l’Oggi di Dio. la visita
Il discorso di Gesù si apre con il proclama delle Beatitudini. Tutta la teologia dI Luca é dominata da una notizia che conferisce una nuova andatura alla storia degli uomini: si é compiuta la visita di Dio, "Benedetto il Signore perché ha visitato il suo popolo", così il cantico di Zaccaria, il "Benedictus", "Verrà a visitarci dall’alto con un sole che sorge". Tutta la storia umana é ormai governata dalla visita di Dio che ricapitola tutto, che scandisce lo svolgimento dei tempi, convoglia la partecipazione di tutte le creature. Nel linguaggio di Luca la visita di Dio determina l’oggi che costituisce il giorno decisivo e definitivo della storia umana, il giorno della salvezza. La nostra é storia di salvezza perché si ricapitola nell’oggi di Gesù, che é infinito. Gesù ha portato a compimento la storia umana. Si tratta di aderire a quel giorno unico, eterno, definitivo. Si tratta di entrare nell’oggi del Figlio e così essere coinvolti nell’evento, che si é compiuto una volta per tutte per la salvezza. Siamo condotti dall’evangelista Luca lungo itinerari di approccio e di ingresso nell’oggi del Figlio. Questo é il senso di tutta la predicazione evangelica. Si tratta di scoprire come noi, adesso e qui, siamo in grado di aderire all’oggi unico ed eterno, l’oggi del Figlio nel quale si é compiuta la visita di Dio per la salvezza del mondo. La grande catechesi che Luca sviluppa nel testo evangelico occupa i capitoli da 4 a 19. Come entrare nell’oggi? Come poterci raccontare anche noi in quell’oggi in cui si é compiuto l’evento decisivo, il Figlio, morto e risorto, asceso al cielo? "Oggi, é nato per voi Cristo Signore nella città di Davide", così l’annuncio degli angeli ai pastori, oggi, oggi. "Oggi tu sei mio Figlio, io ti ho generato", (Salmo 2) nel giorno del battesimo del Signore.
l’ascolto. sul fiume di Babilonia
La grande catechesi, elaborata dall’evangelista Luca, si compone di due grandi tappe. La prima tappa è la catechesi dell’ascolto. Come entrare nell’oggi del Figlio? Luca ci propone una catechesi dell’ascolto: é ascoltando la Parola che scopriremo la chiamata ad entrare nell’oggi del Figlio e come siamo messi in grado di compiere tale ingresso. Una catechesi dell’ascolto. Gesù legge il rotolo pubblicamente: "Oggi si é adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (cap. 4 vers. 21). Oggi, questa parola per voi che ascoltate. Tutte le pagine che seguono sono disposte da Luca in modo da rimarcare questa catechesi dell’ascolto. Per cicli, procede il nostro evangelista, in modo da ottenere l’ascolto desiderato: é in quanto ascoltatori della parola che noi potremo entrare nell’oggi del Figlio. Oggi questa parola si é compiuta per voi che ascoltate. In realtà nel corso del racconto non ci vuole molto per constatare che Gesù, il maestro, cerca degli ascoltatori, chiede di essere ascoltato. Il racconto evangelico mette in evidenza la sordità di coloro che sono chiamati ad ascoltare. Questo che dovrebbe essere il racconto del nostro ascolto per entrare nel suo oggi, diventa il racconto della nostra sordità: se noi siamo in relazione all’oggi del maestro, é in quanto siamo sordi. Una situazione paradossale, contraddittoria, eppure già misteriosamente aperta a imprevedibili sviluppi. Tutto questo, di pagina in pagina, attraverso i capitoli 4, 5 e 6, fino al versetto 11 del capitolo 6. Sono cicli successivi nella catechesi: l’ostilità nei confronti di Gesù Maestro appare sempre più spiccata, sempre più petulante, sempre più ossessiva; da un certo momento in poi compaiono dei personaggi che sono esemplari a questo riguardo, i cosiddetti Farisei. Essi svolgono un ruolo emblematico nella catechesi evangelica: i Farisei, presenti nel racconto evangelico, sono figure che rappresentano la sordità di tutti, di tutti noi, in relazione all’oggi del maestro.
