente col crollo delle Torri Gemelle sono diventate qualcosa di doloroso ma di necessario. C’è un clima generale di giustificazione, forse in qualche modo quello che è avvenuto in quel giorno ha contribuito a costruire una cultura nuova di giustificazione delle barbarie. Questo è un primo dato caratteristico del mondo in cui viviamo; questi soprusi avvenivano anche prima, oggi avvengono in un clima di giustificazione. Sembra un’ideale salvifico la necessità di raggiungere i livelli peggiori della nostra civiltà; lo facciamo in spregio dei nostri principi, anzi per conseguire, per valorizzare, per difendere i nostri principi! L’esportazione della democrazia diventa la metafora ideale per costruire l’idea di mondo in cui, nonostante le violazioni dei diritti umani, i diritti umani sono salvaguardati. E' questo l'insostenibile paradosso. Vi è l’attuazione pratica del paradigma che mette in contrapposizione la sicurezza come primo valore con una riduzione delle libertà o dei diritti fondamentali. In qualche modo si giustifica il fatto di lanciare un’operazione militare costellata da violazioni, crimini di guerra, abusi, e si utilizza questa operazione militare come dimostrazione della volontà di perseguire la democrazia e la diffusione dei grandi principi in tutto il mondo.
Il grande paradosso si regge su una serie di interessi. Per molti, l’11 settembre è stata la manna caduta dal cielo, perché fondamentalmente ha permesso di colpire duro, di continuare strategie di repressione imbellettate da sani principi da difendere, da tutelare. Ci sono una serie di altri aspetti: la preoccupazione di oggi per quanto riguarda la protezione dei diritti umani riguarda anche le conseguenze di una globalizzazione senza regole. Io credo che vi è un collegamento tra il paradigma della sicurezza e i diritti umani. Noi crediamo che questo paradigma vada esattamente capovolto. Non è vero che per ottenere maggiore sicurezza siamo costretti a ridurre le libertà ed a ridurre l’esercizio dei diritti fondamentali. Il nostro punto di vista è esattamente l’opposto: più diritti umani e più garanzie della giustizia. Ciò vuole anche dire distribuzione della ricchezza su scala globale, cessazione delle ingiustizie strutturali, legate a sistemi produttivi e commerci internazionali, che finiscono per mettere ai margini maggioranze di popolazioni. Affrontare queste tematiche in una logica di maggiore sviluppo dei diritti umani è un modo estremamente efficace per consegnare al pianeta maggiore sicurezza. Ci sono una serie di indicatori o di test di laboratorio che lo dimostrano. Pensiamo alla situazione dei territori occupati in Palestina: si può spiegare in termini di illegalità internazionale. Si può osservare la limitazione alle libertà di movimento, che ha comportato e continua a comportare la costruzione del muro; si può ragionare su come la costruzione del muro sia una violazione di una serie di obblighi del governo Israeliano. Il fenomeno può ovviamente essere letto anche attraverso l’illegalità degli insediamenti. Il problema va risolto alla radice risolvendo le questioni connesse alla disperazione di quella gente a causa della disoccupazione e dell’ingiustizia che da tanti decenni colpisce di fatto le popolazioni di quella regione del mondo. Penso sia impossibile immaginare di ottenere sicurezza in quelle regioni tramite l’attuazione strategica adottata dai governi che si chiama l’agenda unica. Questa mette al centro di tutto la sicurezza e si è dimostrata illegale dal punto di vista internazionale, inaccettabile, non condivisibile dal punto di vista morale, ma anche inutile e inefficace. Il mondo di oggi è insicuro come non lo è mai stato, almeno dalla fine della Guerra Fredda ad oggi. Questa situazione di insicurezza è in qualche modo la conseguenza di politiche errate tutte orientate alla sicurezza. Non dico questo come slogan politico; basta andare a vedere le cifre sul commercio delle armi e il tasso di crescita improvvisa che hanno avuto dopo l’11 settembre 2001. Basta vedere l’uso della forza militare a livello internazionale per gestire situazioni di insicurezza. L’Afghanistan e l’Iraq sono i massimi esempi per dire che quella politica finalizzata alla sicurezza che utilizzava come strumenti non la protezione dei diritti umani ma l’uso della forza, il ricorso alle armi, l’inasprimento dei conflitti, quella politica sta fallendo ed è l’ennesima dimostrazione