Incontri di discernimento e solidarietà
 
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LECTIO MUNDI 2005 - I DIRITTI UMANI. CODIFICAZIONE E VERIFICHE

VERSO LA DEMOCRAZIA IN AFGHANISTAN: IL NUOVO CODICE PENALE

Relazione introduttiva del Magistrato Dr. Giuseppe Di Gennaro


Presentazione


Il Dr. Giuseppe Di Gennaro è stato per 10 anni Vice segretario generale per il programma Onu di lotta alla criminalità organizzata e al traffico degli stupefacenti, poi responsabile per il Patto di stabilita nei Balcani e negli ultimi due anni incaricato per la riorganizzazione dei servizi giudiziari nell’ Afghanistan del dopo-talebani.

 

RELAZIONE

Questa mia relazione si inquadra nella tematica generale dei vostri incontri sul progressivo sviluppo dell’ interesse per i diritti umani nel mondo, con particolare riguardo alla «traduzione» dei grandi princìpi «universali» in norme precise e cogenti, sia all’interno dei singoli Stati, sia a livello internazionale. Sul piano più generale della dottrina si è già fatta molta strada, ma io vorrei ricordare una figura in particolare, quella di Nicola Spedalieri, un sacerdote nato a Bronte in Sicilia nel l740 e morto nel 1791, autore di ben 6 libri su quest’argomento e che si può ragionevolmente considerare una delle migliori fonti del pensiero etico e sociale in materia di diritti umani. E vengo al tema specifico del nostro incontro.


Raccontare la storia dell'Afghanistan è tremendamente complesso. Tutti i grandi condottieri hanno avuto a che fare con l'Afghanistan. Alessandro Magno è arrivato in Afghanistan e l'ha attraversato tutto riuscendo a dominarlo, ad eccezione della Regione dei Pashtun, gruppi tribali ancora esistenti, assolutamente indomabili. Venendo a tempi più vicini, vi segnalo un libro piuttosto recente, intitolato “Il napoletano che dominò gli afghani”. Il partenopeo in questione è un certo Abatangelo, ufficiale nell’esercito di Napoleone che, diventato governatore di Peshawar, tenne sotto controllo quell’ area commettendo atrocità anche peggiori di quelle sono state documentate a carico dei Taliban. In realtà la violenza imposta sul paese a partire dal 1994 da questo movimento integrista islamico ( talib, studente di teologia ) non è che l’ultima di tutta una serie di lotte violente sviluppatesi per secoli in terra afgana. L' Afghanistan è un' area dove tutto è complesso.Le cose più semplici diventano complicate e per giunta violente. Basterebbe ricordare che l'Afghanistan è stato il territorio dove in tutto l'800 si è svolto quello che è stato chiamato il grande gioco,ossia il confronto delle grandi potenze del mondo. A cominciare dalla Russia e dall' Inghilterra che, senza riuscirvi, avevano cercato di dominare il paese, di prevalere l'una sull'altra nella convinzione che la conquista del Paese avrebbe facilitato il dominio di tutta la vasta area dell'est dell'Asia, e in particolare il dominio dell'India,che è stato sempre un paese-continente molto appetibile.


L'attuale Stato dell'Afghanistan fu costituito nel 1893 a seguito di un accordo russo- inglese. La popolazione attuale è di circa 17 milioni. La religione ufficiale è l’Islam; l’84% degli Afgani sono  musulmani sunniti di scuola anafita, un 14% di osservanza sciita concentrato specialmente nella regione centrale del Paese. La shariah è il comandamento di Dio ma ciò che conta di più è l interpretazione del Corano (nota tradizionalmente come tafsir), una disciplina che, inaugurata nell'epoca in cui il testo coranico si è sedimentato nella scrittura, giunge fino ai nostri giorni, articolata in quattro scuole giuridiche di cui una è l’anafita, prevalente nel paese. Il solo luogo di culto cattolico in tutto l’ Afghanistan è rappresentato da una cappella all’ interno del giardino dell’ Ambasciata italiana, gestita da un sacerdote barnabita al quale tempo fa l’Arcivescovo di Islamabad ha conferito la nomina a vescovo sui juris data la mancanza di un minimo di fedeli su cui esercitare il normale esercizio della giurisdizione episcopale.