Fino al capitolo 6, versetto 11. Nella sinagoga in cui Gesù si é messo ad insegnare é presente un uomo con una mano paralizzata. E’ una figura assai interessante. Il salmo 137 recita "Sul fiume di Babilonia là sedevamo piangendo" . I nostri aguzzini ci chiedevano di cantare le canzoni di Sion, ma che si paralizzi la mia destra piuttosto che metter mano alla cetra per accompagnare il canto e così dare soddisfazione a loro. Così il Salmo 137. Abbiamo a che fare con un uomo dalla mano paralizzata; è un personaggio silenzioso, non dice nulla, é muto; tutti lo guardano, tutti si muovono attorno a lui, Gesù lo chiama, fa in modo che si metta in piedi al centro della sinagoga, sotto gli occhi di tutti. Lui non dice nulla.
la sordità dell’uomo. se dimentico Gerusalemme
Ha la mano paralizzata. Non ha dimenticato Gerusalemme. Se dimentico Gerusalemme, si paralizzi la mia destra. Per non dimenticare Gerusalemme si é paralizzata la destra. In realtà non ha cantato. Forse il suo ricordo di Gerusalemme é rimasto appannato, confuso, disordinato. Non ha cantato. Gesù lo chiama a mettersi in mezzo, mentre i Farisei sono presenti e desiderosi di trovare un capo di accusa contro Gesù. Bisogna accusare Gesù. La loro sordità si é trasformata in ostilità dichiarata, programmata: vogliono accusare, vogliono condannare, vogliono escludere qualunque alternativa a un loro modo di intendere, di interpretare, di progettare. E’ lo svolgimento della storia umana. Questo loro modo di intendere le cose non é esplicitato, ma il contesto ci aiuta a questo riguardo. Si tratta di venire a patti con Babilonia, di accettare la dimora in questa terra d’esilio. Siamo a Babilonia, a Babilonia resteremo, dobbiamo imparare a parlare come i babilonesi, a cantare come sarà opportuno, anzi necessario, per dare soddisfazione ai babilonesi. Così vanno le cose del mondo e così anche la nostra possibilità di gestire le cose di questo mondo. La prospettiva, che considerata dall’esterno appare miserabile, in realtà é la prospettiva di tutti noi che dentro alle cose della vita riteniamo di poterci destreggiare, di poterci muovere, alla ricerca di un’autosufficienza, forse qualche volta stentata, forse anche un poco contrariata, forse con tante amarezze inevitabili, comunque alla ricerca di una sicurezza sufficiente per stare al mondo convinti di poterne gestire la vicenda.