di come sia necessario capovolgere quel paradigma. La nostra proposta è quella di tornare a mettere al centro il tema della protezione dei diritti umani. L’Iraq è una situazione esemplare; la strategia delle forze multinazionali che le Nazioni Unite hanno adottato, è orientata dalla volontà di proseguire un approccio statunitense. E’ una strategia che ci sta portando ad una situazione di perdurante insicurezza nell’Iraq. Il tema dei diritti umani è un problema che quando verrà sollevato in Iraq significherà tutta una serie di cose. Nell’Iraq bisogna iniziare a scegliere politiche di giustizia rispetto ai crimini commessi dalle forze di occupazione ma anche rispetto alle ingiustizie commesse durante il regime di Saddam Hussein. Oggi siamo fermi da quel punto di vista. C’è un problema di ingiustizia distribuita in modo più o meno uguale su tutta la popolazione irachena. Se le politiche e le strategie in Iraq prevedessero di lavorare sulla costituzione di un sistema di giustizia; se si adottassero delle misure efficaci per evitare che ogni mese all’ospedale principale di Baghdad circa 50 persone arrivino con ferite di armi da fuoco credo che la situazione si modificherebbe. Poi possiamo andare ai massimi sistemi e ragionare del ritiro delle truppe o no. Secondo me il problema è che cosa si fa sull’Iraq, che tipo di strategia si ha per il futuro, che tipo di centralità si dà al tema della protezione delle popolazione civile, oggi tema marginale. Mi fermo qui perché ho promesso un intervento rapido per cogliere l’occasione di discutere in proposito.
Intervento: Ci interessa focalizzare l’attenzione su Amnesty o su altre organizzazioni umanitarie date le continue violazioni dei diritti giustificate dalla situazione di insicurezza che diventa motivo per fare cose inaccettabili. Questa somma perversa di azioni repressive di ogni tipo e di disattenzione ai diritti umani determina la povertà delle persone, che non hanno da mangiare, da bere, di che curarsi. Organizzazioni di tipo volontario, non governative, che non rappresentano direttamente gli Stati, nel contrasto tra la piazza ed il palazzo, si schierano a favore della piazza, cioè della stragrande maggioranza degli uomini.
Bertotto: Io credo che le organizzazioni di per sé non valgano molto se non sanno organizzare la mobilitazione dell’opinione pubblica. Il vero risultato è il momento in cui i governi sanno di avere una società civile internazionale, che in qualche modo è attenta ai temi dei diritti umani, che denuncia Guantanamo. In Italia non esiste il reato di tortura. L’organizzazione dei diritti umani, proporzionato alla capacità di mobilitare e di attivare cittadini comuni, è l’unica alternativa possibile. Il secolo che è appena terminato ci ha consegnato in tutta la sua evidenza il fallimento degli Stati nella protezione dei diritti umani. Gli Stati non hanno saputo adottare delle politiche in grado di proteggere i diritti umani, ma molto spesso sono diventati dei carnefici, responsabili degli abusi e delle violazioni. L’unica ipotesi alternativa è quella di costruire un consenso generalizzato, una forza di cambiamento che sappia spingere i Governi a tornare a essere i veri depositari della protezione dei diritti umani. Forse tutti conoscete questa nuova istituzione che è la Corte Penale Internazionale. Nel ‘98, a Roma, vi è stata una conferenza diplomatica. Hanno costituito un tribunale che ha competenze sui crimini di guerra, sui crimini contro l’umanità, sul genocidio. ha dei dossier già aperti sul Burundi, sulla Repubblica democratica del Congo, sulla situazione del Darfur. Quel tribunale non sarebbe esistito senza il lavoro di oltre mille organizzazioni non governative che hanno fatto pressione specifica per ottenere la convocazione di una Conferenza diplomatica.
La Convenzione delle Nazioni Unite Conto la Tortura è nata grazie alla mobilitazione delle associazioni delle vittime della tortura e dei loro familiari e delle organizzazioni per i diritti umani.
Il trattato di Ottawa sul bando delle mine antipersona è il risultato della mobilitazione di organizzazioni non governative. Il ruolo delle società civile, questa è la risposta: l’unica ancora di salvataggio per generare dei cambiamenti positivi nel campo dei diritti umani.
Intervento: Volevo chiedere se una delle caratteristiche delle associazioni umanitarie, quella di personalizzare la violazione sia un metodo efficace.