L’ Afghanistan è stato oggetto, recentemente, di un susseguirsi di dominazioni spietate. I mujaheddin (“combattenti” del jihad la guerra santa) sono stati perfino peggiori dei Taliban mussulmani, gli integralisti formatisi nelle scuole coraniche ( madrasa ) in Pakistan. Oggi molta gente critica la posizione degli americani in Afghanistan e, in particolare la loro decisione di assumere, di fatto, il controllo del Paese. Costoro dimenticano che le armate sovietiche avevano invaso l’ Afghanistan soggiogando la popolazione. A ricordo dell’ occupazione sovietica sono rimasti nella campagna fra Kabul e Bagrām migliaia di massicci carri armati fuori uso.

Si può discutere la decisione degli Usa di intervenire per cacciare i sovietici ma è doveroso ricordare che questa è stata la ragione del loro intervento. Per poter affrontare con successo le milizie sovietiche, gli americani pensarono di appoggiare la guerriglia dei mujaheddin cioè di gruppi di partigiani combattenti. I mujaheddin riuscirono nell’ intento e, cacciato lo straniero, si insediarono essi stessi al potere.


Presto il governo si dimostrò dispotico, oppressivo e spietato, tanto da convincere che essi erano stati un rimedio peggiore del male. Da qui la decisione degli americani di incoraggiare e sostenere l’intervento dei talibani, che avevano il loro quartiere generale in Pakistan. La lotta armata fra mujaheddin e talibani fu spietata e distruttrice, fra le terribili nefandezze commesse dalle due parti sta la quasi totale distruzione, anche fisica, del Paese. La vittoria andò ai talibani i quali, una volta insediati al potere, di mostrarono perfino peggiori dei mujaheddin., instaurando un terrificante dispotismo.


Fu così che gli americani dovettero adottare una terza decisione che fu quella di esautorare una dittatura per dar vita finalmente a uno Stato democratico. Questa volta si appoggiarono all’ alleanza del Nord e cioè a un gruppo di capi di comunità locali, mai completamente assimilati nel generale contesto politico del Paese. Costoro sono comunemente conosciuti come “i signori della guerra” poiché dispongono di bene armate milizie private che li sostengono con azioni e minacce di guerra. La loro forza e la loro ricchezza sono spesso basate sui proventi del traffico di droga.

I “signori della guerra, con appoggio anche logistico egli americani, sono riusciti a ripulire il Paese da mujaheddin e talibani, aprendo l’era della democratizzazione dell’ Afghanistan. Essi costituiscono però ancora oggi un problema non risolto perché continuano a sussistere come sedi di potere in posizioni ambigue di fronte alle autorità centrali.


Nel dicembre del 2001, finito lo stato di belligeranza, si sono riuniti a Bonn i rappresentanti dei maggiori Stati democratici per tentare di dare una stabilizzazione socio-politica all’ Afghanistan. Da quest’incontro è scaturito un documento fondante che va sotto il nome di “Accordi di Bonn”.

Cinque Stati si sono assunti la responsabilità di curare la riedificazione dell’ Afghanistan, impegnandosi ciascuno in un determinato settore.


Gli Americani presero la responsabilità della sicurezza, gl’ Inglesi quella del controllo sul traffico della droga,i Tedeschi la polizia,i Giapponesi il disarmo. Il diplomatico che in quella riunione rappresentava l’Italia si assunse la responsabilità della giustizia. Questo diplomatico non si rese conto delle difficoltà di ristabilire la giustizia in un paese musulmano e tribale, un compito che comporta eliminare ogni potere e violenza privati, ristabilire l’ordine e la legalità, dare riconoscimento e protezione ai diritti umani, combattere il traffico illegale di armi e di stupefacenti.


Dopo un po’ di tempo, Organizzazioni non governative, come Amnesty International, cominciarono a criticare fortemente l’Italia,perché si era presa questa forte responsabilità e non riusciva a combinare molto. Fu allora che qualcuno pensò a me. Due ministri, quello della Giustizia e quello degli Affari esteri, mi incaricarono di occuparmi dell’Afghanistan. Così mi sono trasferito in quel Paese, vivendo in una condizione abbastanza difficile, lavoravo e alloggiavo in un ufficio. Cominciavo a lavorare alle 3 del mattino e andavo avanti tutto il giorno senza avere nessun reale appoggio da parte del Ministero degli Affari esteri, mentre il governo italiano era soddisfatto perché non si sentivano più lamentele.