Che cosa sta succedendo al mondo? In che mondo ci troviamo? In quale Babilonia ci troviamo? Facciamo i conti con le cose di questo mondo in modo da ottenerne dei riscontri positivi. I Farisei sono dominati da questa ricerca di una autosufficienza nel gestire la propria vita e il proprio inserimento nel mondo, che parla la lingua di Babilonia, canta le canzoni che sono gradite ai potenti di turno. Intanto Gesù guarda quel tale che ha la mano paralizzata, che non ha dimenticato Gerusalemme, anche se non dice niente; nel frattempo é anche diventato muto, non canta, come chiedono gli aguzzini babilonesi. Lui non sa neppure più cantare, c’é anche in lui qualcosa che non funziona e che lo rende una figura grigia e drammatica in questa vicenda. I Farisei vogliono essere sordi, non vogliono ascoltare, non vogliono più saperne di quel richiamo che ancora invita a guardare verso Gerusalemme, a sospirare verso Gerusalemme, ad amare Gerusalemme. Quel tale é sordo dentro, non perché vuole essere sordo come i Farisei, ma perché ha perso l’udito interiore, non risuona dentro di lui il richiamo, e, per questo motivo, é anche muto. Fatto sta che Gesù dice a quell’uomo "stendi la mano" (vers. 10 del cap. 6). Egli lo fece e la mano guarì. Stendi la mano, ma i Farisei (vers. 11) furono pieni di rabbia, e discutevano su quello che avrebbero potuto fare a Gesù. Qui il termine "rabbia" traduce il greco "anoias" , che vuol dire demenza. Una sordità demenziale, quella dei Farisei. Rabbiosi e chiusi, bloccati, sono incapsulati dentro a un meccanismo demenziale che é la loro pretesa di autosufficienza. Altrove, nel Vangelo secondo Luca, automaticamente ai Farisei si attribuisce il titolo di "filarguroi" "amanti della ricchezza". E’ la ricchezza demenziale di chi non vuole ascoltare la Parola e si erge, invece, a protagonista della propria vita e di quel che avviene nel mondo. Bisogna essere abili nel trattare con Babilonia. Sordità.
ne scelse dodici. il discorso della pianura
Qui, nella catechesi evangelica, accade una svolta. Cap. 6 vers. 12: "In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare". Gesù si ferma, prende le distanze e si ritira. Una preghiera notturna, prolungata. "Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici". Gesù prosegue nella sua attività di maestro ma con una nuova andatura: adesso Gesù, dopo le verifiche già avvenute, si impegna a costituire un popolo di ascoltatori, si impegna a educare questo popolo nell’ascolto. Non é automatico che il maestro ottenga l’ascolto, anzi, i fatti hanno dimostrato esattamente l’opposto: il maestro che cerca l’ascolto ottiene la sordità. Ma non si é tirato indietro, ha guarito la mano paralizzata di quel tale. Tuttavia la sordità demenziale dei Farisei continua a dominare la scena. E’ necessario insegnare a quel tale, che adesso ha la mano libera per suonare, come si ascolta, di modo che possa uscire dal suo mutismo e cantare i canti di Sion, senza complicità con Babilonia. Una prospettiva questa di grande, profondo respiro. Intanto bisogna aiutare quel tale e insieme con lui i Farisei, che debbono essere opportunamente rieducati a ricevere interiormente la Parola. Bisogna raccogliere un popolo di nuova convocazione, un popolo che si identificherà per questa capacità di ascolto. Gesù chiama i dodici, vengono elencati i nomi dei dodici; i dodici sono già predisposti come collaboratori per l’educazione della folla, affinché questa folla si trasformi in un popolo di ascoltatori. E’ un’educazione che deve raggiungere la profondità del cuore, deve raggiungere la sordità interiore e guarirla. Gesù, maestro, assume in pieno il ruolo del medico che deve guarire l’udito interiore dei suoi ascoltatori, affinché tali siano, affinché divengano ascoltatori, un popolo di ascoltatori. Versetto 17 del cap. 6 "Disceso con loro si fermò in un luogo pianeggiante". Nel Vangelo secondo Luca, Gesù insegna stando in basso; nel Vangelo secondo Matteo Gesù sale sul monte e di là insegna. Luca, invece, fa