Bertotto: Il principio è rimasto quello indicato ma siamo stati costretti a modificare le nostre tattiche. Non sempre le situazioni permettono di utilizzare la tecnica, tradizionale di Amnesty, dell’adozione dei prigionieri. Amnesty è nata così, come un’associazione in grado di raccontare le storie delle vittime e di associare a ciascuna storia l’impegno di un gruppo di Amnesty. A Roma qualche settimana fa, c’era Nawgang Sandrol, che è stata prigioniera con una sentenza di 21 anni carcere per la sua militanza di monaca Tibetana. Questa donna è stata adottata da un gruppo di Roma e da altri gruppi in tutto il mondo ed è stata liberata.
L’adozione di un prigioniero continua ad essere uno strumento di lavoro di Amnesty. Chiediamo, ad esempio per un dissidente cinese arrestato, la liberazione di quella persona di cui conosciamo nome, cognome, vita.
Quando ci troviamo di fronte a casi come il Ruanda, dove nel 1994 in 100 giorni sono stati massacrati dai 500.000 a 1.000.000 di Tutsi, è difficile continuare a lavorare su casi singoli.
L’estensione della violenza mette in contatto con una realtà diversa , fatta di conflitti in cui il numero di vittime non permette di fare il lavoro legato all’idea romantica del dissidente imprigionato in una cella. La situazione odierna è fatta anche di persone per cui attiviamo dei dossier e lavoriamo sul caso individuale. Oggi abbiamo in piedi una campagna sulle violazioni contro le donne; ci sono dei casi su cui lavoriamo, ma il problema della violenza sulle donne riguarda una donna su tre (dicono le statistiche).
Tutto è molto complesso poiché continua a rimanere l’idea che noi lavoriamo sulle persone. Nel nostro paese vi è stata tradizionalmente una presunzione di fondo, cioè l’idea che la protezione dei diritti umani sia esclusivamente un problema di politica estera. Se parliamo di paesi poveri, incivili, lontani, nell’Africa o nell’India, non sembra un problema di comportamenti e di nostre responsabilità. Questo è un errore di fondo di tutti i governi. Ci sono delle eccezioni, costituite da parlamentari preparati e sinceramente sensibili; però in generale il clima quando si parla di diritti umani è che in Italia non c’è alcun problema di violazione dei diritti umani.
Qualche esempio specifico. Il tema della tortura è stato molto discusso. In Italia le autorità non sono intervenute, pur essendo informate da Amnesty su quello che stava accadendo in Iraq. Oggi è in corso a Genova un processo sui fatti di Bolzaneto, con un dossier della procura duro nel denunciare le responsabilità di agenti di polizia per atti giudicati trattamenti crudeli o inumani. In Italia non abbiamo una legge: siamo da 16 anni inadempienti a norme internazionali. L’Italia ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura nel 1988: essa prevede di introdurre nei codici penali il reato di tortura In questa legislatura sono state mandate in Parlamento 9 proposte di legge. Vi è stato un emendamento della Lega Nord inaccettabile; se un’ agente di polizia stupra una donna non è tortura, se la passa al suo collega che la stupra non è tortura, ma se uno dei due facesse di nuovo violenza alla donna, si potrebbe finalmente pensare ad un reato. Questo elemento di reiterazione del reato non esiste nel diritto internazionale, è un’invenzione del legislatore italiano.
Dopo 16 anni di ritardo, dopo una mobilitazione generale con incontri con tutti i gruppi parlamentari, il Parlamento continua a non mostrare la volontà di avere una legge specifica sulla tortura.
Il diritto di asilo è un enorme questione, sulla quale pure non abbiamo una legge specifica; vi sono solo due articoli che lo riguardano nella Bossi – Fini, assolutamente inadeguati, del tutto fuori dal rispetto degli standard internazionali.
Abbiamo mandato una lettera al Ministro degli interni per chiedere garanzie perché le 1000 persone, arrivate in questi giorni a Lampedusa, non venissero immediatamente respinte in Libia. Sabato scorso siamo riusciti a impedire che venisse respinto un cittadino iraniano su cui pendeva una condanna a morte. Sono violazioni della convenzione di Ginevra e responsabilità gravi del Governo italiano. Il governo continua a ripetere che i richiedenti asilo sono immigrati un po’ più intelligenti, che usano strumentalmente la domanda di asilo per entrare nel nostro paese.