La prima cosa che feci fu procedere all’accertamento sullo stato della giustizia in Afghanistan. Un’impresa di una difficoltà spaventosa, poiché le fonti sono inesistenti e quando esistono, sono contraddittorie. Io dico non troppo scherzosamente che gli Afgani non sono bugiardi ma che hanno grandi difficoltà a rappresentare le cose come stanno, specialmente quando parlano di questi problemi.

Le autorità costituite hanno sempre affermato che loro avevano una giustizia rappresentata da tribunali, da corti di stato, e che la giustizia, specialmente la giustizia penale era tutta gestita da queste corti. Dal mio esame emerse che non esisteva nulla di tutto questo; la giustizia penale era tutta nelle mani delle girga e delle shura. Le  girga  e le shura sono dei gruppi tribali, che applicano norme tradizionali che spesso non hanno nulla a che vedere con il Corano. Inizialmente essi erano formati dai saggi del villaggio ma col passare del tempo sono divenuti gruppi che agiscono sotto l’influenza dei signorotti locali.


Con i cosiddetti accordi di Bonn, fu deciso di ritenere vigente la costituzione del 1964 fatta dal re Mohammad Zahir Shah, eliminando le norme che fossero risultate in contrasto con i diritti umani. La nuova Costituzione afgana del gennaio 2004 non ha innovato molto rispetto alla precedente e di per sé va bene: i cittadini hanno diritto di unirsi in manifestazioni pubbliche, hanno diritto di creare forme di mobilitazione sociale, la libertà di espressione è inviolabile, nessuna persona può essere detenuta per debiti, il cittadino ha diritto di essere eletto e di eleggere; è riconosciuto il diritto alla libera circolazione e a quello di stabilire la propria residenza dove si vuole. In più, è affermato il principio dell’uguaglianza dei diritti fra uomini e donne.


Non c’è dubbio che la Costituzione rappresenta un quadro di riferimento essenziale per la definizione della qualità della vita sociale e individuale di una Nazione. Ma è anche indubbio che il testo scritto, anche se enuncia in maniera chiara i diritti e le prerogative dei cittadini, da solo non basta a garantire che la realtà vi corrisponda. Ho letto tutte le precedenti Costituzioni afgane, anche quella dei talebani e ho rilevato che non sono molto differenti dall’ attuale.Non dimentichiamo che la Costituzione tedesca del terzo Reich era formalmente una Costituzione democratica, non affermava certo che i diritti umani potessero essere impunemente calpestati. Le violazioni dei diritti umani avvengono nella pratica, esse restano impunite e sono perfino favorite nei regimi politici che non sono improntati agli ideali della democrazia.


Queste considerazioni spiegano perché, come chiarirò dopo, mi sono dedicato principalmente alla redazione e alla applicazione del codice di procedura penale.

Ho faticato molto a convincere i partner internazionali e gli afgani sulla necessità di questa scelta. Le maggiori resistenze e i maggiori intralci mi sono venuti proprio dall’ ambasciatore italiano che avrebbe avuto il dovere di sostenermi. Non era un uomo all’ altezza della situazione e si è mostrato incapace a capire il valore della mia scelta. Per fortuna il suo successore è tutt’ altra cosa. Ho avuto poi difficoltà nei contatti con il nostro Ministero degli Esteri dove non c’era nessuno che avesse interesse alla sostanza dell’ azione.


Ho ritenuto che si dovesse cominciare dalla procedura penale perché essa non solo è lo strumento designato ad intervenire per reprimere le violazioni dei diritti umani, ma è anche, paradossalmente, l’attività nel corso della quale si commettono spesso violazioni del genere. Questo, purtroppo, avviene anche in Paesi di antica democrazia. Per questo è necessario essere sempre vigili. Si pensi al riguardo alla privazione della libertà fuori dai casi consentiti, agli interrogatori condotti sotto intimidazione, alle interferenze indebite nelle comunicazioni, nella corrispondenza, nel domicilio, e perfino alle pressioni psichiche e fisiche per indurre a confessare.