scendere Gesù in un luogo pianeggiante, il maestro parla dal basso. E’ un atteggiamento più che mai significativo. Il maestro che insegna assumendo per se stesso la posizione di inferiore, insegna, la posizione di chi sta ascoltando, di chi ha il proprio ascolto come metodo di insegnamento. Insegna in quanto é lui l’ascoltatore, insegna dal basso, insegna alzando la testa e guardando la folla dal basso, dopo avere raggiunto il fondo della valle, il luogo pianeggiante. E’ il discorso della pianura. Luca prosegue dicendo che c’era gran folla di suoi discepoli, e grande moltitudine di popolo. Bisognerebbe correggere la traduzione "gente" in "grande moltitudine di popolo"; il termine laos, nel greco biblico, ha una pregnanza teologica inconfondibile. "Grande moltitudine di popolo": da tutta la Giudea, da Gerusalemme, dal litorale di Tiro e Sidone. Questo popolo già raccoglie in sé non soltanto tutti coloro che provengono dal popolo di Israele, ma coloro che provengono dalle nazioni pagane. E’ un popolo di nuova fondazione, é un popolo che é identificato e caratterizzato per la capacità di ascoltare. Dice ancora Luca "questi tali erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie, per essere guariti dalla loro sordità". C’é un medico che guarirà le orecchie malate. Erano venuti per ascoltarlo anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano curati, e tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti. Da lui usciva una "dinamis", una forza, è una forza terapeutica, la forza del discorso con cui insegna il maestro, la forza con cui si esprime la pedagogia di questo maestro, che ci guarda dal basso, una forza che si fa toccare, che ci travolge, che ci convertirà, che susciterà l’ascolto laddove siamo ancora sordi o addirittura rabbiosi nella sordità, laddove pretendiamo che la nostra autosufficienza diventi il criterio per discernere le cose di questo mondo. Dobbiamo essere educati, dobbiamo essere toccati e travolti da quella forza che ci educherà nell’ascolto. E’ la forza del maestro, la sua forza, la forza del maestro che evangelizza, la sua dinamis.
l’ascolto che rende poveri
E’ il discorso delle Beatitudini. Alzati gli occhi verso i suoi discepoli Gesù diceva: "Beati voi poveri". Quattro beatitudini, quattro guai. Gesù parla usando la seconda persona plurale voi: "voi che siete poveri, beati, beati voi". I poveri a cui Gesù si rivolge sono esattamente coloro che sono stati convocati per ascoltare il suo insegnamento, per ricevere l’Evangelo; sono poveri proprio perché é l’Evangelo che li riduce così. "Beati voi, poveri", proprio perché l’Evangelo vi travolge fino a rendervi poveri. Questi poveri sono beati, poveri in quanto ascoltatori dell’Evangelo. Man mano che l’Evangelo trova ascolto in voi, voi siete espropriati di voi stessi, siete strappati dalla vostra autosufficienza, siete demoliti in tutte le vostre pretese. Questa povertà non é un incidente, non é nemmeno una qualunque forma di disagio: é esattamente la povertà a cui siamo condotti man mano che siamo coinvolti nell’ascolto evangelico. Poveri, affamati, piangenti, uomini scartati e messi al bando, e tutto il resto, fino al versetto 23. E’ l’ascolto del Maestro che ci conduce lungo questi itinerari di povertà. Il rapporto tra Gesù e i suoi ascoltatori é diretto: "beati voi". Così vanno le cose del Regno, ma così vanno le cose perché é lui l’affamato, il piangente; é lui il reietto. Così vanno le cose del maestro che é l’ascoltatore; e, proprio in quanto é ascoltatore, insegna con forza (dinamis) che ci travolge e diventa elemento nuovo, sconvolgente tutte le nostre forme di autosufficienza, per condurci a scoprirci nella sua povertà beati. Vostro é il Regno di Dio. Questa é la povertà a cui siamo condotti man mano che siamo coinvolti nell’ascolto del Vangelo. La povertà degli affamati, dei piangenti, degli squalificati acquista un valore di beatitudine. La forza del maestro interpella la nostra povertà e ce ne mostra la beatitudine. E’ inutile