Per il commercio delle armi, l’Italia è il secondo paese esportatore di armi leggere nel mondo: significa che abbiamo un ruolo nell’alimentare i conflitti a livello internazionale. Abbiamo una legge, la 185, che regolamenta il commercio di armi verso paesi esteri. Basta l’autorizzazione della questura per esportare armi leggere: ossia i fucili dei 300.000 bambini del mondo per fare i guerrieri. L’Italia è il secondo paese esportatore al mondo. Non riconoscere in questo, un deficit di leadership del nostro paese nel campo della protezione dei diritti umani, significa disconoscere un problema importante. Abbiamo un settore di attività per l’educazione ai diritti umani, che da molti anni fa attività nelle scuole, con corsi di formazione per insegnanti. Cerchiamo di passare da una educazione ai diritti umani, che si limita ad una semplice trasmissione di concetti, strumenti normativi, meccanismi di tutela, ad una cultura dei diritti umani più complessa.In Italia sono stati istituiti dei corsi per il personale di polizia penitenziaria in alcune carceri: ci sono state delle attività di educazione per i diritti umani.
Vi è al proposito un dibattito, all’interno di Amnesty, su quali regole adottare per evitare una formazione che funzioni come certificazione di qualità. La stessa preoccupazione l’abbiamo per il lavoro con le aziende e per il ruolo delle imprese multinazionali nel campo della protezione dei diritti umani. L’esercito italiano ha una scuola di diritto umanitario internazionale; ci sono alcuni professori di diritto ma anche alti gradi dell’esercito; la domanda è fino a che punto l’allievo è capace di apprendere le lezioni del maestro e di verificarne il rispetto. Il comportamento dei soldati italiani anche in Iraq è stato qualitativamente diverso rispetto a quello di altre forze armate. C’è un dibattito all’interno delle forze multinazionali, con il disagio delle componenti italiane, su alcune delle regole di condotta adottate dall’esercito americano. Sulla questione di Calipari, la questione principale è se i canali di comunicazione hanno avvisato o meno i check-point americani. Ma il problema serio è se il governo italiano vorrà chiedere al governo americano di conoscere le regole di ingaggio. Le regole di ingaggio sembra debbano restare segrete. Più serio sarebbe definire quali misure sono da adottare per evitare altri casi del genere.
Sfortunatamente viviamo in un mondo diverso. Di fronte ad Abu Ghraib, il governo italiano informato del fatto da Amnesty ha risposto di non avere strumenti per intervenire. La politica estera di un paese si misura anche con una politica orientata ai diritti umani. E’ molto più facile andare in Cina e chiedere la sospensione dell’embargo sul commercio delle armi. Bisogna in maniera trasparente inserire in cima all’agenda della politica estera, il piano della protezione dei diritti umani.
Intervento: Amnesty è presente in tutti i paesi del mondo o ha dei problemi in alcuni paesi ad avere degli associati?
Bertotto: Abbiamo paesi in cui è difficile accedere come la Cina. Abbiamo la regola: non andare in un paese se non con il consenso dello Stato. In Iraq mancavamo da 23 anni; e adesso sostanzialmente non abbiamo più possibilità di accesso. Facciamo delle missioni in Giordania e nei paesi confinanti; ma sostanzialmente non siamo presenti in quei paesi. Per il Nepal è un momento difficile, c’è una crisi con la repressione dei dissidenti. L’ex presidente di Amnesty e stato incarcerato. In tanti paesi del mondo, l’attività di Amnesty, è vista come un’attività di dissidenza politica.
Intervento: vorrei sapere quale è il rapporto tra A.I. e i movimenti pacifisti.
Bertotto: Amnesty non è un’organizzazione pacifista nonostante vi sia oggi un dibattito fra noi in proposito. All’interno di Amnesty ci sono persone che credono che la possibilità dell’uso della forza sia legale. La cosa può apparire contraddittoria rispetto al lavoro di A. I., ma le Nazioni Unite prevedono l’uso della forza, in alcune circostanze. A. I. non è un’organizzazione pacifista, ma all’interno della organizzazione ci sono persone schierate su un pacifismo assoluto. A.I vuole arrivare al conseguimento della pace attraverso la protezione dei diritti umani. Ci sono situazioni contingenti, come il Rwanda nel 1994; l’uso della forza militare per tutelare i diritti umani, era indispensabile. Io non penso che Amnesty debba essere un movimento pacifista. Ma non significa incentivare la forza, significa accertare che nella guerra i diritti umani non vengano violati. Tutti siamo contro la guerra. Io posso condividere un’idea pacifista come ideale, come utopia, ma a fronte di situazioni in cui la violenza viene usata su larga scala, il pacifismo rischia di metterci in una condizione di astrazione rispetto alla storia. La guerra viene fatta per scopi economici o per interessi politici; le guerre sono quanto di più incontrollabile e ingovernabile esista. Le Nazioni Unite vietano l’uso della forza per risolvere le contese, ma essa diventa lecita nel momento in cui ci fossero casi da risolvere con pericolo per la sicurezza internazionale.