La mancanza di precise e rigide norme di procedura in Afghanistan può essere illustrata da un recente caso di cui sono venuto a conoscenza. Un individuo si era allontanato dalla sua comunità con la moglie per trasferirsi altrove. Dopo alcuni giorni fece ritorno dicendo che durante un bombardamento aereo la moglie era morta e che l’aveva seppellita sul posto. Giorni dopo cominciò a circolare un pettegolezzo: ma sarà vero? si chiedeva la gente, non sarà che l’ha uccisa lui? Bastò questo pettegolezzo per farlo arrestare. Subì torture di ogni genere, fu tenuto in carcere per due anni. Fortunatamente l’ ambasciatore di un Paese occidentale, venuto a conoscenza della cosa, chiese informazioni al giudice che per ultimo si stava occupando del caso. A distanza di qualche giorno, il giudice telefonò all’ ambasciatore per informarlo che l’accusato sarebbe stato rimesso in libertà perché l’ imputazione era risultata infondata.





Di questo caso ho parlato durante una riunione di operatori di giustizia convocata dal Ministero dell’ Interno, facendo comprendere ai partecipanti che in un Paese civile e democratico un codice di procedura penale avrebbe dovuto proibire un tal modo di agire. Il codice ( già pensavo a quello che avevo in mente di redigere) avrebbe dovuto imporre che sulla base del sospetto si sarebbero dovute svolgere tutte le indagini e solo alla fine, se il sospetto fosse stato provato dai fatti, si sarebbe dovuto arrestare il soggetto, presentandolo nel più breve tempo possibile al giudice per il giudizio. Ma non è facile, in una società che non è stata educata alla libertà e che non avverte la centralità dell’ interesse al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ottenere convinti consensi ai princìpi della legalità e della supremazia della legge nei rapporti individuali e sociali.


L’ adozione di un codice democratico di procedura penale era, come ho detto, una assoluta priorità, ma non può ignorarsi la necessità di mettere mano il prima possibile anche alla riforma del diritto penale sostanziale, quello che tratta dei reati e delle pene. Attualmente gli afgani hanno un codice scritto che viene da tempi remoti e che è di straordinaria ambiguità, ledendo in tal modo la garanzia della certezza del diritto. Ho sottoposto il testo di vari articoli del codice a qualificati studiosi, esperti di diritto islamico, per conoscere la esatta interpretazione. La loro conclusione sincera è stata che la formulazione è volutamente ambigua proprio per consentire, nonostante l’ esistenza di un testo scritto, la discrezionalità del giudice nel trattamento dei casi.


Per fare un esempio mi riferisco ad un articolo introduttivo del codice dove si afferma che le sue disposizione sono applicabili solo se non contrastano con l’interpretazione della legge coranica. Ciò dimostra che pur volendo dare l’impressione di aderire agli schemi prevalenti nel mondo della giustizia formale, gli afgani in effetti vogliono continuare a gestire la loro giustizia attraverso procedure informali con riferimenti a regole tradizionali-tribali e ai precetti coranici.


Per affrontare questo problema mi ero riproposto che dopo l’ adozione del codice di procedura penale mi sarei dedicato a trovare un passaggio di compromesso che consentisse di adottare e attuare le norme di un vero e proprio codice penale democratico e, nel contempo, lasciasse sopravvivere le situazioni informali. La possibilità di attuare questo compromesso in realtà, a mio giudizio, esiste. Infatti nel presente codice esiste un istituto simile alla nostra condizione di procedibilità, quale la querela. Sarebbe stato allora pensabile fare ricorso a quest’ istituto, estendendolo al massimo, tanto da riferirlo ad un gran numero di reati. Si sarebbe poi potuto prevedere che la “querela” poteva presentarsi fino a quattro-cinque mesi dopo la commissione del reato. Nel tempo intermedio le parti – la vittima e l’autore del reato - avrebbero potuto adire le Shura o le Girga nel tentativo di raggiungere una conciliazione secondo le prassi tradizionali. Un tale sistema è compatibile con un ordinamento democratico, non essendo dissimile da quanto, per esempio, avviene da noi nei tentativi di bonario componimento per evitare o ritirare la querela.