difenderci, é inutile cercare una alternativa a questa povertà: l’evangelo, in quanto viene recepito, ci riduce così. E proprio in quanto siamo ridotti così siamo beati, siamo liberati, siamo sottratti alla demenziale, rabbiosa sordità dei farisei, siamo guariti da quella patologia della sordità che era una paralisi interiore. Beati voi. E’ la parola evangelica che, riducendovi in povertà, vi apre verso le cose della vita, verso le cose del mondo, verso la storia degli uomini, nella luce della pietà e dell’amore vero. Beati voi. Per quattro volte nei versetti seguenti, da 24 a 26, è detto: "Guai a voi ricchi, guai a voi, sventura per voi". La ricchezza é una sventura. Qui e in tutta la sua catechesi evangelica: "che sventura la ricchezza". Quella ricchezza che é paralisi nella sordità, che é la rabbia demenziale di chi non vuole ascoltare. E’ proprio l’ascolto della parola evangelica, l’ascolto del maestro che ci riduce e ci ridurrà in povertà. Subito bisogna aggiungere: "e beati noi della povertà". Il discorso prosegue con una esplicitazione da cui non possiamo prescindere per cogliere in tutta la sua maturità la prospettiva lungo la quale siamo avviati. "Beati voi poveri, sventurati voi ricchi". Beati voi che ascoltate, e siete poveri; beati voi nella vostra povertà, perché la parola evangelica vi espropria e man mano vi rendete conto della vostra inadeguatezza e ne avvertite la gravità; beati voi che siete ridotti alle lacrime e siete sottoposti a tutte le prepotenze che vi escludono nei conflitti di potere. Beati voi, beati. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Questa povertà non é riducibile a un dato sociologico, questa povertà non é nemmeno proponibile come impegno di ordine morale: beati voi che siete poveri in quanto ascoltate l’Evangelo; è l’ascolto evangelico che vi riduce in povertà. Vers. 27, "ma a voi che ascoltate io vi dico amate i vostri nemici". "Sventurati voi ricchi ma a voi che ascoltate e siete poveri, io dico amate i vostri nemici". Questo discorso é proponibile soltanto ai poveri. Sappiamo bene come l’amore per i nemici é il messaggio che ricapitola tutta la novità cristiana, ma non dobbiamo mai illuderci, non dobbiamo mai disperderci nelle fantasie di chi volesse prospettare una civiltà dell’amore, come si dice, senza corrispondentemente aiutare se stesso e tutti a diventare poveri. Quale civiltà dell’amore potremo mai noi prospettarci, se non nella povertà, e se non ci aiutiamo in questo ascolto dell’Evangelo che ci riduce in povertà? Cosa vorrà mai dire amare i nostri nemici? Un puro rumore che rende le coscienze sempre più confuse e sempre più sorde, le piattifica nella sordità. E’ la situazione di quel personaggio che nella sinagoga non ha dimenticato Gerusalemme, ma non si rende conto di avere ancora una relazione con Gerusalemme; non l’ha dimenticata di per sé, ma ha la mano paralizzata.
Il discorso si sviluppa in due parti; il versetto 36 fa da perno tra la prima parte, dal versetto 27 in poi, e la seconda parte. La prima parte del discorso insiste sull’amore per i nemici. Non dimentichiamolo mai: questo é un messaggio che può essere rivolto soltanto ai poveri. Questa sequenza é rigorosa. Noi diventiamo semplicemente ridicoli o dementi, se non manteniamo chiaro e consapevole il rigore di questa sequenza. E’ l’ascolto che ci fa poveri e quindi capaci di amare. Non é altrimenti che così. Il problema della caritas non é tanto quello di compiere grandi imprese caritative, il problema della caritas é esattamente quello di contemplare e valorizzare la beatitudine della povertà. Perché lì è la caritas. Il versetto 36 ricapitola ogni cosa: "Siate misericordiosi, come é misericordioso il Padre vostro". E’ come se qui l’insegnamento del Signore si riposasse in questa quarta battuta, in questa contemplazione della misericordia del Padre a cui noi aderiamo, in essa noi ci inseriamo con quella misericordia di cui saremo capaci in quanto poveri. Quattro battute; la prima nei versetti 27 e 28.