Il 26 febbraio 2005 è morto al John Radcliffe di Oxford Peter Benenson, fondatore di Amnesty International.Aveva 83 anni. Benenson, avvocato britannico, aveva fondato Amnesty nel 1961 dopo aver letto un articolo che riferiva dell'arresto di due studenti nel Portogallo di Salazar. «Ha fatto luce sulle prigioni, sugli orrori delle camere di tortura e sulla tragedia dei campi della morte in tutto il mondo» ha commentato Irene Khan, segretaria generale dell'organizzazione.
Amnesty conta oggi 1,8 milioni di membri ed è la più importante organizzazione per i diritti umani.
Non c'è nulla da temere dalle idee tranne il fatto che possiamo non capirle. Non v'è senso ad avere dei governi e un ordine costituito se non è per mantenere la libertà individuale; e non c'è scopo ad avere libertà se non per scegliere tra le idee». Queste parole che Peter Benenson scrisse quarantaquattro anni fa sono forse la sintesi più efficace di ciò che ha fatto nella sua vita. Il 28 maggio 1961, dalle pagine dell'«0bserver», Benenson lanciò un appello affinché venisse riconosciuta l'amnistia a tutte le persone incarcerate esclusivamente per aver espresso pacificamente le proprie opinioni. Il quarantenne avvocato inglese non si rivolgeva alle autorità responsabili degli ingiusti imprigionamenti, bensì all'ordinario lettore del settimanale inglese: a coloro che, come lui, erano sdegnati dalle notizie dei tanti abusi che avvengono nel mondo, disse di non rassegnarsi perché, se convogliato in un'azione comune, quello sdegno avrebbe potuto salvare molte vittime.
Oltre all'articolo del 28 maggio Benenson scrisse un libro, "Persecution 1961", dove raccontava le storie di nove persone perseguitate. Casi di perfetti sconosciuti, come il tunisino Maurice Audin, fatto sparire in Algeria dai paracadutisti francesi perché colpevole di aver ospitato una persona che le autorità volevano interrogare; casi di personaggi noti, come lo scrittore cinese Hu Feng, autore di opere in cui avrebbe, secondo i suoi persecutori, «virtualmente rifiutato le idee del realismo rivoluzionario». Ma uno degli effetti più dirompenti dell'azione di Benenson fu quello di riuscire ad andare totalmente al di sopra della logica degli schieramenti, in un'epoca in cui la Guerra Fredda stava toccando il culmine: i soprusi andavano denunciati al di qua o al di là della cortina di ferro. Tra le nove storie raccontate c'è quella del reverendo Ashton Jones, arrestato e torturato in vari stati del Sud degli Usa perché da un megafono piazzato sopra il suo furgoncino predicava l'uguaglianza tra bianchi e neri; ma c'è anche quella di Olga Ivinskaya, a cui le autorità di Mosca resero la vita impossibile in quanto colpevole di essere la compagna di Boris Pastemak.
Benenson non aveva in programma di fondare un'associazione, la sua idea era quella di una campagna della durata di un anno. Ma il suo articolo fu ripreso da altri giornali europei, il suo libro tradotto in molti Paesi (in Italia lo diffusero le Edizioni di Comunità, con il titolo Prigionieri di coscienza). Fu così che nacque Amnesty International, superando le più rosee aspettative del suo fondatore: nel giro di pochi mesi migliaia di persone nel mondo si misero in rete e ben presto si diede vita a un ufficio, a Londra, dove ricercatori professionisti iniziarono a monitorare le violazioni dei diritti umani in ogni parte del pianeta.
Da allora Amnesty International si è evoluta moltissimo, arrivando ad occuparsi di problemi che Peter Benenson mai avrebbe immaginato. Ma è proprio questa la caratteristica che rende unica al mondo l'associazione: le persone che ne fanno parte vi partecipano sia come "manovali"
— scrivendo lettere in favore delle vittime, raccogliendo fondi, distribuendo volantini
— sia come "intellettuali", riflettendo in continuazione su come si può essere sempre più efficaci nell'azione in favore dei diritti umani. Perché Amnesty è e rimane un movimento la cui forza sono soprattutto le idee, che noi persone comuni spesso possiamo non capire, ma di cui i tiranni hanno molta paura. (Daniele Scaglione, Il Sole 24 Ore, domenica 27 febbraio 2005).