Tornando al codice di procedura, ricordo che pur attraverso molte difficoltà i miei sforzi sono stati premiati perché alla fine sono riuscito a farlo adottare come legge del nuovo Stato. Per giungere a tanto è stato necessario discutere articolo per articolo con i giuristi e i politici afgani, tenendo informati i partner internazionali, specialmente americani. Durante la discussione ho avuto modo di spiegare a fondo il valore e la portata delle singole disposizioni e il collegamento fra loro, fino a convincere i miei interlocutori.


Non posso in questa occasione soffermarmi nella presentazione dettagliata del codice. Posso solo dire che è breve e chi, tanto da essere facilmente compreso anche dai cittadini ed essere agevolmente applicato dai giudici. Esso impone l’ abbandono di ogni arbitrio e il rispetto di tutti i diritti umani. Uno dei punti più qualificanti è l’articolo 36 che incontra ancora molte resistenze. Secondo questa disposizione, l’ accusato privato della libertà deve essere presentato entro quindici giorni alla Corte per il giudizio. Rispetto alla prassi del passato, questa è una vera rivoluzione che impone un profondo cambio culturale.


Altra importante norma è quella che rende possibile l’estensione a tutto il territorio afgano dell’applicazione del nuovo codice, nonostante la grave carenza di strutture giudiziarie. Si tenga presente che il Paese è diviso in 354 distretti e che secondo il locale ordinamento giudiziario in ogni distretto dovrebbe operare una Corte di prima istanza. Da quanto mi risulta, ciò non è mai avvenuto, ma le autorità afgane affermano il contrario. Sta di fatto che nella quasi totalità dei distretti non esiste nemmeno un embrione di strutture giudiziarie.

Pensare di creare uffici giudiziari efficienti in tutti i distretti per poi applicare il codice. avrebbe significato un rinvio sine die. Considerando che i distretti sono raggruppati in 34 Province, nel codice è stata inserita una norma transitoria di enorme importanza che consente di superare questi gravi problemi. Si è previsto, infatti, che fino a quando nei distretti non sarà create una struttura giudiziaria efficiente ( avverrà mai?) la competenza territoriale per i reati ivi commessi appartiene al tribunale distrettuale avente sede nella Capitale della relativa Provincia. Il che vuol dire che basterà attrezzare 34 Corti (come si sta facendo) anziché 354,per avere un sistema di giustizia penale operante in tutto il Paese.


Altra esigenza di grande rilievo è la formazione di una classe forense. Sono infatti convinto che è inutile varare un buon codice di procedura penale se non esiste una classe forense capace di farlo rispettare. Il dato positivo è che si è riusciti a formare un gruppo di avanguardia in questa attività che sta facendo un lavoro molto interessante, al punto da far funzionare il codice anche in aree molto remote del Paese, come ha riferito il Prof. Cherif Bassiouni.


Allo stesso tempo è essenziale che si stabilisca e si mantenga un rapporto funzionale fra le entità internazionale di assistenza e consulenza e le classi colte del Paese. A questo riguardo ho sostenuto un programma finanziato dall’ Italia che consente ai cittadini afgani, emigrati e integrati a livelli professionali in Paesi occidentali, di tornare in Patria per costituire una leadership.

C’è da aspettarsi che costoro, i quali hanno introiettato i valori delle democrazie occidentali, possano contribuire a far abbandonare gli aspetti più retrogradi della shariah.


Del resto, la stessa interpretazione della shariah varia da Paese a Paese. Per esempio, la pena di morte è stata abolita in Albania, che si autodefinisce Stato islamico con riferimento al Corano, mentre viene mantenuta in Afghanistan proprio con analogo riferimento. A proposito devo ricordare che la lotta per l’abolizione della pena di morte nei Paesi musulmani incontra una forte resistenza anche perché essi citano l’esempio degli Usa.