l’altro, il nemico
Abbiamo a che fare con quattro imperativi. L’attenzione é rivolta a personaggi che vengono nominati con il titolo di "nemici". Il nemico é l’"altro", comunque si presenti nella nostra esperienza personale, comunitaria, privata o pubblica: l’altro per me, l’altro in quanto presenza incondizionata, che non posso condizionare. Proprio nel tentativo di condizionare quella presenza, instauro una inimicizia. Il nemico è l’altro nella sua incondizionatezza, l’altro che non dipende da me, l’altro come rivelazione dei miei limiti. L’altro: il nemico. I quattro imperativi messi in risalto nei versetti 27 e 28, descrivono quattro atteggiamenti fondamentali che sono tipici della povertà. In primo luogo: "amate i vostri nemici". Qui abbiamo a che fare con l’agape in quanto capacità di accogliere la presenza altrui, la diversità altrui, accogliere quella presenza che mi si impone, a meno che io stesso non voglia escluderla, cancellarla, distruggerla, vanificarla. Primo atteggiamento della povertà: accogliere l’altro. Secondo imperativo: "Fate del bene a coloro che vi odiano". C’è qui qualcosa di più: si tratta di fare del bene, di esprimere una disponibilità operativa; non soltanto un atteggiamento di accoglienza, ma un atteggiamento operoso che si rivolge alla presenza altrui in modo da inserirla in un progetto di bene. Terzo imperativo: "Benedite coloro che vi maledicono". La benedizione esprime la capacità di rivolgersi ai cosiddetti nemici, in nome di Dio, invocando il nome di Dio su di loro, riversando su di loro quella benedizione che proviene da Dio, sorgente inesauribile di ogni benedizione. Quarto imperativo: "Pregate per coloro che vi maltrattano". La prospettiva é ora capovolta: siamo invitati a pregare per il nemico, per l’altro, pregare nel senso che siamo invitati a rivolgerci a Dio in nome loro. Se la benedizione é atteggiamento che esprime la capacità di rivolgersi a loro in nome di Dio, la preghiera, invece, esprime la capacità di rivolgersi a Dio in nome loro. "Pregate per coloro che vi maltrattano": davanti a Dio, in relazione a Dio, nella vostra relazione con Dio, ci sono loro. Non c’é una vostra relazione con Dio indipendente da loro. "A voi che ascoltate io dico", a voi che ascoltate, e siete poveri per questo, posso dire: amate, fate del bene, benedite, pregate. A voi e a nessun’altro, se non a voi.
Seconda battuta versetti 29 e 30. "A chi ti percuote su una guancia porgi anche l’altra". Primo luogo di incontro: l’aggressione, qualcuno mi dà un colpo, un urto, uno strappo, uno scatto. A chi ti percuote sulla guancia... Primo caso considerato. Come avviene l’incontro con il nemico? Qualcuno che ti aggredisce. Seconda modalità d’incontro: "A chi ti leva il mantello non rifiutare la tunica". Nell’incontro e nella relazione con gli altri siamo denudati. Adesso non é una aggressione occasionale ( quella volta, in quel certo contesto abbiamo ricevuto un colpo); adesso è una situazione che rimane: restiamo nudi. E’ diverso; é una ulteriore caratterizzazione di come vanno le cose nell’incontro con gli altri. Qualcuno che ti denuda e tu ti ritrovi denudato, e la nudità rimane.
Terzo, al versetto 30: "Dà a chiunque ti chiede". Qui abbiamo a che fare con una richiesta: c’é qualcuno che ti chiede. La richiesta non é considerata tanto nei suoi effetti oggettivi, non é precisato il che cosa chiede, ma é puntato lo sguardo verso quella intimità che viene interpellata: si tratta di una questione che ti interpella dentro. Dà a chiunque ti chiede; non é importante stabilire che cosa, ma la richiesta ti prende, ti tocca, ti invade nell’intimo di te stesso. Se si trattasse soltanto di qualcosa che viene chiesto, la questione sarebbe risolta quasi automaticamente; e invece proprio questa richiesta é quella recepita dai poveri, i quali non hanno nulla o quasi nulla da dare, ma non per questo sono meno interpellati, anzi l’opposto. E’ proprio nella nostra povertà che saremo sempre più disponibili a ricevere richieste. Quante più cose avremo da dare, tanto meno saremo interpellati dentro, tanto più nel nostro dare conteremo la nostra ricchezza. Demenziale.
Quarto: "A chi prende del tuo non richiederla". Il mio é abolito. Non é più nemmeno in questione il mio da dare, il mio per il quale vengo interpellato, per il quale ricevo richiesta, anche se non si tratta di un mio quantificabile. E’ un mio interiore che coincide con l’intimità di me stesso. Qui ci troviamo in una situazione che potrebbe risultare scandalosa, pericolosissima, una tragedia indescrivibile. Il mio é abolito. "A chi prende il tuo non richiederglielo", non c’é più il tuo. Ecco il versetto 31: "Ciò che vogliono gli uomini facciano a voi anche voi fatelo a loro". Ecco come abbiamo a che fare con un povero veramente bisognoso che va crescendo in una esperienza di una comunione universale e senza barriere. Ciò che volete gli uomini facciano a voi... , perché voi siete bisognosi, perché voi siete poveri, ... anche voi fatelo a loro. Nel Vangelo secondo Luca il povero che qui noi stiamo intravedendo coincide con la posizione occupata da Gesù, il maestro: disceso in basso, nel fondo della valle. Gesù sta parlando di se stesso: attraverso il segreto Dio si rivela, la visita di Dio si compie. E’ lui, Gesù, il figlio aggredito, denudato, interpellato nell’intimità del cuore, é lui che non ha difeso il suo. Quanto più capiterà a noi di essere poveri, tanto più saremo vicini a Gesù e acquisteremo esperienza di comunione universale con tutti gli uomini, con tutti gli "altri" (continuiamo a chiamarli nemici), che sono diversi.
la grazia dell’inutile
Ecco, allora, la terza battuta nei versetti 32, 33 e 34. Prima i quattro imperativi, poi queste quattro modalità d’incontro, adesso tre verifiche. Tutte e tre le verifiche rinviano a quella che potremmo definire "economia del gratuito". Versetto 32: "Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?" Il termine "merito", in greco é caris. Il termine caris ritorna poi nei versetti 33 e 34, per tre volte. Quale caris ne avrete? La caris é la gratuità di Dio, é la grazia di Dio, é il rivelarsi di Dio nella gratuità nella sua opera di salvezza. Caris. Il termine é già presente nel Vangelo dell’Annunciazione. Il termine é caro a Luca, ma poi ha largo successo in tanti altri testi, nel Nuovo Testamento, nel linguaggio teologico di San Paolo in modo eccellente, Caris: la gratuità dell’opera di salvezza. "Che merito ne avrete" ( traduzione piuttosto infelice), se amate quelli che vi amano? L’interrogativo ritorna per tre volte: quale gratuità é la vostra, quale gratuità é la nostra, quale gratuità é la mia? In che modo io sono interno al disegno della salvezza, in quanto é rivelazione gratuita, in quanto é gratuità d’amore? I tre spunti di verifica non si identificano tra di loro. Nel primo caso é in questione il nostro orientamento affettivo, la nostra vita in quanto é segnata e strutturata, in quanto é mossa dall’amore. Che amore é il nostro? Che amore é il mio? Quale orientamento affettivo governa la mia vita? E poi: quale orientamento affettivo governa la mia generazione, la mia comunità e governa la mia Chiesa? In che modo il mio essere affettivamente orientato mi inserisce nella gratuità di Dio?