Ma grandi difficoltà si incontrano anche per l’abolizione delle pene corporale, in particolare le gravi mutilazioni per vari reati e la lapidazione per l’adulterio. È conturbante trovarsi di fronte a questa realtà come è accaduto a me varie volte. Ricordo che durante una visita al Dr. Alberto Cairo, che da vent’anni lavora in Afghanistan mettendo protesi ai numerosissimi handicappati e amputati, conobbi il suo segretario, un giovane ben prestante, privo degli avambracci e della parte inferiore delle gambe. Egli mi ha raccontato che un giorno, mentre si trovava a casa, arrivarono degli individui che lo accusarono di un furto che egli non aveva commesso. Lo prelevarono e lo portarono in una stanza semibuia dove, dopo un breve interrogatorio, subì le amputazioni di cui ho detto.


E’ chiaro che la comunità internazionale degli Stati democratici non può accettare che in essa siano accolti Paesi con queste orribili tradizioni. Interpellati su queste questioni, gli studiosi mussulmani che si professano democratici danno la seguente spiegazione: il Corano, oltre a impartire regole di condotta, svolge anche una funzione pedagogica. Così, per sottolineare che l’adulterio è un comportamento disdicevole, lo sanziona con la lapidazione ma, contemporaneamente, ne rende praticamente nulla l’attuazione attraverso norme processuali che richiedono un tipo di testimonianza talmente esigente da essere in realtà impossibile.


Queste giustificazioni, accettabili o meno, dimostrano comunque che nella coscienze mussulmane più illuminate si manifesta una contrarietà alla permanenza di queste prassi. È interessante notare che gli stessi studiosi sottolineano che Maometto medesimo dimostrò riluttanza nel fare drastica applicazione delle pene severe previste dal Corano, tanto che rimandò indietro più volte una donna che si confessò responsabile di adulterio, affermando di non credere alla sua confessione.


Per noi occidentali, un aspetto che più ripugna del sistema di giustizia fin qui vigente in Afghanistan è quello che attiene al modo in cui sono puniti i delitti più gravi. Si tratta del “bad” che, a giudizio di molti, è una prassi tradizionale non ascrivibile al Corano. Così nel caso di omicidio le shura e le girga, anziché punire l’autore, dispongono che una o due vergini del clan dell’ omicida siano consegnate al clan della vittima. In sostanza, la pena è espiata da giovani innocenti. Queste povere ragazze molto spesso vengono a trovarsi in situazioni penose di maltrattamenti e schiavitù e se cercano di salvarsi con la fuga, vengono imprigionate subendo trattamenti inumani.

La patente violazione dei più sacri diritti umani è in realtà a tutt’ oggi molto comune in quel Paese. Ho visto persone incatenate, con ematomi alle gambe, distese per terra e prese a calci dai loro custodi. Alle mie rimostranze, costoro mi hanno risposto di non preoccuparmi dato che si trattava di persone destinate ad essere uccise il giorno dopo.


Purtroppo non è questa la situazione che preoccupa di più gli americani che gestiscono l’attuale stadio di transizione, poiché essi rivolgono la loro attenzione esclusivamente o prevalentemente ai problemi generali politici e militari.


Si può guardando a questo quadro capire quanto sia difficile per un italiano occuparsi responsabilmente di mettere a posto la “giustizia”. Nel momento attuale, l’amministrazione della giustizia, se così può chiamarsi, è dominata da un personaggio, il chief-justice, che agisce come un despota, un capo religioso che ignora le più elementari regole della gestione giudiziaria. A me che gli consegnavo una relazione sul programma che intendevo sviluppare, ha dichiarato: è inutile che mi lasci questo documento, io leggo solo il Corano.

Quest’ individuo svolge contemporaneamente funzioni di vertice giudiziario, come capo della Corte Suprema, di Consiglio Superiore della magistratura e di Ministero della Giustizia.


Vari Stati operano in Afghanistan sotto l’egida dell’ Onu. Esiste sul posto l’ United Nations Assistance Mission to Afghanistan che dovrebbe coordinare tutti gli interventi di assistenza per la riedificazione del Paese. In realtà, la UNAMA fa molto poco. In Afghanistan, quelli che realmente contano sono gli americani. Karzai è una loro creatura, da loro creata e sostenuta. Le Nazioni Unite, almeno fino ad ora, sono solo una copertura di facciata.