Secondo interrogativo. Se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Quale caris la vostra? Qui é in questione il fare, non soltanto lo slancio dell’affettività che ci struttura dall’interno, qui é in questione l’organizzazione della vita. In che modo l’organizzazione della nostra vita aderisce alla gratuità di Dio? La gratuita di Dio non é soltanto evocazione di sentimenti raffinati, sofisticati, sdolcinati; la gratuità di Dio é impulso ad una organizzazione alternativa della nostra vita, alternativa nel senso che é vita di poveri che sono in continuità con la gratuità dell’opera di Dio. In che modo l’organizzazione della nostra vita, il fare della nostra vita, sarà sacramento della gratuità divina? Non dimentichiamo mai che queste sono considerazioni che possono essere sviluppate soltanto nel cammino dei poveri, nella ricerca di coloro che sono poveri perché l’ascolto dell’Evangelo li ha ridotti così e quindi beati.
C’é un terzo interrogativo. Se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Qui é in questione il prestito, é in questione tutto l’intreccio delle relazioni. Come impostare le relazioni, come gestire le relazioni, come modulare, come moderare le relazioni? Non soltanto l’affetto che muove me, non soltanto l’organizzazione della mia vita, ma l’insieme delle relazioni con gli altri, con il resto del mondo. Come prestare e dunque entrare in quel certo gioco relazionale che é proprio della nostra condizione umana, della nostra condizione sociale? Nella gratuità di Dio. "Amate i vostri nemici", dice il versetto 35. Fate del bene, prestate senza sperarne nulla, il vostro premio sarà grande, sarete figli dell’Altissimo perché Egli é benevolo verso gli ingrati e verso i malvagi fino a riposare, nella quarta battuta, su quel versetto 36: "Siate misericordiosi come é misericordioso il Padre vostro". Qui la povertà é presentata come gratuità assoluta. Quale gratuità é la vostra? Quale povertà é la vostra? Beati voi poveri esperti nella gratitudine, senza più ricambio da pretendere, senza possibilità di autocompiacimento. Si tratta di aderire alla gratuità di Dio nelle sue viscere di misericordia, la gratuità di Dio nel mistero della sua intimità. Questa povertà é sacramento della gratitudine divina divenuta modo di presenza, divenuta beatitudine evangelica, divenuta testimonianza. Questa povertà é descritta, nei versetti 35 e 36, come una fierezza di famiglia. "Sarete figli dell’Altissimo perché Egli é benevolo verso gli ingrati e i malvagi" Una fierezza. Nel contesto di un ambito familiare in cui si é contenti di essere figli del Padre, figli come il Padre e il Padre, l’Altissimo é benevolo. Crestos, dice il greco. Crestos é colui che si é lasciato usare senza guadagno verso gli ingrati, gli a-caristoi, quelli che sono senza caris e verso i malvagi. In tutto il Vangelo secondo Luca c’é una breve parabola. "Chi di voi se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo "vieni subito mettiti a tavola"? Si riterrà obbligato verso il suo servo perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Vedete, avrà caris, avrà un problema di gratitudine verso quel servo perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi é stato ordinato, dite, siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare. Attenti a quella inutilità. Il testo greco dice: siamo servi acreioi. Acreioi vuol dire servi che non ci guadagnano, inutili nel senso che non hanno un utile; non inutili nel senso che di loro non c’é bisogno, tanto é vero che sono usati fino all’estremo. Questo non guadagnarci per quei servi dimostra che sono dentro alla casa in modo da partecipare alla vita della casa, ai sentimenti del padrone di casa, agli interessi del padrone di casa, alle intenzioni del padrone di casa: é il loro patrimonio. Non ci guadagnano perché in quella casa sono i figli del Padre. "Tutto quello che é mio é tuo" (Lc 15,31), dice nell’altra parabola il padre al figlio, che non vuole entrare. Non ci guadagnano perché sono veramente dentro casa, perché sono i figli dell’Altissimo e l’Altissimo é benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi come é misericordioso il Padre vostro. Nel grembo del Padre, la vostra casa, voi trovate dimora filiale e ne siete fieri e contenti. Ai poveri questo sarà possibile.